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Messaggi - davintro

#496
rispondo a Sgiombo e Maral

Io distinguo "impegno" e "fatica". Nel senso che certamente in ogni forma di impegno è presente una componente di fatica, ma quest'ultima non esaurisce in sè il complesso dell'impegno. Per "impegno" intendo genericamente qualunque forma di attività in cui vengono spese delle energie in vista di uno scopo, mentre la fatica è ciò che introduce nell'impegno una componente di sofferenza e negatività. Come è evidente, non sempre le nostre attività risultano spiacevoli. Dal mio punto di vista (chiaro che nel momento in cui le mie premesse non sono accettate il mio discorso apparirrà non valido, quindi mi limito a cercare di essere coerente con esse), il bene è il fine a cui tendono le inclinazioni naturali di ogni soggetto, ragion per cui per me dal punto di vista "materiale", del contenuto concreto con cui tale nozione si riempie, non esiste un solo "bene", ma tanti beni diversi quante sono le differenze qualitative dei soggetti. La fatica è un male, perchè è la condizione nella quale l'impegno presuppone uno sforzo innaturale, non corrispondente alla nostra personalità, alle nostre attitudini, e l'andare contro la nostra natura provoca sofferenza, mentre l'impegno pur avendo sempre presente tale aspetto, è anche in parte piacevole, lo è nella misura in cui avvertiamo che le nostre azioni esprimono la nostra autentica personalità, ed in questo senso l'impegno è un "bene", "bene perchè piacevole. Fermo restando che la fatica è sempre un male necessario, perchè l'utilizzo degli oggetti presuppone pur sempre da parte del soggetto un doversi adeguare, un fare violenza a se stessi per rendersi atti a vincere la resistenza degli oggetti, come nel caso in cui devo spostare un pesante masso e sono costretto ad utilizzare i miei muscoli in un modo innaturale, cioè spiacevole, lontano dalla mia idea di "bene" in cui rientra il normale movimento dei muscoli. Ciò che contesto è il passaggio arbitrario dal riconoscimento della necessità alla moralizzazione della fatica, al punto di cadere in una sorta di mentalità masochista per cui ciò che si ottiene con fatica dovrebbe avere un valore morale superiore rispetto a ciò che si ottiene alla luce dei nostri talenti naturali, dunque in modo facile e naturale.

L'autonomia economica, come tutte le autonomie, è utile, ma io eviterei di parlare di "nobiltà". La nobiltà per me attiene al piano dei fini, nobile è qualcosa che possiede un valore intrinseco, mentre il denaro è uno strumento, indispensabile, ma pur sempre uno strumento, un mezzo, dunque ha un valore morale inferiore a ciò che è fine a se stesso. Il rischio di pensarla altrimenti è quello di cadere in un feticismo alienante alla ( chiedo scusa per la citazione non propriamente filosofico- accademica) Zio Paperone, che fà il bagno nei soldi venerando la ricchezza guadagnata come il fine della vita e poi per paura di non disperderla non si concede neanche una vacanza ogni tanto dal lavoro, preferendo restare chiuso nel deposito a contare il patrimonio ed a guadagnarne altro. Uno stile di vita e una mentalità che sinceramente non mi interessa e mi fà quasi orrore. Per me il valore del denaro sta solo ed esclusivamente negli oggetti che si possono comprare con esso. La quantità la rispetto solo al servizio della qualità. L'autonomia è un positivo fattore di libertà, essere autonomo rende meno condizionati dal mondo esterno gli individui. Tuttavia l'autonomia, intesa nel contesto in cui stiamo discutendo rientra anch'essa nel piano dei "mezzi", non dei fini, non della nobiltà morale. Nel piano dei fini rientra la "libertà", che va distinta dall' autonomia. Siamo esseri in relazione, legati sempre a dipendenza e l'affrancamento da tali dipendenze può portare a rinunce alla libertà molto maggiori rispetto a quelle che il restare legati alle dipendenze comporterebbero. Un esempio banale. Se i vestiti che indosso li cucissi io personalmente non avrei bisogno di sarti, e il mio livello di autonomia sociale sarebbe più alto di quello che ha uno che i vestiti li acquista già prodotti nei negozi. Ma tale autonomia sarebbe raggiunta al prezzo di un dispendio significativo di tempo che dovrei sottrarre ad attività per me più interessanti e piacevoli del cucito. A me pare che in questa discussione sul valore del lavoro non possa non essere centrale un punto ancora forse non ben considerato: il tempo, il tempo libero, che non è infinito nella nostra vita, nelle nostre giornate. Il perseguimento dell'autonomia economica attraverso il lavoro sottrae una grande quota di tempo libero che nella maggior parte dei casi un lavoratore, se potesse, occuperebbe in modi molto più piacevoli ed umani, curando le proprie passioni, interessi, relazioni umane. Siamo sicuri che il gioco (l'orgoglio un pò feticista nei confronti dell'autonomia economica) valga sempre la candela (il sacrificio del tempo libero, per noi stessi, per i nostri familiari, amici, conoscenti)? Ho forti dubbi... considerando soprattutto che al di là dell'autonomia economica esiste un'autonomia a mio avviso più nobile, l'autonomia mentale, spirituale che raggiunge chi dedica la maggior tempo allo studio, al pensiero, alla riflessione. E spesso il perseguimento delle due autonomie è conflittuale, il tempo dedicato a una toglie tempo all'altra. Perchè dobbiamo per forza tacciare di immoralità e parassitismo chi, avendone la possibilità di farlo senza gravare entro una certa misura su altri, decide di anteporre al lavoro retribuito attività culturali non sempre pagate come la scrittura, l'arte, la musica, il frequentare più d'un corso di laurea, partecipazione a convegni, lo stesso scrivere su un forum filosofico come questo, utilizzando il tempo libero sgravato dai ritmi spesso opprimenti del "lavoro"? La vera libertà non è un'utopistica autonomia dalle dipendenza che tutti inevitabilmente abbiamo, ma si raggiunge attraverso un'intelligente gestione di tali dipendenze, delegando entro i limiti del possibile i compiti più spiacevoli per ottenere maggio tempo per le attività più corrispondenti alle nostre inclinazioni e dunque più piacevoli. Ad aiutarci in ciò abbiamo la fortuna di vivere in una struttura sociale fondata sulla divisione di ruoli, dove si spera, questo è almeno il mio auspicio ideale, ogni ruolo venga assunto da persone motivate e talentuose per quel ruolo. Delegando, tornando all'esempio di prima, il ruolo di cucire i vestiti ad un sarto, a qualcuno a cui piace questo lavoro lasciando a me il tempo per cose che mi piacciono di più come la lettura finisco di fatto col rendere felici entrambi, me stesso, che ho più tempo per i miei interessi, e il sarto, che può svolgere un lavoro che lui ha scelto, che gli piace e di cui ha necessità
#497
Tematiche Filosofiche / Re:Realtà e rappresentazione
10 Novembre 2016, 23:01:05 PM
Credo che, nel momento in cui di dice che la pretesa di una corrispondenza tra il contenuto fenomenico e le "cose in sè" oggettive è sempre arbitraria ed oggetto di un atto di fede, e che qualunque discorso sulla realtà deve sempre partire dall'analisi dei vissuti soggettivi della coscienza, si sia già concesso tantissimo al solipsismo, o più precisamente, all'ammissione della considerazione della possibilità del solipsismo come presupposto indispensabile di una valutazione il più possibile critica e razionale della realtà. Quello che per me è importante è riconoscere la distinzione tra l'idea di poter razionalmente "saturare" la conoscenza del reale con tutte le nostre concrete e particolari manifestazioni fenomeniche delle nostre rappresentazioni, pensando ad una piena aderenza tra fenomeno e cosa in sè, e l'ammissione razionale dell'esistenza di un mondo oggettivo, in senso molto più vuoto e indeterminato, cioè ammettiamo che una realtà oggettiva genericamente intesa esiste in modo razionale, mentre lasciamo alla fede (o al limite ad una ragionevolezza probabilistica non apodittica) il ritenere di poter riempire la X con tutto ciò che noi pensiamo e percepiamo di essa. Solo la prima ipotesi va iscritta al realismo ingenuo del senso comune, la seconda è realismo critico, perchè la realtà viene riconosciuta a partire dalla certezza della coscienza, e trascendentale, perchè di questa realtà oggettiva ci si limita a parlarne entro precisi limiti, i limiti della giustificazione dei vissuti soggettivi della coscienza, il punto di partenza indubitabile. Il problema che voglio sollevare è: qual'è il rapporto del solipsismo con la seconda posizione? Cosa si intende per solipsismo?  "Solipsismo" è una declinazione di "solus", solo.  Ma la solitudine è qua un concetto ambiguo, e l'ambiguità determina due diverse acccezioni di solipsismo. La prima, più "moderata", considera la non esistenza di altri soggetti. Io sono solo nel senso che sono l'unico Io percepiente o cosciente al mondo. La seconda, ancora più, dal punto di vista del  senso comune, delirante ed estrema, pone tale solitudine non come assenza di alter ego, ma  di qualunque cosa altra differente dal mio Io, non solo altri soggetti, ma anche la natura meramente fisica, non esiste alcuna altra cosa al mondo che il mio pensiero con il suo contenuto fenomenico. Quest'ultima posizione non può che dedurre l'assolutizzazione, la divinizzazione dell'Io. Inteso in questo modo il solipsismo non può che porre l'Io, non solo come "l'unico e solo", ma anche come Dio non limitato da altro da sè, perchè nulla esisterebbe di fuori di sè (tutto ciò a conferma che le questioni filosofiche finiscono sempre col dover trovare una soluzione entrando nel campo delle affermazioni metafisiche, cioè la metafisica non è un ramo della filosofia tra gli altri, ma lo sfondo necessario di ogni sua espressione, ma il discorso ci porta troppo lontano da qui, mi fermo). L'ipotesi moderata invece è assolutamente conciliabile con il realismo critico. Infatti negando l'esistenza di altri soggetti da me, ma non di una realtà oggettiva in generale, il solipsismo inteso così respinge la pretesa della coincidenza tra determinate rappresentazioni e realtà (la percezione di altre coscienze, l'empatia, rientra certamente nei miei fenomeni eppure il suo contenuto non sarebbe realtà oggettiva ma illusione), ma salverebbe una realtà oggettiva di cui riconosco l'esistenza, ma le cui proprietà non coincidono con le qualità fenomeniche dei miei vissuti su essa. Insomma, a me pare che una discussione sul solipsismo debba per forza risolvere la questione e stabilire di quale solipsismo si sta parlando, a quale delle due accezioni ci riferiamo quando parliamo di esso. O almeno, questa è la mia esigenza personale di chiarimento...
#498
Argomento spinoso e che ad essere sinceri mi tocca anche emotivamente e personalmente, causa anche recenti accese discussioni fuori dal forum riguardo la dignità o meno di uno stile di vita in cui il lavoro, quando non è mezzo necessario alla sopravvivenza materiale, può essere lasciato quantomeno in disparte nei progetti di vita, in favore della preservazione di un tempo libero dedicato alla studio, alla coltivazione di interessi culturali, al godimento delle relazioni umane, stile di vita che io riconosco come profondamente umano.

