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Messaggi - Kobayashi

#526
InVerno: sì hai ragione, ma l'individualismo moderno non è fatto per degli esseri umani, quindi non resta che pensare a qualcos'altro. Nella Grecia classica il cittadino era impegnato su tre livelli: quello privato (famiglia e lavoro); quello politico (partecipazione ad assemblee in cui si deliberava); quello dell'Agorà (luogo pubblico in cui si pensava insieme al futuro della città, luogo quindi politico ma non esecutivo, diciamo così, luogo di dialogo tra persone che riconoscevano la presenza di un legame reciproco).
Lasciamo pure perdere le utopie e i movimenti rivoluzionari, ma dimmi, dobbiamo rassegnarci a contenere la nostra umanità nella sola vita privata?
#527
A green demetr che scrive "bisogna ripartire da Cartesio" rispondo: cioè dovremmo tornare al razionalismo del Seicento e di nuovo a persuaderci che la nostra ragione, pura, limpida, se ben condotta da un metodo ci può portare alla costruzione di nuovi sistemi metafisici?
Ma se tutta la filosofia da Nietzsche in poi non è stata altro che lo smantellamento di queste convinzioni!
E poi se la questione è: di fronte alla crisi spirituale ed esistenziale dei nostri tempi, quale può essere il ruolo della filosofia? La risposta non può essere un ritorno a uno di quei fondamenti – un certo tipo di razionalità di cui Cartesio è fondatore e simbolo – ormai superati.
Mentre riproporre alcune tecniche della saggezza antica, per esempio, è altra cosa perché significa ritornare a un modo di vivere la filosofia prima che diventasse un sistema di conoscenza di verità ultime.

Ma il punto è che anche la condizione di chi resiste alla tentazione della metafisica, nelle sue diverse forme, non può essere sopportata a lungo... Siamo un po' tutti stanchi di sguazzare nelle fragili prospettive della post-modernità.
Il lavoro di Sloterdijk è il prodotto di questa situazione limite.
Ma non stiamo ricercando melanconicamente delle certezze. Questo aspetto, la presunta esigenza di un assoluto, di qualcosa di stabile, è, secondo me, profondamente sopravvalutato.
La crisi attuale non è il sintomo della perdita di Dio nelle sue diverse forme.
Gli europei non sono depressi perché non riescono a elaborare un lutto. Sono in realtà catatonici perché non possono convincersi che quella che stanno sperimentando sia vera vita, e così come gli insetti d'inverno, riducono il proprio metabolismo quasi allo zero...

Forse  quello che manca davvero all'europeo è la capacità di immaginare di poter uscire da questa immobilità e sperimentare qualche grande avventura (avventura nel senso indicato da Vittorio Mathieu di "cose che vengono a noi dal futuro, ma non senza che noi, di nostra iniziativa, ci muoviamo"; "l'incontro di eventi dipende da un nostro muoverci nello spazio"; "se noi non ci muovessimo non avremmo un futuro, fausto o infausto che sia, mentre il nostro spostarci ci fa incontrare le adventura").
#528
X Sgiombo.
L'analisi della situazione mi sembra ampiamente condivisa, indipendentemente dall'essere o meno marxisti. Intendo dire che questo capitalismo neoliberista non può che essere profondamente criticato, a meno di appartenere, come dici tu, a classi privilegiate.
Ciò che però getta nello smarrimento più assoluto è la totale mancanza di un'alternativa a questo sistema. Riproporre la ricetta leninista dell'avanguardia illuminata, francamente, con tutta la simpatia e il rispetto e oserei dire l'amore – poiché ho frequentato a lungo quei luoghi... –, non penso possa portare a nulla.
Si sente il bisogno di qualcosa di nuovo, ma non c'è ancora nulla.
(Vedi per esempio il lavoro di Dardot e Laval: analisi notevolissima del neoliberismo, ma quando si tratta poi di proporre qualcosa di nuovo eccoli venir fuori con delle idee fragilissime...).
Forse bisognerebbe lasciar perdere il discorso politico (almeno fino al crollo definitivo del sistema bancario-finanziario mondiale... perché poi quando i bancomat sputano fuori aria calda anziché banconote voglio vedere se le persone non iniziano a pensare seriamente alle virtù della ghigliottina...) e concentrarsi sulle possibilità della dimensione comunitaria (intendo dire il lavoro pratico con una ventina o più di persone nella costruzione di qualcosa che non sia un'azienda ne una famiglia e che al momento chiamo comunità per mancanza di parole...).
#529
Angelo, anche se non penso che nei miei interventi Dio fosse presentato "come il bene infallibile e l'uomo come l'essere difettoso", andiamo avanti. Nel riferirmi a quella tradizione spirituale mi interessava soprattutto l'elemento della lotta interiore, del demoniaco.

