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Messaggi - davintro

#481
Tematiche Filosofiche / Re:Quell'Astrattista di Kant
05 Gennaio 2017, 20:14:48 PM
Citazione di: maral il 05 Gennaio 2017, 09:55:48 AM
Citazione di: davintro il 04 Gennaio 2017, 23:22:07 PMIn ciò trovo diversi punti di dissenso. I limiti della mente umana, come scritto prima, impediscono certamente di giungere allo stesso livello del sapere di una mente divina e assoluta, ma non impediscono di giungere a una visione parziale ed imperfetta di tale mente.
E pertanto errata, ma sempre con la pretesa di essere quella giusta. Chi dice che tale mente è sovraspaziale e sovratemporale si trova comunque nel tempo e nello spazio, altrimenti non potrebbe dire assolutamente nulla, dunque la mente sovraspaziale e sovratemporle è comunque stabilita dalle dimensioni spaziali e temporali dalle quali (temporalmente e spazialmente) ci si immagina la loro assenza
CitazioneIl punto è che accanto alla constatazione dei limiti, si potrebbe anche riconoscere un legame analogico tra l'uomo e Dio,che permette all'uomo di poter speculare sulla natura divina pur restando in una posizione inferiore e subordinata. Questa analogia è data dal fatto che ciò che si può predicare dell'uomo lo si può predicare anche di Dio, ma in misura, nell'uomo, depotenziata rispetto a Dio.
Ma anche questa è una concezione posta a priori dall'uomo: c'è analogia tra me, uomo, e Dio; e chi lo dice? Io, uomo che sono certo finito, ma grazie a questa analogia con differenze solo quantitative posso parlare a proposito dell'infinito! L'infinito non ha solo una differenza solo quantitativa rispetto al finito, non è che tanto finito, faccia l'infinito.
Citazionetra Dio e logica non ci può essere contrapposizione, perchè la logica è solo, per così dire, un concetto, un insieme di regole formali con cui il pensiero considera la realtà non una realtà che potrebbe entrare in concorrenza con Dio.
E chi lo dice: l'uomo, Dio? La logica stessa? "La logica è solo un insieme di regole formali", e dici poco! le regole formali sono quelle che danno forma, che ci permettono di vedere, concepire e definire le cose, Dio compreso quando pretendiamo di rappresentarcelo! Già Aristotele aveva capito che nella forma c'è la sostanza. Questo Dio, principio primo dell'essere, che è la realizzazione somma della ragione, è creato dalla ragione, dunque è la ragione (ovviamente umana, dato che non ne conosciamo altre) che diventa così il principio primo dell'essere, Dio compreso. Ma lo fa di nascosto, perché ovviamente la ragione sa del suo limite e dunque non può presentarsi per quello che è, ma con una maschera divina sì, proprio come il ventriloquo che fa parlare il pupazzo.
Citazionesaremo 4 gatti a pensare che molti assunti dei sistemi metafisici della classicità o del medioevo siano tuttora validi.
Ma per forza che sono cambiati! E' cambiato il mondo che li concepisce, sono cambiati i modi di pensare, di sentire, di vivere! Forse che quei 4 gatti riescono a sentire e pensare come si sentiva e si pensava nel mondo classico e medioevale? Forse che si trovano fuori dal tempo così da vedere le cose come stanno e senza tempo, sub specie aeternitatis? Se tutti noi siamo figli del passato è ancor più vero che il passato è figlio del presente, è figlio del nostro modo di pensare e sentire che adesso e solo adesso così lo concepisce e se lo immagina. Quei "quattro gatti" non sostengono idee di secoli e millenni passati, ma idee di adesso che si agganciano con tanta nostalgia a un passato immaginato adesso per raffigurarsele eterne. E questo è inevitabile, perché nessuno sta fuori dal mondo in cui vive, non c'è specula o eremo che possa isolarlo, anche se vivendoci può immaginarsi di godere di uno sguardo che tutto sovrasta. E questa pretesa ce l'ha sia lo scientismo moderno, che chi si fissa sulle eterne verità teologiche di Agostino e Tommaso, perché questo pretendere di essere nella verità oggettiva è comunque un pretendere "umano, troppo umano", a testimonianza del suo umano non poter esserci mai. La differenza solo è che, dati i tempi e i contesti, il primo, nonostante si appoggi sulla stessa superstizione della verità in oggetto, appare ora ben più credibile dei secondi, a eccezione forse, che per quei quattro gatti.


Perchè una visione parziale dovrebbe essere in quanto tale errata? Se una persona conosce il mio nome e la mia città di provenienza, ma non conosce la mia famiglia, i miei amici, le mie idee, il mio stato d'animo, si può dire che certamente ha una visione parziale ed imperfetta del mio essere complessivo, ma non per questo, entro i limiti di tale parzialità non potrebbe formulare giudizi veri su ciò che di me conosce, il mio nome, la mia città. I limiti spaziotemporali sono costitutivi dell'uomo, ma l'uomo non si identifica del tutto con essi,altrimenti sarebbe solo un nulla, negatività. Invece l'uomo ha una sua positività, un insieme di potenzialità conoscitive, pratiche che lo rende partecipe dell' Essere e in quel modo simile, non identico, all'Essere nel senso pieno e perfetto del termine, Dio. I limiti spaziotemporali impediscono alla mente umana di accedere alla visione "sub specie aetarnitatis", quella dove in un solo istante si coglierebbero tutti gli eventi della storia, passato, presente, futuro, ma in virtù delle potenzialità positive possiamo comunque sapere qualcosa di Dio. Tommaso mi pare chiaro e inceppibile su questo punto all'inizio della Summa: ci sono degli aspetti della natura di Dio che la ragione può conoscere e dimostrare autonomamente (teologia naturale) e altri che restano misteriosi e che possiamo solo accettare per fede nella rivelazione (teologia rivelata)  Questo paradigma del "o tutto o niente", tipico della teologia negativa, non lo condivido...

Tanti finiti non fanno l'infinito, ma la totalità dei finiti invece lo fa. E perciò la distinzione finito-infinito resta meramente quantitativa, la visione infinita, comprendente la totalità dei finiti, si distingue dalla visione di un singolo soggetto finito per essere (infinitamente appunto), più ampia, "più", dunque una superiorità quantitativa che non produce differenze qualitative, non muta l'univocità semantica della categoria (potenza, conoscenza, amore...) a cui applichiamo questi predicati, finitezza o infinità. Il pennello di Van Gogh non cessa di essere un pennello se mi metto ad usarlo io, resta inalterato il suo senso, la sua funzionalità, la sua capacità di imprimere colori su una tela. Cambia certamente la modalità di utilizzo, abissalmente più raffinata, efficace, abile se usata da Van Gogh che da me...ma resta pur sempre un pennello. Vero che la totalità dei finiti segna un confine discreto, ben preciso, tra stadio della finitezza e dell'infinito, che non si tratta di un semplice "più o meno" ma non tutte le distinzioni discrete corrispondono a distinzioni qualitative. Dunque finita, o infinita, divina o umana,la potenza, la conoscenza restano qualitativamente tali, e tale costanza qualitativa, semantica permette di  impostare il discorso analogico, per il quale possiamo emettere giudizi su alcuni aspetti, non tutti, di Dio, in virtù del fatto che le categorie del giudizio mentengono lo stesso significato, sia in Dio che nell'uomo. Pensare che tali categorie siano unicamente appannaggio dell'uomo, sì che sarebbe un discorso antropocentrico, "umano troppo umano"...

Certamente il mondo cambia, ma bisogna chiarire il rapporto tra la mutevolezza del mondo e il tipo di verità a cui ci si riferisce. I giudizi sulla teologia si riferiscono a dei concetti che (a prescindere dal giudicare gli enti esistenti o meno) corrispondono a degli enti il cui significato rimanda a un piano di trascendenza rispetto alla contingenza spaziotemporale. La sfera dei principi fondamentali dell'essere, a prescindere dall'effettiva esistenza degli oggetti  con cui possiamo"riempire" questo piano, Dio, l'anima ecc. attiene a un piano sovratemporale (altrimenti non sarebbero principi) e dunque non può mutare col mutare con i tempi. Un conto è l'ovvia constatazione di quanto il contesto storico-culturale influenza le nostre opinioni un conto la pretesa che esistano tante verità quante siano i contesti. La verità  non è adeguazione alle opinioni, alla doxa, ma alle cose stesse oggettive, e segue la natura di tali cose, la verità riguardo i principi fondamentali del reale ne condivide i caratteri di necessità ed eternità, mentre la verità sulle cose relative e mutevoli saràessa stessa soggetta a contestualizzazione e mutamento. Proprio in questo consiste il compito della razionalità filosofica: rendere la conoscenza sempre meno vincolata ai pregiudizi storici soggettivi, che legano l'uomo alla contingenza per lasciar essere con meno filtri possibile il darsi fenomenico delle "cose stesse" nella loro oggettività. Il legame storicamente impossibile da spezzare con la contingenza fa sì che la visione delle cose stesse nella loro essenza non pervenga mai al massimo livello, alla visione "sub specie aeternitatis", fa sì che tale sforzo di aderenza all'oggettività sia una spinta inesausta, uno "streben" direbbero i romantici tedeschi, ma la verità così intesa, il sapere assoluto resta l'ideale regolativo della ricerca, l'orizzonte teleologico, mai adeguabile, ma meta ideale verso cui la conoscenza cerca di essere più possibile adeguata. C'è una differenza abissale tra la posizione della verità assoluta come ideale regolativo della ricerca filosofica e la presunzione dell'effetivo possesso nella storia di tale verità. E se la verità assoluta coincide con lo stadio della conoscenza divina, bene dice Edith Stein che  "chi cerca la verità cerca Dio senza saperlo"
#482
Tematiche Filosofiche / Re:Quell'Astrattista di Kant
04 Gennaio 2017, 23:22:07 PM
Citazione di: maral il 04 Gennaio 2017, 22:17:07 PMResta il fatto che pretendi di inquadrare il funzionamento di una mente divina che si suppone illimitata e trascendente a partire da una visione comunque umana e pertanto, come tu stesso riconosci limitata. Limitata anche nella sua logica, a meno di non ritenere che la logica detti pure la natura della divinità e quindi le stia al di sopra. Beninteso, in passato questo si faceva abbastanza normalmente in filosofia (con polemiche a non finire ovviamente), ma ormai mi sembra le ontoteologie siano da lasciarsi da parte. Poi per carità, se lo si prende come un esercizio logico ipotetico va benissimo.

