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Messaggi - cvc

#496
Citazione di: DeepIce il 01 Giugno 2016, 17:29:49 PM
Premetto che sono sempre stato affascinato dal pensiero di Hobbes, ne condivido l'antropologia, molto meno la politica.

Andando al succo del topic vorrei sottoporvi una questione.

Hobbes parte dal presupposto che gli esseri umani sono come bestie, per questo motivo hanno bisogno di devolvere i propri diritti ad un sovrano che garantisca poi la pace e la convivenza civile. Fin qui ci siamo.

Ora la mia domanda è la seguente, il sovrano di Hobbes non è un essere umano? Non rientra anche lui nel "bellum omnium contra omnes"?

Tra l'altro Hobbes sostiene che il potere deve essere illimitato e centralizzato. Dovrei quindi accettare di essere governato da una belva come me? :)
Certo che se uno ascolta il telegiornale, la tentazione di pensarla come Hobbes un po' gli viene. È una versione brutale della politica. Se si parta dall'assunto platonico che il potere corrompe sempre, e la politica è gestione del potere, la democrazia risulta essere un allargamento della corruzione. Quindi rimane da stabilire se è meglio uno o pochi molto corrotti, oppure diluire la corruzione fra molti. È un discorso pessimista che ben si sposa con la misantropia di fondo che condividono molti filosofi. Questo legame fra grandi pensatori e sfiducia nell'uomo dà da pensare.
#497
Uno dei miti della nostra società è quello della autorealizzazione. Bisogna emergere, valorizzare le proprie qualità, conquistare il proprio tratto distintivo. Ma che succederebbe in una società in cui tutti gli individui fossero autorealizzati? Bisognerebbe stabilire se il mondo è un gioco a somma zero, oppure se è sempre possibile trovare soluzioni che accontentano tutti. È difficile immaginare un mondo in cui siano tutti realizzati. Realizzarsi implica fare qualcosa meglio di qualcun altro, conquistare un lavoro a scapito di un altro, rubare clienti altrui, guadagnare sulle perdite altrui. Eppure c'è tutta una letteratura, non solo di self help ma anche psicologica e filosofica, che incita le persone a realizzarsi, come se la possibilità di emergere fosse l'essenza dello spirito democratico, come se ci fosse posto per tutti e il mondo fosse un'immensa spiaggia dove chiunque può entrare di corsa rincorrendo i cavalloni più alti, partecipare a riti orgiastici collettivi, godere del meglio, basta avere il coraggio.
Trovo molto ipocrita questo aspetto della nostra società. Non dico che uno non debba cercare di migliorarsi, è quello cui ognuno aspira, e un uomo senza aspirazioni è poca cosa. Ma che possano esserci giochi non a somma zero, ci credo poco.
Si può essere perdenti e felici?

"Avrai raggiunto la perfezione quando capirai che gli uomini felici sono i più infelici"

Seneca
#498
Citazione di: acquario69 il 01 Giugno 2016, 07:19:19 AM
Chissa che effetto farebbe o cosa penserebbe una persona di un altra epoca se si ritrovasse all'improvviso catapultata ai giorni nostri,ma anche viceversa.
personalmente credo che (noi oggi) avremmo da imparare molte cose,che nel frattempo ci siamo completamente dimenticati o forse non riusciamo proprio più a concepire..al contrario cosa si potrebbe assimilare?  ::)

:)


https://www.youtube.com/watch?v=OE4VpKxzRdI
Credo che se sopravvivesse allo stupore iniziale poi si adatterebbe abbastanza facilmente alle nuove più confortevoli condizioni, l'adattamento è forte nell'uomo. Credo anche che sarebbe assai più felice di noi, perchè godrebbe del progresso della civiltà dopo aver saputo vivere senza. Avrebbe un bagaglio di esperienze, di battaglie, di ristrettezze e difficoltà affrontate che lo renderebbero un superuomo ai nostri occhi.
Però penso anche al contrario, se ci ritrovassimo all'improvviso nei bei tempi passati, magari così belli poi non ci sembrerebbero. Il punto non è se è meglio il passato o il presente, ma trovare il filo che li lega. E quel filo siamo noi.