In questo senso mi conforta notare, dando un'occhiata ai commenti, un consenso diffuso riguardo l'idea che il lavoro sia un mezzo e non un fine, e che una vita in cui ci si può permettere di non lavorare e dedicarsi alle proprie passioni non abbia nulla di immorale o di indegno, in particolare quando tali passioni assumono un carattere culturale, studi accedemici, scrittura, frequentazioni di convegni ecc. Quindi direi che il punto da approfondire diventa più che altro terminologico. Anche chi attribuisce al lavoro non un mero aspetto strumentale, ma qualcosa che lo rende fattore di potenziamento della dignità umana, intende tale concetto non ristretto al "lavoro retribuito economicamente", ma come lavoro inteso come generale espressione di un impegno in cui le doti personali trovano una manifestazione oggettivamente riconoscibile. Considerato in questa accezione larga, posso trovarmi d'accordo sul nesso lavoro-dignità. Meno d'accordo se con "lavoro", va intesa l'idea di "fatica". Dal mio punto di vista la fatica non è un valore positivo, ma un male necessario, un surrogato della mancanza di talento nell'esecuzione di un'attività. Quanto più ho talento quanto meno faticherò a realizzare un'opera. Pensare che la fatica sia un valore porterebbe all'assurdo di pensare che una composizione musicale creata dal genio di Mozart abbia meno valore di un'opera creata da un mediocre dilettante, solo perchè quest'ultimo ha dovuto impegnar maggiore fatica. Il fine, il risultato finale, ha sempre più valore dei mezzi, i mezzi hanno valore solo in relazione a ciò che ad essi è estrinseco. Il sospetto è che l'idea della fatica come valore sia sorta dalla necessità psicologica di autoconsolazione verso i sacrifici e le sofferenze, che, chi più chi meno, tutti siamo costretti a provare. Le sofferenze correlate alla fatica di vivere portano chi le prova, a scopo compensatorio, a ritenere che la fatica e la sofferenza rendano le persone eticamente migliori rispetto ai fortunati, che per talento innato, o favorevoli condizioni sociali-geografiche di appartenenza, riescono a raggiungere i loro obiettivi esistenziali con più facilità. Una sorta di etica dell'invidia e del risentimento.

Considerato come attività volta a contribuire al bene comune, non solo in senso materiale ma anche spirituale, espressione della personalità individuale, dei suoi talenti, e soprattutto considerato a prescindere dalla retribuzione economica, ha un senso l'articolo 1 della costituzione che pone il lavoro come fondamento primario della repubblica. Ciò però non basta a dissipare le mie perplessità su tale formula. Sia per l'equivocità del concetto di lavoro, che al contrario dell'orientamento prevalente del forum, viene intepretata nel senso comune come lavoro retribuito, tagliando fuori dal fondamento della repubblica attività culturali non stipendiate o il volontariato (volendo contrapporsi a questo punto di vista ad essere visto come mezzo e non come fine dovrebbe essere non tanto il "lavoro", quanto il "denaro"), sia perchè, anche accettando l'accezione ampia del "lavoro", si finirebbe pur sempre col porre come valore primario un'attività, che come tutte le attività, i movimenti, rientra pur sempre nel piano dei "mezzi" mentre ciò che più conta dovrebbe essere il fine a cui le attività tendono, ed allora il fondamento della repubblica, dello stato, dovrebbe coincidere con il fine per cui lo stato viene creato dagli uomini. Questo fine è la tutela della libertà e del benessere dei cittadini, anche nel contesto del tempo dello svago e del riposo. Quindi dovessi essere chiamato io a modificare l'articolo, scriverei "...fondata sul valore della libertà e del benessere materiale e spirituale della persona...", o qualcosa del genere
#499
Tematiche Filosofiche / Re:Realtà e rappresentazione
06 Novembre 2016, 17:25:41 PM
Sgiombo scrive

"Mi sembra che tu distingua "sensazione" come mero evento fenomenico (passivo; aggettivo che presuppone però già la realtà di un oggetto agente e un soggetto paziente che sarebbe da dimostrare; oppure da ammettere, come faccio io, che ci si crede arbitrariamente, letteralmente "per fede") e "percezione" come attenzionamento, considerazione teorica (attiva da parte del soggetto; sempre da dimostrarsi previamente o credersi fideisticamente), che per me è soltanto un' ulteriore sensazione fenomenica o un insieme di sensazioni fenomeniche (mentali in questo caso) che accadono "in aggiunta" alla mera sensazione (materiale o anche mentale)."



Esattamente, la penso così. La distinzione percezione-sensazione è la base fondamentale del mio discorso. In assenza di questa distinzione sarebbe a mio avviso impossibile giustificare la capacità che ha la sensazione di modificare il corso normale della percezione dell'oggetto. Quante volte ci sembra di percepire una figura e poi, con l'immissione di nuovi dati fenomenici riconosciamo che la figura corrisponde a un oggetto diverso da quello percepito inizialmente?  E tale situazione presuppone da un lato il protendersi della percezione al di là del contatto fisico del singolo lato con i campi sensoriali del corpo soggettivo, che immagina lati nascosti in sisntesi con quello appreso attualmente, ed è questa anticipazione che poi può venir confermata o "delusa, dall'altro l'esistenza di un'alterità esteriore che costringe l'io percepiente a modificare i prori schemi e regole percettive. Se l'Io percepiente fosse un Soggetto assoluto, divino, non limitato da alcunchè di esterno a lui, non troverebbe alcuna necessità di tale modifica, nè ovviamente sarebbero possibili degli errori da correggere, la realtà oggettiva conciderebbe pienamente con la visione soggettiva che l'uomo ne avrebbe. Ecco perchè, pur a mio avviso all'interno di una tesi secondo me errata, la soluzione teologica di Berkeley era perfettamente coerente e consequenziale internamente con i suoi presupposti. Una volta identificato il reale con i fenomeni, annullando la distinzione tra il soggetto ed un'oggettività che lo limita, occorreva ammettere la possibilità che il soggetto umano, cioè un soggetto imperfetto, contingente, scomparisse, e fosse allora necessario ammettere l'esistenza di un Soggetto percepiente eterno e che  non potrebbe scomparire, Dio, per salvaguardare l'esistenza del reale. Almeno per come mi pare di aver capito Berkeley, pur non essendo d'accordo con le premesse, la conclusione religiosa è coerente con essa. Volendo fare una battuta si potrebbe dire, citando il Polonio di Shakespeare, "è follia ma c'è del metodo"!