In ciò trovo diversi punti di dissenso. I limiti della mente umana, come scritto prima, impediscono certamente di giungere allo stesso livello del sapere di una mente divina e assoluta, ma non impediscono di giungere a una visione parziale ed imperfetta di tale mente. Certamente, affermare che "la mente divina è sovratemporale e sovraspaziale" non esaurisce in sè tutto ciò che si potrebbe dire di Dio, chi afferma ciò non per questo si mette alla pari con Dio, resta appunto una visione parziale. Il punto è che accanto alla constatazione dei limiti, si potrebbe anche riconoscere un legame analogico tra l'uomo e Dio,che permette all'uomo di poter speculare sulla natura divina pur restando in una posizione inferiore e subordinata. Questa analogia è data dal fatto che ciò che si può predicare dell'uomo lo si può predicare anche di Dio, ma in misura, nell'uomo, depotenziata rispetto a Dio. Il concetto di "potenza" ha un senso che qualitativamente resta identico sia ci si riferisca all'uomo o a Dio, ciò che cambia è l'intensità quantitativa, infinita in Dio, finita nell'uomo. Pensare che una differenza quantitativa determini anche differenti significati qualitativi delle categorie è un'operazione logicamente scorretta, perchè confonde due piani del discorso, la questione del "quanto?" e quella del "quale", che vanno distinte. La quantità non fà la qualità. Altro punto scorretto, a mio avviso, è l'idea secondo cui applicando la logica alla teologia si porrebbe la logica assurdamente sopra Dio. Questa obiezione avrebbe un senso se la "logica" fosse una realtà a sè stante, una sostanza che potrebbe entrare in conflitto con Dio, limitarlo, come fosse una "seconda divinità" più potente della prima. Ovviamente tutto ciò è ridicolo, tra Dio e logica non ci può essere contrapposizione, perchè la logica è solo, per  così dire, un concetto, un insieme di regole formali con cui il pensiero considera la realtà non una realtà che potrebbe entrare in concorrenza con Dio. Ciò che invece si può dire è che Dio, considerato come principio primo dell'essere, è la realizzazione somma della ragione, della logica, Logos, appunto,come recita Giovanni nel suo prologo. Occorre tenere distinti il piano della logica formale e quello dell'ontologia materiale. Infine, in che modo il cammino della razionalità filosofica avrebbe superato le ontoteologie? A me pare che, certamente, nella nostra epoca il discorso razionale sulla metafisica classica non va certo di moda, saremo 4 gatti a pensare che molti assunti dei sistemi metafisici della classicità o del medioevo siano tuttora validi. L'egemonia intellettuale oggi è di natura ben diversa. Ma tutto questo interessa lo storico della filosofia. Il filosofoche opera in sede teoretica e non filologica non deve tener conto delle mode intellettuali della sua epoca, pena la caduta nel conformismo,deve solo ragionare con la sua testa e sostenere i risultati che raggiunge con la sua libertà intellettuale e critica, anche se si tratta di sostenere idee da secoli, millenni caduti nel dimenticatoio, e contrapporsi agli orientamenti prevalenti nella contemporaneità, anche finendo con il  rischio sentirsi spiacevolmente isolati culturalmente. La verità non è filia ma mater temporis, e se le ontoteologie di S. Agostino o S.Tommaso d'Aquino hanno colto per alcuni aspetti delle verità, queste rimangono tali anche oggi e fra i prossimi secoli.
#483
Tematiche Filosofiche / Re:Quell'Astrattista di Kant
04 Gennaio 2017, 14:34:12 PM
Citazione di: maral il 03 Gennaio 2017, 23:04:21 PM
CitazioneLa razionalità umana è mediazione, dialettica, operare differenti passaggi logici che implicano una durata temporale, ma ciò è solo la conseguenza della nostra finitezza ontologica che pone la mente umana di fronte ad una molteplicità di oggetti divisi spazialmente, e l'elaborazione di relazioni logiche per ordinare e rendere ragione di tale molteplicità presuppone la diacronia, la costante necessità di superare in ogni momento i limiti della nostra coscienza, che sono i limiti dovuti alla sua umanità, mentre una mente divina non avrebbe necessità di mediare temporalmente la conoscenza razionale, ma avrebbe un visione totalizzante ed immediata del reale attraverso un'intuizione intellettiva immediata.
Davintro, a fronte di quello che hai scritto mi chiedo che razza di mente di avere se riesci a spiegare non solo com'è la mente umana, ma pure come è necessario che sia quella divina. Su quale punto di vista ti sei collocato per godere di un così esteso panorama?

Non si tratta di avere una grande mente o godere di vasti panorami, tutte cose che non credo di avere a disposizione, semplicemente di provare a infererire in modo deduttivo da una certa possibile definizione del concetto di Dio (inteso come "assoluto") delle implicazioni conseguenti. La razionalità filosofica si caratterizza proprio per il suo essere deduttiva e aprioristica, perso tale carattere smarrirebbe la sua peculiarità nei confronti delle scienze sperimentali, che invece usano una metodologia prevalentemente empirica e induttiva. Presunzione sarebbe quella di una mente umana che pretende, disconoscendo i propri limiti, di condividere il contenuto di una mente divina. Ma la distanza ontologica tra Dio e l'uomo non impedisce che si possa convenire sull'individuazione di elementi considerati in modo generico e formale della mente divina, senza per questo pretendere di poter conoscere lo specifico contenuto di tale mente (semmai, in una certa misura, questo potrebbe essere appannaggio dei mistici, non dei filosofi). Non ho alcun bisogno di pensare di essere onnipotente od onniscente per riflettere speculativamente sull''onnipotenza e l'onniscenza divina, esattamente come non ho bisogno di pensare di essere un medico per comprendere il senso generale dell' "essere medico". Si tratta solo di ragionare a partire dal significato di alcune categorie che resta tale indipendentemente dal fatto che esse possano predicarsi di un ente o di un altro
#484
Tematiche Filosofiche / Re:pensieri sull'inconscio
02 Gennaio 2017, 02:17:59 AM
Maral scrive:

"con il pensiero post nicciano e con la psicanalisi questo dualismo viene superato nella posizione di una fondamentale matrice inconscia pulsante che sta alla radice di tutto, è il regno della pulsione e dei suoi vitali che precedono ogni razionalità e di conseguenza ogni irrazionalità, è questa matrice che dà forma a ogni forma vitale (stabilendo così anche ciò che è irrazionale agli occhi del razionale)."

Questo è il punto centrale della questione che provavo a sollevare. Se si è coerenti con l'idea che la base fondante delle molteplici forme della nostra vita psichica, compresa la coscienza e la razionalità, è l'inconscio, l'irrazionalità,  allora la psicanalisi dovrebbe ammettere l'inconscio come presupposto condizionante anche la sua analisi razionale impedendo a quest'ultima di attribuirsi la qualifica di sapere scientifico giustificato da criteri epistemici aventi valore oggettivo. Di fatto la razionalità psicanalitica necessita di mettersi su un piedistallo superiore rispetto alle credenze che la osteggiano, agisce in linea con lo spirito illuminista teso allo smascheramento RAZIONALE delle illusioni e dell'ignoranza. Lo stesso Freud parlava della psicoanalisi  come il tentativo dell'Io di allargare il suo dominio sulla psiche sottraendo  territorio all'inconscio. Ma in questo modo la psicanalisi rinnega il suo assunto centrale, cioè il condizionamento da parte dell'inconscio nei confronti dell'Io. In nome di tale assunto la stessa razionalità psicanalitica si presta a dover ammettere su di sè il condizionamento dell'inconscio, dei desideri, delle pulsioni soggettive dello psicanalista che in tale modo non potrebbe pretendere di fondare la sua analisi su criteri oggettivi e razionali, cioè scientifici. Per farlo dovrebbe considerare la sua razionalità e la sua coscienza come soggetto libero, svincolato dall'inconscio e  perciò capace di oggettivarlo riconducendolo  a "docile" contenuto del suo sapere. L'oggettivazione presuppone sempre uno stadio di passività di ciò che viene oggettivato. E la psicanalisi ricadrebbe pienamente in quel paradigma classico (ma aggiungerei anche medioevale e moderno da Cartesio fino all'ottocento) basato sul dualismo razionale-irrazionale col primo termine che alla fine riesce a dominare il secondo rendendolo adeguato ad esso: conosciuto, spiegato, razionalizzato, mentre la coerenza verso l'assunto richiederebbe, al contrario, la caduta nello scetticismo scientifico, l'impossibilità per la ragione di svincolarsi in alcun modo dalle pulsioni desideranti individuali.

