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Messaggi - davintro

#511
a mio avviso l'idea della contraddittorietà del divenire è frutto della confusione tra piano logico-formale e piano materiale-esistenziale. A non potrà mai essere sul piano logico non-A, questa resta una verità indubitabile fondamento trascendentale del nostro pensare. Ma dal punto di vista reale ed esistenziale nessun ente è mai solo una lettera, una proprietà, ma una struttura complessa (anche le entità apparentemente più semplici come pietre e sassi) di differenti proprietà, un intreccio di queste. A non potrà mai essere non-A vuol dire "essere in Italia" non sarà mai come "non essere in Italia", ma non vuol dire che "Tizio è in Italia" sia la condizione definitiva di Tizio, che non potrebbe mai andarsene dall'Italia e visitare un paese straniero. L'immutabilità sottesa al principio di non contraddizione riguarda il significato concettuale di un singolo modo d'essere considerato astrattamente, e formalizzabile in modo simbolico con la lettera A, non la concretezza di un ente sostanziale che vive in una temporalità diacronica (Tizio) e che si pone come relazione dinamica tra una molteplicità di proprietà che non possono essere, se contestualizzate all'interno della realtà del soggetto a cui appartengono. La pretesa di dedurre un'ontologia, una teoria sulla realtà a partire da leggi regolanti i rapporti tra puri concetti rende l'eleatismo in fondo una sorta di idealismo ante litteram che anticipa, giungendo alle sue conclusioni radicali, i sistemi idealisti tedeschi dell'ottocento. A tale confusione idealista occorre rispondere con il realismo aristotelico che distingue all'interno di un ente proprietà sostanziali che restano immutabili all'interno di un ente, finendo con il costituirlo come "quell'ente e non un altro" e proprietà accidentali, mutevoli. Che Tizio si trovi in Italia o in Germania riguarda sue proprietà accidentali, soggette al divenire, che però convivono insieme ad un substrato immutabile, ciò che rende Tizio Tizio e non Caio,la sua sostanzialità, la sua identità personale. Nell'ultimo senso l'essere di Tizio vede il suo nullificarsi come contradditorio, dunque insensato. La soluzione dunque è considerare il divenire non il passaggio dall'essere al nulla, ma trasformazione qualitativa di accidenti che si attua però all'interno dell' essere, essere che resta sempre tale senza mai cadere nel Nulla assoluto.

La distinzione tra il piano logico formale e quello ontologico non deve però farci cadere nell'errore di considerare qualunque discorso sull'Essere universale, immutabile, escludente il nulla, come necessariamente astratto, filosoficamente inconcludente, tautologico, sofisitico, opposto alla concretezza del divenire. In realtà l'Essere considerato in  sè stesso, nella sua indeterminatezza, ha una sua concretezza che gli deriva dall'essere la condizione necessaria della manifestazione di ogni ente particolare e della giudicabilità. Ogni ente per essere predicato, giudicato, ha bisogno che si manifesti a noi come avente delle caratteristiche che lo rendono un "non nulla". Affermare, giudicare, predicare delle proprietà circa un soggetto equivale a considerare quel soggetto come avente un qualunque modo d'essere, dunque un essere. L'essere è cioè il presupposto trascendentale dell'affermare  qualcosa di qualcuno, dell'affermare predicati di un soggetto, ciò che determina di fatto la presenzialità di qualunque cosa. Ciò che non posso in alcun modo giudicare è il  Nulla, l'assoluto non-presente. In questo modo si può dire che l'idea di Essere come presupposto trascendentale della giudicabilità è co-implicata nell'idea di Universalità, quest'ultima intesa come presupposto trascendentale della formazione dei concetti, che a loro volta sono i termini che compongono i giudizi, seppur sia la giudicabilità e la concettualizzazione hanno bisogno di un contenuto esperienziale per poter concretezzarsi. Questa relazione di co-implicazione tra idea dell' "essere" e idea di "universalità" compone una struttura originaria (non voglio dire innata) fondante la nostra soggettività mentale.

Questo discorso potrebbe essere contestato dal punto di vista dell'idea (e qui finisco con lo sfiorare l'altro tema in cui mi pare si sia nelle ultime pagine orientata la discussione, il tema del rapporto tra linguaggio-cosa) che nella sintassi della nostra lingua l'essere si limita ad essere una copula, e non un predicato, per il quale si potrebbe dire che ciò che ho di fronte è un "essere". Ma in realtà occorre che l'analisi dei principi fondamentali della soggettività pensante, la speculazione filosofica, sia indipendente dalla molteplicità delle forme culturali linguistiche, e che cerchi di giungere a conclusioni necessarie attraverso un lavoro critico razionale di setaccio e separazione degli aspetti contingenti dagli aspetti essenziali all'interno dell'esperienza di ciò che tematizziamo. Identificare le possibilità del pensiero con quelle del linguaggio dovrebbe portare a smentire l'idea che ogni giudizio presupponga la presenza della nostra mente dell'idea dell'essere sulla base del fatto che alcuni giudizi non sono in lingua italiana strutturati in riferimento esplicito all'essere, tutti giudizi in cui l'essere non compare come soggetto o copula. Ma l'obiezione viene meno nel momento in cui l'Essere non va considerato come parola, convenzione culturale, ma come oggetto di un'intuizione intellettuale di cui ci si può render conto nell'analisi della nostra esperienza considerata a un livello interiore, preesistente alla traduzione a scopi comunicativi con l'esterno in forma simbolica, cioè con le parole. Cioè anche quando dico e scrivo "ho una maglietta","piove", "mangio la piadina", sto utilizzando l'idea dell'Essere, a prescindere dalla sua non utilizzazione a livello linguistico.
#512
Concordo sull'osservazione di Anthony sul fatto che ricondurre la formazione di idee alla "società" non può essere fattore di un totale superamento della diatriba innatismo-antiinnatismo, a meno di pensare alla "società" come un qualcosa di totalmente astratto e separato dagli uomini che la creano, una struttura che sembra quasi scendere da un altro pianeta ad influenzare la mente delle persone, senza che queste possano avere alcun ruolo attivo nell'essere di tale struttura. Nelle posizioni estreme di tale posizione si cade in certe derive quasi paranoide, l'idea che tutto ciò che pensiamo e facciamo in fondo non abbia nulla a che fare con la nostra soggettività (che sarebbe vuota passività), ma sia solo frutto di un'influenza di qualche entità esteriore che ci manipola togliendoci di fatto il libero e la responsabilità l'idea che siamo tutte marionette mosse da un misterioso burattinaio, la società. Considerando la società invece come un fatto, una produzione umana, allora mi pare evidente che ciò che proviene dalla società dovrebbe avere comunque la sua origine nell'uomo, e la ricerca dell'origine ricade nella ciclicità di due termini "uomo" e "società" nella quale nessuno dei due sembra potersi porre come fondativo dell'altro e dove il dibattito pro-contro l'innatismo sembra protrarsi all'infinito



restando alla metafora del foglio bianco che seppur tabula rasa è predisposto a lasciarsi scrivere, occorrerebbe rendere ragione ciò che ha prodotto la "predisposizione" del foglio a permettere di essere usato per scrivere, la sua potenzialità di porsi come materia per un certo tipo di segnatura. A questo punto la domanda è "cosa ha fatto sì che il foglio sia predisposto a poterci scrivere sopra?" fuor di metafora "cosa rende la mente umana, a differenza della mente di un altro animale a poter essere sviluppata in vista di certe funzionalità?". Il foglio è statto progettato, immagino, per il fine di essere usato come carta per scrivere, quindi potremmo dire che il foglio possiede una sua"innatezza", una sua "originarietà"che corrisponde al progetto ideale con cui è stato fabbricato nella mente dell'artigiano o del progettatore industriale, e nel caso della mente umana occorre chiederci quale sia la causa ragion d'essere del suo essere predisposta così come è, con tutte le sue funzionalità.  Nel momento in cui tale ragion d'essere viene ricondotta a  qualunque processo mentale (compresa l'astrazione, o la didattica) che a sua volta è resa possibile dalla predisposizione stessa, si cade, come avevo già fatto notare, in una sorta di circolo vizioso per cui ciò che devo spiegare (la predisposizione) è tra le ragioni d'essere di ciò che dovrebbe spiegare (tutti i processi mentali che presuppongono tale predisposizione). Se è vero che la potenzialità non è un mero non-essere, ma una condizione necessaria per giustificare qualunque darsi di un evento (il mio camminare sarebbe inspiegabile senza la mia potenzialità di camminare), è anche vero che un essere che ha la potenzialità di svolgere una funzione o contribuire al realizzarsi di un fenomeno, questa potenzialità ce l'ha come conseguenza di qualcosa che potenziale non è, ma attuale e reale, una causalità concretamente agente che interviene sull'essere in questione dandogli una serie limitata di potenzialità. La fragilità del vetro dà al vetro la potenzialità di essere infranto, ma questa potenzialità è la conseguenza della attuale, non potenziale, struttura del vetro, i suoi legami fisici, chimici concretamente reali, così come la predisposizione innata della mente è la conseguenza di una causalità agente che fà sì che la mente sia predisposta a delle funzioni e non ad altre
#513
io credo che in linea generale sia un errore far coincidere la concreta applicazione di un processo mentale con l'apprensione dei contenuti di tale processo. Le pratiche di apprendimento di una funzione sviluppano la funzionalità di un processo mentale, ma senza creare il processo "ex nihilo". Se così non fosse allora si potrebbe, utilizzando tecniche didattiche standard, insegnere a contare, leggere, scrivere, a qualunque essere vivente, indipendentemente dalla struttura interiore mentale del soggetto che si ha di fronte. In realtà nell'uomo (ma non con altri mammiferi, ora non sono uno zoologo e non so se con altri animali come le scimmie si sia arrivati a risultati soddisfcenti da far pensare ad analogie con l'uomo) le tecniche didattiche possono aver successo perchè non autosufficienti, ma perchè nella loro opera si armonizzano non con una tabula rasa, ma una mente predisposta ad accoglierla. Questa ovvietà  potrebbe far pensare ad una mera dinamica potenzialità innata-attualità concreta esterna che fà passare dalla potenza all'atto il processo mentale. Invece, come già provato a dire all'inizio della discussione, limitarsi ad ammettere una potenzialità equivale a non spiegare nulla. La potenzialità fintanto che resta tale è un mero non-essere, dunque impossibilitata ad intervenire concretamente, completando l'azione proveniente dall'esterno. Tutto ciò che è reale è attuale, dunque la predisposizione nei processi mentali, in quanto fatto reale e concreto, presuppone l'esistenza di un'attualità originaria e interiore che converge con la causalità esteriore per produrre l'applicabilità dei processi. Una mera potenzialità astratta non potrebbe mai porsi come fattore concreto nella costituzione di alcunche, resterebbe una pura idea, e l'idea senza attualità reale, è solo una staticità che non può partecipare ad alcuna dinamica