Green demetr scrive

"Siamo dunque totalmente d'accordo sull'errore naturalistico-cosmologico, ma non sul carattere esistenziale, che per me è appunto metafisico e per te antropologico.

(tra l'altro in cosa consisterebbe questo carattere antropologico tuo? forse lo scoprirò in futuri 3d, o forse ne hai già parlato e non ricordo...ehmmmm)"




Sicuramente ne riparlemo o perlomeno me lo auguro. Per ora ci tengo a puntualizzare che nulla è più lontano da me che contrapporre una centralità dell'antropologia rispetto all'esplicitazione dello sfondo metafisico di ogni possibile questione ontologica. Proprio il fatto che la gnoseologia presuppone la considerazione della categorie fondamentali che costituiscono l'essere umano, coscienza, corpo, psiche ecc. ed in particolare il concetto di intenzionalità, e dunque di libertà dell'Io che trova nella percezione la prima, parziale, manifestazione, stanno per me a mostrare che l'uomo soggetto della conoscenza possiede una complessità, che lo rende sfuggente ad ogni riduzionismo che lo considera come mera oggettività fisica,  ignorando che proprio l'intenzionalità apre alla necessità di ammettere una dimensione spirituale, dunque metafisica, fondamentale per capire tale complessità. Ricordiamo sempre che la fenomenologia, e questo è proprio l'aspetto che la rende ai miei occhi così fondamentale e convincente, nasce in polemica con l'assolutizzazione positivista ed empirista delle scienze di fatto naturalistiche, naturalismo che di fronte a cose come "visione d'essenza" griderebbe scandalizzato al ritorno della metafisica classica e medioevale
#500
Tematiche Filosofiche / Re:Realtà e rappresentazione
29 Ottobre 2016, 23:03:11 PM
Green demetr scrive

"A mio parere fai il solito errore su cosa sia l'idealismo, che non è una posizione rappresentazionalista monista, ma piuttosto una RIVELAZIONE STORICA.

Infatti la posizione critica gnoseologica dell'intenzionalità, è identica, e concordiamo totalmente.

Non concordiamo, o io non concordo su Husserl (visto che in realtà mi sembri anche tu d'accordo sul carattere positivo della sintesi), sul carattere passivo della sintesi. Per Husserl l'oggetto chiede di essere visto in un determinto delta di tempo. Questa mossa, insensata a mio parere, serve al filosofo proprio per evitare una forma trascendente, in cui anche l'io si formi in quanto "proiezione divina", e dunque per stare in una dimensione totalmente anti-metafisica, di sospensione del mondo.

Questo trascendentismo idealista probabilmente viene scambiato come solispsimo percettivo, quando invece è il contrario.
Il trascendente viene dato come epifania proprio nel suo scontro con il reale. Quindi tra Noumeno (cosa in sè) e Dio si situerebbe l'uomo, con la sua intenzionalità attiva.

Per Husserl non esistendo alcun Dio fra L'uomo e il noumeno si porrebbe una dimensione (non so quanto critica, a me pare ugualmente metafisica) intenzionale ribaltata, come se fosse l'oggetto a volersi far conoscere, e non come se l'uomo volesse conoscersi tramite la negazione storica delle sue intezioni.(ma allora dico io è come se fosse l'oggetto DIO. non so se mi spiego).

Ora io non so se questo sia anche il tuo caso, non riesco a desumerlo dalla tua posizione, che mi sembre "semplicemente" quella di salvare il reale in maniera critica. Se la limitiamo solo a quello, senza aprire appunto il problema del trascendente o metafisico che sia, siamo in totale accordo.
"




La percezione è un atto di esperienza vissuta, un "Erleben", attivo, intenzionale, proprio in virtù del suo tendere alla visualizzazione anticipante dei lati nascosti dell'oggetto percepito, ed in questo visualizzare lati nascosti, in virtù di schemi associativi via via interiorizzati, il soggetto percepiente mostra un certo livello di autonomia dalla passività, che di per sè dovrebbe limitarlo alla ricezione del lato che l'oggetto gli mostra a livello di contatto meramente fisico. Tuttavia la percezione è fattore necessario ma non sufficiente per il darsi della cosa come "fenomeno". Se fosse sufficiente allora si dovrebbe parlare di "sintesi attiva". Invece la percezione, senza un contenuto fenomenico che riceve dagli stimoli della sensazione, resterebbe solo un'intenzionalità vuota, astratta, indeterminata, essa ha bisogno della sensazione, nella quale il soggetto subisce passivamente il contatto con l'oggetto, che offre i contenuti concreti della sintesi e costringe la percezione a un costante riorientamento dei suoi schemi associativi, che devono essere aggiornati in relazione ai nuovi stimoli che l'oggetto ci comunica. In fin dei conti anche la dicitura "sintesi passiva" la trovo scorretta, perchè non c'è pura passività nè pura attività, ma interrelazione di passività e attività, attività sintetica dell'io che collega il lato della cosa attualmente percepita con i lati nascosti, passività di fronte all'oggetto che disvelandosi mostra aspetti nuovi di sè che costringono l'io a modificare le sue strutture interpretative. Interessante è che tutto ciò prepara le basi dal passaggio dalla pura gnoseologia all'ontologia, o meglio alla contestualizzazione della prima all'interno della seconda. Perchè questa unità di attività e passività altro non è che il correlato gnosologico di una condizione ontologica dell'essere umano, caratterizzato dalla sintesi da un lato, di coscienza e libertà (che porta a rivolgerci intenzionalmente verso l'oggetto, a dargli un senso), corporeità e finitezza dall'altro, che rende necessario il contatto fisico con l'oggetto di fronte al quale l'Io è passivo. Cioè l'autonomia seppur relativa degli oggetti rispetto al soggetto rispecchia la condizione ontologica di finitezza (in termini scolastici potremmo dire anche "imperfezione") dell'uomo, il suo non essere ente assoluto. Come giustamente notato, la teoria fenomenologia dell'intenzionalità presuppone come fondamentale la temporalità: la percezione di un oggetto è sempre diacronica, l'apprensione di un singolo lato accade in un certo istante temporale, e gli schemi associativi di cui la percezione si serve sono residuo di esperienze passate conservate nella memoria. La finitezza ontologica dell'uomo fà sì che la sua coscienza sia strutturata come temporale e ciò vuol dire che la necessità di un substrato gnoseologico di passività è data da tale temporalità, gli schemi soggettivi vanno modificati in quanto il passato va adeguato alla conoscenza dell'oggetto reale, cioè presente (agostinianamente, solo il presente è reale).

Al contrario, ipotizzando l'esistenza di una mente divina, assoluta, sovratemporale come soggetto rappresentazionale, allora la passività dovrebbe scomparire, perchè gli oggetti non potrebbe mostrare lati nuovi, inizialmente nascosti, che modificherebbe la struttura della soggettività, perchè tale soggettività avrebbe una visione IMMEDIATAMENTE assoluta e perfetta dei suoi oggetti. Tutto ciò mostra come l'autonomia dell'oggetto che sembra quasi per un'intenzionalità "al contrario"  muoversi attivamente volendo farsi conoscere da noi, non deve farci pensare ad un'indipendenza metafisica del mondo esterno, dell'oggettività, un realismo metafisico, come implicazione della teoria dell'intenzionalità. Tale autonomia dell'oggetto rispetto al soggetto non è un'autonomia assoluta ma solo, in nome della relativizzazione della gnoseologia all'interno dell'ontologia, conseguenza della limitatezza del soggetto in questione, l'uomo, mentre non potrebbe esserci autonomia di un mondo oggettivo in relazione ad un Soggetto, una Coscienza divina assoluta (a prescindere dal supporla esistente o meno). Cioè la diatriba idealismo- realismo va risolta non sul terreno meramente gnoseologico, dove pure sorge, ma su quello ontologico e metafisico che chiarifica la natura del soggetto conoscente in questione. Ogni filosofia, compresa la fenomenologia a prescindere dalla lettera esplicita di Husserl, è satura di potenzialità metafisica (perchè a mio avviso qualunque critica della metafisica è pur sempre metafisica). Ma nella fenomenologia, che pone la messa in rilievo della coscienza soggettiva come base evidente di ogni discorso sul reale, tale metafisica a mio avviso non potrà essere una metafisica di tipo naturalistico o cosmologico, tesa a considerare il mondo esterno come realtà privilegiata d'osservazione, ma personalistico o interioristico, che dall'analisi dei vissuti della coscienza cercherà di far emergere le componenti fondamentali della persona, quell' essere che supporta in modo esistenziale e concreto l'attività della coscienza. L'ontologia fenomenologica trova nell'antropologia il suo perno
#501
Tematiche Filosofiche / Re:Realtà e rappresentazione
27 Ottobre 2016, 18:35:14 PM
Green demetr scrive

"Per me la trascendenza non può venire dal "DAS DING" alias l'oggetto prima che si dia alla percezione.
La tua teoria della sintesi passiva husserliana oggi va molto di moda.