Riprendendo quello che dici tu mi viene in mente che l'episodio di Caino e Abele è allora ancora più chiaro nell'evidenziare l'ambiguità – diciamo così – del comportamento di Dio di cui hai accennato.
Infatti viene detto esplicitamente che Caino e la sua offerta non sono graditi a Dio, mentre Abele e la sua offerta sì. Perché? Impossibile capirlo.
Ma un testo cattolico – che tu avrai allora profondamente criticato... – "Prendi il libro e mangia!", di Rossi De Gasperis, in modo un po' spudorato dice invece che "il Signore ama anche Caino, e lo consola con la sua parola contro lo scoraggiamento e la tentazione fratricida", mettendo poi al centro della vicenda la questione del rapporto con l'altro, e di come l'invidia e la violenza che ne scaturiscono dipendono dall'incapacità di Caino di accettare il fratello, di accettarne le differenze. Rossi De Gasperis ricorda anche l'interpretazione di Filone D'Alessandria secondo cui in realtà Caino non accettava se stesso e il fratricidio va letto come un suicidio.
Insomma nessun accenno al fatto che Caino non piaceva a Dio, che doveva fare i conti con questa cosa. Per Rossi De Gasperis tutti e due erano amati e ben voluti da Dio, anche se in modo diverso. Quindi stava a ciascuno dei due fratelli accettare che l'altro fosse amato in un modo specifico, ed evitare di farsi possedere dall'invidia.

Attendo anch'io, come green demetr, la tua analisi.
Ma intanto toglimi una curiosità: la tua è una lettura più vicina alla tradizione esegetica ebraica (che io non conosco...)?
#530
Ma non era mia intenzione sottolineare la colpa dell'uomo, forse mi sono espresso male...
Diciamo che il peccato originale è un simbolo che indica la necessaria reciproca appartenenza di uomo e Dio. Quando si rompe questa relazione, l'uomo, anziché ricercare la pienezza di vita (perché nell'immagine di Dio vede la vita, l'essere, l'abbondanza), può finire per lasciarsi dominare dal desiderio della distruzione.
Voglio dire che una certa sapienza religiosa può trarre questa conclusione: uomo e Dio come le metà spezzate di un simbolo. L'altra metà spezzata deve essere riempita da qualcosa: o Dio o il nulla (come dire i demoni).

Ma sto rileggendo alcune cose su Dostoevskij... forse mi sono lasciato un po' influenzare...
#531
La Genesi vuole spiegare la natura del peccato, e questa consiste nella rottura della relazione tra uomo e Dio (che sia la conoscenza a generare la diffidenza e l'allontanamento dell'uomo dalla presenza di Dio è, secondo me, significativo ma secondario).
Se l'uomo si allontana da Dio, che deve essere pensato come vita, come la forza vivificante dell'essere, ecco che diventa facile preda delle forze che sono l'opposto della vita: quelle della distruzione, della negazione dell'essere, del nulla.
Il male, anche se di per se' non ha consistenza ontologica, una volta che prende possesso del cuore dell'uomo, diventa la cosa più reale che ci sia.
I primi monaci cristiani avevano capito tutto questo, così per loro non poteva esserci vita religiosa senza il combattimento spirituale: la lotta rivolta ai demoni che lavorano sempre e solo per colonizzare il cuore del peccatore, come dei parassiti, e poter così portare avanti la distruzione di tutto, che è la loro missione. Proprio come virus che fuori dal corpo di chi li ospita sono come minerali inoffensivi, i demoni sono fantasmi inconsistenti che non possono fare nulla fino a quando hanno ridotto in servitù un uomo.

Quindi il peccato originale si ripete in continuazione. Così come la lotta spirituale deve essere rinnovata tutti i giorni.
Ma poiché tutti alla fine cedono ai demoni (siamo tutti peccatori), la grande questione è: chi ha commesso un deliberato atto di malvagità come può redimersi?
Non si tratta di una questione attinente la propria immagine, ma la realtà stessa, perché con l'atto malvagio si è introdotto nell'essere un elemento di squilibrio, qualcosa di aberrante, da cui possono venire fuori altre aberrazioni, perversioni, distruzioni...
#532
Phil: "Costeggiando questo presupposto, che non suona scontato a tutti (almeno non a me), chiedo: una filosofia che si oppone ad una trasformazione antropologica in atto, è davvero l'auspicata filosofia della saggezza antica?"