"Senza conoscere la storia l'uomo vedrà sempre il mondo con gli occhi di un bambino"
Cicerone
#499
Si dice che un uomo d'oggi, rispetto ad un suo simile vissuto secoli prima, abbia, ad esempio, una soglia del dolore molto più bassa. Basti pensare che fino ad uno o due secoli fa era normale togliere un dente senza anestesia e, comunque, anche  nelle operazioni chirurgiche i mezzi per lenire il dolore dovevano essere assai scarsi. Siamo molto figli delle abitudini, quindi uno stile di vita addolcito dal benessere porta ad una minore prontezza ad affrontare certi patimenti fisici. Ma per non restringere il campo dell'argomento al solo dolore, direi che in generale la nostra percezione delle cose muta col tempo. Il pranzo della festa è oramai cosa di tutti i giorni, una piccola mancanza ci indispone, non abbiamo molta pazienza. Insomma, siamo poco inclini a sopportare le avversità. E per converso  siamo più pronti a notare se qualcuno versa in condizioni disumane. Una casa senza riscaldamento, acqua corrente, bagno ed elettricità sarebbe stata normale un tempo, una brutalità insopportabile oggi. Lo stesso dicasi per una persona che è limitata anche parzialmente nella sua volontà, ci pare un sopruso assai più che in passato.
Queste variazioni percettive sono un qualcosa di non immediatamente osservabile dall'intelletto, in quanto tendiamo a collegare le differenze generazionali a differenze di cultura. Ma le variazioni percettive causate dal cambiamento delle abitudini hanno ben poco a che fare con le variazioni dovute alle scoperte dell'intelletto. Dunque, nel valutare queste non si dovrebbe prima fare la tara di quelle? Tante volte si dice che Aristotele o Kant hanno sbagliato su questa o quella cosa, così facendo si giudica sempre col senno di poi. Ad esempio parlando di Nietzsche si dice che fosse antidemocratico, bella forza! Provate voi a nascere in Prussia con un innato spirito egualitario. Probabilmente ho deviato dalle premesse, ma visto che a me piace molto indugiare nel confronto coi tempi, credo bisogni sempre guardarsi dal rischio della decontestualizzazione.
#500
Citazione di: paul11 il 27 Maggio 2016, 11:03:30 AM
la vecchia ricetta di politica economica : risparmio privato - intermediazione finanziaria-investimenti produttivi- piu' occupazione-crescita della domanda dei beni intermedi e finali-imposizione fiscale-investimenti pubblici, non funziona più e prima che cene facciamo una ragione noi dovrebbe farlo la classe politica occidentale, il capitalista ovviamente non gli importa, perchè persegue il profitto e il costo del lavoro è da diminuire e flessibilizzare.
Non funziona perchè la tecnologia è stata decisiva nell'aumento esponenziale della produttività per addetto  e quindi la piena saturazione delle capacità produttiva continuerebbe a produrre dei surplus dell'offerta di beni
Il just-in time, come tecnica nacque proprio per evidenza de isuprlus produttivi che producevano stock di prodotti finiti invenuti a scapito del prezzo finale che diminuiva e diminuzione del margine di profitto conseguente. Oggi si produce "in time" sulla domanda e adatto che per l'impresa capitalistica l'uomo è una risorsa quanto la macchina operatrice in linea dentro la fabbrica o la materia prima, accade che lo "flessibilizza" già in entrata e uscita quindi vuole mano libera sul licenziamento, non solo sull'utilizzo nella politica egli orari.

Detto più semplicemente la domanda mondiale di un bene è x.Per produrre x ci vorrà sempre meno utilizzo di persone umane perchè le produttivtà orarie sono cresciute esponenzialmente. Ma se ci sono pochi occupati, c'è meno redditto e meno capacità di creare domanda di beni finali ,e allora si produce meno, quindi ......... meno occupati-meno domanda di mercato dei beni-meno risparmio - meni investimenti- qualità dei servizi degli Stati (assistenza,previdenza,ecc) che diventa scadente- meno investimenti pubblici.

E' altrettanto ovvio che ogni Stato vivrà la propria contraddizione da gestire in funzione dell asua struttura economica e della sua efficieneza nelle infrastrutture, perchè sono comunque anch'essi fattori competitivi.Quindi in Germania meglio dell'Italia, ma attenzione non è che la Germani possa fingere che il problema non lo coinvolga.
Il problema  non è risolvibile internamente dal pensiero e soprattutto dalla capacità di azione economica del capitalismo , la sua logica è il profitto per cui è ovvio che tende ad abbassare i costi.
Se mi son fatto capire, è cortocircuitato  il ciclo economico , non è possible trovare vecchie soluzioni keynesiane del tipo loStato "se ne frega" del debito e investe, perchè il suo debito è sul mercato finanziario , lo Stato è ora di smettere di pensare che sia "al di sopra" dei mercati ,questo lo hanno fatto credere fino agli anni Settanta-Ottanta ,quando dicevano che era "irredimibile", ma generava pesanti inflazioni economiche. Quello è passato,non è possible come leggo anche da "seccenti" economisti ripristinare vecchi politche, innanzitutto perchè è cambiata la forma organizzata dell'impresa in maniera strutturale nelle fasii  di continue ristrutturazioni, riconversioni industriali e ricapitalizzazioni.
Il mio personale parere è che se si vuole essere ancora civili, si deve passare ad un socialismo per forza, perchè l'unica soluzione di questo problema economico è lavorare tutti e lavorare meno in maniera "secca" che vuol dire per il capitalista smettere di guadagnare e speculare come ha fatto fino ad oggi ,Allora sì che la tecnologia non è ancora il "luddismo" ottocentesco, cioè toglie post idi lavoro, ma verrebbe vissuto come utilizzo e sostituzione del lavoro umano affinchè si tolga fatica e tempo di lavoro dal tempo di vita.