Di certo concordiamo fortemente sul carattere di sintesi, ci discostiamo su quale sia il ruolo del percetto, passivo come nella tua teoria, o attivo come nella teoria classica dell'idealismo da Kant in poi.

Per noi metafisici essendo la trascendenza Dio (un Dio inconoscibile sia chiaro) la sintesi non potrà essere che epifania dello svolgimento del mondo storico reale. (Hegel)

In Husserl o in te sembra quasi ribaltato il procedimento per cui è lo scontro dialettico col reale, a determinare il valore della sintesi, e non quello esperenziale.
E per cui appunto l'esperenziale è questo scontro cieco con la Natura in fin dei conti.("




In realtà, nella "mia posizione" la percezione non è un vissuto passivo, ma attivo. Anzi, proprio il carattere attivo, o meglio intenzionale, della percezione, rende possibile il discorso realista sull'autonomia degli oggetti percepiti rispetto all'Io percepiente, anche se capisco che messo così il discorso può apparire paradossale. L'autonomia è costituita dalla capacità degli oggetti di comunicare stimoli all'Io, che si trova  costretto, come nel mio esempio del signore che corregge la sua percezione sulla persona davanti a lui coi capelli lunghi, a modificare gli schemi associativi che regolano le sintesi percettive. Ma perchè ci siano modifiche occorre che ci sia qualcosa che subisce tale modifica, nello specifico, la "presunzione" da parte della percezione della corrispondenza tra il proprio contenuto fenomenico e la realtà oggettiva trascendente. Cioè, non ci sarebbe alcuna necessità di modificare i nostri schemi associativi che la percezione utilizza se quest'ultima si limitasse a registrare passivamente ciò che la sensazione comunica. Al contrario la modifica degli schemi diviene necessaria nel momento in cui quegli schemi si sono rivelati inefficaci al fine dell'apprensione della realtà oggettiva, e tale rivelazione si riferisce al tentativo del soggetto percepiente di operare una sintesi anticipativa, di unire sinteticamente il lato dell'oggetto che cade attualmente sotto i nostri occhi, con i lati dell'oggetto nascosti, come il volto di una persona di cui per ora vediamo di spalle, ma che nel futuro, modificando la posizione spaziale del nostro corpo nei confronti dell'oggetto percepito o dell'oggetto percepito stesso, diverebbero contenuti percettivi attuali. Io riconosco che gli schemi associativi erano inadeguati perchè essi hanno portato a elaborare delle anticipazioni sulla forma complessiva e unitaria dell'oggetto che i nuovi dati sensitivi hanno mostrato come inadeguati. Se invece la percezione fosse passività, mera risultante o sommatoria passiva dell'accumulo di sensazioni provenienti dall'esterno che entrano in contatto con la nostra soggettività, allora essa dovrebbe limitarsi ad un'espansione quantitativa, qualcosa che s'ingrandisce quanto più le sensazioni presentano nuovi dati, mentre resterebbe inspiegata la necessità, che invece riconosciamo come costante e concreta, di una riformulazione qualitativa dei nostri schemi associativi ed aspettative sulla realtà fenomenica. Noi modifichiamo le nostre aspettative perchè queste aspettative le abbiamo, le abbiamo perchè la percezione non si limita ad apprendere il lato dell'oggetto che abbiamo sotto gli occhi, ma lo trascende elaborando la visione dell'oggetto nella sua interezza, comprendente anche i lati per ora nascosti, e questa tensione verso il trascendimento del "qui e ora" è un'attiva presa si posizione del soggetto sulla realtà, cioè ciò che va inteso come "intenzionalità".

Dunque la percezione è attività intenzionale, ma proprio perchè tale, cioè rivolta a dare un senso oggettivo all'esperienza del reale non può essere arbitrarietà, ma motivazionalità regolata dalla passività delle sensazioni che l'oggetto ci comunica. Ragion per cui, trovo fuori luogo le posizioni di tutti coloro che hanno visto la dottrina husserliana fenomenologica della coscienza intenzionale come il ritorno a un idealismo soggettivo, invece penso che sia un realismo critico la posizione gnoseologia più coerente con tale dottrina, almeno per quello che mi è sembrato di comprendere della fenomenologia husserliana
#502
Rispondo ad Anthonyi

Credo ci sia un equivoco, forse mi sono spiegato male. Non volevo in alcun modo criticare dal punto di vista etico le persone che decidono di esprimere in modo pubblico il loro voto. Io poi personalmente sono uno che non si fà molti problemi a parlare delle mie idee politiche o anche a manifestare il mio voto con familiari, amici, conoscenti. Non c'è nulla di sbagliato o illecito in ciò. Solo che occorre tutelare la libertà, non solo di chi intende manifestare le proprie idee o il proprio voto, ma anche la volontà di persone, magari più riservate di me da questo punto di vista, di tenersi per sè tutto ciò, anche questo pienamente legittimo. La segretezza non è un obbligo, ma comunque un diritto. Questo in linea di principio. Più in particolare, pensando a situazioni in cui rendendo manifeste le proprie simpatie, facendosi vedere mentre si va a votare alle primarie di un partito X, questa persona potrebbe, specie nel contesto di piccole città dove tutti sanno tutto di tutti, avere problemi con i propri superiori nei luoghi di lavoro, con i colleghi, nelle scuole negli uffici, in famiglia, in generale con persone che hanno idee opposte al partito per cui egli ha votato alle primarie e magari hanno forti pregiudizi ed ostilità verso chi simpatizza per quel partito. Questi sono scenari sempre possibili e che non vanno sottovalutati. Ecco perchè la segretezza è basilare in ogni democrazia, e le primarie non possono essere un eccezione che contravviene a questo fondamento, specie nel caso di renderle, come vorresti tu, renderle obbligatorie per ogni partito, cioè istituzionalizzarle. Le primarie svolte in luoghi pubblici precludono il diritto di partecipare alle persone che preferiscono restare anonime, o comunicare il suo sostegno al partito solo a chi vuole comunicarlo, e non chiunque passi di là in strada o in piazza e osserva chi sta in fila. Le primarie come ogni elezione rispetti il principio di segretezza. Poi ovviamente ciascuno è libero di comunicare di aver partecipato se vuole, e a chi vuole, rispettando la libertà di scelta di tutti da questo punto di vista
#503
Citazione di: anthonyi il 23 Ottobre 2016, 11:35:10 AM
Citazione di: davintro il 20 Ottobre 2016, 22:12:13 PMpersonalmente dissento dallo schema, molto sostenuto nel senso comune, per cui il maggioritario coinciderebbe con la governabilità e il proporzionale con la rappresentanza. Io mi ritengo convintamente maggioritarista, ma non in nome della "governabilità", bensì proprio della rappresentanza, che per me coincide col rispetto più completo possibile della volontà popolare. Perchè mentre nel maggioritario la volontà popolare si esprime sia nella scelta delle persone fisiche da eleggere in parlamento (tramite i collegi uninominali) sia delle idee che quelle persone incarnano, il proporzionale permette di scegliere solo l'idea, incarnata dal partito votato, ma non le persone concrete, che vengono selezionate nelle liste dalle segreterie di partito. La volontà popolare è più rappresentata nel maggioritario, dove si esprime sia su uomini che idee, non solo idee. E con il proporzionale i governi sono scelti con accordi sucessivi alle elezioni dai partiti, ed è possibile che un partito A formi una coalizione di governo con un partito B che gli elettori del partito A non avrebbero mai accettato, mentre con il maggioritario, che permette l'elezione diretta dei parlamentari, si crea per forza di cose una maggioranza di governo che corrisponde all'indicazione della maggioranza degli elettori. Anzi, invece dal punto di vista della "governabilità" il maggioritario non dà necessariamente più garanzie del proporzionale, in quanto, come la nostra storia politica recente mostra, la necessità di vincere nei collegi porta i partiti più piccoli, per entrare in parlamento, ad entrare in coalizioni con partiti più grandi, col rischio di creare coalizioni spesso litigiose e poco coese, mettendo a repentaglio la governabilità. Comunque, proprio ponendo la rappresentanza come principio guida primario rispetto alla goveranabilità, sono per un modello maggioritario "attenuato", che riservi una parte seppur piccola e minoritaria al proporzionale, tenendo conto dell'importanza del ruolo storico e culturale del voto ai partiti e considerando ingiusto che partiti con importante seguito elettorale ma poco vincenti nei singoli collegi uninomali, debbano essere tout court esclusi dal parlamento. Esempio classico, un partito importante e nobile, come i liberaldemocratici inglesi, che pur perdendo sempre in quasi tutti i colleggi maggioritari contro i conservatori e i laburisti, ottiene comunque molti voti ed è giusto che abbia suoi rappresentanti. Se non si fosse capito, il mio sistema ideale è il Mattarellum italiano in vigore dal 1993 al 2006 a prevalenza maggioritaria ma con piccola quota al proporzionale La governabilità è data a mio avviso non tanto dal sistema elettorale, ma dal senso di responsabilità istituzionale e maturità dell'opposizione, che oltre alla possibilità di intervenire, come co-protagonista decisionale assieme alla maggioranza, nella discussione e nel processo di modifica delle leggi dibattute in parlamento, a cui si deve dare un tempo delimitato, accetti, una volta scaduto il tempo della discussione, il principio del criterio di maggioranza senza trascinare, tramite tecniche ostruzionistiche all'infinito il dibattito su una legge paralizzando la vita politica di un paese, criterio di maggioranza che rispecchia il principio di maggioranza che è il cardine di ogni democrazia possibile
Caro davintro, la mia sensazione è che tu identifichi il maggioritario con il sistema uninominale che vedi capace di indicare la persona preferita dai cittadini. Al riguardo non mi trovi molto d'accordo, l'uninominale è tipicamente caratterizzato da un gran numero di seggi certi in funzione delle tendenze politiche del territorio. La vera scelta della persona c'è nel caso in cui ci siano delle primarie in cui i cittadini scelgono i candidati da presentare, ma questo dipende dal funzionamento dei partiti. In realtà è nei sistemi a collegio nazionale che puoi avere nel sistema elettorale la scelta delle persone tramite l'espressione delle preferenze. Io comunque sono in generale critico nei confronti dei maggioritari di tipo territoriale (Uninominale e a piccoli cluster) proprio per la ragione per la quale questi vengono sostenuti, cioè il legame con il territorio, che per me favorisce la tendenza da parte dell'eletto ad assumere atteggiamenti di difesa del suo territorio che gli fa perdere una visuale globale delle tematiche.

