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Messaggi - davintro

#526
Rispondo a Sgiombo

La potenzialità o predisposizione è ciò che non è ancora o non è più attuale, mentre le cause che producono un effetto come l'astrazione devono essere tutte attuali, cioè reali. Attuale deve essere la percezione sensibile che apprende il contenuto dell'oggetto individuale, attuale deve essere l'avvertimento della nozione di universalità per la quale ciò che si astrae dal particolare vale per tutti gli individui possibili. Cosa farebbe passare la potenzialità della nostra mente soggettiva all'attualità per la quale concretamente interviene nel processo di astrazione? Io posso essere fisicamente predisposto per svolgere con buon profitto una certa attività sportiva ma questo ancora non è sufficiente a determinare il fatto che io svolga realmente bene quello sport (magari per pigrizia mi alleno poco oppure per disinteresse non inizio nemmeno a praticarlo). Così l'apprensione dell'idea di universale necessaria almeno formalmente per ogni concetto per essere attuale nell'astrazione deve essere un'intuzione attuale e non solo una "predisposizione". Se un evento (l'astrazione) per realizzarsi ha bisogno del concorso del reale accadere causale di due fattori (la percezione sensibile del contenuto e l'intuizione dell'universalità che permette al concetto di comprendere tutti gli individui a prescindere dalla contingenza spaziotemporale nella quale posso farne esperienza), e uno dei due interviene attualmente e l'altro resta allo stato potenziale (di fatto un non-essere più o un non-essere ancora), l'evento non si realizza, fermo restando che, ovviamente la predispozione è fondamentale e necessaria.

è vero che il concetto di "universalità" porta in sè come implicita una relazione (oppositiva) con il concetto di "particolarità", ma questo non ha nulla a che fare con il problema della genesi della presenza dell'idea di universalità nella nostra mente. Un conto è una relazione sul piano logico-concettuale un altro una relazione di tipo reale-psicologico. Il fatto che concettualmente l'idea di universalità comprenda il fatto di essere opposta al concetto di particolarità non vuol dire che quest'ultimo sia la causa del formarsi reale del primo  nella nostra mente. Altrimenti, sarebbe come dire che essendo il concetto di "madre" in necessaria relazione logica con quello di "figlio" ci sarebbe una dipendenza genetica reale della donna madre con il figlio (e viceversa), mentre dal punto di vista della causalità esistenziale la dipendenza è unilaterale. La madre è causa dell'esistenza del figlio e non viceversa a prescindere dal fatto che prima di generare il figlio non poteva definirsi madre. Occorre evitare la confusione tipica di un certo empirismo tra "sostanza" e "relazione". Il problema della genesi psicologica della realtà sostanziale dell'idea di universalità ( so che è un pò imbarazzante parlare di "realtà a proposito di un'idea, ma spero di riuscire a far capire che parlando di "realtà" considero la realtà psicologica della presenza dell'idea alla mente) dalle relazioni conseguenti alla sua natura. Tra l'altro se vale l'idea per cui la relazione determina una dipendenza il passaggio potrebbe essere tranquillamente percorso in senso inverso e determinare non la dipendenza dell'universale dal particolare, ma del particolare dall'universale e questo confermerebbe il carattere di anteriorità del concetto di quest'ultima
#527
Rispondo a Phil

