rispondo a Sgiombo e Maral
Io distinguo "impegno" e "fatica". Nel senso che certamente in ogni forma di impegno è presente una componente di fatica, ma quest'ultima non esaurisce in sè il complesso dell'impegno. Per "impegno" intendo genericamente qualunque forma di attività in cui vengono spese delle energie in vista di uno scopo, mentre la fatica è ciò che introduce nell'impegno una componente di sofferenza e negatività. Come è evidente, non sempre le nostre attività risultano spiacevoli. Dal mio punto di vista (chiaro che nel momento in cui le mie premesse non sono accettate il mio discorso apparirrà non valido, quindi mi limito a cercare di essere coerente con esse), il bene è il fine a cui tendono le inclinazioni naturali di ogni soggetto, ragion per cui per me dal punto di vista "materiale", del contenuto concreto con cui tale nozione si riempie, non esiste un solo "bene", ma tanti beni diversi quante sono le differenze qualitative dei soggetti. La fatica è un male, perchè è la condizione nella quale l'impegno presuppone uno sforzo innaturale, non corrispondente alla nostra personalità, alle nostre attitudini, e l'andare contro la nostra natura provoca sofferenza, mentre l'impegno pur avendo sempre presente tale aspetto, è anche in parte piacevole, lo è nella misura in cui avvertiamo che le nostre azioni esprimono la nostra autentica personalità, ed in questo senso l'impegno è un "bene", "bene perchè piacevole. Fermo restando che la fatica è sempre un male necessario, perchè l'utilizzo degli oggetti presuppone pur sempre da parte del soggetto un doversi adeguare, un fare violenza a se stessi per rendersi atti a vincere la resistenza degli oggetti, come nel caso in cui devo spostare un pesante masso e sono costretto ad utilizzare i miei muscoli in un modo innaturale, cioè spiacevole, lontano dalla mia idea di "bene" in cui rientra il normale movimento dei muscoli. Ciò che contesto è il passaggio arbitrario dal riconoscimento della necessità alla moralizzazione della fatica, al punto di cadere in una sorta di mentalità masochista per cui ciò che si ottiene con fatica dovrebbe avere un valore morale superiore rispetto a ciò che si ottiene alla luce dei nostri talenti naturali, dunque in modo facile e naturale.
L'autonomia economica, come tutte le autonomie, è utile, ma io eviterei di parlare di "nobiltà". La nobiltà per me attiene al piano dei fini, nobile è qualcosa che possiede un valore intrinseco, mentre il denaro è uno strumento, indispensabile, ma pur sempre uno strumento, un mezzo, dunque ha un valore morale inferiore a ciò che è fine a se stesso. Il rischio di pensarla altrimenti è quello di cadere in un feticismo alienante alla ( chiedo scusa per la citazione non propriamente filosofico- accademica) Zio Paperone, che fà il bagno nei soldi venerando la ricchezza guadagnata come il fine della vita e poi per paura di non disperderla non si concede neanche una vacanza ogni tanto dal lavoro, preferendo restare chiuso nel deposito a contare il patrimonio ed a guadagnarne altro. Uno stile di vita e una mentalità che sinceramente non mi interessa e mi fà quasi orrore. Per me il valore del denaro sta solo ed esclusivamente negli oggetti che si possono comprare con esso. La quantità la rispetto solo al servizio della qualità. L'autonomia è un positivo fattore di libertà, essere autonomo rende meno condizionati dal mondo esterno gli individui. Tuttavia l'autonomia, intesa nel contesto in cui stiamo discutendo rientra anch'essa nel piano dei "mezzi", non dei fini, non della nobiltà morale. Nel piano dei fini rientra la "libertà", che va distinta dall' autonomia. Siamo esseri in relazione, legati sempre a dipendenza e l'affrancamento da tali dipendenze può portare a rinunce alla libertà molto maggiori rispetto a quelle che il restare legati alle dipendenze comporterebbero. Un esempio banale. Se i vestiti che indosso li cucissi io personalmente non avrei bisogno di sarti, e il mio livello di autonomia sociale sarebbe più alto di quello che ha uno che i vestiti li acquista già prodotti nei negozi. Ma tale autonomia sarebbe raggiunta al prezzo di un dispendio significativo di tempo che dovrei sottrarre ad attività per me più interessanti e piacevoli del cucito. A me pare che in questa discussione sul valore del lavoro non possa non essere centrale un punto ancora forse non ben considerato: il tempo, il tempo libero, che non è infinito nella nostra vita, nelle nostre giornate. Il perseguimento