Forse no, ma l'importante, secondo me, non è tanto ritornare ad una certa saggezza delle scuole filosofiche antiche quanto prendere coscienza che c'è una battaglia in corso (per accaparrarsi ciò che rimane della coscienza degli uomini), il che significa mettere da parte le delicatezze dell'erudizione e fare l'inventario delle armi che si hanno a disposizione, e l'antichità senz'altro contiene del materiale utile...


Phil: "Ovvero, una tecnica dell'auto-educazione del proprio Io, si oppone spontaneamente alla trasformazione antropologica o, per "funzionare", deve installarsi proprio nella trasformazione antropologica che la circonda (e a cui essa partecipa), senza necessariamente essere destabilizzante, anacronistica o alienante?"

Tra gli effetti di questa trasformazione antropologica c'è una certa tendenza alla semplificazione, ad un pensiero semplicistico. Se ci si imbatte nella complessità si tratta di una complessità orizzontale, come l'enorme quantità di dati che le tecnologie digitale riescono a memorizzare e ad analizzare. Non si tratta di profondità.
Basta pensare alla letteratura contemporanea: spesso ingegnosa, ma non problematica. Non pone enigmi, al limite qualche innocuo indovinello...  
A questa deriva della semplificazione non vedo come ci si possa difendere se non attraverso l'imposizione di una distanza (che va poi continuamente riprodotta perché il sistema tende a riassorbire ogni elemento refrattario).
#533
Sul counseling filosofico anch'io ho parecchie perplessità.
Per quanto riguarda il resto, ho letto anche gli articoli della tua rubrica, ci devo riflettere su un po'...
#534
Per quanto riguarda quello che dice Angelo: sì, ciò che io ho chiamato custode interiore non può essere inteso come un nuovo "tu devi" (parlando in termini nietzschiani) cui ci si attacca per uscire dal proprio smarrimento. Ma è certo che quel "camminare, crescere, non fermarsi mai in un punto, mettersi sempre in questione, essere sempre su strada" di cui parla Angelo comporta necessariamente l'utilizzo di segnali per orientarsi, se non si vuole finire per compiere dei percorsi circolari che conducono sempre nello stesso luogo. E i segnali si scelgono (apparentemente in libertà, per lo più sotto l'effetto di influenze favorevoli o deleterie...). E questa scelta determina la qualità del cammino.
Il discorso che viene fatto da Macho nell'articolo da cui sono partito io nel primo post è sulla stessa lunghezza d'onda, mi pare, ma radicalizza un po' le cose e sembra voler dire che senza una consapevole disciplina, senza un lavoro profondo fatto appunto di esercizi etc., il cammino che finiamo per fare è quello tracciato dal potere dominante.
Da qui la valutazione positiva da parte di Macho di certe tecniche diffuse prima nell'antichità classica poi nel cristianesimo, che a noi magari possono sembrare un po' grezze, come l'elezione di un alter ego nobile etc.
Partendo da una visione allarmata del presente (le manipolazioni di questo demoniaco connubio tra neoliberismo e tecnologie digitali), l'indicazione può essere questa: urge mobilitare tutta la forza della filosofia se ci si vuole opporre alla trasformazione antropologica in atto.

All'esoterico green demetr (che ho capito solo a pezzetti...), sperando di avergli risposto almeno in parte con ciò che ho scritto sopra, propongo un frammento di Nietzsche (forse si trova in Volontà di potenza, ma non ricordo) che descrive il sentiero della saggezza in tre fasi:
prima fase, saper venerare, raccogliere dentro di se' tutte le cose degne di venerazione. Epoca della comunità;
seconda fase, spezzare il cuore venerante. Epoca del deserto. Critica di tutte le cose venerate, tentativo di rovesciare le valutazioni [Umano troppo umano I e II, Aurora];
terza fase, grande decisione sulla capacità di assumere una posizione positiva, di affermazione. L'istinto di colui che crea [dallo Zarathustra in poi].
#535
Angelo scrive: "Mi sembra che tu non stia parlando d'altro che di spiritualità.
Hadot lo mette bene in evidenza, perché egli parla di esercizi spirituali praticati dai filosofi antichi. Tutt'al più la spiritualità è più generale dello sdoppiamento di cui hai parlato: tale sdoppiamento può essere considerato un modo di intendere la spiritualità, mentre invece la spiritualità prende in considerazione tutti i modi di vivere la vita interiore, visto che la spiritualità si definisce come vita interiore".