mmmhhh non mi convince l'idea di riportare l'idea di universalità al rilevamento di un'assenza, della negazione del concetto ad essa opposto, così come la bruttezza potrebbe essere ricavata dalla negazione di "bellezza" e l' "infinito" dalla negazione di "finito". Questo perchè il concetto di universalità si fa presente alla mente non solo come oggetto di un sapere che riflette su esso, ma anche, come scritto prima, nella stessa forma di qualunque concetto, anche il concetto della cosa più banale. In qualunque concetto, in quanto tale, si annida l'idea di universalità, perchè ogni concetto vale per tutti gli individui possibili in ogni tempo e luogo della specie indicata nel concetto. Quindi non è possibile che il concetto di "universalità" sia la derivazione secondaria della negazione del concetto di finitezza o particolarità. Perchè già nel formare il concetto di "finitezza" o "particolarità" è già implicito il riferirsi della nostra mente all'universalità, la "finitezza" vale per TUTTI i finiti, la "particolarità" vale per TUTTI gli oggetti particolari. L'apprensione dell'idea di "universalità" o "totalità" è una struttura trascendentale e innata della nostra mente, non può essere la derivazione di alcun concetto, perchè ogni concettualizzazione la presuppone. Del resto credo che l'accezione formale di universalità sia quella comune alla maggior parte dell'umanità, i non-filosofi, che senza bisogno di mettersi a riflettere sull'universalità comunque utilizzano nella loro quotidianità, nei loro pensieri, nel loro linguaggio, concetti e categorie a cui attribuiscono un significato universale, mentre l'accezione materiale, per la quale l'universalità diviene non solo forma ma oggetto di una specifica riflessione e attenzione è riservata prevalentemente ai filosofi, o comunque a chi pensa filosoficamente, direi un'elite... Ciò non toglie che l'individuazione del sapere che permette all'uomo di accedere alla conoscenza dell'universalità, come il sapere che sta alla base di ogni gnoseologia, come la critica kantiana, sia un problema filosoficamente fondamentale

Rispondo a Sgiombo

La "potenzialità" fintanto che resta tale, non produce alcun effetto sulla realtà e quindi non può essere considerata come una spiegazione sufficiente per un fenomeno. Dire che la nostra mente è predisposta potenzialmente a dare un significato universalistico ai concetti sposta il problema ma non lo risolve: potremmo chiederci, perchè la mente è predisposta in questo modo e non in un altro. La potenzialità di qualcosa è sempre la conseguenza di una causalità attuale che rende la cosa potenziale per qualcosa e non per altro. Deve esserci dunque un'attualità nella mente che rende possibile a questa l'apprensione dell'idea di universalità. E da cosa deriverebbe questa attualità? Dall'astrazione a-posteriori degli oggetti individuali? Ma se questa non è autosufficiente per realizzarsi (come tu stesso mi sembra in qualche modo abbia riconosciuto) ma necessita di un fattore ulteriore come il modo d'essere soggettivo di una mente predisposta allora cadiamo in un impasse argomentativo, un circolo vizioso in cui ciò che si cerca di giustificare, l'astrazione, diviene anche ciò che renderebbe ragione di ciò che la renderebbe possibile. Ecco perchè trovo per ora più convincente ammettere due distinti tipi di intuizioni. un'intuizione sensibile, adeguata a cogliere l'oggetto individuale in un'esperienza spazio-temporalmente  delimitata, e un'intuizione intellettuale innata, assolutamente non meno concreta e attuale della prima, con cui apprendiamo la nozione di universalità, totalità che poi usiamo anche (ma non solo) come forma dei concetti a cui l'intuizione sensibile dà un contenuto. E dalla collaborazione tra queste due diverse modalità di apprensione nasce la la concettualizzazione del mondo sensibile.

Non ho ben capito il concetto di "universalità relative". In cosa consisterebbero? A prima vista mi sembrerebbe un'ossimoro... relativizzare vuol dire per me sempre particolarizzare, dunque perdere di vista l'universalità in quanto tale. Ecco perchè la nozione di universalità non può essere un' "astrazione ultima", per il semplice motivo che un'astrazione in quanto tale non potrà mai essere "ultima", la realtà a cui si rivolge è il contingente, ciò che in qualunque momento può offrire nuovi oggetti all'osservazione costringendo l'astrazione a non poter mai essere definitiva e ultima
#528
Dire che memoria e identità sono la stessa cosa, prendendo l'espressione alla lettera, rischia di essere fuorviante, perchè presupporrebbe l'identificazione idealistica tra pensiero e realtà, e si dovrebbe cadere in una sorta di relativismo per cui il fatto di avere un'identità personale, un elemento di continuità sarebbe determinato dal nostro sentire soggettivo e dalle nostre opinioni sempre variabili a seconda degli individui. Certo dovremmo star lontani dall'errore opposto, il realismo ingenuo, che vorrebbe separare in modo troppo radicale i nostri vissuti delle cose, dalle cose stesse, fenomeno e noumeno. La memoria è un vissuto e come tutti i vissuti della nostra coscienza vanno descritti e analizzati nel modo più oggettivo possibile per  mostrare le implicazioni ontologiche (riferibili alla realtà oggettiva) legate alla possibilità di manifestazione di tali fenomeni. Quindi il problema è rilevare come sia possibile far scaturire dal vissuto della memoria il riconoscimento di un reale aspetto di permanenza del soggetto che renda ragione della capaictà dell'Io di trascendere la successione temporale che appare divorare istante dopo istante la nostra esistenza per trattenere nei ricordi il nostro passato. Quindi si può dire non che la memoria sia l'identità, ma che potrebbe presupporla. Inoltre limitandoci a considerare la memoria si rischierebbe di fermare l'analisi della continuità della persona alla dinamica presente-passato ignorando la dimensione del futuro. Quindi accanto alla memoria occorrerebbe considerare l'immaginazione e l'aspettativa, vissuti nei quali l'Io si protende verso il futuro, il non-essere-ancora, così come la memoria era il vissuto che apriva al passato. Anzi considerando il tema della discussione, paura della morte e, aggiungo io, speranza della vita eterna, direi che più decisivo sia il rapporto della coscienza con il futuro con tutte le implicazione conseguenti!

