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Messaggi - cvc

#511
Tematiche Filosofiche / Re:Cultura e controcultura
16 Maggio 2016, 11:07:27 AM
Citazione di: acquario69 il 16 Maggio 2016, 10:35:29 AM
Citazione di: cvc il 16 Maggio 2016, 09:10:47 AM
Su cosa sia la cultura, tutti quanti ne abbiamo un'idea più o meno chiara. Ma la controcultura? Il termine suona piuttosto bizzarro, qualcuno potrebbe pure averne sentito parlare poco o niente. Eppure è un concetto che circola già da tempo. Non è una di quelle parole chiave che riempiono a dozzine i discorsi quanto, piuttosto, una presenza più sfuggente e strisciante. Un qualcosa che si è infiltrato nelle nostre coscienze e il cui effetto imita un po' quello dello scoperchiamento del vaso fi Pandora. La mia è una pura ricerca mentale, non mi sono documentato prima di scrivere (forse avrei dovuto). Vediamo un po', da dove si può partire per parlare di controcultura? Forse da Socrate, sicuramente dai cinici, magari dall'inizio della filosofia stessa. Si perché controcultura dovrebbe indicare un sovvertimento dei valori riconosciuti socialmente dalla civiltà. Io però non farei partire il discorso così indietro, perché fino ad un certo tempo della nostra storia, nonostante gli esempi citati, la concezione dell'opinione pubblica era piuttosto chiara: ci sono i colti e gli ignoranti. Ma a partire dalla modernità e dal positivismo, qualcuno ha iniziato ad insinuare l'idea che era ormai inutile studiare la letteratura classica, i greci con le loro guerre e mitologie, che le scuole avrebbero dovuto anzitutto formare i giovani per il lavoro (industriale s'intende). Io personalmente non ci trovo niente di male se un operaio lavora pensando ad Achille o Ulisse, chi dice che non possa invece trovare l'input per lavorare al meglio? E dopotutto, l'organizzazione scientifica del lavoro non è forse un cane che si morde la coda? Perché devo migliorare la mia efficienza se poi sarà quella stessa efficienza a lasciarmi senza lavoro?  Mi accorgo che forse per controcultura si intende altro, e forse sono riuscito nell'impresa, non da poco, di andare fuori tema in una discussione di cui propongo il tema. Ma il concetto è che se non esistono più solo colti e ignoranti, ma anche fra i colti c'è distinzione fra una cultura vera e una falsa, come ci si raccapezza? Si studia per anni per poi ritrovarsi più stupidi di prima? Prima di pubblicare vado a leggere su Wikipedia cosa dice riguardo al termine controcultura...........
............ "Chiunque fa controcultura, quando non si accontenta del sapere istituzionalizzato e si prefigge una comprensione "altra" della vita e quindi della società in cui abita" (Wikipedia)

ome risposta ti ripropongo quello che ho scritto poco fa..

anche secondo me l'aver coscienza non puo non prescindere dal senso del tempo...e pensare che nel nostro di tempo,nella nostra epoca attuale si fa di tutto perché del passato non venga coltivata nessuna memoria,nella scuola esistono ancora le materie formative in tal senso? non mi sembra.
tutto e' indirizzato ad un indottrinamento iper specialistico adatto per forgiare atomi tecnologici idonei al mercato,iperflessibile quanto precario,perché cio che si vuole e' appunto un uomo sradicato,senza identità e per l'appunto privo di coscienza.
ma non solo la scuola...tutto e' ormai vissuto e concepito all'insegna dell'istante.

aggiungo che secondo me esiste una chiara e precisa intenzione atta a far si che le persone non debbano più pensare e sopratutto non debbano più avere senso critico (io credo che ci stanno riuscendo)