dell'autonomia economica attraverso il lavoro sottrae una grande quota di tempo libero che nella maggior parte dei casi un lavoratore, se potesse, occuperebbe in modi molto più piacevoli ed umani, curando le proprie passioni, interessi, relazioni umane. Siamo sicuri che il gioco (l'orgoglio un pò feticista nei confronti dell'autonomia economica) valga sempre la candela (il sacrificio del tempo libero, per noi stessi, per i nostri familiari, amici, conoscenti)? Ho forti dubbi... considerando soprattutto che al di là dell'autonomia economica esiste un'autonomia a mio avviso più nobile, l'autonomia mentale, spirituale che raggiunge chi dedica la maggior tempo allo studio, al pensiero, alla riflessione. E spesso il perseguimento delle due autonomie è conflittuale, il tempo dedicato a una toglie tempo all'altra. Perchè dobbiamo per forza tacciare di immoralità e parassitismo chi, avendone la possibilità di farlo senza gravare entro una certa misura su altri, decide di anteporre al lavoro retribuito attività culturali non sempre pagate come la scrittura, l'arte, la musica, il frequentare più d'un corso di laurea, partecipazione a convegni, lo stesso scrivere su un forum filosofico come questo, utilizzando il tempo libero sgravato dai ritmi spesso opprimenti del "lavoro"? La vera libertà non è un'utopistica autonomia dalle dipendenza che tutti inevitabilmente abbiamo, ma si raggiunge attraverso un'intelligente gestione di tali dipendenze, delegando entro i limiti del possibile i compiti più spiacevoli per ottenere maggio tempo per le attività più corrispondenti alle nostre inclinazioni e dunque più piacevoli. Ad aiutarci in ciò abbiamo la fortuna di vivere in una struttura sociale fondata sulla divisione di ruoli, dove si spera, questo è almeno il mio auspicio ideale, ogni ruolo venga assunto da persone motivate e talentuose per quel ruolo. Delegando, tornando all'esempio di prima, il ruolo di cucire i vestiti ad un sarto, a qualcuno a cui piace questo lavoro lasciando a me il tempo per cose che mi piacciono di più come la lettura finisco di fatto col rendere felici entrambi, me stesso, che ho più tempo per i miei interessi, e il sarto, che può svolgere un lavoro che lui ha scelto, che gli piace e di cui ha necessità
Io distinguo "impegno" e "fatica". Nel senso che certamente in ogni forma di impegno è presente una componente di fatica, ma quest'ultima non esaurisce in sè il complesso dell'impegno. Per "impegno" intendo genericamente qualunque forma di attività in cui vengono spese delle energie in vista di uno scopo, mentre la fatica è ciò che introduce nell'impegno una componente di sofferenza e negatività. Come è evidente, non sempre le nostre attività risultano spiacevoli. Dal mio punto di vista (chiaro che nel momento in cui le mie premesse non sono accettate il mio discorso apparirrà non valido, quindi mi limito a cercare di essere coerente con esse), il bene è il fine a cui tendono le inclinazioni naturali di ogni soggetto, ragion per cui per me dal punto di vista "materiale", del contenuto concreto con cui tale nozione si riempie, non esiste un solo "bene", ma tanti beni diversi quante sono le differenze qualitative dei soggetti. La fatica è un male, perchè è la condizione nella quale l'impegno presuppone uno sforzo innaturale, non corrispondente alla nostra personalità, alle nostre attitudini, e l'andare contro la nostra natura provoca sofferenza, mentre l'impegno pur avendo sempre presente tale aspetto, è anche in parte piacevole, lo è nella misura in cui avvertiamo che le nostre azioni esprimono la nostra autentica personalità, ed in questo senso l'impegno è un "bene", "bene perchè piacevole. Fermo restando che la fatica è sempre un male necessario, perchè l'utilizzo degli oggetti presuppone pur sempre da parte del soggetto un doversi adeguare, un fare violenza a se stessi per rendersi atti a vincere la resistenza degli oggetti, come nel caso in cui devo spostare un pesante masso e sono costretto ad utilizzare i miei muscoli in un modo innaturale, cioè spiacevole, lontano dalla mia idea di "bene" in cui rientra il normale movimento dei muscoli. Ciò che contesto è il passaggio arbitrario dal riconoscimento della necessità alla moralizzazione della fatica, al punto di cadere in una sorta di mentalità masochista per cui ciò che si ottiene con fatica dovrebbe avere un valore morale superiore rispetto a ciò che si ottiene alla luce dei nostri talenti naturali, dunque in modo facile e naturale.