necessita la memoria di un'anima, di una sostanza trascendente? Ecco qua la qualifica di trascendente intesa in un certo modo può portare fuori strada. Che si intenderebbe con "trascendente"? Se la trascendenza dell'anima dal corpo la si intende come la intendeva il rigido dualismo cartesiano res cogitans-res extensa, io potrei essere d'accordo con chi nega che la memoria o qualunque altra funzione psichica giustifichi il ricorso a una causa trascendente separata (tale dualismo comprometteva tanto pesantemente l'unità della persona che per mantenerla tale occorreva l'ipotesi fantasiosa di una "ghiandola pineale" che tra l'altro nel collegare l'anima al corpo finiva perfino con lo spazializzare l'anima, che finiva con l'essere materializzata nell'essere collegata a qualcosa di fisico come una ghiandola, paradossalmente anche il dualismo esasperato porta a conclusioni materialiste!). Totalmente diverso il discorso se si considera l'anima nell'accezione aristotelica e tomista di "forma" del corpo", l'anima come causa formale che rende il corpo un corpo umano, portatore di una vita razionale. Non va negata l'ovvia dipendenza delle funzioni psichiche come la memoria dal corpo, dal cervello, un cervello sano, ma il punto è: cosa rende il cervello sano un "cervello sano", e non un ammasso di atomi materiali inadatti a sostenere qualunque processo mentale. Cosa rende il corpo vivente "vivente" e non una cadavere? Qui entra in gioco l'anima, la causa formale che plasma la materia e la rende materia organizzata a sostenere attività psichiche, materia cerebrale vivente. L'anima è fonte di vita del corpo. Certamente, considerando la situazione dell'uomo, unità di forma e materia, anima e corpo, l'anima non potrebbe agire se non all'interno dei limiti imposti dalla materia. Ma escludere a livello assoluto una condizione in cui una volta slegata da una certa materia, la forma, di per sè non delimitata spazialmente, possa trovare una nuova materia da configuare come "vita", predisposta a certe funzioni differenti da quelle a cui è predisposta la materia che conosciamo ora (il nostro corpo così come è ora) vorrebbe dire ammettere che la vita umana è possibile solo nella misura in cui si realizza nel nostro mondo immanente, mondo immanente che in questo modo verrebbe assolutizzato, essendo posto come l'unico possibile già all'inizio del discorso. Il rischio è quello di un circolo argomentativo vizioso, nel quale ciò che si vorrebbe dimostrare, l'intrascendibilità dell'immanenza, è posta già come premessa, l'idea che l'unica spiritualità possibile sia quella umana, cioè la spiritualità di un'anima dipendente dalla materia, escludendo a priori  di considerare, a livello ipotetico, la nozione di "spirito" considerato indipendentemente dal resto per poi mostrare delle implicazioni conseguenti a tale considerazione