Nel caso dei numeri, ipotizzo che la predisposizione umana alla quantificazione preuspponga un innata, o meglio originaria, apprensione intuitiva del significato intelligibile dei numeri, che però resta impossibilitata ad essere espressa linguisticamente fintanto che non trova dei segni sensibili per comunicarla, e in assenza di un linguaggio adeguato il bambino ripiegherebbe su concetti qualitativi, come giustamente osservato da Phil, "tanto", "poco". L'apprendimento dei numeri implica l'associazione tra il segno sensibile e il significato intelligibile, ma questa associzione non potrebbe aver luogo se uno dei due termini, il significato intelligibile, non fosse già presente nel bambino a prescindere dall'apprensione di contenuti sensibili esteriori (a meno di non ipotizzare una sorta di telepatia, di comunicazione mentale intersoggettiva senza mediazioni sensibili!)

Per quanto riguarda il nesso che Phil rilevava tra affermazione dell'innatismo e esigenza sociale e politica di identificare il modello intepretativo dell'uomo proveniente da una certa tradizione culturale, con una naturalità originaria ed unica possibile, direi, sempre che abbia compreso il senso dell'osservazione, che è una tesi valida e condivisibile. Al tempo stesso credo però si possa anche dire che le posizioni antiinnatistiche siano in un altro senso funzionali a livello ideologico. Penso a tutte le dottrine politiche totalitarie e rivoluzionarie intenzionate ad edificare modelli di società totalmente nuovi e rivoluzionari, la cui edificazione presupporebbe una netta trasformazione dell'uomo, che per essere adeguato alla nuova società, deve il più possibile essere descritto come realtà fluida e plasmabile da interventi esterni. Quanto più invece l'uomo viene visto come realtà avente in sè dei caratteri stabili e presenti indipendetemente dagli influssi dell'ambiente circostante, tanto più si pone un limite alla possibilità di maniplazione con cui un qualsivoglia potere intenda intervenire per modificare la natura umana in relazione ai suoi fini ideologici. Quindi entrambe le posizioni in campo posso essere viste come convenienti o sconvenienti in relazione alla natura ideologica di un approccio politico, senza che si debba vedere una delle due come un'illusione costruita ad hoc per certe istanze sociali
#514
Phil scrive

"I numeri sono innati"(cit.)? Spiegati meglio...
Sul discorso "tanto" e "poco" come punto di partenza per l'invenzione del numero, ho cercato di intuire lo spunto che può aver avuto chi ha fondato i numeri, quindi cercando di ragionare prima dell'avvento della matematica (su come siano intesi dopo, hai già detto tutto tu...).
Prova a pensare, ancora una volta, ad un bambino o a chi non ha studiato numeri: parlerà di "tanto" e "poco" (o almeno avrà questi due concetti se non parla) riferendosi ad una distinzione base fra, ad esempio, ciò che non è sufficiente a sfamarlo e ciò che invece non riesce a finire di mangiare... poi qualcuno gli insegna i numeri e lui, finalmente, può quantificare, dicendo "voglio 10 biscotti, né uno, né 100..."


Ciò che a mio avviso è innato è il significato che si attribuisce ai concetti dei singoli numeri, un significato intelligibile in quanto è costituito non da oggetti sensibili ma da delle loro relazioni intelligibili, mentre la corrispondenza tra il significato intelligibile e un'espressione simbolica sensibile presuppone l'esperienza di oggetti fisici da cui ricavo tali forme simboliche, gli spazi fisici all'interno dei quali posso tracciare delle linee grafiche. In questo senso penso che più che "inventare" i numeri credo che ad essere inventati siano delle strutture linguistiche convenzionali con cui associamo i numeri a delle immagini sensibili con cui le simbolizziamo, visuali (per poterli scrivere) e verbali per poter comunicarli oralmente. Abbiamo il sistema dei numeri arabi che utilizziamo noi comunemente, il sistema dei numeri romani... e apprendiamo in relazione all'ambiente culturale in cui cresciamo con i sistemi linguistici di riferimento per quell'ambiente l'associazione dei significati con l'espressione linguistica, ma non necessariamente i significati in sè

Io direi che il fatto che un bambino impari prima ad esprimersi in termini qualitativi "tanto", "poco" e successivamente impari ad utilizzare quantità, significa che ha col tempo acquisito una nuova funzione linguistica che si aggiunge ad altre senza però che si debba dedurre che le categorie qualitative siano uno stadio primitivo e confuso di un'evoluzione, base che determinerebbe nel futuro lo sviluppo della quantificazione. Se la deduzione fosse corretta allora il bambino potrebbe una volta imparato a padroneggiare i numeri, smettere di utilizzare le categorie qualitative "tanto" "poco", a quel punto inutili perchè valide per uno stadio evolutivo gà superato, categorie che invece continuano ad essere utilizzate per la ragione che la loro funzione si riferisce ad una modalità relazionale distinta ed autonoma rispetto a quella della quantificazione e dunque non strumentale e subordinata a questa. Non si può dedurre dal rilevamento di una mera successione diacronica di stadi evolutivi una derivazione causale di un "precedente" rispetto a un "successivo" all'interno di una linea unica, trovo più convincente l'idea di ricavare dalle distinte forme di attività coscienziali, distinguibili per un differente forma di attribuzione di significato al mondo, una molteplicità di "radici", "punti originari" (chiedo scusa, non trovo per ora una terminologia più elegante...) da cui scaturirebbero una molteplicità di linee evolutive che si svilupperebbero in modo distinto fra loro, senza che una linea sia la causa da cui deriverebbe un'altra. Una sorta di sistema a raggiera... La quantificazione sarebbe una di queste linee, distinta dalla linea corrispondente al processo di giudizio estetico qualitativo nel quale contesto poter utilizzare le categorie "tanto" "poco". Non deve far ingannare il fatto che sia i numeri che tali categorie qualitative si riferiscano  all'idea di quantità. Ciò che è più importante è che quando uso numeri la mia intenzionalità verso le cose sia differente da quando utilizzo le categorie soggettive-estetiche, se dico "voglio 10 biscotti" esprimo l'intenzionalità di volerne mangiare quella precisa quantità e non un'altra inferiore o maggiore, se dico "voglio tanti biscotti" voglio esprimere l'idea che mi farebbe piacere mangiare biscotti a prescindere da una misura precisa. Non è che una richiesta è più confusa e primitiva di un'altra, cambia proprio l'obiettivo della comunicazione, il suo senso ontologico