tutto deve essere solo basato sul criterio dell'utilità,dell'efficienza come dici anche tu e del calcolo..insomma macchine che producono..il sub/post-umano che avanza
Si può dire che la cultura dominante sia quella tecnologica (sul lavoro mi hanno imposto l'uso dell'iphone), e che noi stiamo facendo controcultura, perché la cultura dominante non ci soddisfa. Ma a me viene in mente un'altra cosa, non è che l'assenza di valori che spesso si lamenta non sia altro, e cioè un non riuscirsi a scrollare di dosso i vecchi valori dominanti di questa società, che hanno fallito e andrebbero superati? Mi riferisco al valore assoluto dato al benessere ed a tutto il suo corollario. Perché deve essere tutto indirizzato al benessere superfluo (c'è anche quello necessario), alla ricerca di piaceri stucchevoli, alla vanità di suscitare finto benessere, all'emotività teatrale e affettata o a quella iperrealistica e brutale? Ma non vi si interroga più su quali debbano essere i bisogni naturali dell'uomo? Chi produce decide di cosa ho bisogno, perché sa già di cosa ho bisogno: benessere, sentirmi come un re, avere un trattamento esclusivo, sentirmi importante, e altre str........anezze simili. Per ritrovare i valori occorre una controcultura che individui i valori dominanti, li sdogani e ne proponga il superamento. L'ideologia del benessere di presenta come un freno per la nostra evoluzione, perché ci lascia abbarbicati ai falsi bisogni. È anche vero che è difficile individuare i bisogni autentici e separarli da quelli inutili, però almeno provarci.....
#512
Tematiche Filosofiche / Cultura e controcultura
16 Maggio 2016, 09:10:47 AM
Su cosa sia la cultura, tutti quanti ne abbiamo un'idea più o meno chiara. Ma la controcultura? Il termine suona piuttosto bizzarro, qualcuno potrebbe pure averne sentito parlare poco o niente. Eppure è un concetto che circola già da tempo. Non è una di quelle parole chiave che riempiono a dozzine i discorsi quanto, piuttosto, una presenza più sfuggente e strisciante. Un qualcosa che si è infiltrato nelle nostre coscienze e il cui effetto imita un po' quello dello scoperchiamento del vaso fi Pandora. La mia è una pura ricerca mentale, non mi sono documentato prima di scrivere (forse avrei dovuto). Vediamo un po', da dove si può partire per parlare di controcultura? Forse da Socrate, sicuramente dai cinici, magari dall'inizio della filosofia stessa. Si perché controcultura dovrebbe indicare un sovvertimento dei valori riconosciuti socialmente dalla civiltà. Io però non farei partire il discorso così indietro, perché fino ad un certo tempo della nostra storia, nonostante gli esempi citati, la concezione dell'opinione pubblica era piuttosto chiara: ci sono i colti e gli ignoranti. Ma a partire dalla modernità e dal positivismo, qualcuno ha iniziato ad insinuare l'idea che era ormai inutile studiare la letteratura classica, i greci con le loro guerre e mitologie, che le scuole avrebbero dovuto anzitutto formare i giovani per il lavoro (industriale s'intende). Io personalmente non ci trovo niente di male se un operaio lavora pensando ad Achille o Ulisse, chi dice che non possa invece trovare l'input per lavorare al meglio? E dopotutto, l'organizzazione scientifica del lavoro non è forse un cane che si morde la coda? Perché devo migliorare la mia efficienza se poi sarà quella stessa efficienza a lasciarmi senza lavoro?  Mi accorgo che forse per controcultura si intende altro, e forse sono riuscito nell'impresa, non da poco, di andare fuori tema in una discussione di cui propongo il tema. Ma il concetto è che se non esistono più solo colti e ignoranti, ma anche fra i colti c'è distinzione fra una cultura vera e una falsa, come ci si raccapezza? Si studia per anni per poi ritrovarsi più stupidi di prima? Prima di pubblicare vado a leggere su Wikipedia cosa dice riguardo al termine controcultura...........
............ "Chiunque fa controcultura, quando non si accontenta del sapere istituzionalizzato e si prefigge una comprensione "altra" della vita e quindi della società in cui abita" (Wikipedia)
#513
Citazione di: HollyFabius il 15 Maggio 2016, 00:19:31 AM
Perché ho aperto questo 3D e perché l'ho fatto con la citazione della AI e con l'esempio della somma di parti?
Una delle mie letture giovanili trattava proprio questo argomento, la coscienza; il testo era "Godel, Escher, Bach (GEB) un'eterna ghirlanda brillante" di D. Hofstadter.
Questo testo, di solo apparente semplice lettura, affrontava il tema della coscienza da un punto di vista e con uno stile piuttosto interessante; nella ristampa di venti anni dopo in una introduzione aggiunta Hofstadter chiarì che il testo "rappresentava il tentativo di mostrare come entità animate potessero derivare da materia inanimata."
In realtà non ricordo precisamente il testo in tutti i suoi dettagli (credo che dovrò rileggerlo) ma ricordo piuttosto vagamente che il testo affrontava il tema dell'autoreferenza logica, ipotizzando che proprio dall'autoreferenzialità possa emergere la coscienza.
L'intuizione base di questa sua convinzione era legata al 'processo del saltar fuori' dall'autoreferenzialità.
In fondo, spostandoci su un piano matematico astratto, questo è un concetto abbastanza noto ed espresso prima (mi pare) da Cantor e descritto formalmente da Godel, in termini un po' imprecisi possiamo descriverlo come "usando un linguaggio non è possibile descrivere il linguaggio stesso", pena la contraddizione interna fonte logica di qualunque conclusione.
Per analizzare un linguaggio occorre, infatti, usare un meta-linguaggio che usi gli elementi del linguaggio stesso come 'oggetti'.
Questo giocare sui livelli di meta-linguaggio è il 'saltar fuori' e per ogni nuovo livello si aggiunge semantica.
Il meccanismo astratto del saltar fuori e del indagare logicamente il livello inferiore è visto come se fosse quasi la fonte, 'quasi un atomo' di coscienza. Pensiamo ad infiniti livello di meta-linguaggio con aumento di potenza descrittiva ad ogni livello.
Ecco che ritorna e assume una forma più concreta il mio 'la somma è più dell'unione delle singole parti'.