p.s.
Grazie a tutti per gli auguri!
#529
Citazione di: sgiombo il 28 Agosto 2016, 22:02:45 PM
Citazione di: davintro il 15 Agosto 2016, 18:26:43 PMConcordo con Kant che il materiale di una conoscenza scientifica è sempre ricavato dall'esperienza sensibile, e che di una realtà spirituale o intellegibile come Dio o l'anima -ammesso che esistano- non possiamo, razionalmente, sapere nulla.  L' empirismo "classico" (in particolare Locke, Berkeley, Hume), come anche Kant, non limitano le sensazioni a quelle esteriori-materiali (le quali, essendo misurabili tramite rapporti esprimibili da numeri, vanno ritenute scientificamente conoscibili, se se ne ammette anche l' intersoggettività; indimostrabile: Hume!); essi non ignorano (la realtà anche del-) le sensazioni interiori o mentali. Sono casomai molti neuroscienziati e filosofi della mente monisti materialisti odierni che indebitamente lo fanno.  Gli empiristi possono correttamente riconoscere la presenza di categorie trascendentali come "causalità", "tempo", "spazio" ecc. (e razionalmente criìticarle) per il fatto che non limitano il "materiale della conoscenza" alle sole sensazioni materiali-esteriori ma ammettono anche la realtà di quelle interiori-mentali come le astrazioni (per gli empiristi -non per Kant, che infatti a mio parere le tratta in maniera inadeguata- queste sono le categorie di "causalità", "tempo", "spazio" ecc.).  Considerando con l' empirismo e contro Kant tali concetti non come "condizioni a-priori della conoscenza" ma come astrazioni a posteriori dai dati sensibili a mio parere si può benissimo fondare una corretta gnoseologia (o epistemologia, come è diventato più di moda dire).  Per me una pretesa "conoscenza diretta della realtà intelligibile che legittimerebbe il recupero di una metafisica e di un'ontologia razionale, presupposti necessari di qualunque critica della conoscenza, di ogni epistemologia" non supera il vaglio del dubbio metodico razionalistico cartesiano: può essere una credenza infondata, irrazionale, non una conoscenza criticamente, razionalmente fondata. L' empirismo è una cosa, il materialismo è un' altra diversa cosa (per esempio Berkeley era empirista e idealista). Ripeto che l' empirismo non limita affatto la conoscenza alla sola realtà fisica delle cose che si manifestano (cose fenomeniche: "esse est percipi"!) nel tempo e nello spazio, le cose materiali, ma la estende anche alle cose che si manifestano nel pensiero e dunque non nello spazio, alle cose mentali.  L'idea di "tutto", di "totalità" si "confeziona" mentalmente per astrazione: ovvio che non sia qualcosa di fisico -concreto- e che sperimentiamo empiricamente in un certo tempo e luogo delimitato, ma un concetto che astraiamo col pensiero da molteplici percezioni empiriche di oggetti particolari-concreti che sperimentiamo empiricamente in molteplici tempi e molteplici luoghi delimitati, particolari e concreti.  @ Pul11:  Per me Galileo era un filosofo che si è messo a coltivare soprattutto scienza fisica e Cartesio era un filosofo (ottimi entrambi!) che si è messo a coltivare (oltre a tantissimi altri interessantissimi campi del sapere) anche la matematica e la geometria.

Quando mi riferivo all'empirismo che avrebbe condizionato pesantemente la critica kantiana avevo in mente il paradigma della mente "tabula rasa" che può essere riempita solo da informazioni provenienti dal contatto corporeo con il mondo esterno. Essendo il mondo esterno costituito da oggetti fisici che entrano in contatto fisico con il nostro corpo mi sembra che, inteso così, l'empirismo scada necessariamente nel materialismo. Non avevo in mente la posizione di Berkeley, che riconducendo l' "essere" alla percezione di fatto toglie al reale qualunque fisicità trascendente e dunque di fatto giunge a una sorta di immaterialismo estremo con evidenti venature teologiche, nel quale Dio viene chiamato in causa come necessarrio soggetto percepiente sostiene l'essere delle cose anche quando queste smettessero di essere percepite dagli uomini. Tutto l'opposto del materialismo direi! (ne avevamo già parlato)