Quindi o più imbarbarimento o più civiltà.
Che il mercato sia saturo siamo d'accordo. Il problema è anche quello di decidere cosa produrre e per chi. Se si deve produrre solo per gli interessi capitalistici allora vanno benissimo i beni  voluttuari che stimolano l'ego illudendo il povero di essere benestante. Ma si potrebbe creare occupazione, ad esempio, lavorando per la prevenzione dei disastri geologici, per la sanità, per la sicurezza, tutti settori di competenza statale. Io non dico di ripristinare le politiche keynesiane del passato, ma magari di prestare attenzione a chi diceva cose del tipo che il mercato da solo non regola efficientemente l'occupazione, che non può essere la sola domanda a decidere la produzione dei beni, che la finanza non può essere grande dieci volte l'economia reale.  Oramai il mondo economico è stato reso del tutto omogeneo, non è più la società di Smith il cui c'era quello bravo a fare il pane che faceva il pane, quello bravo a fare la birra che faceva la birra e così via. E poi ci si recava al mercato per scambiare i beni in eccedenza con quelli di cui si era scarsi. Ora siamo tutti o imprese o lavoratori, o produttori o consumatori, o lavoratori o disoccupati, o di destra o di sinistra. Non c'è più eterogeneità, tutto è omogeneo e le ricette economiche sono sempre le stesse: tagliare i costi e massimizzare i profitti, lasciar fare al mercato, privatizzare. Non siamo più capaci di pensare, la tecnologia ci condiziona al punto che tutto deve essere assimilabile tecnologicamente, tutto deve essere uno o zero. Io credo che invece di essere ossessionati dall'efficienza bisogna anzitutto puntare alla piena occupazione, anche a costo di de-automatizzare alcuni processi produttivi e di servizi. L'uomo è fatto per muoversi e non per avere una socialità virtuale o per vivere di sussidi. Non si tratta di moltiplicare i pani e i pesci ma di dire a Lazzaro "alzati e cammina!"
Logico che qualcuno deve rinunciare a qualcosa, non si può equiparare il diritto del povero di essere meno povero a quello del ricco di essere più ricco.
Ma il punto credo sia che il mondo è diventato talmente complesso che l'uomo comune fatica a farsi una rappresentazione del mondo che gli consenta di orientarsi in esso. A volte, sarà una mia impressione, mi pare che siamo tutti animali allo sbando, che capiscono che da soli non ce la possono fare, che cercano una corrente da seguire e non la trovano, si adattano ad una tendenza pur sapendo che non condurrà da nessuna parte, mentono a se stessi per darsi speranza, hanno orrore del disperato perché sanno quanto facilmente possono diventare come lui. E tuttavia questa massa di animali al macello è subito pronta a commuoversi e intenerirsi non appena qualcuno o qualcosa riesce in qualche modo a far riaffiorare un barlume di umanità.
#501
La differenza fra questa crisi e quella del '29 è che qui non c'è un altro Keynes. Il Job Act francese vuole facilitare i licenziamenti per far si che le imprese assumano di più. Ma in questo modo si aumentano i flussi di lavoro, non l'occupazione. Vale a dire che vi saranno più licenziati e più assunti, ma la percentuale di occupazione rimane invariata. È del tutto irresponsabile che in periodo di crisi si facilitino i licenziamenti, specialmente se gli ammortizzatori sociali sono insufficienti. Così come è stupido costringere gli stati a ridurre il debito pubblico proprio mentre le cose vanno male. Sarò impazzito io, ma a me sembra l'esatto contrario. Si dovrebbe ridurre il debito quando l'economia cresce e dare un po' di respiro durante le recessioni. A parte che la crisi è la condizione normale del capitalismo, perchè esso è contrario per natura alla redistribuzione della ricchezza, perché è implicito che nel capitalismo i ricchi devono diventare più ricchi, e quando ciò non avviene più va al diavolo i sistema, così che chi aveva lavorato per produrre ricchezza si ritrova in mutande. Ma è naturale che nella difficoltà bisogna proteggere chi possiede solo il proprio lavoro e dare la possibilità all'economia di indebitarsi ragionevolmente per ripartire ed avere modo poi di rientrare dal debito in periodi migliori. Si strumentalizzano le crisi, Marshall aveva iniziato a studiare l'economia perché si chiedeva come mai nei periodi di boom economico c'è tuttavia gente che muore letteralmente di fame. Ora vedi uno che vive di stenti e dici che è la crisi, dimenticando quelli  che sono miserabili anche quando il pil cresce.
Comunque è demenziale pensare ancora che per aumentare la richiesta di lavoro sia sufficiente abbassarne il costo, come si trattasse di una qualunque merce.
#502
Tematiche Filosofiche / Re:Che cos'è la verità?
25 Maggio 2016, 09:01:22 AM