Una nota anche sull'approccio e sull'impostazione di questo mio discorso.
E' chiaro che se la coscienza viene vista come un principio, un elemento creatore da cui discende la realtà, tutto questo ragionare sulla coscienza appare un contenitore vuoto.
Solo se la coscienza viene vista come un elemento della realtà in mezzo ad altri elementi, se viene vista come un oggetto di realtà e non come principio di realtà ha senso cercare di riflettere sulla possibilità di trovare una strada in grado di raggiungere (in un futuro ipotetico) la coscienza 'artificiale'.
L'approccio è prettamente scientifico, anche se non necessariamente materialista, e corrisponde al vedere la coscienza come un oggetto misurabile e conseguentemente studiare i modi per inquadrarlo e 'misurarlo'.
Contemporaneamente però è anche un approccio prettamente ideologico. E già! Perché occorre essere consapevoli che l'approccio scientifico non è immune dalla ideologia, direi affatto.
Con questo 3D però non voglio dichiarare una convinzione positiva o negativa rispetto alla coscienza vista come principio, anzi forse sono propenso a considerare principi di realtà immateriali e ne parlerò in futuro.
Vorrei però avere le idee chiare rispetto alle prospettive metalogiche e metafisiche della AI.
In fondo trovandomi di fronte ad una macchina che superi il test di Turing vorrei, con ragionevole serenità, semplicemente credere che sia il test concettualmente sbagliato.
La scienza costruisce modelli basati su previsioni fatte a priori. Ad esempio ci sono aerei che possono compiere voli di linea senza l'intervento del pilota. Ma che succede se nel viaggio capita qualcosa che non rientra nei possibili imprevisti contemplati dal programma? Che succede se deve prendere una decisione immediata su ciò per cui non è stato impostato? In una condizione del genere un uomo che non si fa prendere dal panico inizierebbe a pensare sulle varie alternative. Una macchina si bloccherebbe e basta.
Non capisco come la coscienza potrebbe saltar fuori da un linguaggio o meta linguaggio mentre è proprio l'inverso, è il linguaggio che deriva dalla coscienza, dal ragionamento cosciente in cui si comprende che una tal cosa può essere sostituita da un simbolo, e un simbolo da un suono. Per cui se dico "pietra" il cervello umano sa perfettamente ciò cui mi riferisco, proprio come se stessi mostrando una pietra. Come potrebbe verificarsi  il processo inverso, dal linguaggio alla coscienza, proprio non lo capisco.
#514
Citazione di: maral il 14 Maggio 2016, 18:23:02 PM
Citazione di: jeangene il 14 Maggio 2016, 16:47:28 PM
In questa e in altre discussioni si fa spesso uso dei termini: "sentire"/"esperire" (in questo contesto, per me, sinonimi), "coscienza" e "autocoscienza".
Vi chiedo: che definizioni attribuireste a questi termini e in che modo li mettereste in relazione fra loro?
Dare risposta a questa domanda mi sembra tutt'altro che semplice perché, ad esempio, quando sento/esperisco qualcosa in qualche modo ne prendo coscienza (non si da mai un sentire/esperire qualcosa senza che qualcuno ne prenda, in qualche modo, coscienza), quindi "sentire"/"esperire" e "prendere coscienza" fanno in qualche modo riferimento allo stesso processo?
"Autocoscienza" poi cosa significherebbe? Il processo di prendere coscienza del del fatto di stare sentendo/esperendo qualcosa?

Grazie per l' attenzione,
jeangene
In questo contesto sentire ed esperire si potrebbero, per quanto mi riguarda considerare sinonimi, salvo diversa specificazione che potrebbe in linea di massima essere ricondotta a un'esternalità dell'esperire rispetto all'interiorità del sentire (ma in tal caso andrebbe chiarito cosa è interno e cosa esterno, cosa tutt'altro che facile e ovvia).
La differenza tra coscienza e autocoscienza mi sembra invece evidente, la coscienza riguarda il fenomeno. l'autocoscienza è invece la coscienza della coscienza del fenomeno, ossia prende la coscienza del fenomeno come fenomeno esso stesso e questo fa emergere l'esistenza di un soggetto. Per semplificare: la coscienza dice che ad esempio c'è la presenza di un albero, l'autocoscienza dice che c'è la presenza della presenza dell'albero e dunque c'è un soggetto che si rende conto di questa presenza e quel soggetto sono io. Si è spesso discusso ad esempio di quanto gli animali possano essere solo coscienti o anche autocoscienti (pare che i cani, i delfini e i corvi raggiungano un certo livello di autocoscienza) 