Dissento dall'idea che la presenza alla nostra mente dell'idea di totalità sia il prodotto dell'astrazione. Al contrario ritengo sia l'opposto, sia l'astrazione che presuppone per la sua possibilità di porsi in atto l'apprensione originaria e innata dell'idea di universalità. Provo a spiegarmi meglio. Se per astrazione intendiamo un processo mentale per cui si osserva una serie limitata di oggetti individuali (preferisco qui non parlare di "concretezza) finchè non si scorgono degli elementi comuni che poi vengono sintetizzati in un concetto generale (il concetto di cavallo, di casa...) mi sembra che tutto ciò determini il CONTENUTO di tali concetti. Il concetto di cavallo, di casa è riempito da delle caratteristiche osservate nell'esperienza dei singoli cavalli e delle singole case, dunque l'astrazione è per l'uomo una condizione necessaria della concettualizzazione. Non ne è però condizione sufficiente, perchè non può determinare la FORMA, il modo d'essere in cui rendo questi concetti significanti, il carattere di universalità. Il concetto di "casa" non  è solo l'insieme delle caratteristiche sensibili che ho appreso osservando nel tempo singole case, ma ha un riferimento all'universalità che fà sì che il concetto di casa abbia per me un significato che vale per tutte le case, comprese, questo è il punto fondamentale, quelle che non ho ancora mai concretamente percepito e che però rientrano nel concetto di "casa" allo stesso modo di quelle da me realmente percepite. Ora, come potrebbe l'astrazione produrre un concetto universale di "casa" comprendente nel suo significato anche case finora mai percepite se essa è un'operazione limitata dall'esperienza spazio-temporale di alcune case da cui astrae? Dove troverebbe l'astrazione l'esperienza di tutte le case, comprese quelle su cui non ha ancora applicato la sua opera e che pure rientrano a pieno titolo nel concetto? Dove coglie il carattere universale del concetto se il materiale a cui si applica è solo empiricamente delimitato? Un'astrazione che operasse senza ammettere come indipendente da essa la nozione di universalità dovrebbe limitarsi a rilevare mnemonicamente somiglianze e associazioni tra alcune qualità negli oggetti percepiti, ma non potrebbe mai arrivare a creare concetti universali, valenti anche per oggetti particolari non ancora percepiti, perchè l'universalità, per definizione, è un concetto che si contrappone a "particolare" o "empirico" ed è assurdo che sia proprio l'esperienza dei particolari a farmela riconoscere, a offrirla come materiale per l'astrazione, quest'ultima è limitata dalla contingenza dagli oggetti verso cui si rivolge (è vero che ogni nuova esperienza del particolare modifica il CONTENUTO dei concetti, la determinazione qualitativa con cui riempio il mio concetto di "casa" può mutare in base a nuove esperienze di singole case, ma la FORMA del concetto, il suo riferimento universalistico resta costante, in ogni momento il concetto di casa che provvisoriamente ho lo intenziono come valente per tutte le case possibili). L'astrazione più che con la conoscenza in senso stretto ha a che fare con la convenzionalità e arbitrarietà del linguaggio. i concetti che riempio con l'astrazione divengono definizioni, unità linguistiche necessarie per comunicare, e le definizioni, il linguaggio mutano storicamente e geograficamente, ma proprio questa mutevolezza sta a significare la sua insufficienza nel giustificare il riferimento mentale all'idea di "universalità", l'idea che indica semanticamente qualcosa di eterno e immutabile
#530
Se tutto ciò che è reale coincidesse con il divenire non sarebbe possibile neanche la coscienza del divenire, del mutamento stesso. Noi possiano riconoscere in noi il cambiamento a partire dall'esperienza di una successione di stadi della nostra esistenza. Ma questa successione si riferisce ad un soggetto che viene percepito come sempre lo stesso, seppur mutato in alcune sue componenti. Ciò che ero primo, ciò che sono, ciò che sarò sono differenti ma appartengono ad uno stessa sostanza o substrato che costituisce la nostra identità personale. Quando la mia autocoscienza mi avverte di essere cambiato, io sto ricordando. L'Io, trascendendo l'immediatezza istantanea del puro presente (di fronte invece dovrebbe fermarsi riducendolo materialisticamente ed empiristicamente ad una vuota tabula rasa riempita di volta in volta, da stimoli sensibili provenienti dagli oggetti che colpiscono fisicamente i suoi campi percettivi) si protende verso il non-essere del passato creando una continuità passato-presente resa possibile dalla presenza di un "nocciolo", di un nucleo immutabile della persona (in tedesco definibile con "Kern" secondo la terminologia di Edith Stein), cosicchè la coscienza non è un punto, ma una flusso comprendente e riconoscente in sè differenti fasi temporali. In assenza di tale nucleo immutabile non potrei fare alcun esperienza del divenire, l'io del passato che ora ricordo non sarebbe in alcun modo lo stesso io del presente, e allora come potrei dire che "sono cambiato"? Mancherebbe il soggetto del cambiamento, resterebbe un'esperienza di oggetti senza alcun legame di continuità fra loro., anzi non sarebbe possibile alcun ricordo, non solo riferito a me stesso, autocoscienziale, ma anche degli oggetti del mondo esterno, perchè qualunque ricordo di qualunque oggetto presuppone sempre la coscienza di me stesso come osservatore passato di quegli oggetti che era lo stesso osservatore del presente che ora ricorda. In sintesi, la coscienza di essere cambiato presuppone che l'Io passato e l'Io presente siano stadi mutati appartenenti allo stesso soggetto che resta se stesso in nome di una continuità che gli permette di ricondurre a sè la successione dei suoi stadi.

