a mio avviso l'idea della contraddittorietà del divenire è frutto della confusione tra piano logico-formale e piano materiale-esistenziale. A non potrà mai essere sul piano logico non-A, questa resta una verità indubitabile fondamento trascendentale del nostro pensare. Ma dal punto di vista reale ed esistenziale nessun ente è mai solo una lettera, una proprietà, ma una struttura complessa (anche le entità apparentemente più semplici come pietre e sassi) di differenti proprietà, un intreccio di queste. A non potrà mai essere non-A vuol dire "essere in Italia" non sarà mai come "non essere in Italia", ma non vuol dire che "Tizio è in Italia" sia la condizione definitiva di Tizio, che non potrebbe mai andarsene dall'Italia e visitare un paese straniero. L'immutabilità sottesa al principio di non contraddizione riguarda il significato concettuale di un singolo modo d'essere considerato astrattamente, e formalizzabile in modo simbolico con la lettera A, non la concretezza di un ente sostanziale che vive in una temporalità diacronica (Tizio) e che si pone come relazione dinamica tra una molteplicità di proprietà che non possono essere, se contestualizzate all'interno della realtà del soggetto a cui appartengono. La pretesa di dedurre un'ontologia, una teoria sulla realtà a partire da leggi regolanti i rapporti tra puri concetti rende l'eleatismo in fondo una sorta di idealismo ante litteram che anticipa, giungendo alle sue conclusioni radicali, i sistemi idealisti tedeschi dell'ottocento. A tale confusione idealista occorre rispondere con il realismo aristotelico che distingue all'interno di un ente proprietà sostanziali che restano immutabili all'interno di un ente, finendo con il costituirlo come "quell'ente e non un altro" e proprietà accidentali, mutevoli. Che Tizio si trovi in Italia o in Germania riguarda sue proprietà accidentali, soggette al divenire, che però convivono insieme ad un substrato immutabile, ciò che rende Tizio Tizio e non Caio,la sua sostanzialità, la sua identità personale. Nell'ultimo senso l'essere di Tizio vede il suo nullificarsi come contradditorio, dunque insensato. La soluzione dunque è considerare il divenire non il passaggio dall'essere al nulla, ma trasformazione qualitativa di accidenti che si attua però all'interno dell' essere, essere che resta sempre tale senza mai cadere nel Nulla assoluto.
La distinzione tra il piano logico formale e quello ontologico non deve però farci cadere nell'errore di considerare qualunque discorso sull'Essere universale, immutabile, escludente il nulla, come necessariamente astratto, filosoficamente inconcludente, tautologico, sofisitico, opposto alla concretezza del divenire. In realtà l'Essere considerato in sè stesso, nella sua indeterminatezza, ha una sua concretezza che gli deriva dall'essere la condizione necessaria della manifestazione di ogni ente particolare e della giudicabilità. Ogni ente per essere predicato, giudicato, ha bisogno che si manifesti a noi come avente delle caratteristiche che lo rendono un "non nulla". Affermare, giudicare, predicare delle proprietà circa un soggetto equivale a considerare quel soggetto come avente un qualunque modo d'essere, dunque un essere. L'essere è cioè il presupposto trascendentale dell'affermare qualcosa di qualcuno, dell'affermare predicati di un soggetto, ciò che determina di fatto la presenzialità di qualunque cosa. Ciò che non posso in alcun modo giudicare è il Nulla, l'assoluto non-presente. In questo modo si può dire che l'idea di Essere come presupposto trascendentale della giudicabilità è co-implicata nell'idea di Universalità, quest'ultima intesa come presupposto trascendentale della formazione dei concetti, che a loro volta sono i termini che compongono i giudizi, seppur sia la giudicabilità e la concettualizzazione hanno bisogno di un contenuto esperienziale per poter concretezzarsi. Questa relazione di co-implicazione tra idea dell' "essere" e idea di "universalità" compone una struttura originaria (non voglio dire innata) fondante la nostra soggettività mentale.