Citazione di: cvc il 14 Maggio 2016, 17:34:23 PM
Io credo, sperando di non saltare ancora di pan in frasca con la discussione, che siamo di fronte ad un ricorrente malinteso. Leggendo gli ultimi interventi ho sentito dire che si dovrebbe definire la coscienza, definire l'autocoscienza, definire il tutto, il nulla e così via. Ma chi ha detto che le parole identifichino con precisione l'oggetto? Il linguaggio scientifico si serve del numero e di una simbologia rigorosa per supplire alla necessità di espressione senza ambiguità alcuna. Ma chi ha mai detto che ciò possa avvenire anche nel linguaggio discorsivo? Il linguaggio è ambiguo, impreciso e a volte paradossale per natura. Quando si trasferisce l'induzione dalla matematica al linguaggio parlato si generano i paradossi russelliani e altre aporie. La domanda del topic è se si può esprimere formalmente (questo dovrebbe significare dimostrarne l'esistenza) la coscienza per poi trapiantarla sui robot attraverso il linguaggio informatico. Mi sembra evidente che ciò che chiamiamo coscienza è frutto del nostro linguaggio discorsivo, quindi un'identificazione assai astratta e imprecisa. Quindi io non vedo proprio il passaggio che porterebbe da questa astrattezza e imprecisione alla rigorosa formulazione matematica della coscienza. Senza dire che si tratta anche di un salto dal meccanico al biologico, dato che, a mio modo di vedere, la coscienza è una funzionalità vitale rispondente alle esigenze di organizzazione e adattamento del vivente. Come puo un qualcosa di non-vivo avere una coscienza?
Sì, ma anche il linguaggio matematico è un linguaggio e, nonostante il suo rigore astratto, non è detto che per questo riesca a cogliere appropriatamente la coscienza (e men che meno l'autocoscienza). I paradossi russelliani tra l'altro sono propri dell'ambito del linguaggio matematico, non del linguaggio comune (in cui non valgono) e risultano dal punto di vista logico formale. Si può anche dubitare che siano stati logicamente mai davvero risolti (la trattazione di Severino in merito è molto significativa, ma questo è un discorso che deborda dal tema).
Il problema comunque è proprio questo: si può dare una formulazione algoritmica alla coscienza? Una matematica puramente formale è un linguaggio adeguato per dare conto del fenomeno o non finisce per annegare nei paradossi? E anche ammesso che sia possibile, come si può verificare se il tentativo è riuscito?
C'è un film che ho trovato molto interessante in merito: "Lei"  (se non lo avete già visto lo potete scaricare in streaming da internet, preferibilmente nella versione inglese "Her", non doppiata). "Lei" è un sistema operativo in grado di implementarsi su se stesso, progettato dai programmatori del futuro per dare risposte significative a livello emotivo agli utenti che dialogano con lei. Forse è proprio l'aspetto emotivo ciò che più riguarda il riconoscimento di un soggetto cosciente e le cose possono complicarsi enormemente quando, come nel film, il protagonista umano finisce per innamorarsi di un software che si autoevolve continuamente su base emotiva, fino ad accedere a un grado di coscienza che va ben oltre quello umano.
Mi pare siamo fondamentalmente d'accordo  anche se a me  sembra  che i celebri paradossi di russel fossero espressi proprio in linguaggio discorsivo, cone quello del tacchino induttivista. La sua opera maggiore è stato un tentativo di dare al linguaggio discorsivo un formalismo logico matematico, presumibilmente proprio per rimediare a tali paradossi, fondando la matematica sulla logica e cercando poi di traferire tale formalismo anche al linguaggio parlato. In "Introduzione alla filosofia matematica" fa l'esempio di come le relazioni possono applicarsi anche al linguaggio. Ad esempio "padre" è una funzione uno-molti, "figlio" è molti-uno. Ma in caso di figlio unico diventerebbe uno-uno. Appare (almeno a me) evidente come il linguaggio non  possa prestarsi a tale formalismo, e la difficoltà nello stabilire relazioni non ambigue. Ad esempio la dialettica hegeliana era ispirata alla teoria dei contrari di Eraclito. Ad Hegel fu però contestato come certe antitesi da lui identificate non fossero proprio tali, non fossero ciò precisamente degli opposti.
#515
Io credo, sperando di non saltare ancora di pan in frasca con la discussione, che siamo di fronte ad un ricorrente malinteso. Leggendo gli ultimi interventi ho sentito dire che si dovrebbe definire la coscienza, definire l'autocoscienza, definire il tutto, il nulla e così via. Ma chi ha detto che le parole identifichino con precisione l'oggetto? Il linguaggio scientifico si serve del numero e di una simbologia rigorosa per supplire alla necessità di espressione senza ambiguità alcuna. Ma chi ha mai detto che ciò possa avvenire anche nel linguaggio discorsivo? Il linguaggio è ambiguo, impreciso e a volte paradossale per natura. Quando si trasferisce l'induzione dalla matematica al linguaggio parlato si generano i paradossi russelliani e altre aporie. La domanda del topic è se si può esprimere formalmente (questo dovrebbe significare dimostrarne l'esistenza) la coscienza per poi trapiantarla sui robot attraverso il linguaggio informatico. Mi sembra evidente che ciò che chiamiamo coscienza è frutto del nostro linguaggio discorsivo, quindi un'identificazione assai astratta e imprecisa. Quindi io non vedo proprio il passaggio che porterebbe da questa astrattezza e imprecisione alla rigorosa formulazione matematica della coscienza. Senza dire che si tratta anche di un salto dal meccanico al biologico, dato che, a mio modo di vedere, la coscienza è una funzionalità vitale rispondente alle esigenze di organizzazione e adattamento del vivente. Come puo un qualcosa di non-vivo avere una coscienza?
#516
Tematiche Culturali e Sociali / Re:Radici
12 Maggio 2016, 11:26:07 AM
Il tema delle radici o del ritorno alle origini è molto importante. Anche perché, questa è la mia opinione, la natura dell'uomo in sé non muta nei millenni. Sono cambiati gli apparati, l'organizzazione sociale, ma l'uomo è sempre combattuto fondamentalmente dagli stessi sentimenti: odio, amore, rabbia, tristezza, speranza, felicità. Di certo cambiano, anche se non sempre, gli oggetti dei vari sentimenti. Ciò che ci rende felici o tristi oggi è spesso differente da quello che provocava in noi le stesse reazioni in epoche lontane. Se si accetta l'idea che l'animo umano è fondamentalmente immutato, allora diventa particolarmente interessante vedere, per ciò che è consentito, come i nostri antenati reagirono per primi ai grandi problemi che ci attanagliano: la convivenza, la sussistenza, l'idea della morte, della paura, del dolore. Trovo sempre curioso come leggendo gli antichi saggi si possano trovare consigli ancora attualissimi ai giorni nostri. Shakespeare e Sant'Agostino avevano già menzionato ai loro tempi casi che potremmo definire di bullismo, un fenomeno che a noi appare figlio sei nostri tempi. Shakespeare fa dire ad un suo personaggio: "Vorrei che l'età fra i 14 e 20 anni non esistesse o passasse il più presto possibile; perché non è che un continuo rubare, menar le mani, mettere in cinta ragazze, molestare gli anziani". Sant'Agostino riferiva come i giovani di bella famiglia facessero scherzi feroci ai compagni meno disinibiti.  Allora cos'è ciò che qui giustamente si rileva, ossia l'allontanarsi dai valori e dai legami tradizionali? Io credo una risposta possa trovarsi nell'elevazione  dell'individualismo e dell'ego. Il benessere di cui godiamo ci porta a pensare di non avere bisogno di nessuno, a sentirci come entità isolate, soli in mezzo alla folla. La rivoluzione industriale ha stravolto le nostre vite in una maniera di cui fatichiamo ancora a rendercene conto. Il salario sicuro è diventato l'unica cosa che conta, la spinta ad abbandonare in massa campagne e luoghi d'origine per andarsi ad ammassare nelle città. Al diavolo i luoghi natali, l'antica solidarietà paesana e contadina, i legami con parenti e amici, la certezza dei posti immutati nel tempo che erano sempre lì ad accoglierci. Ecco, a me piace pensare che ci allontaniamo dalle nostre radici perché crediamo di non averne più bisogno ma che esse, qualora lo vogliamo, possano sempre, in un modo o nell'atro, offrirci la possibilità di riaccoglierci. Forse perché riesco a percepire il tempo più come un cerchio che come una linea retta.
#517
Citazione di: HollyFabius il 12 Maggio 2016, 09:19:25 AM
Citazione di: cvc il 11 Maggio 2016, 08:33:44 AM
Citazione di: HollyFabius il 10 Maggio 2016, 23:33:00 PM
Ieri sera al circolo degli scacchi Roberto sosteneva che nella difesa siciliana è preferibile spingere con il nero in d5 prima possibile, Francesco invece argomentava che ci sono alcune varianti specifiche dove il pericolo di questa spinta viene reso evidente, io ricordando questa conversazione ho commentato che ci sono bambini che muoiono di fame e che non era il caso di argomentare sulla spinta di un legnetto. Tutti gli astanti mi hanno dato ragione tra gli applausi.
Saltare di pane in frasca è una interessante arte, ogni tanto sostituisce le barzellette.  :)
In un certo senso hai ragione tu dato che hai proposto questa discussione e il discorso è rivolto a chi è interessato. La mia intrusione è dovuta al fatto che per me questa è appunto un saltar di pane in frasca da un esigenza, che magari avverto solo io, di trattare temi più interessanti a mio modo di vedere. Ma ripeto l'intrusione è mia ed è giusto che ognuno tratti ciò che è interessante per sé e per chi la pensa come lui. E dato che oramai ci sono aggiungo anche che credo che la coscienza agisca in un contesto di interdipendenza con le forze inconsce. Parlare di conscio o inconscio separatamente non è che abbia molto senso in quanto sono uno il complemento dell'altro. Difatti un individuo non è mai del tutto cosciente o incosciente, lo è relativamente a qualcosa ma non rispetto ad altro. Esistono poi diversi gradi di coscienza o incoscienza. La questione è infinitamente più complessa che programmare una coscienza da applicare ad una macchina che sia in grado di interagire come dotata di una propria individualità.