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#515
L'astrazione consente di generalizzare, di rendersi conto di proprietà comuni a una molteplicità di enti esperiti, ma non può scoprire queste proprietà, nuove qualità delle cose, le nuove qualità sono sempre apprese con intuizioni orginarie, ed ogni differenza qualitativa tra un ente e un altro presuppone una nuova specie di intuizione. I numeri sono concetti a cui attribuiamo un significato ben distinto da quelli di "tanto" e "poco", anche perchè i numeri sono concetti che utilizziamo per formulare giudizi oggettivi, mentre "tanto" e "poco" sono  concetti corrispondenti a stati psicologici soggettivi, qualcosa è tanto o poco in relazione alle mie aspettative soggettive, ma non posso pretendere in alcun modo che una quantità sia oggettivamente tanta o poca. La modalità di rapporto col mondo che intraprendo quando dico che "ci sono tanti alberi di fronte a me" non è la stessa di quando dico "ci sono 20 alberi di fronte a me".  La prima modalità è estetica-psicologica, di fatto esprimo uno stato d'animo soggettivo seppur legato a una visione di un mondo esterno che me l'ha suscitato, la seconda modalità è scientifica-teoretica, esprimo il giudizio su uno stato di cose oggettivo, valido per tutti, una quantità. Queste due modalità, estetico-soggettiva e scientifica-oggettivante sono tra loro distinte, ognuna può in linea teorica essere percorsa a prescindere dall'altra, quando sono nella prima modalità non sono nella seconda e vicecersa. Ora, l'astrazione è un'attività della mente diretta a uno scopo, cioè è interna ad una stessa forma di relazione coscienza-mondo all'interno della quale quello scopo assume un senso, lo scopo è la formazione dei concetti, il mezzo per giungere a ciò è l'apprensione di dati comuni dell'esperienza. E dunque non ha senso che l'astrazione sia il passaggio tra una modalità e l'altra di rapporto col mondo, perchè nessuna delle due è subordinata e strumentale all'altra. La modalità per cui utilizzo le categorie "tanto"  e "poco" non è strumentale a quella per cui utilizzo numeri e quaindi non c'è alcuna ragione per cui le categorie estetiche "tanto" e poco" siano mezzi per arrivare a concepire "numeri" e viceversa, appartengono a "regioni dell'essere" distinte fra loro e quindi ricavate con forme di apprensioni intuitive distinte, senza necessità di un processo mentale che le colleghi. Quando uso il concetto di "tanto" non mi servono i numeri, quando calcolo non mi serve il concetto di "tanto" (anzi in certi casi è un impiccio soggettivo "sentimentale" che mi distrae dall'oggettività impersonale che la tecnica di calcolo richiede). L'astrazione è un processo mentale valido per attribuire un contenuto sensibile in modo convenzionale a una forma concettuale che altrimenti sarebbe vuota e astratta, ricava concetti dall'esperienza, ma non può far derivare un concetto da un altro concetto, perchè altrimenti il nuovo concetto sarebbe ricavato per via puramente dialettica e speculativa, e mancherebbe il riferimento a un' apprensione passiva dell'esperienza, che è la base dell'astrazione stessa. Per ogni concetto cioè occorre cioè una base intuitiva, che sarà di tipi sensibile nel caso di concetti sensibili, intelligibile nel caso dei concetti intelligibili. I numeri sono innati poichè non essendo oggetti sensibili, mancano di un'esperienza del mondo esterno da cui ricavarli, ovviamente diversa è la questione per quanto riguarda le raffigurazioni simboliche con cui convenzionalmente creiamo un linguaggio matematico, il 2 e il 3 che scrivo sono forme, immagini che acquisisco dagli oggetti esperienza, ma il loro significato resta intelligibile, e dunque non empiricamente fondabile
#516
Phil scrive

"Lo spirito sarebbe dunque una ragione ordinatrice dell'esperienza, che allo stesso tempo interpreta e produce senso; ovvero la intendi più come un'attitudine culturale (ogni senso e figlio della sua cultura: "sua" perché la fonda, o "sua" perchè ne deriva, come ha già notato Sariputra) piuttosto che come un'inclinazione verso una trascendenza che prescinde dalla fattualità degli (avvenim)enti. Giusto?"

Direi che un'opzione non esclude l'altra. Essere fattore ordinativo dell'esperienza presuppone un margine di trascendenza rispetto a ciò che si ordina, perchè la logica ordinatrice sarebbe qualcosa di non necessariamente immanente al carattere di molteplicità degli oggetti dell'esperienza ma sarebbe espressione di un soggetto che ha un potere di unificare a livello concettuale tale esperienza. Il valore, il senso delle cose le cose non le hanno per sè ma lo ricevono a partire da una coscienza (che valore avrebbe la bellezza di un'opera d'arte senza uno sguardo soggettivo, esteticamente educato e formato che la contempla e ne gode?), e questo presuppone che il soggetto si rivolga in tale donazione di significati a partire da un modo d'essere distinto dagli oggetti che a partire da esso ricevono tale donazione. Non potrebbe cioè l'uomo dare alle cose alcunchè, alcun valore nulla che le cose come meri fatti oggettivi non possiderebbero già, se non fosse già ontologicamente in qualche modo distinto da distinto da esse. Lo spirito non è un' "attitudine culturale", piuttosto è ciò che rende possibile ogni forma di cultura in quanto tale, perchè ogni cultura ha come principio una soggettività cosciente che intepreta il mondo a partire da sè, in modo attivo. Perchè la cultura integri e si aggiunga alla natura materiale originaria occorre che il soggetto originante la cultura, l'uomo, non sia un ente naturale come tutti gli altri, ma un soggetto animato da esigenze, idee che lo portano ad ammettere prospettive differenti dal reale naturale di cui ha un'esperienza "hic et nunc", e sulla base di ciò poter operare una trasformazione, cioè l'introduzione di una nuova forma nella materia, cosicchè il mondo assume nuove forme attraverso la donazione di valore che riceve da un ente che di ogni valore è la portatrice, la persona. Come potrebbe Michelangelo aver progettato nuove forme rispetto ad un insensato blocco di marmo se non ci fosse alcuna discontinuità ontologica tra la sua persona e il blocco stesso? Dove avrebbe trovato l'idea di nuove forme, nonchè del valore estetico che a tali forme egli (e noi come ammiratori delle sue opere) attribuiva? Questa discontinuità ontologica, questa trascendenza, è data dallo spirito. E i limiti della presenza spirituale nell'uomo coincidono con i limiti della sua autonomia rispetto al mondo esterno, i limiti dell'autonomia dell'Io rispetto al non-Io
#517
Citazione di: Phil il 12 Settembre 2016, 00:14:00 AMDue gentili richieste di chiarificazione terminologica, per poter seguire meglio il dibattito: @davintro cosa intendi per "spirito"? @paul11 cosa intendi per "autocoscienza"? P.s. Se ho ben capito, sono i due termini portanti delle vostre prospettive, e non vorrei fraintenderne il significato...

Per "spirito" intendo quel modo d'essere di un ente che lo rende non la risultante passiva di una causalità esterna, ma lo porta a rivolgersi verso il mondo in modo attivo, intepretandolo, valutandolo, dandogli un senso e un valore. Il complesso dei giudizi estetici, scientifici, morali che l'uomo formula riguardo al mondo e a se stesso è l'espressione della sua spiritualità e da ciò deriva la fondazione delle diverse forme culturali, scienza, filosofia, religione letteratura, politica. Attraverso lo spirito il mondo cessa di essere un insieme di meri fatti oggettivi ma acquisce un valore che non è mai totalmente immanente alla sua oggettività ma si costituisce come rapporto, relazione tra questa oggettività che in virtù delle sue qualità riceve il valore, e un soggetto cosciente che si protende verso il mondo in base alla sua attività intenzionale. La Pietà senza l'intenzionalità e la progettualità di Michelangelo che l'ha costruita e le categorie estetiche dei visitatori che la reputano un capolavoro sarebbe un mero "fatto", un ammasso informe di marmo, mentre lo spirito, cioè la coscienza soggettiva del suo scultore e di chi la osserva rende a quel ammasso, una forma definita  in nome della quale assume un valore e un senso.  Appare evidente come intesa in questo modo la spiritualità finisce per corripondere nell'uomo con la razionalità. E ci riagganciamo al tema dell' Universale. Se lo spirito è ciò che ci permette di essere soggetti che attivamente si rivolgono verso il mondo con delle valutazioni e giudizi allora l'essere spirituale presuppone l'utilizzo di categorie a cui attribuiamo una valore universale per giudicare e valutare la realtà particolare. Lo spirito mi porta a giudicare bella la Pietà in nome di un criterio "generale" (se proprio non piace il termine "universale") di bellezza così come riteniamo ingiusto ciò che accadeva ad Auschwitz in nome di un'idea generale di "giustizia". Senza spiritualità, saremmo soggetti in balia degli istinti provenienti dalle realtà particolari esterne al nostro Io, senza poter mai giungere al momento in cui l'Io cessa di farsi "sballottare", assume il controllo riflessivo di sè e del mondo e sottopone gli eventi particolari al giudizio critico, confrontandoli a dei criteri universali intorno a cui costruire la stabilità della sua personalità soggettiva
#518
Attualità / Re:11 Settembre: chi ci ha guadagnato?
12 Settembre 2016, 22:54:48 PM
è vero che l' 11 Settembre ha rappresentato per Israele loccasione per associare la lotta contro il terrorismo palestinese alla lotta dell'occidente contro la Jihad, presentando davanti l'opinione pubblica occidentali le due cause come necessariamente intrecciate, ma l'occasione non è stata sfruttata appieno. Le simpatie Usa verso Israele non hanno impedito che la seconda Intifada proseguisse ancora per molti anni, sia stato necessario sgombrare tutte le colonie da Gaza lasciando la striscia in mano ad Hamas che continua a più riprese a minacciare Israele con razzi che terrorizzano la popolazione civile. Vero che da molti anni la questione israelo-palestinese è purtroppo sparita dal centro dell'attenzione dell'opinione pubblica mondiale ma non so quanto ciò sia vantaggioso per Israele. Lo status quo appartentemente lo favorisce ma non del tutto. Nel frattempo che la comunità internazionale non interviene per riaprire negoziati che portino a realizzare la formula dei "due popoli due stati" la popolazione araba continua a crescere demograficamente a un ritmo molto maggiore di quella ebrea, e se gli israeliani non riescono a stabilire confini precisi tra un loro stato e uno stato arabo vicino in cui i palestinesi possano riconoscersi, nel giro di pochi anni diverranno minoranza all'interno delle loro stesse terre. Come intuiva Arafat, il tempo, il protrarsi del conflitto a lungo andare, gioca a favore dei palestinesi
#519
Citazione di: paul11 il 11 Settembre 2016, 18:50:36 PMDavintro, accetto il richiamo all'ordine nel rienetrare nell'alveo della discussione oltretutto tu sei l'anfitrione di questa discussione. Se ho "cavalcato" la discussione mi premeva far notare un concetto fondamentale: ognuno di noi entra nei particolari ,come in questo caso sulla critica della conoscenza, ma proprio perchè ha un suo quadro generale. Ovvero si contraddicono coloro che non ritengono di avere universali che almeno mentalmente si sono precostituite delle forme di un'idea di mondo e attraverso queste filtrano i particolari.Detto sinteticamente ognuno di noi giudica attraverso i propri pre-giudizi e questo è determinato dalla forma che coagula la sostanza ovvero la parte metafisica mentale che si è fatta un'idea di mondo; i costruttivisti le denotano come credenze. Perchè in realtà ognuno di noi ha necessità di credere in qualcosa e allora cerca.......... Nello specifico del tuo ultimo post, mi sembra che sia stato accettato l'innatismo della conoscenza, ma come meccanismo lo definito io, da rodare nel mondo empirico.Ho l'impressione invece che tu sia più "radicale", se così posso dire, ovvero vi è già dalla nascita un sapere che attende di conoscere, quindi l'esperienza del conoscere dovrebbe aiutarci ad avvalorare o negare quel sapere che già persiste. E provo a spiegare. Se l'Essere fosse già sapere non capisco perchè l'uomo può decadere, dovrebbe essere sempre migliore come coscienza. Se è permessa alla ragione di contrastare l'Essere, quell'Essere è obnulato è nascosto all'esistenza, per cui l'uomo erra ed è errabondo nelle manifestazioni infinite del mondo. Io penso invece che L 'Essere sia pura identità ed è quell'esser-ci , prendo a prestito il concetto heideggeriano, che si fa corpo esistente nel mondo fisico nel contraddittorio fra il proprio essere identitario e le manifestazioni contraddittorie del mondo che deve vivere nella propria autocoscienza la maturazione di riportare all'Essere la sua esperienza contraddittoria con le significazioni dentro un percorso di senso. Se esiste un sapere a priori ,a mio modesto parere, e non posso in effetti negarlo perchè spiega quello che volgarmente sono detti i predestinati alla genialità, non fanno fatica a capire perchè già comprendono, io lo vedo come un "eco", un rumore di fondo che si presenta all'anima e suggerisce all'autocoscienza il giudizio; ma lo suggerisce non essendo agente attivo alla ragione, all'intenzione e alla volontà che personalmente considero nell'autocoscienza. Insomma è l'autocoscienza come luogo delle riflessioni della conoscenza contraddittoria che decide la differenza fra Essere e la significazione della propria esistenza.L'anima può suggerire il richiamo all'ordine all'autocoscienza, ma non può entrare come soggetto conoscitivo.