Buon anno a tutti anche da parte mia!
#485
Tematiche Filosofiche / Re:pensieri sull'inconscio
26 Dicembre 2016, 22:14:42 PM
Citazione di: anthonyi il 26 Dicembre 2016, 10:32:24 AMTroppo spesso si intende l'inconscio nella sua chiave Freudiana, questo a mio parere non permette di capirne realmente le componenti. L'idea di inconscio ha un suo "senso" naturale che viene dal fatto che si osserva, in antitesi rispetto a una visione psichista che vuole limitare l'essere umano al suo pensiero logico, la presenza di situazioni che alterano la realizzazione di detto pensiero. Il caso tipico è quando ti piace una ragazza, razionalmente cerchi di costruire mentalmente le opportunità di un dialogo, di un approccio, poi però, al momento giusto, c'è qualcosa che ti blocca, questo qualcosa non lo comprendi razionalmente, non si esprime con pensieri, con argomenti, allora lo chiami inconscio.

Sì, in questo senso ritengo corretto parlare di inconscio, fintanto che, appunto, viene identificato con il contenuto di un sentimento indeterminato, confuso, misterioso, che però ci condiziona. Qualcosa di fronte a cui il nostro sapere razionale si blocca. Nella mia "polemica" contestavo proprio l'idea secondo cui si pretende di identificare come ciò che dovrebbe trascendere la coscienza qualcosa cje possiamo analizzare,descrivere,all'interno di un sapere razionale, dunque prodotto di un soggetto conoscente. Ma nel momento in cui con uno sforzo di introspezione riusciamo ad individuare le motivazioni prima nascoste che ci portano ad agire come agiamo o a provare i sentimenti che avvertiamo, allora parlare di "inconscio" non dovrebbe avere più alcun senso, dato che tutto ciò ora viene illuminato dalla luce della consapevolezza emanata dall'Io

L'idea di "confini mobili" tra conscio ed inconscio, l'idea che ciò che ora è inconscio un domani potrebbe divenire coscienza (o viceversa), tra l'altro ha il merito di esaltare ed attribuire la giusta importanza alla singolarità ed alla responsabilità del singolo individuo. In questo modo i limiti della coscienza nei confronti dell'inconscio non sono limiti identici all'interno della specie umana, ma differiscono da individuo ad individuo. Ciascuno di noi lascia nell'inconscio aspetti, tendenze, potenzialità psichiche diverse sulla base dei differenti valori della nostra personalità, e della diversa quantità di forza vitale che impieghiamo nell'introspezione, nell'autoconoscenza. Si presume che una persona dotata di grandi doti introspettive giunga nel corso della vita ad un'estensione della componente conscia nella sua psiche maggiore rispetto a chi vive in modo meno consapevole e più superficiale, lasciando più vaste zone d'ombra nella visione della sua personalità. Partendo da tali basi teoriche,  è possibile conservare il senso del valore sia intellettuale che clinico-professionale dello psicanalista: considerandolo non più il depositario di un sapere peculiare alla sua disciplina da applicare in modo meccanico ed impersonale nel rapporto coi pazienti, bensì, più "laicamente", una persona le cui capacità introspettive, di ascolto, di sensibilità la hanno portata a formare un bagaglio di esperienze che le permette di essere un aiuto, una guida che invece di imporre, stimola il paziente ad una libera e personale presa di coscienza delle proprie problematiche, responsabilizzandolo a trovare una sua individuale soluzione per una situazione che è appunto individuale, una figura dialogica, socratica, maieutica,che ispira il paziente una più profonda autocoscienza, e l'acquisizione di una maggiore fiducia nelle proprie potenzialità psichiche finalizzate al raggiungimento di obiettivi personali. In questo senso, trovo piuttosto condivisibile ed apprezzabile l'approccio umanistico di Karl Rogers




Angelo Cannata scrive:
"Quello che mi sembra il secondo errore è la pretesa opposta, cioè proporre una cognizione alternativa dell'inconscio a partire da una proposta filosofica. La scienza, se non altro, si basa su manifestazioni verificabili, senza alcuna pretesa di aver raggiunto un'idea definitiva dell'inconscio. Al contrario, la proposta filosofica è uno schema concettuale che non trova giustificazioni nell'esperienza: in base a quale criterio giustificare la definizione dell'inconscio come coscienza potenziale? La scienza almeno ha chiare le manifestazioni dell'inconscio: sono sogni, comportamenti, opere che è possibile descrivere, analizzare, misurare; ma il concetto di coscienza potenziale cos'ha di chiaro?

Purtroppo non è la prima volta che vedo criticare la scienza accusandola di pretese che in realtà essa non ha: pretese di certezza, di assolutezza, la scienza come vangelo, la scienza divinizzata. Ma la scienza è tutto l'opposto: essa è continuo invito alla critica, è incertezza e proprio perché è incertezza si sforza di raccogliere in continuazione dati, misurazioni, dimostrazioni. La ricerca non rende la scienza certa, ma al contrario, invita sempre a ricerche ulteriori. Il fatto che nel sangue ci siano i globuli rossi non è una cosa certa e indiscutibile stabilita dalla scienza, ma il contrario: è il risultato di esperimenti che la scienza invita a controbattere e criticare, stimolando altri esperimenti ancora, perché la scienza non si fida di niente e di nessuno: la scienza va per probabilità. Ci sono moltissime probabilità che nel sangue ci siano i globuli rossi, perché tutti dati finora in nostro possesso inducono a pensarlo; ma moltissime probabilità non significano certezza assoluta, come quella che si pretende in filosofia. Significa nient'altro che moltissime probabilità. Sono gli ignoranti a scambiare la scienza per filosofia e vangelo, ma la scienza è quanto di più umile e modesto l'uomo riesca a praticare. Proprio per questo essa si fa apprezzare come via seria.

Al contrario, la filosofia cade spesso nell'arbitrario preteso come certezza; anche in questo caso, comunque, la vera filosofia non è mai fanatismo, ma è anch'essa umiltà."




Rispondo che a mio avviso il criterio che  legittimerebbe l'idea di "coscienza potenziale" sarebbe semplicemente la constatazione del carattere di divenire e mutevolezza dell'essere umano, dovuta alla contingenza ontologica di tale essere. Ogni divenire è passaggio dalla potenza all'atto, passaggio da qualcosa che "avrebbe potuto realizzarsi" all'effettiva realizzazione. E anche l'acquisizione di conoscenza, riferita sia al mondo esterno sia a se stessi, come processo che si dispiega temporalmente va pensato come un passaggio dalla potenza all'atto, qualcosa prima di essere oggetto della coscienza è potenzialmente coscienza ma non ancora attualmente, inconscio,  mentre dopo essere realmente divenuto oggetto di conoscenza, diviene coscienza attuale. Credo che la filosofia perda la sua umiltà quando pretende di giudicare sui risultati attinenti ad un campo della realtà che non le è proprio, pretende di intervenire nel merito dei risultati delle scienze empiriche, ma che resti coerente con la propria natura quando si limita a ricavare deduttivamente delle conseguenze necessarie a partire da presupposti che rientrano nel campo che le è proprio, l'ambito dei principi primi dell'essere, delle conoscenze fondamentali ed evidenti il cui fungere da base di ogni possibile discorso legittima le esigenze di apoditticità. E credo che l'idea che il divenire, compreso il divenire dei processi di presa di coscienza, sia sempre un passaggio dalla potenza all'atto rientri in tali premesse evidenti. Poi, ovviamente, le inferenze deduttive possono essere svolte in modo più o meno corretto in base alle capacità di ciascuno di noi



Auguri a tutti di buone feste anche da parte mia!
#486
Tematiche Filosofiche / pensieri sull'inconscio
24 Dicembre 2016, 01:09:34 AM
volevo esporre una mia personale riflessione sull'inconscio, su quanto un discorso sull'inconscio possa soddisfare le richieste di coerenza interna che credo la filosofia, nel suo ruolo fondativo epistemologico, debba sempre avanzare di fronte alle pretese di verità riferibili ai risultati delle varie scienze.

A rigor di termini, l'inconscio è definibile con ciò che è al di là del "conscio", dei limiti della nostra coscienza. La psicoanalisi freudiana si incentra sull'assunto che solo una piccola parte, la punta dell'iceberg della psiche, è cosciente, è oggetto della nostra consapevolezza e controllo, tutto il resto è "inconscio", una presenza che ci condiziona in forme che sfuggono alla nostra consapevolezza. La mia perplessità che ho di fronte a questa visione è, se si vuole, semplice (spero non semplicistica): se l'inconscio è ciò che trascende la coscienza allora noi, così come gli psicoanalisti, non dovremmo saperne nulla! A mio avviso l'inconscio dovrebbe essere considerato alla stessa stregua di come la teologia negativa considera Dio, qualcosa di cui si può dire solo ciò che non è, considerarlo come un'indeterminatezza, ciò che vi è al di là dei limiti della nostra conoscenza. Perchè al contrario, un sapere positivo, un sapere che presume di tematizzare l'inconscio, di descriverlo, analizzarlo, qualificarlo con certe proprietà, identificandolo come un campo di pulsioni di cui è possibile attestare la natura e di conseguenza poter studiare la situazione psichica di ciascun individuo a partire appunto dal rilievo della presenza di tali pulsioni, è un sapere che di fatto finisce con il ricondurre l'inconscio a contenuto CONSCIO del soggetto di tale sapere, negandolo in quanto tale, in quanto inconscio! Con l'analisi dell'inconscio l'io cosciente rompe i suoi limiti e finisce col riappropriarsi della psiche, inglobando l'inconscio a suo contenuto. In questo modo la psicoanalisi mostra una sua importante incoerenza tra i suoi presupposti epistemici e metodologici da un lato e la sua tesi fondamentale dall'altro. Da un lato si fonda sull'idea che la coscienza sia solo una piccola parte della psiche, poi continua ad assegnare all'Io conscio e razionale il ruolo di soggetto del sapere psiconalitico, che prende coscienza dell'inconscio annettendo quest'ultimo al suo regno. Se lo psicoanalista freudiano che reputa l'Io cosciente come sopravvalutante la sua autoconoscenza, e subente il condizionamento delle pulsioni inconscie fosse coerente con tale assunto allora dovrebbe ammettere la possibilità che le sue stesse analisi coscienti e razionali siano condizionati dal suo inconscio non meno di quanto avviene nei suoi pazienti, e dovrebbe dunque rigettare come non scientifici i suoi risultati, in quanto dovrebbe, scetticamente, dubitare della possibilità in generale per una coscienza razionale di svincolarsi dal condizionamento dell'inconscio, capovolgere la situazione a suo vantaggio e riportare l'inconscio nell'immanenza dei suoi contenuti. Invece la psico-ANALISI in quanto ANALISI conserva la fiducia nella sua razionalità, o quantomeno pone le capacità della sua razionalità su di un piedistallo che la eleva rispetto alla razionalità più debole dei suoi pazienti. Freud, immagino, non ha svolto i suoi studi e scritto le sue opere mentre era sotto ipnosi, o mentre sognava, ma nella sua condizione di Io cosciente e razionale oggettivante l'inconscio.