D'accordo sull'idea delle primarie come fattore che, lasciando scegliere ai cittadini non solo il parlamentare, ma anche i candidati di ciascun partito, alimenta notevolmente il tasso di rappresentatività, dunque di democrazia, nell'elezione del parlamento. Ma c'è una condizione fondamentale. La libertà del voto coincide con il principio di segretezza. Ora, le primarie intese in un certo modo rischiano di compromettere tale fondamentale principio. Perchè se i luoghi indicati per le primarie sono luoghi pubblici come seggi, gazebo, sedi di partito, chi va a votare, si mette in coda, inevitabilmente si espone allo sguardo di tutti, osservando le persone che si recano a votare per le primarie indette da un partito si può facilmente dedurre la simpatia di tali persone per quel partito. E questo può creare problemi, specie nei contesti sociali delle piccole città. Intese in questo modo le primarie annullano la segretezza del voto rendendo questo quasi, scorrettamente, una testimonianza da comunicare ai quattro venti. Il voto alle primarie dovrebbe essere rigorosamente anonimo e nascosto, penso a votazioni elettroniche on-line, magari nei siti web dei partiti che le indicono.

Il sistema delle preferenze non mi piace. Un conto è la possibilità di scegliere un candidato che rappresenta un programma politico, una lista o coalizioni di liste nel suo complesso, un 'altra è, all'interno di un singolo programma politico, esprimere un preferenza che riguarderebbe solo e unicamente l'individuo, a prescindere dal programma (dato che la lista dei candidati da cui scegliere a chi dare la preferenza condivide lo stesso programma). E allora tale sistema tende a favorire uomini che hanno una visibilità, potere e un'influenza sociale non sempre acquisiti per meriti e virtà, ma solo attraverso demagogia se non peggio, a scapito di persone meno socialmente note, ma magari più serie e meritevoli. Non a caso le preferenze sono, specie nel sud Italia, sono associate a fenomeni di clientelismo, corruzione se non di potere malavitoso. Inoltre, il sistema delle preferenze finisce con il promuovere troppa conflittualità politica all'interno dei partiti, con ciascun candidato che nella corsa ad ottenere preferenze vedrà come rivali non solo i candidati delle altre liste, ma anche e soprattutto quelli iscritti nella sua stessa lista. Tutto ciò provoca confusione, favorisce lotte intestine all'interno del singolo partito, che in questo modo potrebbe trovare difficoltà nel raggiungere un'unità programmatica e un'identità chiara e ben definita. In terzo luogo, essendo l'espressione delle preferenze per l'elettore mai obbligatoria ma facoltativa, nella maggior parte dei casi, queste non faranno la differenza, ma ad imporsi resterà l'ordine di lista stabilito dai partiti, restando così il tutto all'interno dei difetti e limiti del proporzionale (mentre nel caso dei collegi uninominali l'elettore è costretto a scegliere uno invece che un altro)

Vero che spesso e volentieri il sistema dei collegi territoriali è interpretato abilmente dai partiti facendo candidare le persone che il partito ritiene più importanti da eleggere in collegi tradizionalmente sicuri, storiche roccaforti elettorali di quel partito, sovrastando il principio della coerenza tra candidato e territorio, come nel caso di un partito di sinistra che candida in regioni rosse e facili da vincere come Emilia e Toscana persone che con quei luoghi non ha mai avuto nulla a che fare nella vita, ma che per forza devono entrare in parlamento. Tuttavia penso che tale problema possa essere risolto introducendo dei vincoli che in qualche modo leghino il candidato al territorio del collegio ( non so... la residenza, l'aver fatto le scuole in quella zona, un periodo minimo di lavoro, il semplice luogo di nascita...). Molto importante e condivisibile la tua critica al fatto che proprio il vincolo al territorio possa distogliere il parlamentare eletto da una visione globale della situazione nazionale, legando troppo i suoi interessi alla singola zona di elezione (specie per me che ho sempre un pò la fissa del primato della visione globale rispetto al dettaglio estraniato dal contesto, in tutti i vari argomenti). Ma sarebbe da considerare che i parlamentari non hanno la stesso margine di responsabilità e autonomia che può aver un sindaco, che si coccupa solo della città in cui è stato eletto, ma devono rispondere al loro partito che li ha candidati. E ogni partito ha una linea politica unitaria (almeno in teoria dovrebbe essere così...) decisa da organismi nazionali. In questo modo gli interessi localistici espressi dai singoli parlamentari sarebbero pur sempre armonizzati e contestualizzati in un progetto politico unitario globale e complessivo deciso dalla struttura nazionale del loro partito. Questa globalità è fondamentale, sono il primo a pensarlo, ma ha bisogno anche di essere applicata nelle varie situazioni locali, e ciò richiede la presenza di persone che hanno una conoscenza diretta dei territori, le loro problematiche, le loro risorse. Mi pare un equilibrio accettabile...
#504
Tematiche Filosofiche / Re:Realtà e rappresentazione
23 Ottobre 2016, 18:16:10 PM
Citazione di: green demetr il 21 Ottobre 2016, 14:56:37 PMPer quel che mi riguarda la discussione si è divisa i 2 tronconi. Tra chi sostiene lo scetticismo (Cannata,Sgiombo,Phil) integralmente (ma con diverse argomentazioni), tra chi lo sostiene solo non convenzionalmente (Apeiron), e chi invece lo ritiene superabile con l'argomento del soggetto esistente (Green,Maral,Davintro). In attesa di portare altre soluzioni dei vari dualismi e monismi contro lo scetticismo, che non ricordo più, e devo andare a recuperare dal Fish. Certamente sono d'accordo con te Maral che la rappresentazione non è di dominio del soggetto, ma piuttosto dei soggetti. Ma qui apriremmo il capitolo del linguaggio (sia a livello veritativo, logico-formale che sia, sia quello descrittivo metafisico, nominalista o realista che sia). Il discorso scetticista non ha la grandezza del discorso sul Mondo, ma si intrattiene con se stesso, nella semplice ma per loro fondamentale desiderio di stabilire se la realtà esista o meno. Scrivi infatti nel secondo intervento. "In ogni caso comunque la cosa è ricondotta al gioco dei suoi significati, è solo significando qualcosa (ossia affermando di sé qualcosa in rapporto alle sue negazioni) che qualsiasi cosa può concretamente esistere." Che io parafraso nella questione della corrispondenza 1:1 tra senso e realtà. Portato nella nostra discussione su Severino, ricordo che il nostro accettava la coincidenza tra il suo "apparire" e il "fenomeno" nell'accezione continentale. Probabilmente la parola apparizione sembra qualcosa di evanescente rispetto alla parola oggettività. Ma in fin dei conti l'oggettività non riguarda il campo del filosofo, perciò a mio modo di vedere sbagli a concentrarti su quello.(Che va bene solo quando critichiamo un certo modo di fare scienza. metafisico, ingenuo etc....). Il punto è se il fenomeno possa avere la qualità trascendentale a cui Davintro allude. Mi sembra infatti di essere totalmente d'accordo con il suo intervento. Davintro però mette l'accento più sul trascendente che sul quello dell'esperienza, la qualità della regolarità del contenuto mentale. Ma su cosa sia questa trascendenza non accenna. Quindi nel caso aspetto delucidazioni. A mio parere il trascendentale è quella superficie che è direttamente a contatto con la sensorialità. Al contrario di Kant o di Husserl non credo vi siano delle celle inferiori come le facoltà o l'intenzione, che decidano per essa (la percezione). Ripeto fuor di scetticismo la percezione esiste, d'altronde anche scientificamente oggi il soggetto che prima dicevamo è riconosciuto come PROPRIOCEZIONE. Ma la propriocezione è di fatto nel tempo, e quindi nello spazio, che ne decide le regole convenzionali. (dunque è del tempo storico di cui si parla, non quello assoluto, e cioè a mio parere dell'esperienza). Infatti la propriocezione tramite NEGAZIONE assume di volta in volta il carattere di IO, io non sono più in quello spazio, ora sono in questo, e nell'accumulo degli infiniti fotogrammi, egli decide formalmente di avere una esperienza. Ossia intenzionalmente si fa soggetto. A quel punto e solo a quel punto egli giudicando come tale, come soggetto cioè, il contenuto della sua percezione, potrà decidere del fenomeno. A quel punto decide che deve esistere per forza una superficie (abduzione), e a quel punto si innesta il problema se esista la corrispondenza. Ossia senso e reale hanno carattere speculare? Poichè il mondo analitico non analizza il trascendente (kant) nè il formale, ossia il carattere di presentazione NEGATIVA del contenuto(Hegel-Heideger), appunto il significato, il simbolo direbbe Lacan. A noi non rimane che stare alla soglia del gioco. Ossia nella parte inferiore, dobbiamo cari Maral e Davintro spiegare come il reale informi del sensoriale.