Nessun richiamo all'ordine, ci mancherebbe... sono io che ho iniziato la discussione ma non ne sono certo il proprietario, quello che deve dettare una "linea editoriale"! Il mio non voler seguire gli ultimi sviluppi della discussione è dovuto alla consapevolezza dei miei limiti, non certo ad una critica o spirito polemico verso tali sviluppi, che invece valuto positivamente e sarebbe bello proseguissero

Il tuo ultimo post mi "costringe" ( "costringe" lo scrivo qua in modo scherzoso) a provare a esplicitare meglio la mia posizione. L'idea che vi sia "già dalla nascita un sapere che attende di conoscere" mi sembra riferibile al modello innatista platonico, un modello che al di là della sua grandezza, dell'importanza che ha avuto nel gettare le basi della storia del pensiero occidentale, delle basi di verità presenti in esso, credo sia stato fortemente condizionato da un complesso di dottrine come l'orfismo aventi a fare con la mitologia e la religione più che con un coerente svolgimento del logos filosofico razionale. Non condivido appieno quel modello, non credo alla metempsicosi, alla reincarnazione delle anime, non credo di aver in passato visitato una dimensione a sè stante come l'Iperuranio in cui avrei fatto esperienza delle idee universali che poi nell'entrata dell'anima nella "prigione" del corpo avrei dimenticato. Non credo ad un "sapere" prima della nascita" il cui rinvenimento sarebbe il fine della conoscenza mondana. La mia idea è che la nostra soggettività pensante presupponga un'intuizione, un coglimento di alcune nozioni come "universalità", "totalità", "eternità", "infinito" che rendono possibile la formazione di ogni concetto, sia esso riferibile a un contenuto sensibile o intellegibile, nozioni che sono corollari conseguenti dell' "Idea dell'Essere", presupposto trascendentale di ogni altra idea o concetto, citando l'espressione di Antonio Rosmini, la cui ispirazione è stata sviluppata dalla corrente dello spiritualismo italiano del novecento, di impronta neo-agostiniana. Questa intuzione non sarebbe sorta prima della nascita, ma ci accompagnerebbe sin da quel momento come presenza strutturale, originaria e necessaria della nostra mente, del nostro statuto ontologico di "soggetti pensanti". Effettivamente più che di innatismo (l'idea della nascita porta con sè una marea di implicazioni di ordine genetico, biologico, che in sede di discussione filosofica rischiano di essere fuori luogo e di generare confusione tra ambiti epistemici diversi) sarebbe preferibile parlare di originarietà o trascendentalità, anche se "innatismo" è un termine più chiaro e comunicativamente efficace. Non sarebbe neanche a rigor di termini di un "sapere", un  complesso organico di giudizi. Il riconoscimento di tale intuzione originaria può umanamente essere effettuato a partire dall'analisi degli elementi che compongono il processo di astrazione dell'universale intelligibile dal particolare sensibile. Analizzando a-posteriori l'astrazione ci si può rendere conto della messa in atto dell'apprensione della nozione di "universalità" come elemento fondante, seppur non sufficiente, dell'astrazione. Ma a-posteriormente ci sarebbe solo il riconoscimento dell'intuzione dell'Essere e delle categorie ad esso correlate, non l'attuarsi reale psicologico  della stessa intuzione nell'interiorità della nostra mente