Di fronte a questa situazione la mia proposta è: perchè non considerare la dialettica coscienza-inconscio come dialettica di matrice aristotelica potenza-atto? Considerare l'inconscio non come realtà in sè, separata dalla coscienza, Es contrapposto all'Ego, ma come "coscienza potenziale non attuale", una negatività, una mancanza, un complesso di meccanismi, tensioni, motivazioni agenti sia a livello genericamente umano, sia nella situazione psichica particolare del singolo individuo, di cui non siamo attualmente consapevoli, ma che, con futuri atti di riflessione e introspezione possono divenire tali, riconducendoli al patrimonio della nostra coscienza. Invece di spezzare l'unità dell'Io personale frazionandolo in due entità contrapposte ed antagoniste, inconscio, istintualità, libido, contro coscienza, razionalità, occorrerrebbe considerare l'Io come limitato, imperfetto, mancante in senso ontologico, dunque impossibilitato e identificare il suo controllo cosciente con tutta la complessità del Sè, che rimane sempre in parte oscuro,  ma questo limite ontologico dovrebbe corrispondere coerentemente con il limite gnoseologico e epistemologico di ogni possibile psicologia e antropologia. Non si tratta di negare l'esistenza dell'inconscio, ma di limitarci a considerarlo come davvero "inconscio", cioè come ignoto, quel fondo di opacità presente in qualunque sguardo sulla nostra interiorità dovuta alla componente di materialità (dunque di potenzialità) che ci impedisce di essere Atto puro, puro spirito, condizione divina che dovrebbe corrispondere ad una condizione di Coscienza pura, condizione non umana. L'inconscio cioè è solo ciò che manca alla coscienza umana, finita per essere coscienza divina, assoluta, infinita. In breve, "atto", "forma", "potenza", "materia", "spirito" invece di essere viste come categorie antico-medioevali antiquate ed inservibili, come molti le vedono, andrebbero usate come valide categorie per interpretare i concetti delle scienze empiriche come la psicologia empirica, che, prive di una base filosofica trascendentale, non potrebbero cogliere come qualunque forma di razionalità rigorosa non possa che partire dall'impossibilità di un totale affrancamento della realtà oggetto di tale razionalità dalla soggettività cosciente, che resta orizzonte necessario ed evidente di ogni esperienza possibile, pena cadere nell'assurdo di pensare una conoscenza del reale senza un darsi fenomenico costitutivo di tale reale costitutivo di una coscienza.

Mi fa piacere gettare nella mischia questo mio pensiero all'interno di un eventuale confronto, anche con chi la psiconalisi freudiana la conosce molto più di me...
#487
Tematiche Culturali e Sociali / Re:mi stanno antipatici
20 Dicembre 2016, 20:31:56 PM
Citazione di: mchicapp il 20 Dicembre 2016, 17:34:43 PMforse non te ne sei accorto, ma prima di vivere occorre prima sopravvivere, ovvero avere la possibilità di soddisfare i bisogni primari. alcuni sono ricchi di famiglia e possono vivere senza lavorare. io, anche potendo non farlo, lavorerei lo stesso perché lavorare mi appaga. qui non si tratta di elogiare il sacrificio in quanto tale, si tratta di disprezzare coloro che non sono soddisfatti della propria vita e invidiano chi è riuscito a conseguire degli obiettivi che loro non hanno raggiunto. se un giovane, laureato a pieni voti e con ottima conoscenza dell'inglese, ha trovato un lavoro interessante e ben retribuito è perché ha acquisito competenze interessanti per entrare nel mondo del lavoro. moltissimi ragazzi vorrebbero avere un lavoro, ma sono senza arte né parte, non hanno la voglia di impegnarsi per migliorare il proprio curriculum e pretenderebbero di avere lo stesso lavoro di uno che con il sudore e la fatica ha acquisito competenze che loro non hanno. disprezzi chi ha preso una laurea alla bocconi? la bocconi offre borse di studio a studenti non abbienti purché superino certi test. inoltre la bocconi non è una laurea facile. inizia a laurearti anche te alla bocconi e poi vedrai che anche tu riuscirai a trovare lavoro. gli esami non sono facili e non sono alla portata di chiunque.

ovviamente so benissimo che prima di vivere occorre sopravvivere. Io ho voluto intervenire solo per ribadire che è scorretto identificare il "fare"  e il "realizzarsi" con ciò che è finalizzato a conseguire una retribuzione e che nessuna scelta libera, fintanto che non danneggia oltre una certa misura gli interessi degli altri non andrebbe condannata moralmente. Comunque mi pare che su questi punti le posizioni si siano già chiarite nel corso della discussione. Dove avrei fatto capire che disprezzo chi si laurea alla Bocconi? Io ho solo scritto che non andrebbero usati in modo superficiale criteri per definire "inutili" corsi di laurea che dal punto di vista di chi li frequenta, evidentemente, tanto inutili non sono. Il mio pensiero era inclusivo, non esclusivo. Chi si impegna nello studio dei corsi della Bocconi perché ritiene che quella sia la sua strada ha tutta la mia stima, io ho preferito occuparmi della filosofia perché ho sempre pensato fosse l'ambito che mi rappresentasse meglio, anche se specie ultimamente ho sempre dubbi sulle mie reali capacità. Entrambe sono scelte legittime. Se sono stato in qualche modo equivocato mi spiace
#488
Tematiche Culturali e Sociali / Re:mi stanno antipatici
19 Dicembre 2016, 20:58:23 PM
Citazione di: Apeiron il 19 Dicembre 2016, 19:38:44 PM
Citazione di: mchicapp il 19 Dicembre 2016, 15:39:48 PMbeh... insomma .... è impossibile occuparsi di fisica teorica senza avere una grande determinazione e senza impegnarsi con dedizione nello studio. forse non saprai ancora cosa farai né dove andrai. questo dipende anche dalle opportunità che ti verranno offerte o riuscirai a trovare. mi sembra comunque che tu ti stia costruendo il tuo futuro. mi sembra che tu abbia interessi e ambizioni. io stavo parlando di ragazzi senza volontà ed incapaci di impegnarsi
Ah non volevo dare l'idea di essermela presa, volevo solo cercare di "ampliare" il discorso e vedere che tale problema che (giustamente) hai notato in questa società in realtà ha radici MOLTO profonde e cioè si basa sulla struttura della società stessa! :) Ad esempio l'iper-protezionismo dei genitori, una formazione solo culturale e non pragmatica, un generale disinteresse ai "grandi temi" ha diciamo indebolito in linea di massima la forza di volontà, ergo ciò ha causato una generazione di "gente che non sa gestirsi". Guarda per il discorso personale ti dirò che a me la fisica piace, ma è un piacere quasi "contemplativo". Una cosa che mi trattiene è vivere all'estero per esempio a causa di fobie varie (paura di volare e guidare per esempio) e incapacità nel gestirmi la vita da solo. Diciamo che sto provando con molto sforzo a costruirmi il futuro però per "spezzare una lancia" a chi non prova a costruirselo dico semplicemente che non è facile e che oggi nessuno ci insegna a dare valore alla fatica e pochi sono realmente disposti ad aiutarti in queste cose perchè la maggior parte degli adulti le danno "per scontate". Personalmente ho deciso che era "più di valore" affrontare i propri problemi ma sono ben consapevole della mia limitatezza e sono anche consapevole che molto probabilmente fallirò per questi miei limiti. Poi eh non lo dico per vantarmi anche perchè ritengo di essere estremamente imperfetto e pieno di difetti. Poi eh anche a me i cosiddetti "bamboccioni" che non soffrono per essere tali mi paiono viziati e antipatici però secondo me è che ciò è anche il risultato di una società "difettosa" oltre che del problema del singolo. Poi eh per un debole come me questa società è meglio che quella di cinquant'anni fa ma questo è un altro discorso :)