Verità è inganno vengono poi a identificarsi in ragione e sensibilità. Non che la ragione sia la verità in sé, ma in quanto ciò che riteniamo vero è inscindibile dal razionale, dal logos. Ciò che intendiamo per vero è dunque legato alla finitezza del linguaggio coi suoi paradossi, come quello del mentitore. I sensi ingannano ma sono il nostro contatto con il mondo. Un contatto ingannevole ben rappresentato dalle ombre nel mito della caverna. Quindi di dicotomia in dicotomia ecco quella fra rappresentazione e cosa in sé, dove ciò che è  manifesto è ingannevole, mentre la verità è la ragione interna all'uomo. Ma in tutte queste dicotomie fra verità e inganno, ragione e sensi, fenomeno e noumeno, ogni tentativo di mediazione da Platone a Hegel ha lasciato insoddisfatti. La realtà è armonia degli opposti dice Eraclito, ma è un'armonia assai flebile e instabile, sempre messa in forse dai conflitti delle dicotomie. L'uomo sente dentro di sé un profondo desiderio di pace, ma pare che l'uomo non sia stato fatto per la pace. Dire che la ragione media è riduttivo, la ragione combatte. La ragione non è un setaccio che separa l'irrazionale dal razionale, ma piuttosto uno spirito che assimila a sé l'irrazionale addomesticandolo. Un fuoco che trae nutrimento da ciò che brucia
Al di fuori del logos non esistono verità e falsità, ma solo vita e morte, azione e reazione.
#503
Citazione di: maral il 24 Maggio 2016, 22:30:34 PM
Citazione di: cvc il 24 Maggio 2016, 20:40:17 PM
A differenza dei cavalli da tiro, i lavoratori umani pagano tasse che servono per erogare le pensioni e sostenere lo stato sociale.
E infatti ormai da tempo ormai lo stato sociale è considerato il principale ostacolo alla crescita.
Certo si può discutere se la tecnologia sia legata o meno al capitalismo e cosa sia funzionale a cosa. Ad esempio Severino ne vede chiara la contrapposizione essendo il capitalismo in funzione dell'incremento del capitale, mentre la tecnica finalizzata alla soddisfazione di qualsiasi bisogno. E tra le due cose in contesa lui dice che sarà inevitabilmente la tecnica a prevalere. Io però non ne sono così sicuro: la tecnica ha avuto un ottimo alleato nel capitalismo, proprio poiché è esso che determina e fa permanere quello stato di bisogno che la tecnica ha lo scopo di soddisfare continuamente. La tecnica ha necessità di una domanda per continuare a produrre, il capitalismo ha necessità di una domanda per incrementare il capitale, dato che il capitale che si incrementa su se stesso, senza prodotto tecnico, è pura e catastrofica illusione. Entrambi hanno quindi bisogno della domanda in perfetta sinergia. Il problema su come sostenere la domanda è un problema tecnico e dunque il capitalismo muterà per quegli aspetti che si dimostreranno tecnicamente inadeguati al sostenimento della necessità di un consumo continuo e senza intoppi di quanto viene prodotto per non rischiare (come già accade) di finire sommersi da una marea di prodotto non consumato, ossia non immediatamente smaltito con il conseguente rischio di paralisi delle produzioni, alla cui efficienza la tecnica non può mai rinunciare. La ridistribuzione  della ricchezza può funzionare, ma fino a un certo punto, poiché ciò che si rende veramente necessario è stimolare continuamente il bisogno di beni per produrli, è costringere a fare di tutto pur di entrare nel ciclo di produzione senza poterne uscire, facendo leva sul desiderio continuamente indotto.
Non è vero che la tecnica è neutra e dipende dall'uso che ne facciamo, poiché ormai è essa che ci usa e stabilisce gli usi confacenti al suo produrre, programmandoli al massimo delle possibilità. E' la tecnologia che detta la morale che si riduce a pura morale d'uso, non certo noi, e questa morale è necessariamente del tutto indifferente all'umano: ormai è l'uomo che, in quanto mezzo produttivo, non è più né buono né cattivo, ma solo funzionale o meno al calcolo dell'efficienza massima di produzione del sistema complessivo; pensare in termini di buono e cattivo secondo i vecchi parametri etici è già decisamente antiquato: essenziale è solo funzionare nel modo più pianificabile e prevedibile possibile. Per questo l'autocoscienza, tecnicamente parlando, è una complicazione indebita, comporta costi eccessivi, è ormai un lusso che non ci si può permettere per evitare errori di programmazione imprevisti.  I falsi bisogni invece sono un'assoluta necessità tecnica, basta convincere che non sono per nulla falsi, ma diritti perpetuamente ribaditi a cui non si può rinunciare per vivere.
Sullo stato sociale come ostacolo della crescita credo che sia una questione di posizione ideologica. Secondo i paesi più liberisti come gli USA lo stato sociale è insostenibile ed è di fatto inesistente, nei paesi del nord Europa come la Germania una spesa sociale elevata (livello Italia) non ha affatto impedito la crescita. 
La tecnica è strumento del capitalismo perché c'è l'idea di fondo che le risorse concentrate nelle mani di pochi possono, grazie appunto alla tecnica, produrre di più che se fossero divise fra molti. Accentramento della ricchezza e sfruttamento tecnologico delle risorse sono un tutt'uno. Anche dal punto di vista del sostegno della domanda la tecnica si mostra congeniale, in quanto la sua rapida evoluzione innovativa rende subito obsoleti i beni in circolazione, così che vengono sostituiti prima che esauriscono il loro ciclo di utilizzo.
Non penso che sia la tecnica a dettare la morale, ma piuttosto l'uomo che essendosi assuefatto ad un elevato livello di benessere, si sente sempre più vincolato alla tecnologia nella speranza che possa sempre compiere nuovi miracoli. E questo è immorale, che l'uomo si affidi alla tecnica prima che a se stesso.