Messe così le cose, forse la tua posizione, per come penso più o meno di averla intesa, non è così tanto distante dalla mia. Anch'io ritengo che l'esistenza umana, l'esser-ci, sia una tensione tra due poli, la molteplicità degli oggetti sensibili che costituisce il mondo in cui viviamo e l'universalità che ci richiama ad intepretare la nostra vita dandole un senso unitario in relazione a cui effettuare scelte ed elaborare pensieri che siano coerenti con tale senso. L'elaborazione di una visione globale e universalista che ricompatti il molteplice presuppone un agostiniano "redi in te ipsum", "rientra in te stesso" un raccogliersi nell'interiorità, (ciò che mi pare di aver capito tu definisca "autocoscienza", io direi più  di una "conversione", uno spostamento dello sguardo dall'esterno all'interno, che non sarebbe solo un atto teoretico e contemplativo, ma insieme anche volontaristico)  perchè allontanarsi dalla dispersione nella molteplicità è possibile nella misura in cui non siamo solo corpo, ma anche spirito. Il corpo spinge verso il molteplice sensibile, lo spirito verso l'universale. In questo contesto emerge la verità del platonismo, l'immagine dell'auriga, metafora della ragione che media tra i due cavalli, i due poli, cercando di mantenere un equilibrio dinamico, un "compromesso mobile" tra le esigenze dello spirito che spinge alla coerenza con i valori universali e il corpo che ci richiama alle fondamentali esigenze di mantenimento di sopravvivenza (quindi la stessa esistenza dello spirito), nonchè alle necessarie basi della nostra conoscenza, l'apprensione del mondo sensibile, indispensabile esso stesso per la vita. Sarebbe accettabile dunque anche nella mia visione l'idea di identificare l'innato con un "meccanismo", anche se andrebbe chiarito meglio il significato di questo meccanismo, se solo una funzione gnoseologica come in Kant, al servizio dell'apprensione di un contenuto conoscitivo solo estetico, oppure un'autentica apprensione di un materiale intelligibile, come sostengo in modo più infintamente modesto io. Inoltre il termine "meccanismo" non mi piace molto perchè rimanda ad una visione materialista che  certamente non può che essere incoerente con qualunque concezione sostenga la presenza di alcunchè di transempirico. Capisco comunque anche l'utilizzo del termine in chiave metaforica, e non vorrei apparire troppo pedante, almeno per questo punto
#520
La discussione è andata molto avanti e sta toccando tantissimi temi e raggiunto tanti spunti teoretici davvero interessanti che per me sarebbe troppo impegnativo e dispersivo commentare, almeno per ora, e che tra l'altro sarebbe per me opportuno rileggere con più calma e meno superficialità. Quello che nei limiti di tale superficialità mi sembra di notare è un complessivo stato di sfiducia verso la metafisica tradizionale (è stato da più parti chiamato in causa il postmoderno) e l'esclusione della possibilità di ammettere degli elementi di innatismo nella nostra conoscenza. In fondo mi aspettavo che la mia "battaglia" pro-innatismo fosse difficile da sostenere dal punto di vista della retorica, della capacità persuasiva, e forse non solo per i miei evidenti limiti. Perchè in fondo, nel momento in cui la nostra relazione con il mondo si riferisce costantemente ad un'esteriorità, all'interno delle nostre attività quotidiane, ci sembra davvero difficile ammettere la possibilità che alcuni fondamentali elementi della nostra conoscenza possano essere appresi indipendentemente dal rapporto con l'esteriorità, che appare così esauriente nel assorbire tutti gli aspetti della nostra esistenza, ed anche quando operiamo riflessivamente, il condizionamento del mondo esterno ci porta ad ipotizzare una correlazione tra oggetti esterni e processi mentali stretta al punto di non poter in alcun modo immaginare questi ultimi senza i primi, sottovalutanto e svalutando l'interiorità, riducendola a tabula rasa senza autonomia. L'errore di fondo, io credo, sia quello di porre l'antropologia come base della gnoseologia (o epistemologia) Cioè si parte dall'essere umano, nella misura in cui ne abbiamo una certa esperienza storica per poi elaborare una teoria della conoscenza, un sistema gnoseologico adeguato alla limitatezza ed imperfezione dell realtà umana, escludendo in via preliminare la trattazione degli elementi della conoscenza riferibiti a un soggetto con uno statuto ontologico differente dal quello umano. Io considero questo modo di procedere epistemologicamente scorretto. L'essere umano è una realtà complessa, strutturata da differenti entità, corpo, psiche, coscienza, intenzionalità, percezione, temporalità, libertà, volontà ecc Queste sono tutte categorie che colgono ciascuna un aspetto appartenente a quella realtà che definiamo "essere umano". Quando si ha di fronte  una realtà complessa occorre cogliere il senso, le possibilità implicite in ciascuna singola componente per poi riunificare (non assommare in modo disordinato) organicamente il tutto per ricostuire l'immagine della realtà complessa. Non si deve partire dal concetto "uomo", ma indagare l'essenza di ogni singolo concetto "semplice", che lo costituisce, quindi quando in sede gnoseologica si parla di "coscienza" non si deve arbitrariamente restringere il campo di applicazione della coscienza alle forme in cui si manifesta in una certa determinata realtà, quella umana. L'uomo in virtà della sua limitatezza ed imperfezione dipende per la sua conoscenza dal corpo che lo mette in contatto con il mondo esterno, ma questa dipendenza non esclude che, in virtù di componenti distinte dalla mera corporeità, non possa accedere a un contenuto di coscienza originario ed a priori. La coscienza se nel contesto dell'essere umano presuppone per agire una dipendenza da un materiale sensibile ed esteriore, non per questo non potrebbe in un contesto differente esprimersi in modo indipendente da tale matariale. E dunque l'uomo quanto più orienta la sua attenzione verso l'interiorità, verso l'autocoscienza quanto più potrebbe riconoscere una conoscenza da sempre preesistente e originaria nella sua mente di cui non si rende conto qunto più la sua attenzione è orientata verso l'ambiente circostante, come è nello stato normale e naturale. L'uomo è sintesi di materia e spirito, una porta verso la dipendenza dall'esterno, l'altra verso l'interiorità. Il processo conoscitivo è una sintesi di entrambi i fattori e se l'aspetto di dipendenza va ricondotto alla materia non si può, pena la perdita del rilievo del carattere di complessità, trascurare l'intervento dello spirito, spirito che considerato nell'essenzialità del suo senso, a prescindere dalla sua presenza al'interno dell'uomo, determina un elemento di autosufficienza. Un puro spirito, come Dio sarebbe una realtà assoluta e autosufficiente e indipendente dall'esterno (questo discorso prescinde dal giudizio circa l'effettiva esistenza di tale realtà). E alla luce  della presenza dello spirito nello stesso "meccanismo" stessa conoscenza umana , pur condizionata dall'esterno tende a somigliare, in modo imperfetto, al modello di conoscenza di un soggetto, che essendo puro spirito, possiederebbe in modo originario il materiale di tale conoscenza. L'uomo va chiarito sulla base delle singole componenti, non sono le singole componenti a dover essere limitate nella loro semantizzazione dalla finitezza dell'umano, pena porre tale finitezza e limitatezza dogmticamente come posizione intrascendibile con tutte le conseguenze che da tale dogmaticità deriverebbero
#521
Rispondo a Sgiombo

Proprio il fatto che  anche circa un ente non reale e immaginario si possono dare giudizi oggettivi fà sì che qualunque concetto sia formalmente ponibile come "universale". Effettivamente l'espressione "intenzionalità oggettiva" per come l'ho usata, riferita a un concetto rischia di essere fuorviante. Intenzionalità oggettiva non vuol dire presumere che un concetto non sia solo un prodotto della mente ma un esistenza reale (se così fosse certamente il concetto di ippogrifo non sarebbe un concetto oggettivo), vuol dire che il concetto che pongo come elemento di un giudizio lo utilizzo attribuendogli un senso valido per ogni situazione in particolare nel quale l'oggetto può entrare a far parte di uno specifico stato di cose, e che senza tale attribuzione non sarebbe possibile alcun guidizio rivolto a predicare stati di cose oggettivi. Se io giudico che "l'immagine che ho di fronte rappresenta un ippogrifo" questa giudizio è intenzionalmente rivolto a rappresentare uno stato di cose oggettivo e può farlo perchè il concetto di "ippogrifo" ha per me un senso che vale per tutti gli ippogrifi possibili, altrimenti non sarebbe utilizzabile come criterio a-priori per dire che ciò che ho di fronte è un ippogrifo, ho bisogno cioè del concetto generale per giudicare il caso singolo, in questo senso parlavo di "intenzionalità oggettiva" del concetto e sostenevo la corrispondenza tra l'intenzionalità oggettiva del concetto (resa possibile dalla forma universale del concetto) e l'intenzionalità oggettiva del giudizio. La non-oggettività dell'ippogrifo intesa come non-esistenza reale non ha nulla a che fare con l'oggettività che consideravo io in questo contesto, spero di avere charito l'equivoco

Essendo l'universalità il carattere formale e non contenutistico del concetto, ogni concetto è universale a prescindere dall'estensione semantica del contenuto, dell'oggetto a cui il concetto si riferisce, e quindi non ci sono difficoltà a pensare a concetti formalmente universali riferiti a singoli individui e non solo a specie. Come il concetto di "gatto" si riferisce ad OGNI possibile gatto, il concetto del singolo gatto Attila, vale per tutti le differenti situazioni di cui di Attila posso fare esperienza, Attila resta Attila, sia quando dorme, quando è sveglio, quando è fuori casa, quando è in casa, quando è giovane, quando invecchierà... In questo caso il concetto del singolo gatto Attila consisterà nella sua identità individuale, vale per tutti i modi per i quali posso fare la sua esperienza, quindi la sua forma è universale come la forma del concetto "gatto", cambia solo l'estensione semantica del contenuto, non più una specie ma un singolo individuo. La molteplicità da cui si astrae non è per forza una molteplicità quantitativa, può essere una molteplicità di aspetti e situazioni riferibili a un ente numericamente unico. Ecco perchè "concetto" e "specie" sono cose diverse. Il concetto è una struttura mentale che può riferirsi sia a enti collettivi che individuali, la specie è data dal complesso di qualità comuni ad oggetti potenzialmente reali, tutto questo rientra nella fondamentale distinzione tra logica formale che comprende l'utilizzo di concetti, e l'ontologia "materiale" che si occupa di qualità concrete degli oggetti.

Pensare a un contatto cosciente della nostra mente con un "qualcosa" di universale di cui si potrebbe non rendersi conto non è qualcosa di assurdo, il "rendersi conto" di un processo mentale cosciente è un fatto accidentale e ulteriore rispetto al processo mentale cosciente stesso. Ogni atto della coscienza è specificato dall'oggetto a cui si rivolge. Dunque l'atto della coscienza con cui ci rivolgiamo alla nozione di universalità non è lo stesso atto di coscienza con cui penso al primo atto, quest'ultimo è un rivolgersi ulteriore. Del resto molti processi mentali hanno continuato nel tempo a porsi in atto senza che la coscienza riflettente (scientifica) se ne accorgesse. L'attività della coscienza che interviene nell'attività onirica a camuffare ngli elementi libidinosi in quanto sconvenienti socialmente era pressochè sconosciuta prima degli studi di Freud sull'inconscio e sull'interpretazione dei sogni (lasciamo perdere per ora il termine "inconscio", a mio modestissimo avviso fuorviante mentre sarebbe più corretto parlare di "coscienza potenziale", andremmo troppo fuori tema), eppure è sempre stata attuale prima che ce ne rendessimo conto. Inoltre, chi sostiene l'astrattività a-posteriori del concetto di universalità dovrebbe, in base a tale argomento,  sostenendo che ogni processo mentale cosciente non potrebbe essere se non anche auto-cosciente e oggetto di una consapevolezza, negare tale processo all'interno della mente degli innatisti dato che questi non se ne renderebbero conto!
#522
Citazione di: Phil il 03 Settembre 2016, 17:41:17 PM
Citazione di: davintro il 03 Settembre 2016, 16:29:14 PMPerchè il principio di corrispondenza per cui il concetto di "albero" e "casa" sono ricavati da realtà che corrispondono al significato del concetto, cioè alberi e case, non varrebbe più per l'universalità che invece andrebbe ricava dall'esperienza di una realtà che universale non è?
Credo che la risposta a questa domanda sia l'"astrazione negativa" a cui accennavo in precedenza (e che, per inciso, non è una mia invenzione!): alcuni concetti non appartengono a realtà esperibili, ma sono stati comunque derivati dalla negazione di ciò che è esperibile. Come posso sapere cos'è l'"assenza", se sperimento solo presenze? E il concetto di "eternità"? E il "nulla"? Sono tutti concetti definiti (oltre che da una tradizione che ce li insegna e da un vocabolario che ce li spiega) logicamente dalla negazione di un'astrazione che possiamo basare sull'esperienza. Per questo alcune astrazioni creano falsi problemi e paradossi che "concretamente" non sussistono (Zenone docet!). L'universalità (una volta acquisita per astrazione dalla particolarità), secondo me, è come l'"esponente" matematico, la "potenza" che moltiplica i risultati della singola astrazione; ad esempio: guardo una cavallo - astraggo alcune caratteristiche - ottengo la "forma astratta di quel cavallo" ("FC") - negando l'individualità (dell'esperienza conoscitiva di quel singolo cavallo), ottengo una non-individualità dell'esperienza, detta universalità (n) - coniugo la "forma astratta" di cavallo (FC) con la congetturata universalità (n) - inizio a pensare quella "forma astratta" valida per un numero infinito di cavalli (FCn). Salvo poi dover verificare se in quella forma ho considerato qualcosa che invece è solo una contingenza particolare di quel singolo cavallo...
Citazione di: davintro il 03 Settembre 2016, 16:29:14 PMNon è piuttosto più coerente pensare che l'apprensione dell'universale sia qualcosa dipendente dall'esperienza di qualcosa di realmente universale
[corsivo mio] Se anche esperissimo qualcosa di universale non lo sapremmo mai con certezza, perché non potremmo verificarne l'universalità, quindi non potrebbe essere quella l'esperienza che fonda l'universale come concetto (salvo crederci per fede... ma tale credenza tuttavia presuppone già l'acquisizione del concetto di universalità da una tradizione o da un "vocabolario", per cui tale concetto di universalità sarebbe semplicemente "ricevuto" e presupposto...).