Sinceramente non condivido per nulla quest'idea moralista secondo cui bisogna disprezzare la comodità e le persone che la ricercano...
sarò franco, io non reputo la fatica e il sacrificio come dei valori, credo che il considerarli come tali nasca dalla confusione della percezione, corretta, della loro necessità per raggiungere determinato obiettivi, col fatto che una vita sofferta e faticosa sia una vita da elogiare rispetto a chi, senza fare del male a nessuno, riesce a condurre uno stile di vita sereno e relativamente facile. Un conto è essere disposti  scrifici per raggiungere un bene, un altro pensare che quanto più uno fà sacrifici quanto più dovrebbe essere apprezzato, come se il benessere fosse una colpa. Un esempio banale: io, che odio alzarmi presto la mattina compio un sacrificio nell'alzarmi alle 7.00 per recarmi alle lezioni, ma sono disposto a farlo per ricavare un bene maggiore, cioè il frequentare la lezione che mi interessa. Ma se la stessa lezione iniziasse a mezzogiorno ed io potessi restare a letto più tempo ed alzarmi con più calma, in modo più piacevole, non reputerei la mia giornata come più "immorale" rispetto ad una giornata più faticosa. Il mio obiettivo nella vita non è faticare e fare sacrifici, sono disposto ad accettarli per raggiungere un bene che penso mi possa ripagare, ma non li cerco come "beni in sè". Il mio obiettivo è la felicità, da raggiungere vivendo nel modo più piacevole possibile ed evitando di impedire la ricerca della felicità degli altri. Perchè dovrebbe essere una colpa? Se un "bamboccione" non soffre la sua condizione e non fà soffrire altre persone, perchè andrebbe disprezzato? Fintanto che è felice così  e non fà del male a nessuno è giusto che continui a vivere la sua vita. Bene è tutto ciò che produce la felicità, male tutto ciò che produce sofferenza, questa è la mia etica. la fatica è un male necessario, ma pur sempre un male, perchè è la percezione del proprio agire come un qualcosa di innaturale nei confronti della persona, mentre un'esistenza davvero realizzata è al contrario quella in cui ciascuno svolge le attività più consone alle sue inclinazioni, e conseguentemente più piacevoli da svolgere. Più che educare i giovani alla fatica andrebbero educati ald una maggiore autoconsapevolezza, ad uno sforzo di introspezione che consenta loro di capire meglio i loro talenti, i loro limiti, per poter orientare la loro energia in ciò in cui le loro qualità naturali possano meglio emergere, in modo che il loro agire sia il più possibile piacevole, non alienante, e la società stessa ne possa beneficiare
#489
Tematiche Filosofiche / Re:Quell'Astrattista di Kant
19 Dicembre 2016, 17:36:50 PM
Citazione di: Voltaire il 12 Dicembre 2016, 20:10:41 PM
CitazioneQui vi mostro un embrione che spero di dare alla vita con questo topic: "la razionalità è un linguaggio umano che verosimilmente,, ma non certamente, corrisponde ad una realtà., non è natura.Ovvero è un linguaggio simulativo umano per costruire modelli di rappresentazione del mondo e le sue relazioni." Diceva paul11 impregnato dall'astrattismo kantiano. Mia tesi: "Il reale è razionale: la razionalità è propria della natura, non è solo un linguaggio simulativo dell'uomo" Il concetto di causa effetto è dato dal tempo, dal cambiamento di un oggetto nel tempo dopo aver subito un azione. Dalla differenza del suo stadio iniziale rispetto a quello finale subendo un azione. Diciamo che una cosa è causa di un altra perché è agente che ha modificato lo stadio iniziale di quella cosa. Senza il concetto del tempo non potrebbe esserci quello della causalità. Nell'universo tetradimensionale che sperimentiamo la causalità non è funzione, ma è conseguenza del tempo. Perché la razionalità è un linguaggio umano? "Il termine razionalità, dal latino"ratio"indica l'essere in una logica sequenziale stabilita. " Da wikipedia Perché la razionalità è comune agli esseri che percepiscono il tempo Perché la razionalità appartiene anche agli enti inanimati, che non possono percepire la dimensione del tempo? Perché non si possono percepire meno delle dimensioni che noi percepiamo, queste infatti non hanno riscontro nella realtà. Nella realtà sperimentiamo le 4 dimensioni (convenzioni con riscontro nel reale), ma ciò non è imputabile alla struttura della nostra mente ma a quella della realtà. Il fatto che noi percepiamo 4 dimensioni è indicatore che la realtà sia formata da queste 4 dimensioni, non solo per gli esseri razionali (o animali) ma anche per gli enti inanimati. Detto in modo sintetico: Non siamo noi fatti in modo strano, è il mondo ad esserlo. La razionalità è comune agli esseri che sono "immersi" nel tempo Kant parla di cose astratte che non hanno riscontro nel reale

Dissento dall'idea di considerare la causalità come completamente interna al piano temporale-diacronico.  Il passaggio dalla causa all'effetto a mio avviso non si dà necessariamente come una scansione cronologica prima-dopo, ma come passaggio logico. In particolare, il rapporto causa-effetto si identifica con il rapporto attività-passività o soggetto-oggetto. Una volta allargato  in questo modo il valore semantico delle nozioni di "causa"ed  "effetto" allora la diacronia non è più necessaria. L'equivoco forse è dato dal fatto che nel linguaggio comune si riduce l'idea di causalità a quello di causa efficiente, la causa che rende ragione dell'esistenza di una cosa. Tale equivoco nasce dall'inganno di giudicare la realtà intesa nel complesso dei suoi aspetti, con la legge che sottintentende solo un aspetto particolare di essa, la legge della temporalità  che sottintende la componente contingente, ma che è inadeguata alla conoscenza del livello dei principi primi, fondanti e assoluti. Facendoci guidare dalla scansione diacronica dell'esperienza pensiamo di rilevare i nessi causali tra le cose facendo coincidere la successione temporale dei fenomeni con il passaggio della causa (il prima") con l'effetto (il dopo), lasciandoci sfuggire in questo il modo l'aspetto prevalentemente logico della causalità, comprendente anche la condizione in cui causa ed effetto convivono sincronicamente, ma si distinguono in quanto la causa produce una forza che fà sì che accada un certo effetto. Il punto è che la causa efficiente non è l'unico tipo di causa possibile, perchè il rendere ragione del perchè una cosa esiste non è l'unico modo del "rendere ragione" di qualcosa. In nessun caso la natura di ente è totalmente compresa limitandosi a spiegare perchè esiste. Aristotele insegna che ci sono ben 4 cause, tra cui ad esempio quella formale. Il modo in cui la causa rende ragione della forma di una cosa non ha nulla a che fare con la successione diacronica. Assurdo pensare che esista un tempo  in cui esisteva in atto la forma della pietra slegata dall'effetto finale, la pietra reale formata, che avrebbe cominciato ad esistere a partire da un momento temporale successivo. In realtà la forma, la causa formale della pietra è in atto convivendo sincronicamente con l'effetto della pietra, compresa la connotazione di materialità, passività. Causa ed effetto coincidono ontologicamente e si distinguono solo logicamente. Del resto anche la stessa causa efficiente non implica sempre, necessariamente, che il suo suo effetto sia posizionato in un tempo successivo a quello in cui comincia a sussistere l'azione casuale... questa successione c'è solo nel caso di identificare l'effetto con una realtà contingente, non eterna. Dio infatti sarebbe causa di se stesso, senza che il suo essere causa debba porsi  in un momento temporale precedente al suo essere considerato effetto, cosicchè in Lui tra causa ed effetto c'è solo distinzione concettuale ma non ontologica. E non è neanche detto che una distinzione ontologica e non solo concettuale tra causa ed effetto presupponga sempre la diacronia. Mi pare, non vorrei sbagliarmi, che lo stesso Tommaso d'Aquino, dicesse nella Summa che anche accettando l'idea greca dell'eternità del mondo Dio resterebbe comunque come Causa prima necessaria creatrice, mentre il mondo resterebbe contingente. L'eternità non coincide necessariamente con la necessità, dato che l'esistenza del mondo sarebbe data comunque dalla libera volontà di Dio. Insomma, tutto ciò che contribuisce in qualche modo a rendere ragione della molteplicità dei "perchè" della realtà è causalità, e ridurre la causalità nell'orizzonte della temporalità, vorrebbe dire fermare la nostra conoscenza del reale agli aspetti solo contingenti e non sufficienti ad autoesplicarsi, condannandoci ad un infinito rimando alla catena delle cause senza poter cogliere i principi sovratemporali e necessari delle cose, fermandoci ad un'inconcludente aporetica, e rassegnandoci al fallimento di ogni ricerca filosofica della verità...

La distinzione tra causalità e temporalità dovrebbe anche portare anche alla distinzione tra due diverse accezioni dellidea di "razionalità". Il complesso di relazioni causali che lega le cose fra loro comprende anche nessi causa-effetto non scanditi temporalmente (come appunto nel caso delle cause formali degli enti come detto sopra). Se intendiamo la razionalità come ciò per cui le cose hanno una loro causa, allora dobbiamo ammettere una razionalità oggettiva, che non si esaurisce in processi temporali diacronici. Esiste poi l'accezione soggettiva, umana, mentale della razionalità, che va inteso come il processo di elaborare una rappresentazione di tale sistema di cause in modo scientifico mirando all'adeguazione di tale rappresentazione soggettive con il complesso dei nessi causali delle cose oggettive. Per quanto riguarda quest'accezione soggettiva il nesso con la temporalità è evidente. La razionalità umana è mediazione, dialettica, operare differenti passaggi logici che implicano una durata temporale, ma ciò è solo la conseguenza della nostra finitezza ontologica che pone la mente umana di fronte ad una molteplicità di oggetti divisi spazialmente, e l'elaborazione di relazioni logiche per ordinare e rendere ragione di tale molteplicità presuppone la diacronia, la costante necessità di superare in ogni momento i limiti della nostra coscienza, che sono i limiti dovuti alla sua umanità, mentre una mente divina non avrebbe necessità di mediare temporalmente la conoscenza razionale, ma avrebbe un visione totalizzante ed immediata del reale attraverso un'intuizione intellettiva immediata. Non avremmo la ragione, ma solo l'intelletto. In termini grezzi possiamo dire che la razionalità è la nostra forza e la nostra debolezza, forza perchè è strumento conoscitivo e ordinativo dell'esperienza del mondo (non solo in senso teoretico ma anche pratico), debolezza perchè avere la ragione invece che l'intelletto è conseguenza dei nostri limiti, che ci costringono a dispiegare la nostra coscienza all'interno di una frammentazione temporale, dovuta però alla nostra spazialità. I limiti della conoscenza razionale non riguardano la razionalità oggettiva, non solo temporale, ma solo quella soggettiva nostra
#490
Tematiche Culturali e Sociali / Re:mi stanno antipatici
18 Dicembre 2016, 17:39:57 PM
L'errore è sempre quello di identificare il "combinare qualcosa" con lo svolgere lavori retribuiti. Occorre sradicare la mentalità materialista secondo la quale al di fuori del lavoro (come viene inteso nel senso comune, orari regolati, stipendio a fine mese...) ci sia la noia e la nullafacenza. In realtà per chi ha una mente ricca di interessi culturali il tempo libero dal lavoro può arricchirsi di senso in forma molto più profonda rispetto al "lavoro". Seguire mostre, conferenze, teatro, cinema leggere, scrivere (anche su un forum come questo), frequentare lezioni universitarie anche al di fuori del corso di laurea a cui si è iscritti, semplicemente discutere di massimi sistemi, politica, filosofia, religione... Tutto ciò non è tempo buttato, nullafacenza, è attività, dispendio di energia che produce degli effetti, su se stessi e sugli altri. Ed è qualcosa in cui si esprimono la forza di volontà, il talento, le qualità della persona non necessariamente in misura inferiore a chi lavora. Identificare il tempo non lavorativo come tempo buttato è solo una distorsione dovuta al riduzionismo che, appunto, riduce, il valore e la dignità della persona ad uno stipendio, ed al di fuori di ciò che è utile ad avere uno stipendio, si pensa che la vita non abbia senso, di fatto si riduce volgarmente il singolo ad un ruolo sociale. (il film in cui Fantozzi, una volta andato in pensione, invece di potersi finalmente dedicare a delle passioni o degli hobby si deprime  e finisce per voler tornare a lavorare e a farsi sfruttare dai superiori la trovo un'immagine tristissima che rappresenta efficacemente la povertà si spirito di tanta parte della piccola borghesia italiana, anche se in linea generale adoro il personaggio cinematografico di Paolo Villaggio)