Quoto gli ultimi interventi di Sgiombo e Davintro
Spero di non essere stato frainteso, il mio non era un commento critico verso una supporta invasione di campo, in un forum non penso esista una 'proprietà' legata alle discussione. Insomma non era una sorta di 'questa discussione l'ho proposta io, di altro vai a parlare altrove'. Il punto è che esistono sempre argomenti più importanti ma questo non può e non deve impedirci di disquisire anche di cose di minore importanza, la discussione e la proposizione di temi non può seguire il criterio della importanza morale, altrimenti finiremmo per non parlare mai che dei due o tre temi ritenuti fondamentali.
Avrei potuto aggiungere al raccontino un finale nel quale Roberto e Francesco si sono guardati in faccia tra loro in modo stralunato, commentando: 'ma che vuole questo? Qui si gioca a scacchi, se vuoi fare cose serie impegnati altrove'.
8)
Non sono tanto orgoglioso da non ammettere una stecca. È stata un'uscita infelice, per me la questione può finire qua.
#518
Citazione di: HollyFabius il 10 Maggio 2016, 23:33:00 PM
Citazione di: sgiombo il 10 Maggio 2016, 21:34:15 PM
Citazione di: HollyFabius il 10 Maggio 2016, 21:05:51 PM

Quanto al commento sulle priorità mi pare una riflessione senza senso, che c'entrano le priorità nelle riflessioni di questo tipo? Vogliamo riparlare di questi temi quando le priorità (la cui valutazione di merito è peraltro sempre soggettiva) saranno state risolte? Quindi mai?


Rispondo:

Invece per me (oltre che suppongo ovviamente per CVC e per tanti altri) la questione delle priorità negli interessi teorici e  pratici é sensatissima; e in particolare quella circa l' interesse per la salvaguardia di un ambiente naturale compatibile con la buona salute e qualità della vita e per la sopravvivenza stessa dell' umanità é di grandissima importanza.

Si tratta ovviamente di valutazioni del tutto soggettive, sia nel caso del nostro estremo interesse (che peraltro non ci impedisce, come vedi, di parlare anche di filosofia) sia nel caso  del tuo (si direbbe, salvo involontari fraintendimenti da parte mia) "olimpico disinteresse da speculatore teorico puro").