Questo discorso potrebbe essere contestato dal punto di vista dell'idea (e qui finisco con lo sfiorare l'altro tema in cui mi pare si sia nelle ultime pagine orientata la discussione, il tema del rapporto tra linguaggio-cosa) che nella sintassi della nostra lingua l'essere si limita ad essere una copula, e non un predicato, per il quale si potrebbe dire che ciò che ho di fronte è un "essere". Ma in realtà occorre che l'analisi dei principi fondamentali della soggettività pensante, la speculazione filosofica, sia indipendente dalla molteplicità delle forme culturali linguistiche, e che cerchi di giungere a conclusioni necessarie attraverso un lavoro critico razionale di setaccio e separazione degli aspetti contingenti dagli aspetti essenziali all'interno dell'esperienza di ciò che tematizziamo. Identificare le possibilità del pensiero con quelle del linguaggio dovrebbe portare a smentire l'idea che ogni giudizio presupponga la presenza della nostra mente dell'idea dell'essere sulla base del fatto che alcuni giudizi non sono in lingua italiana strutturati in riferimento esplicito all'essere, tutti giudizi in cui l'essere non compare come soggetto o copula. Ma l'obiezione viene meno nel momento in cui l'Essere non va considerato come parola, convenzione culturale, ma come oggetto di un'intuizione intellettuale di cui ci si può render conto nell'analisi della nostra esperienza considerata a un livello interiore, preesistente alla traduzione a scopi comunicativi con l'esterno in forma simbolica, cioè con le parole. Cioè anche quando dico e scrivo "ho una maglietta","piove", "mangio la piadina", sto utilizzando l'idea dell'Essere, a prescindere dalla sua non utilizzazione a livello linguistico.
La distinzione tra il piano logico formale e quello ontologico non deve però farci cadere nell'errore di considerare qualunque discorso sull'Essere universale, immutabile, escludente il nulla, come necessariamente astratto, filosoficamente inconcludente, tautologico, sofisitico, opposto alla concretezza del divenire. In realtà l'Essere considerato in sè stesso, nella sua indeterminatezza, ha una sua concretezza che gli deriva dall'essere la condizione necessaria della manifestazione di ogni ente particolare e della giudicabilità. Ogni ente per essere predicato, giudicato, ha bisogno che si manifesti a noi come avente delle caratteristiche che lo rendono un "non nulla". Affermare, giudicare, predicare delle proprietà circa un soggetto equivale a considerare quel soggetto come avente un qualunque modo d'essere, dunque un essere. L'essere è cioè il presupposto trascendentale dell'affermare qualcosa di qualcuno, dell'affermare predicati di un soggetto, ciò che determina di fatto la presenzialità di qualunque cosa. Ciò che non posso in alcun modo giudicare è il Nulla, l'assoluto non-presente. In questo modo si può dire che l'idea di Essere come presupposto trascendentale della giudicabilità è co-implicata nell'idea di Universalità, quest'ultima intesa come presupposto trascendentale della formazione dei concetti, che a loro volta sono i termini che compongono i giudizi, seppur sia la giudicabilità e la concettualizzazione hanno bisogno di un contenuto esperienziale per poter concretezzarsi. Questa relazione di co-implicazione tra idea dell' "essere" e idea di "universalità" compone una struttura originaria (non voglio dire innata) fondante la nostra soggettività mentale.
Questo discorso potrebbe essere contestato dal punto di vista dell'idea (e qui finisco con lo sfiorare l'altro tema in cui mi pare si sia nelle ultime pagine orientata la discussione, il tema del rapporto tra linguaggio-cosa) che nella sintassi della nostra lingua l'essere si limita ad essere una copula, e non un predicato, per il quale si potrebbe dire che ciò che ho di fronte è un "essere". Ma in realtà occorre che l'analisi dei principi fondamentali della soggettività pensante, la speculazione filosofica, sia indipendente dalla molteplicità delle forme culturali linguistiche, e che cerchi di giungere a conclusioni necessarie attraverso un lavoro critico razionale di setaccio e separazione degli aspetti contingenti dagli aspetti essenziali all'interno dell'esperienza di ciò che tematizziamo. Identificare le possibilità del pensiero con quelle del linguaggio dovrebbe portare a smentire l'idea che ogni giudizio presupponga la presenza della nostra mente dell'idea dell'essere sulla base del fatto che alcuni giudizi non sono in lingua italiana strutturati in riferimento esplicito all'essere, tutti giudizi in cui l'essere non compare come soggetto o copula. Ma l'obiezione viene meno nel momento in cui l'Essere non va considerato come parola, convenzione culturale, ma come oggetto di un'intuizione intellettuale di cui ci si può render conto nell'analisi della nostra esperienza considerata a un livello interiore, preesistente alla traduzione a scopi comunicativi con l'esterno in forma simbolica, cioè con le parole. Cioè anche quando dico e scrivo "ho una maglietta","piove", "mangio la piadina", sto utilizzando l'idea dell'Essere, a prescindere dalla sua non utilizzazione a livello linguistico.