Tale distorsione materialistica della realtà si ripercuote poi sul guidizio che  si dà sullo stato dell'istruzione. Ovviamente nessuno potrebbe essere sciocco al punto di negare l'importanza del denaro nella nostra società, chi può serenamente dedicarsi ad attività extralavorative lo può fare perchè dispone di risorse sufficienti a poter vivere di rendita, quindi si presume che almeno qualcuno dei suoi cari abbia lavorato. Tuttavia, fondamentale è la distinzione tra l'importanza che si dà a qualcosa in quanto "utile", ed in quanto "fine a se stessa". Il denaro è utile, ma non è fine a se stesso, non è un valore da godere e contemplare, ma da utilizzare per acquisire le cose che con esso ci si comprano e di cui si può godere. A questo punto bisognerebbe chiarire cosa si intende col concetto di "lauree inutili"...  Io sono convinto che il ruolo della scuola sia certamente quello di preparare le persone a svolgere professioni e mestieri necessari per il sostentamento proprio e per il'efficente funzionamento della società. Dall'altro, però sia anche quello di dare alle persone le basi fondamentali per poter coltivare con buon profitto nella vita degli interessi culturali che non servono per il profitto economico, ma che l'individuo riconosce come costitutivi di una crescita spirituale interiore. Ecco perchè occorre sempre diffidare del sacrificio dell' inutile in favore dell'utile. L'utile non è mai un valore in sè, ma un mezzo per perseguire un valore, un bene che non rimanda ad altro da sè, e quanto più ci sono dei fini, tanto più ci saranno cose utili. Ciò che a qualcuno appare come inutile può essere utile in relazione ad un fine diverso rispetto a quello a cui tendono coloro che giudicano inutile l'attività degli altri. L'utile cioè è un concetto relativo, e quindi moralmente inferiore rispetto a ciò che è fine a se stesso, "inutile". Se queste "lauree inutili" sono altamente frequentati, allora evidentemente agli occhi di chi le frequenta non sono affatto "inutili" nel senso di "insensate", e se essi hanno scelto in modo consapevole e reponsabile all'interno di un contesto in cui non danneggiano concretamente nessun altro, non vedo perchè condannarli o negare loro la possibilità di continuare nel cammino formativo che hanno scelto di intraprendere
#491
Citazione di: maral il 30 Novembre 2016, 23:08:25 PMMi chiedo come possa sussistere un essere senza un "dover essere". Il lavoro è la fatica che si fa per tentare di diventare se stessi e lo si compie con gli atti che pubblicamente si compiono con gli altri e per gli altri e che ci riflettono (ci permettono di riconoscerci) per quello che siamo. Credere di essere senza il lavoro di "dover essere" è consegnarsi come schiavi a chi solo intende definirci in oggetto, ossia come oggetti a disposizione.



non direi che con il lavoro "si diventa se stessi", ma che con esso esprimiamo in forme oggettivate e sociali un'identità che ci costituisce aprioristicamente e interiormente. Se l'identità fosse una costruzione a posteriori del lavoro allora il problema dell'alienazione, del vivere il lavoro come costrizione non potrebbe sussistere. Come si potrebbe infatti percepire il lavoro che svolgiamo come insoddisfacente in base alle nostre esigenze esistenziali se non si ammette implicitamente uno scarto, una distinzione tra la nostra identità e il ruolo lavorativo, con il secondo non adeguato ma in conflitto con la prima? Se la mia identità coincidesse col lavoro allora quest'ultimo sarebbe sempre fonte di felicità e mai come fatica, sacrificio, rinunce. Io non sono il mio lavoro, come non sono il mio ruolo familiare, accademico, l'immagine che gli altri hanno di me. Io sono una soggettività unica, irripetibile, irriducibile ad una categoria collettiva che però può esprimere se stessa più o meno, parzialmente nelle varie relazioni sociali (compreso il lavoro) senza mai risolversi del tutto in esse. Il "dover essere" diviene schiavitù quando impostomi dall'esterno, espressione di libertà quando stabilito dal soggetto stesso chiamato ad agire coerentemente con esso. 

Comunque non ho mai negato un aspetto morale del lavoro, solo ritengo che la retribuzione economica sia un fattore che alimenta non il carattere morale del lavoro, ma solo la sua utilità materiale. A meno di non ritenere materialisticamente e volgarmente che il valore morale delle persone sia determinato da quanti soldi guadagnano,va  riconosciuto che il denaro e il guadagno non sono  valori fini a se stessi ma un utili mezzi, che l'autonomia economica è utile ma ci sono forme di autonomia più importanti, e che nel momento in cui il conseguimento dell'autonomia economica viene raggiunto a costo dell'annullamento del tempo libero ci troviamo di fronte ad un processo disumanizzante in cui si capovolge la corretta gerarchia anteponendo i mezzi, ciò che è utile per altro (il denaro) a ciò che è fine a se stesso (il tempo da dedicare a ciò che ci piace più fare, coltivando le nostre passioni e interessi, i rapporti affettivi). Ovviamente so che in molte situazioni concrete purtroppo ciò diviene una necessità di sopravvivenza per sé e la propria famiglia, ma ciò che  contesto è che debba divenire un ideale normativo morale in generale, specie nelle situazioni in cui tutto ciò non è strettamente necessario dal punto di vista della sopravvivenza
#492
Citazione di: Donalduck il 27 Novembre 2016, 16:49:32 PMVoltaire ha scritto:
Citazioneè attraverso il lavoro che l'essere umano si esplica, acquista dignità, diventa essere umano
E' senza dubbio un'asserzione gratuita, e tale rimane finché non ne viene fornita qualche giustificazione plausibile. Io sono un grande estimatore dell'ozio e delle attività meditative, che in genere si contrappongono al "lavoro" comunemente inteso. Ma in realtà il punto è cosa esattamente si vuole intendere con "lavoro". Partendo dallo spunto iniziale, sono decisamente d'accordo sull'opinione che sia sbagliato fondare una repubblica sul "lavoro". In quasto caso il significato si circoscrive alle cosiddette attività produttive, qualle che direttamente generano beni consumabili. E se non sono d'accordo in generale, ancor meno lo sono considerando quanto sia degradante per l'essere umano la gran parte dei lavori che si è costretti a fare per vivere. Non che i lavori siano degradanti in sé, ma per come sono gestiti e per il malefico contesto in cui sono inseriti (sono fermamente convinto del carattere involutivo, degradante e distruttivo del capitalismo e della "filosofia" che lo anima). Secondo me la dignità, per gli uomini come per tutti gli esseri, è gratis, non c'è alcun bisogno di conquistarla, mentre è possibile minarla o demolirla, ad esempio attraverso diverse attività lavorative che la nostra società ci offre. Se invece si dà una definizione diversa di lavoro, ad esempio genericamente un insieme di azioni volte a ottenere un certo risultato, il valore del lavoro dipende più che altro dal valore dell'obiettivo e dall'abilità ed efficacia con cui viene svolto. In questo caso, comunque, il lavoro non può essere considerato prerogativa degli esseri umani. Basta considerare cose come gli alveari, i formicai, e dighe dei castori, per citare gli esempi più evidenti. Prerogativa dell'uomo, forse, è solo il lavoro degradato, quello che deriva dallo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, sulla coercizione e la sottomissione della volontà altrui alla propria. Per quanto riguarda la Costituzione, a mio parere andrebbe interamente riscritta, e fondata unicamente su valori etici (noto per inciso che l'etica sì, a differenza del lavoro, può essere considerata a buon diritto una prerogativa umana, almeno per quanto ne sappiamo), definendo in primo luogo un sistema di valori di riferimento, ossia quali sono i valori a cui si ispira e in quale ordine di priorità, e facendo conseguire il resto da questo sistema di valori. E il lavoro è un'attività, non un valore, casomai può esserlo l'operosità, non necessariamente applicata a beni immadiatamente consumabili o servizi immediatamente fruibili.