Ieri sera al circolo degli scacchi Roberto sosteneva che nella difesa siciliana è preferibile spingere con il nero in d5 prima possibile, Francesco invece argomentava che ci sono alcune varianti specifiche dove il pericolo di questa spinta viene reso evidente, io ricordando questa conversazione ho commentato che ci sono bambini che muoiono di fame e che non era il caso di argomentare sulla spinta di un legnetto. Tutti gli astanti mi hanno dato ragione tra gli applausi.
Saltare di pane in frasca è una interessante arte, ogni tanto sostituisce le barzellette.  :)
In un certo senso hai ragione tu dato che hai proposto questa discussione e il discorso è rivolto a chi è interessato. La mia intrusione è dovuta al fatto che per me questa è appunto un saltar di pane in frasca da un esigenza, che magari avverto solo io, di trattare temi più interessanti a mio modo di vedere. Ma ripeto l'intrusione è mia ed è giusto che ognuno tratti ciò che è interessante per sé e per chi la pensa come lui. E dato che oramai ci sono aggiungo anche che credo che la coscienza agisca in un contesto di interdipendenza con le forze inconsce. Parlare di conscio o inconscio separatamente non è che abbia molto senso in quanto sono uno il complemento dell'altro. Difatti un individuo non è mai del tutto cosciente o incosciente, lo è relativamente a qualcosa ma non rispetto ad altro. Esistono poi diversi gradi di coscienza o incoscienza. La questione è infinitamente più complessa che programmare una coscienza da applicare ad una macchina che sia in grado di interagire come dotata di una propria individualità.