Ma se la spiritualità si definisce come vita interiore, perché usare un termine con forti connotazioni religiose quando si sta parlando di esercizi filosofici che lavorano sulla propria soggettività senza riferimenti a forze trascendenti l'uomo?

A essere sincero, molta di questa generica spiritualità contemporanea mi sembra il tentativo di salvare qualcosa della vecchia religione... quei piaceri della devozione, del sacro, quelle tensioni mistiche, che ora non si cercano più direttamente in una relazione con Dio (a cui non si crede più), ma attraverso pratiche più concrete (meditazione etc.).


Acquario69 scrive: "Credo che l'intenzione dei monaci, come nei casi accennati sopra riguarda più semplicemente ( e perciò fuori dai soliti stupidi stereotipi e ottusi pregiudizi di noi "moderni") quello della libertà e perciò della consapevolezza della nostra autentica natura (le considerazioni demoniache altro non sarebbero state che "metafore" che servivano a quei tempi per indicare l'inclinazioni sbagliate che finiscono per rendere schiavo l'uomo) Cristo per i fedeli di questa religione e' il SE'..e' la Libertà..che si ritrova(va) sia pure in diverse altre forme, in diverse altre civiltà,in tempi e luoghi altrettanto diversi..  ma  con la stessa identica essenza".

I demoni sono una metafora per noi, perché ovviamente non crediamo in geni maligni o roba del genere.
Per i monaci si trattava di qualcosa di molto più reale. Possiamo poi interpretare la costruzione di immagini così fantasiose come il risultato di una tendenza a proiettare forze interiori che venivano interpretate come esterne e quindi prendevano quelle forme.

Del resto non è che faccia molta differenza sentirsi posseduto da un demone o schiavo di una malattia o passione...
 
#536
Buongiorno a tutti.
Volevo sottoporvi alcune riflessioni ispirate dalla lettura di un articolo di Thomas Macho (Aut Aut n.355).

In questo articolo Macho parte dalla constatazione che nella nostra civiltà sono sempre esistite tecniche di solitudine, cioè pratiche che spingono le persone alla ricerca di un certo isolamento considerato positivo o necessario.
Queste tecniche di solitudine si sono sempre caratterizzate come tecniche di raddoppiamento.
Ci si isola per poter stabilire un rapporto con se stesso, come se si fosse in due.
Nell'antichità ci si immaginava di avere a che fare con un doppio più nobile: un custode, un guardiano che esercitasse il controllo del dialogo interiore.
Perché il problema era questo: arrivare a non essere posseduti dalle immagini che si formano nella propria cittadella interiore.
Quindi le tecniche di solitudine miravano a disciplinare i dialoghi interiori.

Queste tecniche sono state poi riprese dai primi monaci cristiani.
Il combattimento spirituale dei monaci del deserto era una lotta contro forze (che il monaco considerava demoniache) che miravano all'egemonia dell'io dell'atleta.
Anche qui si trattava di una questione di libertà: essere posseduti dai demoni o sovrani e liberi.
Ovviamente il loro "grande Altro", il custode nobile, era Cristo.

Lasciamo lo scritto di Macho e veniamo ora ai nostri giorni.
A me sembra che la situazione attuale sia dominata da un potere che attraverso le tecnologie digitali impedisce sempre di più la solitudine positiva (perché è interesse di questo specifico sistema economico che tutti partecipino attivamente per esempio ai social network etc.), e dal fatto che il custode nobile che ci dovrebbe accompagnare in un processo di liberazione sia sparito o si sia moltiplicato in una schiera di figure ambigue.

Eppure la filosofia, nel tempo della fine dei grandi sistemi metafisici, sembra aver ritrovato un certo interesse per questi temi, tornando al suo inizio. Basta citare i lavori di Hadot.
Ma si tratta di studi teorici.
La pratica è lasciata a discipline che gravitano intorno alla psicologia e che mancano totalmente di consapevolezza storica, con tutto ciò che ne consegue in fatto di semplificazione e manipolazione delle coscienze.