completamente d'accordo con questo intervento, in particolare circa l'idea che la dignità sia qualcosa di gratuito e non da conquistare aderendo a un sistema di convinzioni morali che pretende di essere oggettiva. Essendo il giudizio di "dignità" un giudizio morale, non legato a una conoscenza razionale dei fatti, ma la sensibilità soggettiva verso i valori, non si dovrebbe pensare di porre come oggettivo il fatto di reputare "degno" o "non degno" il modo di vivere di una persona (specie nei casi nei quali tale modo di vivere viene in fondo condotto senza far del male ad altri). La distinzioni humeana tra "essere" e "dover essere" e il riconoscimento di ogni passaggio dal primo ambito al secondo come sempre arbitrario è sempre un principio importante per me
#493
non necessariamente una posizione giuspositivista presupporrebbe una "simpatia" dettata dalla coscienza soggettiva che anteporrebbe la legge scritta alla legge morale intima. Si può ammettere anche un giuspostivista che in cuor suo reputi alcune leggi come immorali, e forse potrebbe anche legittimare un'ipotetico rifiuto di rispettare tali leggi, solo che tale legittimazione avrebbe una coloritura morale, non politica. A me sembra che il giuspostivismo potrebbe essere considerato come il tentativo di differenziare il piano dei diritto rispetto a quello della morale, senza per forza sostenere in termini assiologici il primato dell'uno rispetto all'altro, ma distinguendo il carattere oggettivo del primo rispetto alla soggettività della seconda. Il diritto cioè, in quanto scritto, emanazione di uno stato, è un dato oggettivamente riconoscibile, avente un carattere universale all'interno della comunità dei cittadini, mentre la morale è un sentimento soggettivo, impossibile da universalizzare, impossibile da porre come qualcosa di valido per tutti. Non è che la legge sia più importante della morale, è che la legge è qualcosa di riconoscibile come uguale per tutti all'interno di uno stato, e non si identifica con la morale che invece si differenzia in base alla sensibilità dei singoli individui, e se lo stato è chiamato a garantire gli interessi di più persone possibile dovrebbe evitare di identificare la sua legalità con una certa visione morale. Messe così le cose direi che il giuspositivismo rientrerebbe pienamente nell'alveo dell'assunto fondamentale del liberalismo moderno: il rifiuto dello stato etico, dell'idea che la legge, cioè il diritto, debba coincidere con una particolare visione morale, rifiuto dettato dal fatto che lo stato deve a garantire il bene di una comunità di persone all'interno delle quali vige una molteplicità, un pluralismo di punti di vista morali. Non è un caso che tale concezione liberale dello stato si sia sviluppata nella modernità, nel periodo delle guerre di religioni che insanguinavano l'Europa, immagino si avvertisse sempre più il bisogno di una forma statuale che per non privilegiare nessuna delle fazioni religiose in campo ( e conseguentemente propugnatrici di sistemi morali) si ponesse al di fuori della mischia, una neutralità al di soprà delle religioni e delle morali.

Il limite del giuspositivismo a mio avviso sta nel fatto che l'estremizzazione della scissione diritto-morale porterebbe il diritto a ridursi ad un'astrazione, una forma vuota dal contenuto identificabile con il senso morale dettato dalla sensibilità, cultura, storia dei popoli che il diritto e la legge sono chiamati a governare ed a garantirne condizioni minime di benessere. La scissione del diritto dalla morale è un'istanza tipicamente liberale, ma nelle forme estreme di tale scissione può condurre ad esiti opposti rispetto alle istanze liberali di tolleranza, nei casi in cui l'arbitrio totale della legge, del legislatore, conduce anche al calpestamento di ogni ideale di giustizia e morale delle persone, proprio alla luce dell'idea che il soggetto di diritto, lo stato sarebbe indifferente alla sensibilità morale dei cittadini. In questo caso lo stato diventa tirannico. I riferimenti al nazismo fatti in questa discussione, la possibilità di legittimare politicamente i crimini del nazismo in nome del totale arbitrio amorale della legge ("obbedivo solo agli ordini", "Hitler è stato eletto democraticamente e legalmente sulla base dell diritto di Weimar"...) sono molto appropriati. In realtà, è sempre l'eticità insita nella mentalità, nella storia dei popoli che "riempie" la forma vuota del diritto di un contenuto. Il diritto alla vita, la legge che incrimina un omicida, cose presenti  nelle costituzioni degli stati occidentali liberaldemocratici sarebbero concepibili al di fuori di una certa cultura, innervata da certe visioni morali, religiose, filosofiche che riconoscono la vita come rivestita di una sacralità religiosa o perlomeno di un valore di inviolabilità legata ad un'etica laica? Senza la morale troverei assolutamente impossibile spiegare il perchè della determinatezza concreta delle leggi , il loro quid contenutistico. Giustamente il giuspositivismo lega il diritto ad un soggetto emanante necessario, lo stato inteso come sovrano, ci ricorda che non esiste diritto senza stato, ma la messa tra parentesi del legame tra diritto e morale blocca l'analisi del diritto ad uno sterile formalismo incompleto, incompleto perchè ignorante  delle concrete, "materiali" condizioni che determinano la possibilità dell'esistenza di uno "stato", nonchè della genesi del particolare contenuto normativo delle varie leggi e delle varie forme di diritto, che non avrebbero alcun senso se non originate dai legami prestatuali delle persone dotati di coscienza morale. Non c'è diritto senza stato, ma non c'è stato senza persone
#494
Citazione di: sgiombo il 19 Novembre 2016, 07:59:46 AM
Citazione di: davintro il 19 Novembre 2016, 01:23:55 AMrispondo a Sgiombo e Maral Io distinguo "impegno" e "fatica". Nel senso che certamente in ogni forma di impegno è presente una componente di fatica, ma quest'ultima non esaurisce in sè il complesso dell'impegno. Per "impegno" intendo genericamente qualunque forma di attività in cui vengono spese delle energie in vista di uno scopo, mentre la fatica è ciò che introduce nell'impegno una componente di sofferenza e negatività. Come è evidente, non sempre le nostre attività risultano spiacevoli. Dal mio punto di vista (chiaro che nel momento in cui le mie premesse non sono accettate il mio discorso apparirrà non valido, quindi mi limito a cercare di essere coerente con esse), il bene è il fine a cui tendono le inclinazioni naturali di ogni soggetto, ragion per cui per me dal punto di vista "materiale", del contenuto concreto con cui tale nozione si riempie, non esiste un solo "bene", ma tanti beni diversi quante sono le differenze qualitative dei soggetti. La fatica è un male, perchè è la condizione nella quale l'impegno presuppone uno sforzo innaturale, non corrispondente alla nostra personalità, alle nostre attitudini, e l'andare contro la nostra natura provoca sofferenza, mentre l'impegno pur avendo sempre presente tale aspetto, è anche in parte piacevole, lo è nella misura in cui avvertiamo che le nostre azioni esprimono la nostra autentica personalità, ed in questo senso l'impegno è un "bene", "bene perchè piacevole. Fermo restando che la fatica è sempre un male necessario, perchè l'utilizzo degli oggetti presuppone pur sempre da parte del soggetto un doversi adeguare, un fare violenza a se stessi per rendersi atti a vincere la resistenza degli oggetti, come nel caso in cui devo spostare un pesante masso e sono costretto ad utilizzare i miei muscoli in un modo innaturale, cioè spiacevole, lontano dalla mia idea di "bene" in cui rientra il normale movimento dei muscoli. Ciò che contesto è il passaggio arbitrario dal riconoscimento della necessità alla moralizzazione della fatica, al punto di cadere in una sorta di mentalità masochista per cui ciò che si ottiene con fatica dovrebbe avere un valore morale superiore rispetto a ciò che si ottiene alla luce dei nostri talenti naturali, dunque in modo facile e naturale.
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CitazioneRisposta di Sgiombo: Concordo con tutto meno che con l' ultimo capoverso. Non c' é alcun masochismo o compiacimento verso il dolore o la fatica nel provare "un di più di ammirazione" per chi ha conseguito uno scopo onesto a costo di grandi sforzi e fatica rispetto a chi l' ha ottenuto più facilmente perché dotato di maggior talento: semplicemente la forza d' animo é una delle tante virtù degne di ammirazione (intendo usare il termine come lo usavano gli stoici, non le suore che mi hanno rotto le p. nella mia infanzia, cosa che mie lo rende un po' antipatico). Lo sport (quando non c' erano il doping e soprattutto l' "antidoping"-truffa-wrestling) era pieno di esempi: quando Learco Guerra vinse il suo unico giro d' Italia contro i cinque di Afredo Binda ottenne non a caso e secondo me giustamente una popolarità più o meno simile a quella del ben più titolato rivale. E così Bartali quando vinse il suo secondo Tour de France contro il più giovane e talentuoso Coppi o Gimondi quando vinse il suo ultimo Giro contro L' immenso Eddy Merckx (c' una bellissima canzone di Enrico Ruggeri che esprime perfettamente -e poeticamente- questo concetto; si intitola per l' appunto "Gimondi e il Cannibale").
L'autonomia economica, come tutte le autonomie, è utile, ma io eviterei di parlare di "nobiltà". La nobiltà per me attiene al piano dei fini, nobile è qualcosa che possiede un valore intrinseco, mentre il denaro è uno strumento, indispensabile, ma pur sempre uno strumento, un mezzo, dunque ha un valore morale inferiore a ciò che è fine a se stesso. Il rischio di pensarla altrimenti è quello di cadere in un feticismo alienante alla ( chiedo scusa per la citazione non propriamente filosofico- accademica) Zio Paperone, che fà il bagno nei soldi venerando la ricchezza guadagnata come il fine della vita e poi per paura di non disperderla non si concede neanche una vacanza ogni tanto dal lavoro, preferendo restare chiuso nel deposito a contare il patrimonio ed a guadagnarne altro. Uno stile di vita e una mentalità che sinceramente non mi interessa e mi fà quasi orrore. Per me il valore del denaro sta solo ed esclusivamente negli oggetti che si possono comprare con esso. La quantità la rispetto solo al servizio della qualità. L'autonomia è un positivo fattore di libertà, essere autonomo rende meno condizionati dal mondo esterno gli individui. Tuttavia l'autonomia, intesa nel contesto in cui stiamo discutendo rientra anch'essa nel piano dei "mezzi", non dei fini, non della nobiltà morale. Nel piano dei fini rientra la "libertà", che va distinta dall' autonomia. Siamo esseri in relazione, legati sempre a dipendenza e l'affrancamento da tali dipendenze può portare a rinunce alla libertà molto maggiori rispetto a quelle che il restare legati alle dipendenze comporterebbero. Un esempio banale. Se i vestiti che indosso li cucissi io personalmente non avrei bisogno di sarti, e il mio livello di autonomia sociale sarebbe più alto di quello che ha uno che i vestiti li acquista già prodotti nei negozi. Ma tale autonomia sarebbe raggiunta al prezzo di un dispendio significativo di tempo che dovrei sottrarre ad attività per me più interessanti e piacevoli del cucito. A me pare che in questa discussione sul valore del lavoro non possa non essere centrale un punto ancora forse non ben considerato: il tempo, il tempo libero, che non è infinito nella nostra vita, nelle nostre giornate. Il perseguimento dell'autonomia economica attraverso il lavoro sottrae una grande quota di tempo libero che nella maggior parte dei casi un lavoratore, se potesse, occuperebbe in modi molto più piacevoli ed umani, curando le proprie passioni, interessi, relazioni umane. Siamo sicuri che il gioco (l'orgoglio un pò feticista nei confronti dell'autonomia economica) valga sempre la candela (il sacrificio del tempo libero, per noi stessi, per i nostri familiari, amici, conoscenti)? Ho forti dubbi... considerando soprattutto che al di là dell'autonomia economica esiste un'autonomia a mio avviso più nobile, l'autonomia mentale, spirituale che raggiunge chi dedica la maggior tempo allo studio, al pensiero, alla riflessione. E spesso il perseguimento delle due autonomie è conflittuale, il tempo dedicato a una toglie tempo all'altra. Perchè dobbiamo per forza tacciare di immoralità e parassitismo chi, avendone la possibilità di farlo senza gravare entro una certa misura su altri, decide di anteporre al lavoro retribuito attività culturali non sempre pagate come la scrittura, l'arte, la musica, il frequentare più d'un corso di laurea, partecipazione a convegni, lo stesso scrivere su un forum filosofico come questo, utilizzando il tempo libero sgravato dai ritmi spesso opprimenti del "lavoro"? La vera libertà non è un'utopistica autonomia dalle dipendenza che tutti inevitabilmente abbiamo, ma si raggiunge attraverso un'intelligente gestione di tali dipendenze, delegando entro i limiti del possibile i compiti più spiacevoli per ottenere maggio tempo per le attività più corrispondenti alle nostre inclinazioni e dunque più piacevoli. Ad aiutarci in ciò abbiamo la fortuna di vivere in una struttura sociale fondata sulla divisione di ruoli, dove si spera, questo è almeno il mio auspicio ideale, ogni ruolo venga assunto da persone motivate e talentuose per quel ruolo. Delegando, tornando all'esempio di prima, il ruolo di cucire i vestiti ad un sarto, a qualcuno a cui piace questo lavoro lasciando a me il tempo per cose che mi piacciono di più come la lettura finisco di fatto col rendere felici entrambi, me stesso, che ho più tempo per i miei interessi, e il sarto, che può svolgere un lavoro che lui ha scelto, che gli piace e di cui ha necessità
CitazioneRisposta di Sgiombo: Salvo una valutazione più pessimistica (la ritengo sostanzialmente iniqua e da sovvertire) della realtà sociale di fatto da parte mia. con questo concordo in pieno!

