Abbassare il limite della sanzionabilità penale, secondo me, è un invito ad evadere con più tranquillità.
Ed infatti a parte il fatto che il "carcere agli evasori" era già previsto dal 1982, con la Legge 516/1982 (sulla quale scrissi uno dei miei primi libri), abbassando la soglia di punibilità penale, nel contempo si abbassa pure "di fatto" la soglia di "effettiva" perseguibità tributaria.
Ora cercherò di spiegare perchè, nel modo più semplice possibile (anche a costo di essere un po' sommario).
***
Per fare un esempio, uno dei metodi più utilizzati per accertare l'evasione fiscale dei ristoranti, utilizzato anche dal Al Capone per le riscossione del "pizzo", è sempre consistito nella verifica del "conto della lavanderia"; cioè, se un ristorante contabilizza 3.000 pasti serviti in un anno, mentre, dal "conto della lavanderia", risulta che in un anno sono state lavate 30.000 tovaglie, in effetti non è azzardato presumere che che il proprietario del ristorante stia facendo il furbo.
***
In tali ipotesi:
a)
Nel caso di Al Capone, il proprietario del ristorante faceva una brutta fine, e, nel "conto della lavanderia", di solito ci finivano anche i suoi indumenti.
b)
Nel caso del nostro diritto tributario "non penale", a seconda delle circostanze il proprietario del ristorante fa una brutta fine lo stesso, perchè, oltre alle imposte evase, viene bastonato da tante e tali sanzioni pecuniarie da fargli passare la voglia.
***
Ed infatti, l'art.39 del DPR 600/73:
- nel comma 1 lett.d), in sede di accertamento analitico, sancisce che "l'esistenza di attivita' non dichiarate o la inesistenza di passivita' dichiarate e' desumibile anche sulla base di "presunzioni semplici", purche' queste siano "gravi, precise e concordanti."
- nel comma 2, invece, in sede di accertamento induttivo, sancisce che l'Agenzia delle Entrate può avvalersi anche di "presunzioni prive dei requisiti di cui alla lettera d)" del precedente comma, e, cioè, "non necessariamente gravi, nè precise, nè concordanti.".
Per cui, almeno in genere, il "conto della lavanderia", basta e avanza ai fini dell'accertamento tributario, e della conseguente condanna nel Processo Civile Tributario.
***
Se, nel caso di specie, le soglie di punibilità penale non vengono superate, infatti, trattatandosi di materia non penale, se ne occupa il Giudice civile, cioè, nella fattispecie, le Commissioni Tributarie, nella cui giurisdizione, ex art. 7 del d. lgs. n. 546 del 1992 , non sono ammesse, a difesa del contribuente:
- nè il giuramento decisorio (figuriamoci)
- nè la prova per testimoni (che, almeno a Roma, si comprano un tanto al chilo)
Per cui, il ristoratore che contabilizza 3.000 pasti serviti in un anno, mentre, dal "conto della lavanderia", risulta che in un anno sono state lavate 30.000 tovaglie, "lo fanno nero"!
Cioè, lo condannano a versare l'imposta evasa, più dal 90% al 180% della maggiore imposta dovuta o della differenza del credito utilizzato.
***
Se, invece, si supera la soglia penale (che ora si vuole abbassare), per gli stessi fatti il contribuente viene sottoposto ad un processo penale; nel cui ambito la discrepanza tra i 3.000 pasti serviti in un anno, e le 30.000 tovaglie lavate, oggettivamente, non è assolutamente sufficiente a superare l'ostacolo dell'art.533 C.P.P., in base al quale il giudice può condannare l'imputato esclusivamente nel caso in cui costui risulti colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio.
Ed il conto della lavanderia, non è certo una presunzione "al di là di ogni ragionevole dubbio"; oltre al fatto che, in ambito penale, non c'è limite di prova, per cui l'imputato può chiamare i testi a difesa che vuole.
Senza considerare che un soggetto incensurato, in carcere non ci finirà mai; al massimo verrà condannato ad assistere mezz'ora a settimana i vecchietti di Cesano Boscone
***
E' indubbiamente vero che oggi (a differenza del passato), per quanto concerne gli effetti del giudicato penale sul processo tributario, la giurisprudenza è costante nell'affermare che, secondo l'assetto normativo vigente, nel giudizio tributario nessuna automatica autorità di cosa giudicata può attribuirsi alla sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati tributari, ancorché i fatti esaminati siano gli stessi che fondano l'accertamento, dal momento che nel processo tributario vigono i limiti in materia di prova previsti dall'articolo 7, comma 4, D.Lgs. 546/1992 e trovano ingresso anche presunzioni semplici, di per sé inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna.