Ma cosa renderebbe possibile la "negazione"? Anche se, ammesso e non concesso, il concetto di universalità fosse ricavato per astrazione negativa da quello di particolarità, senza che esso sia il presupposto formale della possibilità di avere un concetto di "particolarità" come di qualunque altro concetto (come invece ritengo io) tuttavia occorrerebbe che il concetto di "particolarità" comprenda in sè la possibilità di essere negato, così da poterne derivare il concetto opposto, quello di "universalità".  Dunque, la negazione presuppone un rapporto di opposizione e la coscienza dell'opposizione presuppone la coscienza della differenza dei termini che si oppongono. Qui mi è utile ritornare all'esempio che avevo fatto a Sgiombo su "madre" e "figlio". L'essere madre  consiste in una relazione con un altro essere che però non è responsabile dell'esistenza della madre in quanto donna, in quanto sostanza. Cioè, d'accordo con Aristotele, le relazioni non sono sostanze, non determinano l'essere delle cose, ma contribuiscono ad approfondire e ad arricchirne il significato. La relazione non determina l'essere delle cose, è l'essere che fà sì che la cosa sia in un certo tipo di relazione con altre cose. La negazione non è una sostanza, è una relazione logica. L'universalità è negazione dell'individualità ma io ne ho coscienza perchè ho già un'idea intuitiva del significato di "particolarità" e di "universalità". Alla luce dell'intuizione del senso dell'individualità e dell'universalità prendo coscienza della loro opposizione e posso riconoscere che uno è la negazione dell'altro. La negazione è resa possibile dal fatto che colgo l'idea che la "particolarità" non esaurisce il contenuto dell'essere, della totalità del pensabile, ma è potenzialmente, superabile dall'idea di qualcosa di ulteriore ed opposto ad esso, l'idea di universalità, di cui io apprendo il senso. La negazione è relazione, e noi non possiamo avere un'esperienza originaria delle relazioni, ma solo indiretta, a partire dalle cose (idee o realtà concrete) che sono in relazione, e questo perchè le relazioni sono attributi non esistenti autonomamente, per sè, ma solo come appartenenti alle sostanze, alle essenze, di cui invece cogliamo intuitivamente il senso. La negazione di A non porta necessariamente a B, prima devo sapere in cosa consistono A e B per poi dire che una è la negazione dell'altra. Mi rendo conto che questa tesi ha un senso solo nel contesto in cui la formazione delle idee non coincide con la formazioni sintattiche del linguaggio, delle definizioni chi usiamo (per le quali si potrebbe tranquillamente dire che la differenza tra B e non-A è solo convenzionale, dunque non avrebbe senso pensare a un'intuizione di B oggettivamente distinta da non-A), ma è data dal complesso di rapporti non tra parole, ma tra vissuti intuitivi e concreti della nostra esperienza delle cose, considerata in uno stadio originario e diretto, non ancora mediato da un apparato simbolico comunicativo

Per quanto riguarda l'ultima parte, direi che il riconoscimento dell'esperienza del contatto con qualcosa di universale avviene tramite l'astrazione. Attenzione! Non sto smentendo ciò che scrivevo prima dicendo che l'idea di universalità non nasce per astrazione. L'astrazione è ciò a partire da cui deriva non l'idea di universale, ma il riconoscimento a-posteriori della presenza in noi dell'universalità, che però sarebbe presente a prescindere dall'astrazione. Io posso, riflettendo sul processo di astrazione, rendermi conto della necessità per il costituirsi di tale processo dell'intuizione dell'idea di universalità a partire dal quale estendo i concetti astratti dal sensibile a delle applicazione a casi non ancora esperiti sensibilmente, applicazione potenzialmente valida infinitamente. Dunque, l'intuizione dell'universalità prescinde dall'astrazione dal sensibile (anzi, rende possibile quest'ultima), ma alla luce del condizionamento dell'esperienza sensibile sulla nostra conoscenza, noi non possiamo raggiungere uno stadio della conoscenza totalmente intelligibile e dunque dobbiamo trovare nella sensibilità gli aspetti che rendono possibile l'esperienza di questa, e possiamo riconoscere la necessità dell'intuizione dell'univeralità, non in  sè stessa, ma come condizione trascendentale di tale esperienza sensibile. Se si vuole, è un processo di riconoscimento "retroattivo", dagli effetti alle cause.
#523
Citazione di: sgiombo il 02 Settembre 2016, 12:48:02 PM
Citazione di: davintro il 02 Settembre 2016, 02:53:27 AML'universalità formale del concetto "albero" permette di dare al giudizio un'intenzionalità oggettiva, un tendere verso il riferirimento ad uno stato di cose oggettive, che non ha nulla a che fare con il fatto che potrei sbagliarmi, qui ciò che conta è l'intenzione. Se il concetto "albero" non fosse universale non potrei porlo come criterio regolativo per un giudizio che intende essere oggettivo, perchè altrimenti il criterio potrebbe essere smentito da altri criteri she sfuggono al recinto semantico del concetto "albero", che in quanto non più universale, sarebbe limitato da tale recinto e non ponibile più come criterio assoluto (ripeto, assoluto come intenzionalità, nel momento in cui lo utilizzo, non "assoluto" nel senso che IN UN MOMENTO SUCCESSIVO non potrei modificarlo), andrebbe persa, non la reale oggettività del sapere scientifico, ma qualunque carattere tetico dei nostri giudizi, qualunque spinta intenzionale che li porti a rivolgersi alla rappresentazione dell'oggettività del reale, perchè ogni concetto non potrebbe essere considerato di volta in volta come universalmente valido a livello formale
CitazioneE l'universalità formale del concetto "ippogrifo" come può permettere di dare al giudizio un' intenzionalità oggettiva, un tendere verso il riferirimento ad uno stato di cose oggettive? Anche il concetto di "Ippogrifo" é formalmente universale (non meno di quello di "albero"), ma dove starebbe la sua ogettività, il riferirimento ad uno stato di cose oggettive cui tenderebbe?
in generale lo "sviluppo" non è mai una creazione dal nulla, ma il potenziamento, l'approfondimento di qualcosa che già c'è, un certo nucleo preesistente. Dunque affermare che l'astrazione sarebbe il risultato di uno sviluppo non esclude di per sè che tale sviluppo non sia un processo che interessa degli elementi originariamente o innatamente presenti nella nostra mente. Inoltre in base a ciò che ho scritto non avrei alcun bisogno di negare che l'astrazione si realizzi non innatamente ma a partire dall'esperienza percettiva a-posteriori di oggetti particolari! Ciò che sostengo come innata (ma forse preferirei parlare di "originarietà" o "trascendentalità") non è l'astrazione nel complesso della sua struttura ma l'apprensione della nozione di "universalità", che sostengo sia elemento necessario ma non sufficiente dell'astrazione. Questa ha bisogno di una molteplicità di percezioni sensibili e di un riferimento universalistico che dia ai concetti che forma una valenza che li permetta di applicarli a oggetti in qualunque condizione empirica. Sintesi di forma e contenuto e se il contenuto non è innato non ha senso affermare l'innatezza del processo in generale!
CitazioneForse cominciamo un po' ad intenderci. Ma l'apprensione della nozione di "universalità" come elemento necessario ma non sufficiente dell'astrazione in che senso può dirsi "innata"? La nozione di "universalità" (a meno che, come di fatto solitamente avviene, non ci venga insegnata da altri che a loro volta l' hanno direttamente acquisita a posteriori oppure anch' essi indirettamente essendo stata anche a loro insegnata) si acquisisce a posteriori, in seguito ad esperienze, non la si sa (conosce) appena nati, prima di fare esperienze (allorché se ne ha solo la potenziale capacità di acquisirla).