L'autocoscienza diventa una complicazione indebita per l'uomo reso stupido dal troppo benessere e da una vita troppo semplificata, resa troppo assimilabile dall'automatizzazione delle macchine, un passaggio dall'analogico al digitale che per amore dell'efficienza rende il pensiero comune un fastidio e un intralcio. L'unico pensiero che conta deve essere quello che porta all'innovazione tecnica e che alimenta il solito ciclo di produzione, consumo, crescita, benessere.
Ma se si esce da questo torpore si può scorgere il vero valore dell'autocoscienza, la possibilità unica che abbiamo di interrogarci sul senso dell'esistenza, di contemplare la realtà che ci circonda oltre i pregiudizi, i miti, le opinioni sconsiderate.
#504
Citazione di: maral il 24 Maggio 2016, 19:54:49 PM
Probabilmente più che un problema tra natura e cultura (per l'uomo, per lo meno da quando ha sviluppato l'agricoltura diventando stanziale, la natura ha sempre avuto un senso culturale e ciò che noi oggi pensiamo natura è il risultato del progetto che l'essere umano ha fatto su di essa), mi sembra di un problema tra quanto l'attuale tecnologia richiede (e richiederà sempre più in futuro) e il modo ancora umano di sentirci. In altre parole l'attuale tecnologia presenta l'uomo a se stesso come inadeguato e antiquato.
Proporre di lasciare che l'uomo faccia quei lavori di cui è stato capace, alla luce dell'attuale concezione tecnologica senza reali alternative del mondo non ha senso, poiché le macchine, prive di autocoscienza, funzionano meglio, ossia più efficacemente ed efficientemente, ormai persino il progettare e decidere in situazioni complicate, attività che ingenuamente si riteneva dovessero restare di appannaggio umano.  Oggi si chiede semmai che l'uomo si conformi alla macchina, si renda trattabile come macchina, produttiva e soprattutto di consumo, non certo il contrario.
Non so se avete presente i vecchi cavalli da tiro, quando ero giovane se ne vedeva ancora qualcuno in giro, oggi nemmeno uno. Sono scomparsi e oggi i cavalli servono solo per il divertimento nei maneggi, per tirare qualche carrozzella di ameni turisti o per fare bistecche. Proporre di riutilizzare i cavalli da tiro al posto dei tir non avrebbe nessun senso. L'uomo sta  avvicinandosi alla medesima condizione, senza più trovare senso e significato in ciò che ancora, nel sistema tecnologico, gli resta per un po' permesso di fare in attesa che le macchine lo facciano meglio di lui, Per ora si tratta della posizione di terminale della catena tecnologica, utile allo smaltimento del prodotto tramite l'eccitazione programmata del suo desiderio. Ma i cavalli in fondo sono stati più fortunati, perché non hanno una coscienza di sé  come hanno gli esseri umani, coscienza del proprio significare e quindi della propria inadeguatezza esistenziale. Per l'essere umano l'estinzione sarà più dolorosa, per questo, per evitare intoppi, lo si anestetizza.
A differenza dei cavalli da tiro, i lavoratori umani pagano tasse che servono per erogare le pensioni e sostenere lo stato sociale. Come ho detto l'efficienza è un cane che si morde la coda quando per tagliare i costi di produzione si annienta il potere d'acquisto della popolazione disoccupata. Le macchine funzioneranno meglio degli uomini, ma la rivoluzione tecnologica riduce esponenzialmente l'occupazione e in qualche modo bisognerà porre rimedio. Se non è il lavoro a redistribuire la ricchezza, in che altro modo si può farlo? Il reddito di cittadinanza è a malapena al livello di sussistenza, ma il sistema capitalistico non si regge con la sola vendita dei beni primari. La tecnologia in sè non è secondo me nè buona nè cattiva, dipende dall'uso. E l'uso che se ne sta facendo è quasi esclusivamente quello di supporto capitalistico con il disastroso effetto di ridurre l'occupazione e di creare un turn over sempre più veloce dei beni e servizi prodotti e distribuiti, per cui i cicli economici diventano sempre più effimeri e impossibili da cavalcare per chi non ha abbondanza di risorse da investire.
L'autocoscienza è secondo me uno strumento di adattamento e quindi di sopravvivenza, ma mi pare che ora sia intrappolata nel retaggio del benessere, per cui domina il terrore di dover rinunciare agli agi e standard conquistati, senza più la capacità di riflettere sui falsi bisogni indotti che alimentano il sistema di produzione e consumo superflui. In questa cornice la tecnologia è la guardia pretoriana del capitalismo, salita agli onori grazie alla suddivisione del lavoro a scopo industriale prima, e dall'organizzazione scientifica del lavoro poi. La tecnologia indirizzata ad uso e consumo degli interessi capitalistici rende l'uomo sempre più pigro, verificando ciò che Smith profetizzò riguardo alla suddivisione del lavoro che avrebbe reso l'uomo tanto stupido quanto può diventarlo.
#505
Citazione di: paul11 il 24 Maggio 2016, 12:55:32 PM
C'è uno strano e stridente paradosso.
Mentre l'uomo occidentale ,culturale e tecnologico, si fa problemi di autocoscienza sulle responsabilità, sul mondo che consegnerà alle prossime generazioni , altri popoli sulla faccia della Terra prolificano anche nella scarsità economica non ponendosi problematiche di autocoscienza.