***
Tuttavia, ferma la non vincolatività del giudicato penale, "il giudice tributario, nell'esercizio dei propri autonomi poteri di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti, è tenuto a verificare la rilevanza, rispetto alla fattispecie tributaria soggetta ad esame, di tutti gli elementi desumibili dall'inchiesta e dalla sentenza penale" (cfr., "ex multis" Cassazione, sentenze nn. 9442/2017, 6211/2015, 8129/2012 e 20740/2010).
***
In definitiva, il quadro generale che emerge dalla attuale giurisprudenza, depone, almeno in teoria, per l'assenza di condizionamenti "diretti" ed "immediati" del giudicato penale rispetto alle decisioni del giudice tributario; ma, al contempo, sancisce la sussistenza di un "potere-dovere" dello stesso giudice tributario di prendere comunque in considerazione, sia pure in assoluta autonomia e nel rispetto delle proprie regole processuali, gli elementi risultanti dalla sentenza penale, (nonché la valutazione che degli stessi è stata operata dal giudice penale), dando piena contezza del percorso argomentativo seguito in sede di motivazione.
Che, in pratica, nel 99% dei casi si riduce ad un "copia ed incolla" della motivazione della sentenza penale.
***
Ed infatti, almeno all'atto pratico, se il Giudice Penale assolve il ristoratore "perchè il fatto non sussiste" ovvero per "non aver commesso il fatto", secondo la mia personale esperienza non ci sarà MAI, alcun Giudice Tributario che lo condannerà per tale "fatto"; in pratica, io escluderei del tutto l'ipotesi!
Non mi è mai capitato un caso del genere; se ne foste a conoscenza, fatemelo sapere.
***
In conclusione, il nostro ipotetico ristoratore, dovrebbe accendere un cero a Sant'Antonio nella speranza che vengano abbassate le soglie della sanzionabilità penale, in quanto (salvo casi particolari), per lui un processo penale sarebbe la migliore salvaguardia sia da una condanna penale che da una civile...una vera "manna"!
Rimesso solo al giudizio civile, secondo me, rischia molto di più.
Ed infatti a parte il fatto che il "carcere agli evasori" era già previsto dal 1982, con la Legge 516/1982 (sulla quale scrissi uno dei miei primi libri), abbassando la soglia di punibilità penale, nel contempo si abbassa pure "di fatto" la soglia di "effettiva" perseguibità tributaria.
Ora cercherò di spiegare perchè, nel modo più semplice possibile (anche a costo di essere un po' sommario).
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Per fare un esempio, uno dei metodi più utilizzati per accertare l'evasione fiscale dei ristoranti, utilizzato anche dal Al Capone per le riscossione del "pizzo", è sempre consistito nella verifica del "conto della lavanderia"; cioè, se un ristorante contabilizza 3.000 pasti serviti in un anno, mentre, dal "conto della lavanderia", risulta che in un anno sono state lavate 30.000 tovaglie, in effetti non è azzardato presumere che che il proprietario del ristorante stia facendo il furbo.
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In tali ipotesi:
a)
Nel caso di Al Capone, il proprietario del ristorante faceva una brutta fine, e, nel "conto della lavanderia", di solito ci finivano anche i suoi indumenti.
b)
Nel caso del nostro diritto tributario "non penale", a seconda delle circostanze il proprietario del ristorante fa una brutta fine lo stesso, perchè, oltre alle imposte evase, viene bastonato da tante e tali sanzioni pecuniarie da fargli passare la voglia.
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Ed infatti, l'art.39 del DPR 600/73:
- nel comma 1 lett.d), in sede di accertamento analitico, sancisce che "l'esistenza di attivita' non dichiarate o la inesistenza di passivita' dichiarate e' desumibile anche sulla base di "presunzioni semplici", purche' queste siano "gravi, precise e concordanti."
- nel comma 2, invece, in sede di accertamento induttivo, sancisce che l'Agenzia delle Entrate può avvalersi anche di "presunzioni prive dei requisiti di cui alla lettera d)" del precedente comma, e, cioè, "non necessariamente gravi, nè precise, nè concordanti.".
Per cui, almeno in genere, il "conto della lavanderia", basta e avanza ai fini dell'accertamento tributario, e della conseguente condanna nel Processo Civile Tributario.