L'autonomia economica, come tutte le autonomie, è utile, ma io eviterei di parlare di "nobiltà". La nobiltà per me attiene al piano dei fini, nobile è qualcosa che possiede un valore intrinseco, mentre il denaro è uno strumento, indispensabile, ma pur sempre uno strumento, un mezzo, dunque ha un valore morale inferiore a ciò che è fine a se stesso. Il rischio di pensarla altrimenti è quello di cadere in un feticismo alienante alla ( chiedo scusa per la citazione non propriamente filosofico- accademica) Zio Paperone, che fà il bagno nei soldi venerando la ricchezza guadagnata come il fine della vita e poi per paura di non disperderla non si concede neanche una vacanza ogni tanto dal lavoro, preferendo restare chiuso nel deposito a contare il patrimonio ed a guadagnarne altro. Uno stile di vita e una mentalità che sinceramente non mi interessa e mi fà quasi orrore. Per me il valore del denaro sta solo ed esclusivamente negli oggetti che si possono comprare con esso. La quantità la rispetto solo al servizio della qualità. L'autonomia è un positivo fattore di libertà, essere autonomo rende meno condizionati dal mondo esterno gli individui. Tuttavia l'autonomia, intesa nel contesto in cui stiamo discutendo rientra anch'essa nel piano dei "mezzi", non dei fini, non della nobiltà morale. Nel piano dei fini rientra la "libertà", che va distinta dall' autonomia. Siamo esseri in relazione, legati sempre a dipendenza e l'affrancamento da tali dipendenze può portare a rinunce alla libertà molto maggiori rispetto a quelle che il restare legati alle dipendenze comporterebbero. Un esempio banale. Se i vestiti che indosso li cucissi io personalmente non avrei bisogno di sarti, e il mio livello di autonomia sociale sarebbe più alto di quello che ha uno che i vestiti li acquista già prodotti nei negozi. Ma tale autonomia sarebbe raggiunta al prezzo di un dispendio significativo di tempo che dovrei sottrarre ad attività per me più interessanti e piacevoli del cucito. A me pare che in questa discussione sul valore del lavoro non possa non essere centrale un punto ancora forse non ben considerato: il tempo, il tempo libero, che non è infinito nella nostra vita, nelle nostre giornate. Il perseguimento dell'autonomia economica attraverso il lavoro sottrae una grande quota di tempo libero che nella maggior parte dei casi un lavoratore, se potesse, occuperebbe in modi molto più piacevoli ed umani, curando le proprie passioni, interessi, relazioni umane. Siamo sicuri che il gioco (l'orgoglio un pò feticista nei confronti dell'autonomia economica) valga sempre la candela (il sacrificio del tempo libero, per noi stessi, per i nostri familiari, amici, conoscenti)? Ho forti dubbi... considerando soprattutto che al di là dell'autonomia economica esiste un'autonomia a mio avviso più nobile, l'autonomia mentale, spirituale che raggiunge chi dedica la maggior tempo allo studio, al pensiero, alla riflessione. E spesso il perseguimento delle due autonomie è conflittuale, il tempo dedicato a una toglie tempo all'altra. Perchè dobbiamo per forza tacciare di immoralità e parassitismo chi, avendone la possibilità di farlo senza gravare entro una certa misura su altri, decide di anteporre al lavoro retribuito attività culturali non sempre pagate come la scrittura, l'arte, la musica, il frequentare più d'un corso di laurea, partecipazione a convegni, lo stesso scrivere su un forum filosofico come questo, utilizzando il tempo libero sgravato dai ritmi spesso opprimenti del "lavoro"? La vera libertà non è un'utopistica autonomia dalle dipendenza che tutti inevitabilmente abbiamo, ma si raggiunge attraverso un'intelligente gestione di tali dipendenze, delegando entro i limiti del possibile i compiti più spiacevoli per ottenere maggio tempo per le attività più corrispondenti alle nostre inclinazioni e dunque più piacevoli. Ad aiutarci in ciò abbiamo la fortuna di vivere in una struttura sociale fondata sulla divisione di ruoli, dove si spera, questo è almeno il mio auspicio ideale, ogni ruolo venga assunto da persone motivate e talentuose per quel ruolo. Delegando, tornando all'esempio di prima, il ruolo di cucire i vestiti ad un sarto, a qualcuno a cui piace questo lavoro lasciando a me il tempo per cose che mi piacciono di più come la lettura finisco di fatto col rendere felici entrambi, me stesso, che ho più tempo per i miei interessi, e il sarto, che può svolgere un lavoro che lui ha scelto, che gli piace e di cui ha necessità