Finirà, come già indicano da tempo  gli andamenti  demografici , che gli indigeni europei saranno sostituiti da popolazioni immigrate.

C'è un problema fra natura e cultura
Non è un problema essenzialmente di cultura ma di benessere, che poi si riflette sulla cultura come conseguenza del benessere. Fino ad una certa soglia marginale, ad un livello di pura sussistenza, è pressoché indifferente avere un figlio o dieci. Ma conquistato un certo livello di benessere, ogni figlio in più  rende esponenzialmente più difficile mantenete quel benessere raggiunto. Ma paradossalmente è poi sempre il benessere che ha bisogno di nuove leve, per mantenere lo stato sociale. Si cerca forza lavoro fresca per tamponare i problemi di oggi, e aumentare esponenzialmente quelli di domani. Dato che le macchine non pagano i contributi, credo che in futuro per mantenere lo stato sociale sarebbe necessario de-automatizzare molti processi produttivi. Ciò che può fare l'uomo è giusto che lo faccia l'uomo per sostenere l'uomo: reddito e contributi per lo stato sociale. L'efficienza tecnologica è inoltre un cane che si morde la coda, si tagliano i costi ma si riduce il potere d'acquisto. Non serve produrre a meno se poi i beni restano invenduti. Sarebbe bello che i lavori che può fare l'uomo li facesse l'uomo, e che i robot servissero per fare la guerra: combattono e muoiono solo i robot. Sarebbe un bell'atto di autocoscienza non autodistruttivo.
#506
Citazione di: maral il 22 Maggio 2016, 09:44:50 AMpaul11
Non so, mi pare evidente che l'attività cosciente non è in atto nel sonno profondo (mentre lo è nel fase in cui si sogna), questo non significa che il corpo non continui a funzionare e non mantenga la possibilità di essere cosciente una volta che si sveglia o che si comincia a sognare. C'è un mare di cose del nostro corpo di cui non siamo coscienti e che pur tuttavia sussistono continuamente: i globuli rossi che circolano nel sangue, gli scambi osmotici delle cellule, tutta l'attività cellulare, compresa la morte continua delle nostre cellule e la produzione di nuove, la stessa trasmissione degli impulsi nervosi... noi vediamo solo il risultato di tutto questo e a partire da questo risultato interpretiamo tutto il resto, siamo sempre solo sulla superficie dell'iceberg, quando ci siamo.
La coscienza è un particolare tipo di attività che necessita di un cervello, di un corpo e di un ambiente in cui quel corpo vive e di cui partecipa in un certo modo, come camminare che è un altro tipo di attività che non si effettua quando si sta seduti. Definire la coscienza come ciò che viene a mancare nel sonno profondo è come definire il camminare come ciò che non accade quando si sta seduti, il che non comporta che quando ci si rialza non ci si possa rimettere in cammina, semplicemente quell'attività resta latente.