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Se, nel caso di specie, le soglie di punibilità penale non vengono superate, infatti, trattatandosi di materia non penale, se ne occupa il Giudice civile, cioè, nella fattispecie, le Commissioni Tributarie, nella cui giurisdizione, ex art. 7 del d. lgs. n. 546 del 1992 , non sono ammesse, a difesa del contribuente:
- nè il giuramento decisorio (figuriamoci)
- nè la prova per testimoni (che, almeno a Roma, si comprano un tanto al chilo)
Per cui, il ristoratore che contabilizza 3.000 pasti serviti in un anno, mentre, dal "conto della lavanderia", risulta che in un anno sono state lavate 30.000 tovaglie, "lo fanno nero"!
Cioè, lo condannano a versare l'imposta evasa, più dal 90% al 180% della maggiore imposta dovuta o della differenza del credito utilizzato.
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Se, invece, si supera la soglia penale (che ora si vuole abbassare), per gli stessi fatti il contribuente viene sottoposto ad un processo penale; nel cui ambito la discrepanza tra i 3.000 pasti serviti in un anno, e le 30.000 tovaglie lavate, oggettivamente, non è assolutamente sufficiente a superare l'ostacolo dell'art.533 C.P.P., in base al quale il giudice può condannare l'imputato esclusivamente nel caso in cui costui risulti colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio.
Ed il conto della lavanderia, non è certo una presunzione "al di là di ogni ragionevole dubbio"; oltre al fatto che, in ambito penale, non c'è limite di prova, per cui l'imputato può chiamare i testi a difesa che vuole.
Senza considerare che un soggetto incensurato, in carcere non ci finirà mai; al massimo verrà condannato ad assistere mezz'ora a settimana i vecchietti di Cesano Boscone
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E' indubbiamente vero che oggi (a differenza del passato), per quanto concerne gli effetti del giudicato penale sul processo tributario, la giurisprudenza è costante nell'affermare che, secondo l'assetto normativo vigente, nel giudizio tributario nessuna automatica autorità di cosa giudicata può attribuirsi alla sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati tributari, ancorché i fatti esaminati siano gli stessi che fondano l'accertamento, dal momento che nel processo tributario vigono i limiti in materia di prova previsti dall'articolo 7, comma 4, D.Lgs. 546/1992 e trovano ingresso anche presunzioni semplici, di per sé inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna.
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Tuttavia, ferma la non vincolatività del giudicato penale, "il giudice tributario, nell'esercizio dei propri autonomi poteri di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti, è tenuto a verificare la rilevanza, rispetto alla fattispecie tributaria soggetta ad esame, di tutti gli elementi desumibili dall'inchiesta e dalla sentenza penale" (cfr., "ex multis" Cassazione, sentenze nn. 9442/2017, 6211/2015, 8129/2012 e 20740/2010).
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In definitiva, il quadro generale che emerge dalla attuale giurisprudenza, depone, almeno in teoria, per l'assenza di condizionamenti "diretti" ed "immediati" del giudicato penale rispetto alle decisioni del giudice tributario; ma, al contempo, sancisce la sussistenza di un "potere-dovere" dello stesso giudice tributario di prendere comunque in considerazione, sia pure in assoluta autonomia e nel rispetto delle proprie regole processuali, gli elementi risultanti dalla sentenza penale, (nonché la valutazione che degli stessi è stata operata dal giudice penale), dando piena contezza del percorso argomentativo seguito in sede di motivazione.
Che, in pratica, nel 99% dei casi si riduce ad un "copia ed incolla" della motivazione della sentenza penale.
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Ed infatti, almeno all'atto pratico, se il Giudice Penale assolve il ristoratore "perchè il fatto non sussiste" ovvero per "non aver commesso il fatto", secondo la mia personale esperienza non ci sarà MAI, alcun Giudice Tributario che lo condannerà per tale "fatto"; in pratica, io escluderei del tutto l'ipotesi!
Non mi è mai capitato un caso del genere; se ne foste a conoscenza, fatemelo sapere.
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In conclusione, il nostro ipotetico ristoratore, dovrebbe accendere un cero a Sant'Antonio nella speranza che vengano abbassate le soglie della sanzionabilità penale, in quanto (salvo casi particolari), per lui un processo penale sarebbe la migliore salvaguardia sia da una condanna penale che da una civile...una vera "manna"!
Rimesso solo al giudizio civile, secondo me, rischia molto di più.