I giudizi esistenziali, per cui giudichiamo una tal cosa oggettivamente esistente o no, non sono i soli giudizi possibili. L'esistenza è solo uno dei tanti predicati potenzialmente attribuibili a un soggetto. Quindi l'universalità, sempre nell'accezione formale, del concetto di ippografo non è toccato dal fatto di sapere l'ippografo non esiste nella realtà. Il fatto che non sia un ente realmente oggettivo ma opera della fantasia soggettiva degli uomini non preclude affatto la possibilità di poter dare giudizi oggettivi su di esso, pena confondere il senso logico dell'idea di oggettività (il valore di verità oggettiva di un giudizio) con quello ontologico (l'essere realmente autonomo di qualcosa rispetto ad una mente soggettiva che lo pensa o lo immagina). L'universalità mi permette di porre il concetto di "ippografo" come modello ideale regolativo sulla base del quale poter emettere su un singolo ippogrifo dei giudizi aventi un'intenzionalità oggettiva. Posso dire che "l'immagine che ho di fronte ritrae un'ippogrifo" e posso giudicare oggettivamente vero tale enunciato, a prescindere dal fatto di sapere che l'immagine rppresenta un essere fantastico e non reale. Va confermata l'idea che l'universalità formale dei concetti permette a questi di comporre un giudizio intenzionato verso una realtà oggettiva, mentre la totale relativizzazione dei concetti condurrebbe anche al totale relativismo e scetticismo nelle nostre conoscenze, conoscenze che altro non sono che un complesso organico e oridnato di giudizi. Conoscere e giudicare. Su questo punto in particolare Kant ha perfettamente ragione: perchè si dia conoscenza scientifica occorre che tale conoscenza sia costiuita da giudizi, sì sintetici, ma a-priori.

Dire che la conoscenza è come tutti gli altri concetti un derivato a-posteriori dell'esperienza degli oggetti particolari porterebbe a smentire qualunque collegamento tra apparato concettuale della mente soggettiva e natura degli oggetti esperiti che devono essere adeguati a produrre nella nostra mente concetti che li comprendono. Si creerebbe un fossato così largo tra realtà e mente che dovrebbe portare all'annullamento di qualunque discorso razionale, empirista o innatista che sia. Certamente il concetto di casa è ricavato dall'esperienza di singole case reali, e il concetto di albero dall'esperienza di singoli alberi reali, perchè alberi e case sono realtà adeguate e corripondenti ai concetti di "casa" e "albero". Ma il concetto di "universalità" o "totalità" ? Da dove deriverebbe? A partire da quale esperienza a-posteriori di oggetti potrebbe essere ricavata l'idea di universalità? Perchè il principio di corrispondenza per cui il concetto di "albero" e "casa" sono ricavati da realtà che corrispondono al significato del concetto, cioè alberi e case, non varrebbe più per l'universalità che invece andrebbe ricava dall'esperienza di una realtà che universale non è, perchè contingente, mutevole e delimitata dallo spazio-tempo da cui ricaviamo a-posteriori l'esperienza? Non è piuttosto più coerente pensare che l'apprensione dell'universale  sia qualcosa dipendente dall'esperienza di qualcosa di realmente universale, adeguato a produrre quel concetto, un "qualcosa" operante al di là della contingenza spaziotemporale e con cui dunque la nostra mente è da sempre in contatto, a prescindere che raggiunga un livello di autocoscienza tale da rendersi conto di questo essere in contatto?
#524
Citazione di: sgiombo il 02 Settembre 2016, 09:54:58 AM
Citazione di: davintro il 02 Settembre 2016, 01:18:25 AMRispondo a Sgiombo La potenzialità o predisposizione è ciò che non è ancora o non è più attuale, mentre le cause che producono un effetto come l'astrazione devono essere tutte attuali, cioè reali. Attuale deve essere la percezione sensibile che apprende il contenuto dell'oggetto individuale, attuale deve essere l'avvertimento della nozione di universalità per la quale ciò che si astrae dal particolare vale per tutti gli individui possibili. Cosa farebbe passare la potenzialità della nostra mente soggettiva all'attualità per la quale concretamente interviene nel processo di astrazione?
CitazioneLe ripetute esperienze di enti o eventi particolari concreti accomunate dalle caratteristiche che per l' appunto il pensiero distingue dalle altre individuali o comunque relativamente meno universali e astrae. Senza che esista prima dell' astrazione stessa nessuna avvertibile nozione di universalità, che si acquisisce a posteriori, per l' appunto in seguito all' astrazione.
Io posso essere fisicamente predisposto per svolgere con buon profitto una certa attività sportiva ma questo ancora non è sufficiente a determinare il fatto che io svolga realmente bene quello sport (magari per pigrizia mi alleno poco oppure per disinteresse non inizio nemmeno a praticarlo). Così l'apprensione dell'idea di universale necessaria almeno formalmente per ogni concetto per essere attuale nell'astrazione deve essere un'intuzione attuale e non solo una "predisposizione".
CitazioneEsattamente come mettendomi a correre e allenandomi (in seguito a concrete esperienze che mi inducono a farlo) traduco in atto quelle che altrimenti rimarrebbero solo le mie mere potenzialità atletiche (mera potenzialità di correre velocemente, e non capacità attualmente reale, già innata in quanto tale, di correre velocemente), così pensando, stabilendo, definendo un concetto universale astratto (in seguito a concrete esperienze di casi particolari che lo esemplificano le quali mi inducono a farlo) traduco in atto quelle che altrimenti rimarrebbero solo le mie mere potenzialità gnoseologiche, teoriche (mera capacità di conoscere idee universali e non conoscenza attualmente reale, già innata in quanto tale, di idee universali).
Se un evento (l'astrazione) per realizzarsi ha bisogno del concorso del reale accadere causale di due fattori (la percezione sensibile del contenuto e l'intuizione dell'universalità che permette al concetto di comprendere tutti gli individui a prescindere dalla contingenza spaziotemporale nella quale posso farne esperienza), e uno dei due interviene attualmente e l'altro resta allo stato potenziale (di fatto un non-essere più o un non-essere ancora), l'evento non si realizza, fermo restando che, ovviamente la predispozione è fondamentale e necessaria.
CitazioneL' astrazione per realizzarsi ha bisogno del concorso del reale accadere causale delle percezioni sensibili (tante) del suo "contenuto" e della capacità (in assenza di tali percezioni sensibili meramente potenziale) di astrarre e di definire il concetto astratto: non c' è alcuna "intuizione" (sensazione? Conoscenza?) "dell'universalità" prima di questo processo mentale!
è vero che il concetto di "universalità" porta in sè come implicita una relazione (oppositiva) con il concetto di "particolarità", ma questo non ha nulla a che fare con il problema della genesi della presenza dell'idea di universalità nella nostra mente. Un conto è una relazione sul piano logico-concettuale un altro una relazione di tipo reale-psicologico. Il fatto che concettualmente l'idea di universalità comprenda il fatto di essere opposta al concetto di particolarità non vuol dire che quest'ultimo sia la causa del formarsi reale del primo nella nostra mente. Altrimenti, sarebbe come dire che essendo il concetto di "madre" in necessaria relazione logica con quello di "figlio" ci sarebbe una dipendenza genetica reale della donna madre con il figlio (e viceversa), mentre dal punto di vista della causalità esistenziale la dipendenza è unilaterale. La madre è causa dell'esistenza del figlio e non viceversa a prescindere dal fatto che prima di generare il figlio non poteva definirsi madre.
CitazioneNon ho mai sostenuto quanto qui giustamente neghi.
Occorre evitare la confusione tipica di un certo empirismo tra "sostanza" e "relazione". Il problema della genesi psicologica della realtà sostanziale dell'idea di universalità ( so che è un pò imbarazzante parlare di "realtà a proposito di un'idea, ma spero di riuscire a far capire che parlando di "realtà" considero la realtà psicologica della presenza dell'idea alla mente) dalle relazioni conseguenti alla sua natura. Tra l'altro se vale l'idea per cui la relazione determina una dipendenza il passaggio potrebbe essere tranquillamente percorso in senso inverso e determinare non la dipendenza dell'universale dal particolare, ma del particolare dall'universale e questo confermerebbe il carattere di anteriorità del concetto di quest'ultima
CitazioneIn che senso "occorre evitare la confusione tipica di un certo empirismo tra 'sostanza" e "relazione' "? Il periodo che segue queste parole mi é incomprensibile (non trovo un verbo della proposizione principale). Comunque non ho mai sostenuto che esistano fra i significati dei concetti (in particolare fra i significati dei concetti particolari e di quelli universali; mi scuso per il gioco di parole) soltanto, unicamente, "universalmente" relazioni di dipendenza causale. Casomai esistono necessariamente relazioni di interdipendenza (reciprocità, complementarità) logica e semantica. Relazioni causali esistono necessariamente solo nel processo (reale) di "confezionamento" di concetti universali da concetti particolari (singolari o comunque relativamente meno universali).