Quoto gli ultimi interventi di Sgiombo e Davintro
#519
La questione credo sia quella di indagare se l'intelligenza artificiale possa diventare una forma di coscienza. Lo scopo dell'IA è quello di creare sistemi che siano in grado di apprendere da soli nuovi concetti senza bisogno di un ulteriore intervento umano. L'auto apprendimento richiede una forma di coscienza. Ora si tratta di stabilire se la coscienza possa sorgere da un progressivo passaggio dal semplice al complesso e dal complesso al via via più complesso, oppure se esista una struttura originaria che sia già data e che non sia sorta da una sintesi di elementi. Mi pare tuttavia un pò curioso che l'uomo, anziché accontentarsi di costruire macchine che obbediscono ai suoi ordini, voglia addirittura crearne di autonome, con una propria coscienza. Che abbiamo un'utilità non lo metto in dubbio, ma col 64% delle acque contaminate dai pesticidi le priorità non dovrebbero essere altre? Che ce ne facciamo delle macchine intelligenti se poi manca l'acqua?
#520
Scienza e Tecnologia / Re:Introduzione alla sezione
09 Maggio 2016, 15:58:36 PM
Citazione di: maral il 09 Maggio 2016, 14:37:52 PM
Potrebbe però anche essere che il male dello spirito consistesse in un modo errato di partecipare al significare della materia. Dopotutto cosa sono materia e spirito?
Infatti uno studio di Pierre Hadot su Marco Aurelio ha mostrato come per quest'ultimo la fisica fosse un esercizio spirituale, un purificare la percezione dai pregiudizi considerando le cose da un punto di vista prettamente materiale. "I cibi sono animali morti, il coito è sfregamento di pelle e un po' di muco..." Ma resta il fatto che tale esercizio è svolto in funzione del riconoscimento dell'anima. L'attuale scienza pare invece tentare di dedurre il mentale dal corporeo, ridurre l'anima ad una propaggine della materia. Un modo errato di partecipare al significare della materia può essere corretto solo a partire dal punto di vista della psiche. Se uno argomenta male gli consigliamo di studiare la retorica o il funzionamento dei neuroni?
Materia e spirito sono concetti che servono per distinguere diversi punti di vista sulla realtà.
#521
Scienza e Tecnologia / Re:Introduzione alla sezione
09 Maggio 2016, 11:28:32 AM
@HollyFabius
Il rimedio per il male dello spirito può essere solo nello spirito e non nella materia. Ogni tanto si sente di qualche scienziato che ha fatto progressi nella ricerca delle pillole della felicità. Per quando l'umanità sarà diventata un ammasso di ebeti sorridenti spero di essere già morto da un pezzo.
#522
Scienza e Tecnologia / Re:Introduzione alla sezione
08 Maggio 2016, 08:45:09 AM
Il problema credo sia nella mitizzazione del fenomeno tecnico-scientifico cui stiamo assistendo. La filosofia nacque proprio per demitizzare l'antica cultura greca con la forza del logos. In questo caso il discorso è più difficile (cito Reale), in quanto il mito della tecnica è figlio di quello stesso logos che rappresenta lo spirito demitizzante filosofico.  Non è tanto importante quanto la scienza progredisca ma piuttosto l'idea che essa sia il fine ultimo dell'umanità.  La scienza messa al centro della nostra vita diventa un meccanismo che si autoalimenta e nel quale il ruolo dell'uomo aspira ad essere sempre più marginale. Dovremmo domandarci perché stiamo permettendo questo, cosa ci spinge a mettere la tecnica al centro del nostro mondo al posto dell'uomo. Gli antichi greci disprezzavano la tecnica a scapito dell'attività speculativa disinteressata. A forza di inseguire l'utile abbiamo disimparato a ragionare per il puro piacere di ragionare. Il mito dell'utile, incarnato alla perfezione dalla scienza e dalla tecnica, si è impossessato del nostro inconscio e ci guida sempre di più. Demitizzarlo dovrebbe essere la nuova sfida della filosofia.
#523
Citazione di: HollyFabius il 04 Maggio 2016, 23:47:58 PM
Il noumeno di Schopenhauer è espresso dalla volontà a cui si accede attraverso i sensi. Per Kant il noumeno è oggetto di intuizione non sensibile e resta, nella sua essenza, inconoscibile.
Penso ci sia differenza fra esperire e conoscere. Vivere non significa conoscere la vita, infatti si commettono spesso gli stessi errori. La conoscenza sensoriale per essere tale deve essere consapevole. Nella differenza fra conoscenza concettuale ed esperienziale  troverebbe collocazione una riflessione sull'intellettualismo socratico, alla base del quale credo ci sia un fraintendimento.
#524
Citazione di: maral il 04 Maggio 2016, 19:43:28 PM
Citazione di: cvc il 02 Maggio 2016, 16:31:00 PM
Nel sentir discorrere intorno alle scienze mi par di capire che la conoscenza sia diretta verso orizzonti sempre più vasti, ma non tanto estesi da poter comprendere il sapere della cosa in sé. Il metodo sperimentale per sua natura non può allontanarsi dal fenomenico ma, dal mio punto di vista almeno, un universo che fosse solo fenomenico sarebbe assurdo. Se si considera la materia solo nel suo agire e non anche in ciò per cui agisce, allora noi assistiamo solo a delle manifestazioni, ma manifestazioni di cosa? Essendo la materia in ultima analisi energia, e non avendo l'energia una forma che permane nel tempo, dovremmo quindi giungere alle medesime conclusioni di Cratilo. Ossia che non possiamo dare un nome a nessuna cosa ma, al massimo, possiamo riferirci ad essa soltanto indicandola. Perché non appena diciamo che x è un bambino, x è già diventato uomo. E quando diciamo x è un uomo, è già un cumulo di ossa. Ciò che ha senso per noi lo ha solo in virtù che qualche manciata di anni a noi pare un'eternità, ma nella prospettiva dell'eternità noi nasciamo, viviamo e moriamo in un granello insignificante di tempo. Il punto di vista dell'eternità potrebbe corrispondere al noumeno, all'essere in sé che noi non siamo nemmeno in grado di definire con precisione. Quindi facciamo lunghe disquisizioni sul sapere tralasciandone l'essenza stessa. Forse è questa la differenza fra la nostra cultura e quella orientale: per noi ciò che pensiamo intorno alle cose è la loro essenza, per la cultura orientale invece il pensiero e funzione dell'essenza. La quale è inconoscibile e indefinibile.
Eppure proprio nel nuovo materialismo (a cui avevo accennato in questa discussione nel vecchio forum:http://www.riflessioni.it/forum/filosofia/14689-il-transindividuale-ultima-frontiera-del-materialismo-speculativo.html)
partendo dalla concezione di un'esperienza assoluta originaria, pura praxis, che precede ogni soggetto e oggetto e in cui ogni essere vivente è immerso in un totale presente del tutto immanente e in atto, si perviene a una concezione metafisica forte che richiama l'apeiron presocratico. Senza dubbio è filosoficamente interessante, anche da un punto di vista spirituale (materia e spirito si confondono fino a coincidere qualora si consideri le cose sotto la prospettiva di una pura fenomenologia del divenire, seguendo quello che Gentile definì metodo dell'immanenza in contrapposizione con il metodo della trascendenza che ha dominato il pensiero occidentale di impostazione antropocentrica e coscienziale a partire da Platone (con la verità collocata al di sopra e al di fuori della esperienza e con la funzione demiurgica che crea come un artigiano dando forma poietica alla materia sensibile secondo progetto).