L'ammissione di un livello di trascendenza, o se si preferisce di di ""autonomia" del reale la considero a partire appunto dal carattere di passività che la percezione, livello basico della coscienza umana, porta con sè. Il complesso dell'orientamento percettivo non è la produzione creativa di un Io ma si costituisce in relazione all'apprensione passiva di stimoli sensibili provenienti da un mondo esterno. Se una persona proveniente dagli anni '40 o '50 venisse catapultata nella nostra epoca e poi osservasse camminare per strada davanti a lui, di spalle, una persona con dei capelli lunghi, i suoi schemi associativi lo porterebbero a percepire, cioè effettuare una sintesi anticipativa dell'immagine di una donna, perchè il suo contesto esperienziale di origine ha prodotto nella sua mente lo schema associativo "capelli lunghi-donna, capelli corti-uomo", schemi regolanti il decorso della sua percezione del mondo, aventi una provenienza culturale. Se poi la persona davanti a lui si girasse all'indietro e mostrasse al signore proveniente dal passato un volto maschile, il signore dovrebbe da qual momento in poi operare una modifica, una riformulazione degli schemi percettivi, facendo saltare l'equazione "capelli lunghi-donna". Ma a questo risultato il signore proveniente dal passato, la sua soggettività pensante, non ci sarebbe mai arrivato da solo, è stato necessario l'intervento di una realtà oggettiva, l'oggetto "corpo umano estraneo", che mostrando di sè nel decorso temporale delle percezioni lati diversi costringe il soggetto percepiente a modificare i propri schemi interpretativi. Non è cioè idealisticamente il soggetto ad applicare categorie e schemi validi aprioristicamente al di fuori dell'esperienza all'oggetto, ma è l'oggetto che con una sorta di intenzionalità "al contrario" interviene sulla mente soggettiva, che può apprendere nuovi lati, nuovi modi d'essere della realtà quanto più resta passiva nella ricezione degli stimoli sensibili con cui gli oggetti richiamano l'attenzione dell'Io. Questa è trascendenza. Questa riformulazione degli schemi associativi percettivi, che nel corso della nostra esperienza vitale è costante, è del tutto disfunzionale in relazione alla condizione di attività e creatività dell'Io nei confronti del mondo. La libera e creativa attività soggettiva, che trova più che nella conoscenza, nella volontà il suo livello di massima espressione, troverebbe la necessità di riformulare costantemente i propri schemi mentali un impaccio, una scomodità, una "perdita di tempo", piuttosto che intervenire sul mondo siamo costretti intervenire su noi stessi. Dunque tale necessità non può essere posta spontaneamente, naturalmente dal soggetto, ma imposta dai nostri limiti ontologici nei confronti di un'alterità che ci limita e ci impone costantemente di "rientrare in noi stessi" per adeguare i nostri strumenti percettivi e intellettuali ai fini dell'apprensione dei modi d'essere degli oggetti. Questo non è realismo ingenuo, ma critico poichè l'autonomia degli oggetti non viene affermata a partire da un'abitudinaria e ingenua constatazione della regolarità del presentarsi degli oggetti alla nostra coscienza, ma alla luce di una deduzione dall'ammissione di un'evidenza originaria, la nostra coscienza soggettiva. E se l'origine dell'attività intenzionale della coscienza è la percezione, e questa a sua volta si relaziona all'oggetto percepito tramite degli schemi associativi che l'Io percepiente non inventa arbitrariamente ma costantemente forma a partire dagli stimoli che gli oggetti nel loro manifestarsi a noi ci comunicano, allora occorre ammettere che la nostra soggettività cosciente è resa possibile dall'incontro con un' oggettività ulteriore che interviene su di noi. Quest'ulteriorità non è come prenserebbe una realista ingenuo ed estremo separata ed estranea alla nostra rappresentazione, alla nostra esperienza soggettiva, eppure al tempo stesso non si esaurisce nella rappresentazione in quanto ha il potere in ogni momento di modificarne le regole o gli schemi. Cioè, proprio il primato epistemologico, non o almeno non ancora, ontologico della soggettività conduce coerantemente a riconoscere un'alterità che con tale soggettività interagisce e si relaziona all'insegna della reciprocità
#505
"essere razionale", come suggerisce il termine "essere", non è una scelta, non è cioè la conseguenza di una decisione, di un atto che l'Io compirebbe in un certo istante della sua vita, bensì una disposizione, una condizione ontologica originaria. Essere razionali è la condizione che contraddistingue la natura umana, in questo senso non scegliamo di essere razionali, perchè ciò sarebbe assurdo nello stesso senso in cui  sarebbe assurdo che noi saremmo umani perchè, scegliendo tra diverse alternative avremmo scelto l'essere umani, o avremmo scelto in nostro sesso... Questo non vuol dire che la razionalità sia uno stato totalmente esteriore ed indifferente alla nostra responsabilità. La razionalità è il tratto specifico dell'umanità, poi subentra l'individualità. In quanto individui ciascuno di noi sceglie liberamente in che misura sviluppare, attualizzare questa disposizione, applicando più o meno il dubbio, la critica alle situazioni in cui si trova. Quanto più sviluppiamo la razionalità quanto più costriuiamo dei filtri entro cui valutare e controllare i nostri istinti, i condizionamenti esterni, mettendoli in discussione, riservando così alla nostra soggettività un certo margine di distacco dalle sue oggettivazioni tale che nessuna di queste si ponga come fattore causale univoco e necessitante, a cui non riusciremo a ribellarci o a dire di no. C'è dunque un circolo strettissimo tra libertà e razionalità, per cui essere razionali ci rende liberi ed al tempo stesso sta alla nostra libertà sviluppare la disposizione ad essere razionali. Il circolo è virtuoso, non vizioso, sarebbe vizioso nel caso in cui i due termini, "libertà" e "razionalità" finissero col giustificare la loro presenza rimandandosi all'infinito l'uno con l'altro. Ciò perchè uno dei due, la razionalità, precede l'altro, la libertà, che non crea l'altra ex novo, ma attualizza le potenzialità inscritte in una predisposizione che è prima delle nostre scelte, mentre le scelte potenziano, approfondiscono, ma non creano nulla dal nulla