Tra "forza d'animo" e "fatica" non c'è un rapporto diretto e necessario. La forza d'animo è quella spinta interiore che ci porta a desiderare con ardore il raggiungimento di un obiettivo e ad essere disponibili a passare momenti di sofferenza e a faticare per raggiungerlo. Ma essere disposti alla sofferenza ed alla fatica non vuol dire cercare la sofferenza e la fatica più del necessario sufficiente a raggiungere l'obiettivo che ci si prefigge. In linea teorica si può essere dotati di una grande fermezza, forza d'animo e poi trovarsi a realizzare con relativa facilità un certo risultato. Si sarebbe stati pronti a fare sacrifici, fatica, ma se ciò non è necessario meglio così. La fatica può però essere un'importante segno rivelatore della forza d'animo di una persona. Osservando la fatica e le sofferenze di una persona nello svolgere un'azione posso rendermi conto della sua tenacia ed apprezzarla per questo. Ma non si deve confondere l'idea che la fatica sia un segno rivelatore della forza d'animo con l'idea che quanto più sia desideri fortemente qualcosa tanto più si debba fare effettivamente fatica. La fatica cioè non rende direttamente moralmente migliore un'azione ma può essere un segno di riconoscimento esteriore a-posteriori per un giudizio morale sulla disposizione interiore. Può apparire una distinzione troppo sottile ma per me è fondamentale. Tra l'altro neanche la "forza d'animo" per me è di per sè una virtù, ma una sorta di "accrescitivo moralmente neutro". La forza interiore la si può applicare ad un'azione rivolta ad un fine negativo o positivo, e in base a tale differenza essa aumenta o diminuisce la moralità dell'azione: quanto più la forza d'animo si esprime in una buona azione tanto più l'azione la giudico buona, quanto più la si mette in un fine malvagio tanto più l'azione diventa cattiva, in questo caso si deve parlare di un'ostinazione verso il male, il male viene preseguito con più intensità, dunque la volontà è più malvagia. Il valore morale da mio punto di vista è dato soprattutto dall'intenzione soggettiva che progetta il fine

p.s. breve nota assolutamente non filosofica ma fatta come tifoso (per pigrizia non praticante) di ciclismo: nel secondo tour di Bartali, quello del 1948, quello celebre che secondo molti evitò la guerra civile in Italia dopo l'attentato a Togliatti calmando gli animi, Coppi non c'era. Tra i rivali principali di Bartali in quell'edizione c'erano Robic e Bobet! Condivido il giudizio sulla canzone di Ruggieri
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Tematiche Filosofiche / Re:Realtà e rappresentazione
19 Novembre 2016, 02:07:38 AM
Solo per chiarire sinteticamente la mia posizione in riferimento all'ultimo post di Green demetr:

Non mi ritengo un solipsista. Dal punto di vista del "realismo ingenuo" ammetto ad un livello non apodittico, ma probabilistico, la corrispondenza tra le mie percezione e l'oggettività delle cose. Dal punto di vista filosofico-razionale penso che il solipsismo sia un'ipotesi da ammettere a livello metodologico procedurale, ma non valida a livello definitivo e assoluto. Razionalità del discorso vuol dire fondare tale discorso su basi certe ed inoppugnabili, e dunque, seguendo Cartesio, queste basi sono la certezza dell'Io come soggetto pensante ed esistente e l'ammissione di una struttura di vissuti che compongono la coscienza soggettiva. L'esistenza di tale soggettività cosciente, ed in particolare il carattere di intenzionalità che porta l'Io a tendere ad un mondo fuori di sè e la passività del contenuto delle percezioni che forma le categorie e gli schemi dell'Io, tutti punti approfonditi dalla fenomenologia, presuppone l'esistenza di un'oggettività nei confronti della quale la ragione riconosce l'esistenza di alcuni modi relazionali con la coscienza, ma sospende il giudizio sulla corrispondenza tra  essa e la totalità delle percezioni, corrispondenza assunta in modo fideistico e probabilistico dal senso comune non filosofico che l'ipotesi del solipsismo non la considera. Sono temi che mi hanno più volte coinvolto nelle mie riflessioni personali Ho pensato all'angoscia in cui si può cadere nel riconoscimento dell'incertezza costituita dalla possibilità dell'illusione, della possibilità che le nostre percezioni fossero solo allucinazione, che tutta l'esperienza del mondo, gli eventi, le persone che conosco, fosse solo un sogno, una fantasia inconsapevole che nasconde la vera realtà, della quale non possiamo sapere nulla con certezza. Ed ho sperimentato la quiete nella almeno parziale soluzione del problema nell'idea che, nella "peggiore" delle ipotesi, considerando tutto l'apparato percettivo come illusorio, il riconoscimento del non arbitrario ma passivo accadere nella mia mente di tali percezioni illusorie presupponesse pur sempre l'esisitenza di un Qualcosa  di altro dal mio Io che interviene su di esso infondendo nella mia coscienza quelle immagini. Anche nella più estrema separazione della percezione soggettiva dalla realtà oggettiva, non sarei solo, ma ci sarebbe questo Qualcosa con cui essere in una sorta di relazione, al di là del caratterizzarlo in termini personali (genio ingannatore, Dio benevolo comunicatore di sogni ecc..) o impersonali, è qualcosa di irriducibile all'Io

Per tutto ciò non penso di sostenere che, cito da Green,  "esiste l'oggetto come conoscibile, ma che non lo sia il SOGGETTO". Al contrario, per me proprio partendo dal livello basico di evidenza, l'intuizione dei vissuti soggettivi, si può giungere a una conoscenza il più possibile razionale e rigorosa dell'oggetto. L'intenzionalità è relazione soggetto-oggetto