Vi chiedo: è possibile immaginare un ritorno della filosofia alla sua saggezza antica, alla fondazione per esempio di vere e proprie scuole filosofiche o cose di questo tipo?

È immaginabile secondo voi una filosofia che abbandonando la sua ossessione per la conoscenza teorica inizi a costruire concretamente nuovi "custodi interiori", guardiani di un io sempre più smarrito?
#537
X Apeiron
Grazie del contributo, delle tue spiegazioni e dei brani di Nietzsche (molto pertinenti in merito alla questione che ho sollevato).
Mi chiedo ancora una cosa: quando N. parla della vita liberata dalle finzioni della morale, quando afferma quindi che è essenzialmente lotta, contesa, etc. dobbiamo pensare che stia parlando  dell'esistenza dell'oltre-uomo? Cioè, dobbiamo pensare che l'oltre-uomo sia perfettamente sovrapponibile all'uomo liberato dalle falsità della morale platonico-cristiana? O c'è un piccolo scarto tra le due cose?
Quello che voglio dire è che accanto a parti della sua opera che farebbero pensare di sì – di sì alla sovrapposizione – ce ne sono altre in cui la crudeltà, la ferocia etc. sembrano essere piuttosto funzionali alla costruzione di un proprio regime di vita (e quindi dirette contro le debolezze del proprio io, al rischio di regressioni nel religioso), regime di vita in cui la vitalità, la creatività possano quindi essere espresse con pienezza.
Per essere ancora più esplicito: l'oltre-uomo è più simile a un guerriero aristocratico dell'antichità o all'uomo virtuoso del Rinascimento (di cui si trovano accenni negli ultimi testi)?
#538
X Garbino
Non so se ho capito bene...
Intendi dire che finiamo per proiettare ciò che noi siamo negli altri (o di interpretare gli altri con forme che appartengono a noi, alla nostra esistenza), per cui quando amiamo (o odiamo) l'altro, in realtà amiamo (o odiamo) ciò che riconosciamo (inconsciamente) di noi stessi in lui?

Un'altra cosa, volevo sentire il tuo punto di vista su una questione attinente Nietzsche (non ho letto tutti gli interventi di questo 3D, quindi può essere che l'abbiate già trattata).
Nel concetto di "volontà di potenza" non mi soddisfa molto l'utilizzo del termine "potenza", che è relazionale, e quindi rimanda sempre a un rapporto, tra chi è potente e chi non lo è. Non credo infatti abbia senso pensare di avere potere in assenza di qualcuno su cui esercitarlo. Ma essendo relazionale si finisce per portare con se' anche la parte antagonista. Lo stesso discorso vale per chi si definisce ateo (che definisce la propria identità partendo dalla negazione del suo opposto, l'uomo di fede).
Rimanere invischiato nel suo opposto non mi sembra coerente con la vitalità dell'oltre-uomo, che è affermativa, qualcosa che ha a che fare con la piena abbondanza, la creatività, con il piacere di costruire.
Perdere tempo con il potere (di qualunque tipo, politico, intellettuale, spirituale etc.), finire per essere coinvolto in qualcosa di simile alla dialettica servo-signore è, secondo me, una debolezza che l'oltre-uomo non si può permettere.
Penso non si tratti solo di un problema terminologico. C'è nei testi di N. un po' il gusto del dominio (vedi per esempio nel brano "Delle tre cose malvagie" dello Zarathustra la riabilitazione della "sete di dominio").
È, secondo me, un punto debole del suo pensiero che ha finito per creare infiniti fraintendimenti.
#539
Tematiche Filosofiche / Re:Il valore
22 Novembre 2017, 08:34:14 AM
X green demetr
Ciao ragazzo. Per adesso solo una domanda: ti ricordi dove Nietzsche parla dell'amicizia? più o meno in quali opere?
Sulle altre cose, nei prossimi giorni.
#540
Il monologo che hai allegato è uno dei brani peggiori de "L'idiota".
Non parla il caro principe Myskin, parla Dostoevskij l'apologeta della tradizione ortodossa.
Il grande Dostoevskij, il grande scrittore, lo si trova altrove.
Non facciamoci ingannare dal sentimentalismo messo dall'attore: lì c'è un uomo che cerca di convincere se stesso, nient'altro.

Tutto ciò mi sembra in linea con l'ambiguità di cui parlavo nel post precedente.
Ma non essendo io, per fortuna, un cristiano delle catacombe, probabilmente mi sbaglio...