Mi pare che questa concezione metafisica che si considera del tutto immanente richiami alcune considerazioni svolte soprattutto nel precedente forum da alcuni utenti che sostenevano la priorità della percezione, se intesa come esperienza una percettiva in sé, ossia un'esperienza che non è di niente e di nessuno, o, se si preferisce, una sorta di coscienza primaria senza l'io e quindi senza l'uomo, pura meccanicità insita nella natura.
Occorre riconoscere che questa concezione mi pare molto vicina proprio al pensiero orientale (penso soprattutto al taoismo e ad alcune forme di buddismo), la cui spiritualità elevatissima si presenta del tutto immanente e pragmatica (il puro gesto zen, ma anche la meditazione trascendentale dello Yoga, che in ambito induista assolutizza l'esperienza del respiro senza creare alcun disegno trascendente). In Occidente forse questo senso di assoluta immanenza ricorre solo in alcune forme di grande misticismo del passato, ma è rimasta abbastanza marginale nell'evoluzione platonica del pensiero occidentale, dominato dall'io e dal rapporto che sussiste tra un soggetto e un oggetto originari.
Dal mio punto di vista trovo che, pur esprimendo una concezione molto interessante, questa impostazione che fa dell'esperienza un assoluto, mostra una contraddizione evidente soprattutto nel modo occidentale di trattarla attraverso il linguaggio, il logos, che comunque resta ascritto al progetto del tutto cosciente e soggettivo di chi ne parla: ossia, anche se questa esperienza la si dichiara assoluta essa è trattata comunque come oggetto di un soggetto e dunque è del tutto relativa ad essi.
Tra gli esponenti italiani di questo nuovo materialismo, senza dubbio c'è Rocco Ronchi, molto legato al pensiero di Deleuze. Allego il link a un filmato Youtube molto interessante (è piuttosto lungo, ma merita) in cui presenta con grande chiarezza questa linea di pensiero ad "Harmonia Mundi" per legarla alla fenomenologia esoterica, mostrandone come può darne ragione filosofica:
https://www.youtube.com/watch?v=8yQF1OlALsI
(Interessante tra l'altro anche la perplessità finale di uno degli ascoltatori che, avendo basato la sua crescita spirituale sul distacco dall'esperienza, si ritrova messo in crisi da una linea di
Sulla questione fra immanenza e trascendenza io sospendo volentieri il giudizio, pur non esimendomi dall'osservare che una volta scoperchiato il vaso di Pandora dello sdoppiamento delle due realtà, concettuale e fisica, diventa un'impresa immane (e tuttora non riuscita) quella di ricomporre l'originaria unità del pensiero filosofico. Platone mediò dando però rango di realtà suprema alle idee e relegando il sensibile a realtà subordinata. Quindi il più grande tentativo di mediazione, quello platonico, è tuttavia in un certo senso fazioso. L'apeiron è stato identificato nel concetto, ma una volta che lo si identifica con qualcosa, lo si snatura.
Alla fine nella nostra civiltà è prevalso il platonismo, d'altronde gli atomi e le particelle non sono forse idee? Chi ha mai visto o esperito un atomo? Però il genio greco che ci ha fatto tanto progredire aveva in seno i suoi difetti. Ad esempio la fissazione di poter spiegare l'inspiegabile, di poter trovare la quadratura del cerchio con righello e compasso (cosa peraltro dimostratasi impossibile) tralasciando con ciò gli aspetti più pratici. Cosa che non fecero i romani che passarono dalla matematica astratta greca alla matematica applicata. Ma nell'economia della sfera morale, che è ciò che più mi interessa, è importante fissare dei limiti alla speculazione umana. Non si può quadrare il cerchio, e non si può conoscere il noumeno. Ma ciò non significa che ciononostante non si possa progredire spiritualmente. Socrate docet. Il quale fra l'altro usò il concetto non tanto come prova di possesso di una conoscenza superiore ma, piuttosto, per smontare le pretese dell'umana sapienza
#525
Citazione di: Donalduck il 03 Maggio 2016, 22:00:55 PM
Cvc ha scritto:
CitazioneIl punto di vista dell'eternità potrebbe corrispondere al noumeno, all'essere in sé che noi non siamo nemmeno in grado di definire con precisione. Quindi facciamo lunghe disquisizioni sul sapere tralasciandone l'essenza stessa. Forse è questa la differenza fra la nostra cultura e quella orientale: per noi ciò che pensiamo intorno alle cose è la loro essenza, per la cultura orientale invece il pensiero e funzione dell'essenza. La quale è inconoscibile e indefinibile.
Non mi par proprio che per la "cultura orientale" il pensiero sia "funzione dell'essenza". La tendenza prevalente mi pare che invece sia che il pensiero, sotto la spinta dell'ego, con i suoi desideri e la sua intrinseca limitatezza, maschera, nasconde, distorce l'essenza.
E neppure che questa "essenza" sia inconoscibile (indefinibile, magari, sì). Per molti pensatori e mistici orientali (ma non solo) l'essenza del "tutto" è "conoscibile" per fusione della coscienza individuale con quella universale attraverso pratiche meditative (che non sono pratiche di pensiero, ma ne implicano il superamento).
Ma bisogna precisare che in molti dibattiti filosofici del mondo occidentale si parla di "pensiero" con significati assai diversi, e certamente molto diversi dalla concezione "orientale" (o "orientaleggiante") come rappresentante del mondo psichico in generale, oppure come fonte archetipica delle forme tangibili (le idee platoniche), o altro ancora.
Nella cultura orientale spesso il pensiero non è tenuto in gran considerazione, ma ritenuto un mezzo pittosto rozzo e imperfetto di conoscenza della "realtà", che necessita dello sviluppo di "sensi superiori" per poter essere in qualche modo afferrata.
E in effetti credo sia innegabile che nessuna logica ci potrà mai fornire alcuna risposta a domande sui fondamenti dell'esistenza (può invece smontare delle asserzioni gratuite o incongrue in proposito). La prima difficoltà, secondo me insormontabile, sta nel definire l"esistenza". Cosa vuol dire che qualcosa esiste o non esiste?
La filosofia orientale a differenza di quella occidentale non è incentrata sulla costruzione di edifici razionali ma sulla meditazione.  Swami Sivananda dice che lo scopo del saggio è di coltivate i pensieri puri ed eliminare quelli cattivi. Perciò è centrale l'autocontrollo. Il pensiero è funzione dell'essenza in quanto è un mezzo per raggiungere la perfezione interiore. Ci sono molti punti in comune con la filosofia antica, nella quale Hadot individuò nella scrittura stessa una forma di meditazione. Dall'avvento del cristianesimo in poi la filosofia ha assunto i tratti della sistematicità che poi sarà tipica dell'esposizione scientifica. In questo modo di trattare sistematico, efficace ed efficiente in ambito scientifico, il filosofo sembra preoccuparsi di comprendere la realtà, ma non di intuirla. E il fatto che la scienza abbia mostrato come molti fenomeni fisici siano contro intuitivi, ha contribuito a svalutare questa facoltà. Nonostante molte scoperte scientifiche siano sorte proprio per intuizione. Occorre rivalutare l'aspetto intuitivo dell'esistenza, e le filosofie orientali e antiche mi pare abbiano proprio questa prerogativa di curare l'intuizione. Il sapere non è utile solo per se stesso, ma per l'effetto liberatorio che produce sulle afflizioni dell'anima.