Sintetizzando in una battuta: essere razionali non è una scelta, ma il presupposto necessario di ogni scelta possibile
#506
Tematiche Filosofiche / Re:Realtà e rappresentazione
20 Ottobre 2016, 23:33:05 PM
Lo scetticismo si può sconfiggere attraverso il metodo cartesiano (poi ripreso per un certo aspetto e sviluppato dal procedimento delle riduzioni fenomenologiche husserliane) per il quale portando all'estremo il dubbio, questo dubbio presupporebbe l'esistenza di un soggetto dubitante, dunque pensante, dunque esistente o vivente (ma già Agostino aveva anticipato questo discorso nella polemica contro gli  Accedemici, gli scettici della sua epoca). Si potrebbe pensare che allora il campo della certezza dovrebbe essere ristretto all'esistenza del soggetto pensante e dunque rappresentante la realtà, mentre l'esistenza di una realtà oggettiva dovrebbe essere lasciata nell'oscurità, nell'arbitrarietà di qualunque pretesa di giudizio scientifico o descrizione. Ad evitare tale rischio interviene l'idea dell'intenzionalità per la quale coscienza e mondo non sono realtà dualisticamente estrinseche o separati tali che la certezza del riconoscimento della prima resterebbe indifferente a qualunque discorso sul secondo. Se la coscienza è essenzialmente intenzionalità, coscienza sempre di "qualcosa", allora non è mai chiusa in sè stessa ma correlata agli oggetti del mondo che si manifestano come contenuti dei propri vissuti. L'intenzionalità fissa una polarità "attività-passività" per cui da un lato intenzionalmente un Io si rivolge attivamente verso un mondo oggettivo attraverso prese di posizioni di tipo intellettuale, estetico, volontario, dall'altro lato questa attività trae la sua base dalla percezione, che non è solo attività dell'io percepiente, ma presupone anche una passività. Una passività per la quale la percezione di un oggetto è costantemente rifondata e modificata dalla ricezione di stimoli esterni che colpiscono l'attenzione dell'Io portandolo a rivolgersi verso contenuti che smentiscono le aspettative della sintesi anticipativa che la percezione determina. Questa possibilità che il mondo smentisca le aspettative che su di esso il soggetto si crea nel corso del flusso delle percezioni attraverso la passività delle sensazioni testimonia l'esistenza di un'alterità, un'ulteriorità del mondo che interviene nella costituzione della coscienza a partire dalla base percettiva. Diciamo che mi troverei d'accordo con il "realismo trascendentale"... la certezza del soggetto pensante può essere trasferita alla realtà oggettiva, spogliando quest'ultima dal complesso di giudizi che nell'atteggiamento comune, naturale rivolgiamo su essa, atteggiamento ingenuo in cui non tematizziamo il problema della corrispondenza tra nostra rappresentazione e realtà e pensiamo, per abitudine, che le cose oggettive coincidano pienamente con i contenuti percettivi una volta che di questi ultimi si è stata accertato un certo livello (ovviamente stabilito in modo arbitrario) di regolarità, e limitandoci alla certezza che una realtà X indeterminata comunque esiste come fattore di fronte al quale la coscienza passivamente si pone e da questa passività fondare la percezione, che essendo un vissuto immanente, soggettivo, partecipa della certezza della coscienza. "Realismo" perchè riconosce l'esistenza di questa trascendenza (trascendenza non in senso teologico, verticale, ma gneoseologico, orizzontale), ma non "ingenuo", bensì "trascendentale" perchè ci si limita ad ammetterne un'esistenza generica, sufficiente a riconoscerla come necessaria per la costituzione della coscienza soggettiva intenzionale, che la critica dello scetticismo manifesta come presenza di un'evidenza originaria, a partire dallo stadio primordiale di tale intenzionalità, la percezione, dove attività e passività, immanenza e trascendenza, si incontrano interagendo fra loro
#507
personalmente dissento dallo schema, molto sostenuto nel senso comune, per cui il maggioritario coinciderebbe con la governabilità e il proporzionale con la rappresentanza. Io mi ritengo convintamente maggioritarista, ma non in nome della "governabilità", bensì proprio della rappresentanza, che per me coincide col rispetto più completo possibile della volontà popolare. Perchè mentre nel maggioritario la volontà popolare si esprime sia nella scelta delle persone fisiche da eleggere in parlamento (tramite i collegi uninominali) sia delle idee che quelle persone incarnano, il proporzionale permette di scegliere solo l'idea, incarnata dal partito votato, ma non le persone concrete, che vengono selezionate nelle liste dalle segreterie di partito. La volontà popolare è più rappresentata nel maggioritario, dove si esprime sia su uomini che idee, non solo idee. E con il proporzionale i governi sono scelti con accordi sucessivi alle elezioni dai partiti, ed è possibile che un partito A formi una coalizione di governo con un partito B che gli elettori del partito A non avrebbero mai accettato, mentre con il maggioritario, che permette l'elezione diretta dei parlamentari, si crea per forza di cose una maggioranza di governo che corrisponde all'indicazione della maggioranza degli elettori. Anzi, invece dal punto di vista della "governabilità" il maggioritario non dà necessariamente più garanzie del proporzionale, in quanto, come la nostra storia politica recente mostra, la necessità di vincere nei collegi porta i partiti più piccoli, per entrare in parlamento, ad entrare in coalizioni con partiti più grandi, col rischio di creare coalizioni spesso litigiose e poco coese, mettendo a repentaglio la governabilità. Comunque, proprio ponendo la rappresentanza come principio guida primario rispetto alla goveranabilità, sono per un modello maggioritario "attenuato", che riservi una parte seppur piccola e minoritaria al proporzionale, tenendo conto dell'importanza del ruolo storico e culturale del voto ai partiti e considerando ingiusto che partiti con importante seguito elettorale ma poco vincenti nei singoli collegi uninomali, debbano essere tout court esclusi dal parlamento. Esempio classico, un partito importante e nobile, come i liberaldemocratici inglesi, che pur perdendo sempre in quasi tutti i colleggi maggioritari contro i conservatori e i laburisti, ottiene comunque molti voti ed è giusto che abbia suoi rappresentanti. Se non si fosse capito, il mio sistema ideale è il Mattarellum italiano in vigore dal 1993 al 2006 a prevalenza maggioritaria ma con piccola quota al proporzionale

La governabilità è data a mio avviso non tanto dal sistema elettorale, ma dal senso di responsabilità istituzionale e maturità dell'opposizione, che oltre alla possibilità di intervenire, come co-protagonista decisionale assieme alla maggioranza, nella discussione e nel processo di modifica delle leggi dibattute in parlamento, a cui si deve dare un tempo delimitato, accetti, una volta scaduto il tempo della discussione, il principio del criterio di maggioranza senza trascinare, tramite tecniche ostruzionistiche all'infinito il dibattito su una legge paralizzando la vita politica di un paese, criterio di maggioranza che rispecchia il principio di maggioranza che è il cardine di ogni democrazia possibile
#508
Tematiche Filosofiche / Re:La nave di Teseo
08 Ottobre 2016, 01:38:51 AM
Citazione di: Sariputra il 06 Ottobre 2016, 16:48:07 PMSe si nega identità , se non in senso convenzionale, a qualsiasi cosa bisogna logicamente negarla anche al portatore delle parti. Davintro sostiene che l'identità è l'Idea della "nave di Teseo"e l'idea, essendo immateriale,prodotto dello "spirito", è quel qualcosa che permane, che non muta e che non si dissolve. Ma lo spirito è distinguibile dal portatore delle parti? Questo perchè anche questo spirito appare una costruzione di parti ( Coscienza, pensiero, volontà, sensazioni,inconscio,ecc.) e non è possibile il suo agire in assenza di una delle parti, esattamente come la nave di Teseo non può veleggiare per mari, senza il timone, ossia una sua parte. Si può affermare che lo spirito è un tutt'uno e che le sue parti sono solo apparentemente parti, ma questo mi sembra un espediente perchè anche la nave di Teseo , quando naviga per i mari, funziona come un tutt'uno; certo non è possibile vedere il timone andare di qua e la vela fare un'altra rotta di là. Ogni cosa sembra agire come un tutt'uno, in presenza delle sue parti funzionanti e legate in quella specifica forma. Però al mutare della funzionalità e della forma il portatore delle parti non riesce più a funzionare come un tutt'uno, con la stessa identica modalità precedente. Una madre privata dei ricordi non può certo funzionare ancora come madre. Funzionerà , ma non nella stessa idea precedente. Lo " spirito" poi lo ritengo una congettura della mente. La negazione della sostanzialità dell'identità ha rilevanza come esclusione di interpretazioni arbitrarie e congetture del reale. In assenza di interpretazioni arbitrarie e di congetture sull'identità " nave di Teseo" la nave è convenzionalmente accettata come reale. Però deve essere fondata la consapevolezza che questa identità è esistente solo in senso convenzionale e così per analogia l'identità di tutto ciò a cui viene attribuita un'identità. L'identità non può essere fondata in se stessa, ma sempre, mi sembra, viene ad essere fondata da colui che la designa, con la consapevolezza che anch'io che la designo sono designato.Essa non ha esistenza al di fuori della conoscenza e dell'attribuzione di funzionalità dell'agente esterno alle sue parti. L'identità "nave di Teseo" si sorregge sull'identità "Teseo", che si regge sull'identità "Eroe mitico" e così via all'infinito in un gioco di specchi che eternamente si riflettono. Forse...Sari non è Sari, non è un'identità fondata in se stessa, ma un processo dinamico in divenire delle "parti", mentali e fisiche, che lo compongono. Convenzionalmente Sari è certamente Sari, perchè correttamente designato da altri come colui che è Sari. Sono due piani diversi in cui "vive" l'identità di Sari. Uno è il piano di Non-identità di Sari come Sari, in quanto non è possibile attribuire alcuna sostanza all'idea di Sari; l'altro è il piano in cui l'identità Sari ( o quella "nave di Teseo")è certamente Sari , di cui è possibile leggere queste esternazioni e rifiutarle o accettarle. Quest'ultima è l'identità attribuita , l'altra è l'identità non-identità non attribuile se non come congettura.