Chiedo scusa, in effetti ho dimenticato di inserire il verbo dopo la parentesi. Volevo scrivere che "Il problema della genesi psicologica della realtà sostanziale dell'idea di universalità (segue la parentesi) va distinto da quello delle relazioni conseguenti alla sua natura". Volevo dire che la realtà di un ente, compreso un ente ideale non si riduce al fatto di essere in relazione con altri enti, la relazione non è una realtà in sè, ma un modo d'essere di una realtà la cui ragione dell'esistenza non coincide necessariamente con la ragion d'essere delle sue relazioni, e a tal propostivo avevo fatto l'esempio della madre e del bambino. Mi è sembrato che sostenessi che la correlazione dell'idea di universalità e quella di particolarità dovesse portare a dedurre una dipendenza causale-psicologica della prima dalla seconda, mentre a mio avviso qualunque concetto in quanto tale, compreso quello di "particolarità", è posto dalla mente come avente valore universale, cosicchè l'universalità non può essere la conseguenza ma la condizione a-priori di ogni concetto. Per il resto provo a rispondere tra poco in un altro messaggio...
#525
Citazione di: Phil il 01 Settembre 2016, 16:22:51 PM
Citazione di: davintro il 01 Settembre 2016, 02:17:23 AMIn qualunque concetto, in quanto tale, si annida l'idea di universalità, perchè ogni concetto vale per tutti gli individui possibili in ogni tempo e luogo della specie indicata nel concetto.
In ogni concetto si annida l'idea di "universalità" o di "astrazione"? Pongo questa domanda per intenderci meglio sulle parole chiave della questione... personalmente, direi che ogni concetto è astratto, ma non che ogni concetto è universale: ad esempio, il mio concetto di "giustizia" non solo è personale (limitato nello "spazio"), ma potrebbe essere stravolto domani (limitato nel "tempo"); quindi, quando lo penso, non lo penso "universale", ma solo utilmente "astratto", ovvero fruibile per valutare un'ipotetica universalità dei casi, ma senza essere esso stesso universale (non è dunque il concetto in quanto tale ad essere sempre e necessariamente universale, ma le sue possibili applicazioni; non so se è questa l'ambiguità che porta al nostro disaccordo...). Che significa "universalità dei casi"? In tutti i casi possibili. Come faccio ad estendere l'applicazione di un concetto (non il concetto stesso) a tutti i casi possibili? Tramite l'astrazione (negativa) che lega il singolare/parziale al plurale/totale.
Citazione di: davintro il 01 Settembre 2016, 02:17:23 AMQuindi non è possibile che il concetto di "universalità" sia la derivazione secondaria della negazione del concetto di finitezza o particolarità. Perchè già nel formare il concetto di "finitezza" o "particolarità" è già implicito il riferirsi della nostra mente all'universalità, la "finitezza" vale per TUTTI i finiti, la "particolarità" vale per TUTTI gli oggetti particolari.
Questi "tutti" vengono semplicemente astratti dai rispettivi "uno"... e, come accennavo prima, non è la "finitezza" o la "particolarità" ad essere "universale", ma, asintoticamente, le loro possibili applicazioni...
Citazione di: davintro il 01 Settembre 2016, 02:17:23 AML'apprensione dell'idea di "universalità" o "totalità" è una struttura trascendentale e innata della nostra mente, non può essere la derivazione di alcun concetto, perchè ogni concettualizzazione la presuppone.
Se "totalità" e "universalità" sono una "struttura trascendentale innata" (ammesso e non concesso ;) ), non dovrebbero logicamente appartenere alla stessa "struttura" anche "parzialità" e "singolarità"? Questa struttura innata non verrebbe comunque attivata dall'esperienza del singolare/parziale? La capacità d'astrazione non si sviluppa, nei primi anni (non sono pratico di infanzia!) proprio a partire dal vissuto del particolare? Questo sviluppo (se c'è...) conferma l'innatismo del concetto di universalità oppure conferma che l'universalità è frutto di un'astrazione (negativa)? Per ora, concorderei con Sgiombo nel concludere che la condizione di possibilità della concettualizzazione è l'astrazione, non il concetto di universalità (a sua volta derivato da un'astrazione, secondo me...):
Citazione di: sgiombo il 01 Settembre 2016, 13:39:42 PMCiò che ogni concettualizzazione presuppone non é la conoscenza innata [...] del concetto di "universale" (che si acquisiscono a posteriori, con l' esperienza; oppure ci vengono insegnati), bensì la mera capacità (potenzialità) innata di astrarre e definire concetti.
P.s. Si possono astrarre concetti non universali? Se per concetto intendiamo "astrazione formale", direi di si: ognuno di noi ha i suoi individuali concetti riguardanti l'arte, la politica, la vita, etc. che non sono universalmente validi o accettati...

è certamente vero che la mia idea di giustizia può cambiare col tempo ma questo non smentisce il carattere universalistico del concetto. L'uomo è un essere imperfetto, mutevole, condizionato da ciò che è altro da sè, quindi cambiano le sue idee, il contenuto dei suoi concetti, delle sue definizioni... ma come scritto più volte l' "annidarsi" dell'universale nei concetti non riguarda il contenuto dei concetti (a meno che non si parli del concetto stesso di "universalità" ed in fondo avevo aperto la discussione proprio riguardo questo tema, come potrebbe una critica della conoscenza,tesa a stabilire i principi universali della conoscienza scientifica, giustificare la riduzione dell'esperienza all'esperienza sensibile), che può essere sensibile nel caso di concetti di oggetti materiali come case o cavalli, o intelligibili come "libertà" o "giustizia". Rigurda il modo d'essere formale dei concetti. Sia che si parli di concetti  contenutisticamente sensibili o intelligibili, ogni concetto viene intenzionato come valido a prescindere dalla contingenza spaziotemporale dei singoli oggetti a cui il concetto si riferisce, dunque ogni concetto, preso in questo senso, è universale. E questa valenza universalistica permette ai concetti di essere elementi dei nostri giudizi, potendo essere utilizzati come criteri regolativi trascendentali. Quando formulo il giudizio "di fronte a me c'è un albero" il concetto albero vale per tutti gli alberi possibili immaginabili, anche per tutti quelli che non ho ancora osservato, da cui non ho potuto effettuare alcuna astrazione, altrimenti non potrei applicarlo a quel singolo albero che mi sta di fronte. L'universalità formale del concetto "albero" permette di dare al giudizio un'intenzionalità oggettiva, un tendere verso il riferirimento ad uno stato di cose oggettive, che non ha nulla a che fare con il fatto che potrei sbagliarmi, qui ciò che conta è l'intenzione. Se il concetto "albero" non fosse universale non potrei porlo come criterio regolativo per un giudizio che intende essere oggettivo, perchè altrimenti il criterio potrebbe essere smentito da altri criteri she sfuggono al recinto semantico del concetto "albero", che in quanto non più universale, sarebbe limitato da tale recinto e non ponibile più come criterio assoluto (ripeto, assoluto come intenzionalità, nel momento in cui lo utilizzo, non "assoluto" nel senso che IN UN MOMENTO SUCCESSIVO non potrei modificarlo), andrebbe persa, non la reale oggettività del sapere scientifico, ma qualunque carattere tetico dei nostri giudizi, qualunque spinta intenzionale che li porti a rivolgersi alla rappresentazione dell'oggettività del reale, perchè ogni concetto non potrebbe essere considerato di volta in volta come universalmente valido a livello formale

in generale lo "sviluppo" non è mai una creazione dal nulla, ma il potenziamento, l'approfondimento di  qualcosa che già c'è, un certo nucleo preesistente. Dunque affermare che l'astrazione sarebbe il risultato di uno sviluppo non esclude di per sè che tale sviluppo non sia un processo che interessa degli elementi originariamente o innatamente presenti nella nostra mente. Inoltre in base a ciò che ho scritto non avrei alcun bisogno di negare che l'astrazione si realizzi non innatamente ma a partire dall'esperienza percettiva a-posteriori di oggetti particolari! Ciò che sostengo come innata (ma forse preferirei parlare di "originarietà" o "trascendentalità") non è l'astrazione nel complesso della sua struttura ma l'apprensione della nozione di "universalità", che sostengo sia elemento necessario ma non sufficiente dell'astrazione. Questa ha bisogno di una molteplicità di percezioni sensibili e di un riferimento universalistico che dia ai concetti che forma una valenza che li permetta di applicarli a oggetti in qualunque condizione empirica. Sintesi di forma e contenuto e se il contenuto non è innato non ha senso affermare l'innatezza del processo in generale!

L'universalità formale dei concetti non ha nulla che fare con il loro eventualmente essere "universalmente validi e accettati". L'universalità, come del resto l'oggettività del vero, non c'entra con il consenso intersoggettivo. Perchè i miei concetti delle cose siano posti come universali non ho alcun bisogno che siano condivisi nel loro contenuto da altri. Possiamo riempire di un contenuto diverso ciò che intendiamo come "giustizia" e libertà", ma ciascuno di noi come singolo porrà formalmente il suo concetto personale di "giustizia" o "libertà" come valido per ogni determinazione particolare di azioni giusti o soggetti liberi. Se così non fosse non esisterebbe alcuna lotta o conflitto nella storia tra persone e popoli che sostengono differenti interpretazioni delle stesse categorie. I conflitti e le incomprensioni accadono per la mancanza dell'universalità del contenuto delle categorie (contenuto condizionato, anche si tratta di concetti intelligibili, dal carattere di finitezza empirico dell'uomo), ma al tempo stesso accadono perchè ciascuno pone come universale il significato delle sue categorie, cioè il modo d'essere formale con cui strutturiamo i concetti. Infatti l'universalià formale che considero è l'universalità intesa come intenzione soggettiva di chi utilizza il concetto. I concetti delle cose particolari non sono universali, ma sono posti come tali dai soggetti, e questo "porsi" è il fondamentale atto che il pone in essere. Quindi in un certo senso proprio il conflitto interpretativo tra i significati che differenti uomini e comunità danno degli stessi concetti presuppone da parte di ciascuno l'intenzione universalistica con cui tali concetti vengono formati.