Quindi i due errori dai quali guardarci, a mio parere, dovrebbero essere da un lato la confusione parmenidea eleatica che confonde il livello ontologico formale con quello "materiale" concreto pensando di dedurre dalla reciproca esclusione logica dell' "essere" e del "non-essere", la staticità monolitica di questo essere, non avvedendosi del fatto che il divenire, lungi dall'essere passaggio contradditorio da un assoluto essere ad un assoluto non-essere, va interpretato come trasformazione qualitativa interna dell'essere, che non conduce l'essere al di fuori di sè ma testimonia il passaggio da UN certo tipo d'essere a un ALTRO tipo d'essere, dall'altro lato l'assolutizzazione del divenire, che negando qualunque aspetto di continuità si precluderebbe, come provato a mostrar sopra, la stessa coscienza del divenire stesso. Convivono nella persona aspetti mutevoli e contingenti (aristotelicamente "contingenti"), ed un'essenza immutabile che accoglie in sè la mutevolezza dei caratteri appartenenti al suo substrato. Questa comparecipazione corrisponde alla dualità materia-spirito. L'uomo è sintesi di materia e spirito, la materia determina la nostra mutevolezza , lo spirito fonda la nostra continuità, e universalità, alla luce della coscienza che nella memoria di sè "trattiene" il passato unificandolo entro certi limiti al presente. Ed in questa imperfetta continità l'uomo si scopre analogo, non identico, a quell'Io, che è pura unità senza frammentazione, cioè un puro spirito che, non avendo materialità, è immune dal divenire, Dio. il problema metafisico (e inevitabilmente teologico) si apre nel tentativo di giustificare razionalmente l'origine del carattere di continuità e spiritualità nell'uomo, mostrando tutta la problematicità di un'ipotesi materialistica per la quale l'inferiore, il corruttibile, il contingente (la materia) dovrebbe porsi come causa adeguata a realizzare qualcosa di superiore, incorruttibile, autosufficiente, cioè lo spirito