Coscienza, pensiero volontà, sensazioni...  possono essere considerate come "parti" dello spirito solo in senso metaforico, figurato, non reale. Il concetto di parte ha un senso reale solo se si parla del piano materiale, il piano nel quale qualcosa occupa uno spazio ed occupandolo esclude l'occupazione dello spazio ad un'altra cosa, producendo una separazione che fà sì che l'unità materiale sia sempre un'unità esteriore e fittizia. Pensiero, volontà ecc. sono diverse forme di espressioni della spiritualità, non sono propriamente "parti", non seguono il principio fisico, dell'impenetrabilità dei corpi, ma sono nel complesso della vita interiore della persona costantemente intrecciati, reciprocamente condizionati, tra loro vi è una compenetrazione, e questa compenetrazione è il segno della tendenza all'unità data dalla nostra componente spirituale.

Le convenzioni non sono l'identità, ma i suoi limiti, in quanto riguardano dei ruoli che assumiano in relazione al mondo esterno, alla società, non sono l'espressione di una forza spontanea interna alla persona, le convenzioni riguardano la superficie della persona, cioò che è visibile esteriormente, non ciò che consideriamo quando ci rivolgiamo verso noi stessi, quando nell'introspezione ci rivolgiamo verso la nostra profondità. Nell'essere umano, che in virtù della sua finitezza ontologica è sintesi di attualità e potenzialità, corrisipondente alla sintesi di spiritualità e materialità, non si deve pensare all'identità nè come qualcosa di innatamente del tutto giù compiuto, tesi che non considererebbe la dipendenza per lo sviluppo delle nostre potenzialità naturali da certe condizione offerte dal mondo esterne, nè come una mera convenzione o illusione, tesi che non considera la capacità dell'Io attraverso la ragione di riflettere su se stesso, valutare quanto un'azione, un impulso, possa essere coerente con i nostri valori e la nostra personalità, restando libero di poter seguirlo o reprimerlo. L'identità nell'uomo va vista come una sorta di tendenza interiore a realizzare il proprio sè in un certo modo e la nostra identità si costruisce quanto più tale tendenza viene coerentemente seguita nel corso della vita e si perde quando più disperdiamo la nostra vita nel caso della frammentarietà delle situazioni, non seguendo un riferimento morale costante che ci rappresenti. Cioè nell'uomo l'identità è qualcosa che si realizza "più o meno" in base alla forza psichica ed alla razionalità degli individui. Ma questi non sono limiti riguardanti il concetto di "identità" considerato in sè, ma solo l'identità di un ente imperfetto e limitato come l'uomo. L'identità umana non è l'identità tout court, ma solo una sua particolare declinazione
#509
Tematiche Filosofiche / Re:La nave di Teseo
06 Ottobre 2016, 15:07:32 PM
L'esempio della nave di Teseo a mio avviso mostra come l'identità, intesa come fattore unificante in modo organico un ente, abbia una natura spirituale e immateriale. La nave è un oggetto fisico, e la sua materialità la rende corruttibile, divisibile, e dunque modificabile, cioè alcune parti possono essere sostituite da altre, e porsi il problema di riconoscere un'identità che permane presuppone l'individuazione di un elemento unitario. Ma la materia di per sè è un fattore che conduce alla dispersione, ciò che tiene unita la materia non è materia, è forma. E la forma della nave coincide con l'idea per cui è stata progettata. Quindi si può parlare di identità della nave di Teseo facendola corrispondere all'idea della nave nella mente di chi l' ha progettata. L'idea, essendo un ente spirituale ha una sua qualità immutabile, non si corrompe, non ha "parti", se le ha ciò le deriva dal fatto che è un'idea  che si riferisce a qualcosa di materiale, cioè divisibile. L'identità intesa così trascende una mera significazione linguistica, un flatus voci, ma si costituisce con ciò che anche in oggetto fisico può essere rilevato come spirituale, l'idea all'interno della coscienza della cosa. Lo spirito porta all'unità e alla permanenza, la materia alla corruttibilità ed alla divisione. E quando ci si riferisce a enti come la nave, sintesi di materia, fisicità da un lato e spirito dall'altro, cioè la sua forma con la quale la materia è stata plasmata (mentre nell'uomo la sintesi comprende uno spirito più presente, in quanto non è solo idea statica o forma geometrica, ma attività concrete, come mente, volontà, sentimento), allora non ha senso porsi il problema di conoscere il momento esatto in cui la nave di Teseo ha smesso di essere tale, oppure stabilire se è ancora tale, non c'è cioè una divisione discreta, netta, tra ciò che muta e ciò che permane. Nella misura in cui (alla luce della componente materiale), le parti vengono sostituite, ci si allontana dall'idea per cui è stata progettata, mentre quanto più resta simile al progetto per cui era finalizzata, tanto più resta sè stessa. Quindi si può dire che la nave di Teseo può restare più o meno fedele al modello originario, che resta valido come modello regolativo. In tutti gli enti sintesi di materia e forma, fisicità e spiritualità, l'identità non è mai qualcosa che "c'è o non c'è, c'è ancora, non c'è più", ma c'è sempre "più o meno" c'è nella misura in cui il corso dell'esistenza è coerente con la natura della sua origine
#510
Rispondo a Maral

Ciò che permane di Tizio è ciò che lo rende un individuo, una realtà non-divisibile, ciò che lo rende distinto dagli altri individui, il "principium individuationis", un "per sè". La sua anima, intesa non cartesianamente come sostanza separata dal corpo, ma come sua forma, ciò che rende il corpo non materia informe, potenziale, ma corpo determinato, attualmente esistente. Questa anima personale andrebbe vista come il realizzarsi di un "progetto", che nell'uomo si costituisce come personalità che è il fine di un movimento che è già in atto sin dal nascita, una progressiva attualizzazione di potenzialità. Così come nella pianta la forma finale dell'albero è immutabile, in quanto è il fine (certo non cosciente in questo caso) del divenire già in atto nel seme. Ciò che non muta è cioè il fine a cui tende il processo di formazione spontaneo che attraversa l'ente, e che nel caso di enti finiti e imperfetti, può anche deviare e non realizzarsi completamente. Ciascuno di noi crescendo forma un modo d'essere personale distinto dagli altri che può in relazione a fattori esterni o interni essere realizzato in forme adeguate o meno. Non ha senso però chiedere in cosa consista il carattere immutabile in termini concettuali, se sia un tratto fisico o caratteriale esprimendolo in termini linguistici, perchè ciò che è definibile a parole è anche comunicabile, cioè potenzialmente appartenente ad altri enti, mentre ciò che costituisce la mia individualità sostanziale, considerata cioè in modo distinto dal resto, non può essere condivisa con altri enti. Il principio che rende l'individuo tale non possiamo nominarlo, sappiamo solo che c'è, a partire da un'esperienza interiore, l'autocoscienza, con cui riconosciamo come i nostri atti coscienti partano da un Io che si riconosce come lo stesso soggetto dei suoi atti presenti come la percezione o la volontà e dei suoi atti riferiti al passato, come i ricordi. Quest'unità soggettiva si può definire trascendentale in quanto è al di là di qualunque proprietà concettuale linguistica, che essendo potenzialmente comune a più enti appartiene al singolo individuo come accidentale. Il mio nome,  il mio status universitario, familiare, la mia nazionalità, il mio luogo di residenza può mutare, rientrano nell'accidentalità, nella contingenza, ma resto sempre un Io, questa qualifica di soggetto, intesa formalmente resta essenzialmente costitutiva del mio essere. Eppure questa formalità non va vista come vuota astrattezza, ma è concreta, perchè concretamente in atto nel corso della mia esistenza, principio soggettiva dei miei atti, mentali, sentimentali, volontari... In altre parole l'immutabilità a cui mi riferivo non va vista come un'immutabilità assolutamente reale, una realtà del tutto immutabile, ma un'immutabilità che è più un' idea regolativa, il fine del divenire che interessa la nostra individualità che può più o meno realizzarsi. In un certo senso "diventiamo immutabili"