CVC
La coscienza è perfettamente osservabile, è la cosa che osserviamo come continua presenza di noi stessi. Questo non significa che sia comprensibile o definibile dall'attuale neurologia, ma non esclude che la neurologia non ne possa dare interpretazione. La coscienza non è un oggetto, ma un'attività soggettiva di cui il neurologo tenta di descrivere il meccanismo con il suo linguaggio che necessita di una topografia. La cosa eccezionale è che qui il neurologo non prende un cadavere per esplorare l'attività cosciente, non fa nessuna autopsia, ma può vederla proprio mentre questa è in atto, lo può fare su un corpo vivente e cosciente e descriverla di conseguenza. Ed è molto interessante che venga a descriverla nei termini di un'interazione reiterata che ha per oggetto di riferimento costante la biostasi del corpo preso come un intero, l'immagine del mantenimento invariato della biostasi corporea per come essa viene a raffigurarsi a livello corticale. Questa descrizione ha un significato profondo (anche in termini filosofici) che ricollega, nella coscienza, l'attività neurale fino alla corteccia cerebrale all'attività di tutto il corpo nell'ambiente in cui vive e alla sua storia vissuta.
Certo, il tipo di linguaggio è riduttivo, la topologia che il neurologo adotta è riduttiva, non può non esserlo, ma questo vale per qualsiasi linguaggio con il quale si tenti di descrivere il fenomeno, a meno di non mantenersi in un ambito di termini del tutto vaghi e generali.
L'interpretazione neurologica della coscienza è un osservare dal di fuori, ma la coscienza è un qualcosa che agisce dal di dentro.  Per me la cosa importante della coscienza è il contenuto: pensieri, sentimenti, sensazioni, emozioni. E' questa la parte interessante della coscienza, non il suo manifestarsi fisicamente. Se l'uomo è libero lo è nella misura in cui può interagire col proprio mondo interiore consapevolizzando le proprie aspirazioni e le proprie avversioni, realizzando a cosa deve aspirare e cosa deve evitare. Che si possa studiare tutta la struttura del cervello ed il comportamento neurologico per poi magare trovare farmaci che rendano l'uomo sempre felice o sempre tranquillo e comunque sempre nello stato ideale, questo potrà essere possibile.  E' come nel film "Arancia meccanica", la  "cura lodovico" fa diventare buoni i cattivi. Poi interviene il prete chiedendo:  "Sì, ma che ne è della libertà?" 
#507
Citazione di: paul11 il 21 Maggio 2016, 16:13:12 PM
CVC
Fai l'errore opposto, non si capisce ontologicamente allora cosa sia coscienza, come se fosse nel retaggio della dicotomia della nostra cultura che divide corpo materiale da spirito.
Da credente io non penso ad un Dio che ogni volta che nasce un uomo deve dispensargli una coscienza "esterna" al corpo materiale, la coscienza è già dentro nell'atto creativo, nella cosmogonia, ovvero è una potenzialità che può emergere dalla materia in determinate condizioni, quindi credo ad una coscienza universale che permea il creato (attenzione a non scambiarmi per animista o panteista).
Io non sostengo che la coscienza è solo materia, semmai emerge dalla materia, ma non credo affatto che sia esterna all'uomo, che"piova dal cielo",perchè se così fosse come fisicamente  potremmo relazionarla e utilizzarla?
Non è pensiero, semmai la coscienza produce pensiero, non è cervello, ma emerge da questo, quindi è uno stato materiale energetico che si pone da ponte.
Non intendo spiegare ontologicamente la coscienza che è un'intuizione, se non c'è riuscito nessun filosofo perché dovrei provarci io? Ne tanto meno mi pongo il problema di un Dio che debba dispensare la coscienza ad ogni uomo che nasce. Dico solo che non dovremmo continuare a chiederci cos'è la coscienza mentendo a noi stessi: lo sappiamo benissimo. Qualsiasi spiegazione razionale avviene a posteriori, spiega ciò che è già avvenuto. Nessuna spiegazione razionale potrà mutare ciò che abbiamo appreso intuitivamente la prima volta che abbiamo scoperto di avere una coscienza. Potrà reinterpretarlo, riorganizzarlo, ma non mutare la natura intuitiva di tale apprendimento.
#508
Mi permetto di rilevare, dal momento che si fa un gran parlare sulla coscienza, che parlarne come di un processo isolato, secondo la prassi scientifica, è un puro atto riduzionista. La coscienza non è un elemento della natura osservabile, è uno stato del nostro essere, della nostra psiche. Trovo singolare che sull'onda dello straordinario ed entusiasmante progresso scientifico si finisca poi col ridurre la coscienza ad un mero oggetto. Non importa da che punto di vista la scienza inquadri il problema, non è un problema scientifico. Non ho tutte queste conoscenze scientifiche, però si sa che l'attività cosciente è circa un decimo dell'attività psichica totale, e per quanto la si possa esplorare rimane sempre un 90% di territorio oscuro che ride di noi mentre tentiamo di illuminare la notte con un fiammifero. Nella mia ignoranza, il tentativo di svelare i segreti della coscienza da un punto di vista puramente neurologico mi pare assai simile a quello di Cesare Lombroso, che voleva individuare i criminali osservandone la forma del cranio. Oppure a quello degli psicometristi di inizio secolo, che volevano misurare le attività psichiche. Questo modo di considerare la coscienza si concentra sull'uomo passivo, come un cadavere da sezionare. A me interessa più l'uomo dal punto di vista attivo, più che indagare le cause della coscienza m'interessa sapere come avere una buona coscienza. Qual'è l'effetto delle nostre azioni sul nostro stato fi coscienza, che azioni produce un certo stato di coscienza, come si possano compiere azioni terribili e comportarsi come se non se ne avesse coscienza, come si perde coscienza, come la si acquista, qual'è l'importanza di avere coscienza, che differenza c'è fra la nostra coscienza e quella dei viventi a noi più simili. Ciò mi parrebbe un parlare sulla coscienza, e non un'autopsia ad un uomo considerato cadavere ancor prima di morire. Anche se in un certo senso un po' lo siamo, si muore ogni giorno un po', vivere è anche un po' morire. Ecco un altro tema: la coscienza della morte.
Chiedo scusa di questa mia intrusione nel mondo scientifico che si era intruso nella mia coscienza.
#509
Tematiche Filosofiche / Re:Cultura e controcultura
18 Maggio 2016, 10:03:03 AM
Citazione di: paul11 il 18 Maggio 2016, 08:48:42 AM
Non so voi, personalmente sono stato impregnato nell'adolescenza della controcultura, dell'underground, della cultura alternativa.

Vi erano autori, correnti letterarie e saggistiche, persino l'arte che sorreggevano richieste sociali.
Si dice che una controcultura è innanzitutto contestativa verso la tradizione identificata come conformismo.

Affinchè sia una vera alternativa culturale e quindi una risposta ad una cultura precedente, deve avere la capacità di analizare le basi fondamentali che sorreggono quella cultura da superare.
Ma il secondo aspetto più importante ancora è che "l'essere deve mangiare l'idea".
Significa che ciò in cui credo deve mutare la mia essenza affinchè io non sia più parte della tradizione, devo mutare motivazioni ed atteggiamenti .Se così non fosse diventa solo esteriorità identificativa di un gruppo sociale o culturale che sis ente emarginato e in quanto tale non cerca di essere altro e diverso, ma semmai vuole essere recepito dalla tradizione, alla fine accettato.
Ed è così che infatti finisce la controcultura, riassorbita nella quotiidinità della vita.

Se contesto la famiglia devo trovare un'alternativa dell ostare insieme giorno dopo giorno
Se conteso socialmente ed economicamente ,devo progettare l'alternativa e praticarla.
Non basta proclamare  io sono contro-culturale, devo esserlo e per esserlo riprogettarmi costruendo nuove forme identificative.
Quindi deve essere più potente della cultura precedente.
Anch'io mi sento parte del retaggio del '68 e della contestazione. La rivolta giovanile contestava ai "matusa" di aver plasmato il mondo a loro uso e consumo, disinteressandosi dei più giovani. Ora che quei giovani sono diventati i matusa di oggi, che dovrebbero pensare del mondo che hanno consegnato ai giovani di oggi? Hai ragione, le rivoluzioni sovvertono i valori, però poi bisogna costruire. Molto infatti è stato costruito se si pensa alle conquiste sindacali ed all'emancipazione di giovani e donne. Però il mondo cambia i contesti economico-geografici e politici, ed anche quelle conquiste tendono a sgretolarsi. Le conquiste sindacali vengono vanificate dalle istanze dell'efficienza, l'emancipazione giovanile dal giovanilismo degli anziani, quella femminile dall'uso speculativo del corpo della donna. Forse dalla dichiarazione dei diritti dell'uomo in poi si è pensato che bastasse scrivere dei valori su di un pezzo di carta per renderli duraturi. In un mondo dove si scrive più di quanto si parla, un'elencazione di valori stampati non ha molta presa. Occorre scrivere sulla carta della coscienza, cosa difficile in un mondo che pone tutta l'attenzione al di fuori e non dentro all'animo umano. Occorre profondità, più di quanto si cerchi di rendere l'uomo meno fallibile (più efficiente) con l'ausilio della tecnica. Si dice che la risorsa più grande è il capitale umano, ma se la tecnica continua a cambiare il mondo a ritmi vertiginosi, il capitale umano viene sclerotizzato. La vera controcultura sarebbe quella di inculcare che i veri bisogni dell'uomo sono le aspirazioni dei suoi sentimenti, il suo desiderio fi pace, di convivenza, di dare un senso alla vita nella sua finitezza.
#510
Tematiche Filosofiche / Re:Cultura e controcultura
18 Maggio 2016, 08:02:57 AM
@donquixote
Una buona analisi di cui condivido particolarmente due punti: la frammentazione del sapere che porta a non avere più punti di riferimento precisi in un contesto di continua relativizzazione, e la superficialità con cui si propongono nuove forme di pretese culture che sono più che altro modi di apparire.

@acquario
Infatti diventa più un fatto di moda che di cultura vera e propria, come chi si riempie la casa di statuette di Bubba e ignora chi fosse veramente. Oppure come chi si tatua segni tribali perché gli piace quel disegno e poi vaneggia sul significato che hanno.

La questione potrebbe anche porsi in questi termini: cosa distingue un colto da un ignorante? Secondo me più che un ammasso di conoscenze (magari il più delle volte stucchevoli e sterili) è una questione di atteggiamento, di una curiosità che non sia mossa solo dal senso dell'utile, ma dalla soddisfazione che da la semplice contemplazione delle cose. Altrimenti la ricerca dell'utile diventa una prigione, e solo una curiosità disinteressata può liberarci da questa schiavitù.