p.s.
Essendo oggi il mio compleanno spero che eventuali contestazioni non siano troppo aggressive!
(ovviamente scherzo... sono aperto a tutto!)
#531
Mi sembra di essere, nel complesso, d'accordo con i post di Paul11, se ho a grandi linee compreso le sue idee..., condivido l'attribuzione del ruolo della razionalità metafisica alla sintesi tra immanenza e trascendenza nella fondazione di un complesso di significati universali, nonchè legato a tutto ciò l'identificazione tra spirituale ed eternità da un lato, e tra materiale come particolarità contingente dall'altro;  mi lascia solo un pò perplesso il costante utilizzo della categoria di "contraddizione" riferita al divenire dei fenomeni dell'immanenza, contrapposta ad una razionalità metafisica che dovrebbe anelare al superamento di tale contraddizione. Per me "contraddizione" ha un senso che vale sul piano della logica formale, contrdditorio è un discorso che non ha una coerenza interna logica, e dunque è necessariamente falso ed assurdo. Ora, se il divenire è contradditorio, sarebbe solo un'illusione, dovremmo rifiutare l'idea della dualità trascendente-immanente e di conseguenza la stessa tensione a trovare tra essi una relazione che li colleghi, un equilibrio dialettico e dinamico. Resterebbe solo una realtà, eterna ed immutabile, e ricadremmo nel dar ragione a quel monismo così rigido, che, come avevo scritto giorni fà, avrebbe difficoltà nel rendere ragione dell'avvertimento della dualità eternità-finitezza che determina in noi la paura della morte, se non liquidandolo come mera "illusione". Invece a mio avviso il divenire esiste e dunque non può essere contraddittorio, non c'è alcuna incoerenza logica nel fatto che qualcosa cambi e si trasformi. La metafisica entra in gioco non nel rilevare una contraddizione nel divenire, ma nella sua insufficienza nel rendere ragione di se stesso. Perciò, non si dovrebbe parlare di "contraddizione", ma di "problematicità". L'esperienza del divenire, della nostra finitezza suscita dei problemi a cui la razionalità metafisica (ma a questo punto direi "filosofica") è chiamata a dare una risposta teorizzando un'ulteriorità rispetto all'immanenza problematica. Può sembrare una distinzione accademica e pedante, ma non è così. Limitarsi alla constatazione di una contraddizione vorrebbe dire di fatto precluderci qualunque considerazione "positiva", ossia concreta sul reale. Contraddirsi è: Roma è la capitale d'Italia, ma la capitale d'Italia non è Roma. Ma riconoscere la contraddizione mi porterebbe solo ad affermare l'assurdità del discorso affermando l'inconciliabilità delle parti del discorso, ma senza di per sè permettere di pronunciarsi su quale delle due parti sia vera e quale falsa, se Roma sia o non sia davvero la capitale d'Italia. Invece un discorso metafisico orientato al riconoscimento di un concreto ed effettivo modo d'essere delle cose, della nostra vita non può fondarsi sul rilevamento dalla contraddizione di ciò che si vuole trascendere, ma dalla sua problematicità. Altrimenti potrebbe solo limitarsi a tautologie e ad una "pars destruens" dei discorsi insensanti, senza proporre un alternativa positiva, una "pars costruens", "pars costruens" per cui non basta l'analisi, la coerenza logica interna (anche se indispensabile), ma ci vuole anche uno sguardo aperto sul reale, sintetico ed intuitivo
#532
L'intuizione di un tempo che è ancora vuota forma, indeterminata, non ancora riempiti di eventi concreti di cui avere coscienza e memoria, a noi, dal punto di vista della nostra piccolezza, della ristrettezza della nostra esperienza, ci appare come intuizione di qualcosa di grandissimo, quasi infinito. Una forma vuota al contempo però sublime nella sua capacità di meravigliarci ed inquietarci (tutto ciò è stato ben rappresentato dal mare di nebbia che si erge di fronte al viandante nel quadro di Friedrich, in quell'opera che credo si potrebbe eleggere a simbolo assoluto del romanticismo). Come è evidente, quanto più si è "piccoli" tanto più ciò che ci circonda, sia fisicamente, che concettualmente ci appare grande, sconfinato. Nel corso della vita, con il progressivo aumento della conoscenza il flusso della nostra coscienza si allunga, si ingrandisce acquisendo via via nuovi schemi interpretativi, associativi, criteri di giudizio con cui relazionarsi al mondo, e il rapporto con il mondo, dunque con il tempo, le nostre aspettive future e i nostri ricordi del passato, cambia, diviene più "familiare". Il tempo è sempre meno qualcosa di lontano, misterioso, inquietante, diventa qualcosa di cui è possibile "prendere le misure", riusciamo ad orientarci meglio in esso, grazie appunto agli schemi, certo mai infallibili e perfetti perchè empirici, dell'esperienza del passato. In un certo senso futuro e passato si "presentizzano", si fanno più vicini e relazionati al nostro presente, cioè alla nostra attualità reale. Ecco perchè, forse distanze temporali crescendo le avvertiamo come sempre meno distanti dal tempo presente rispetto alla loro misura oggettiva, è il nostro presente che crescendo si fà più "ampio", una coscienza, sempre più grande e consapevole, seppur sempre ovviamente limitata.

Estremamente interessanti (direi filosoficamente fondamentali) le ripercussioni teologiche del discorso: il collegamento tra evoluzione esistenziale e percezione del tempo mostra come il tempo non sia solo schema teorico e intellettuale di conoscenza e rappresentazione del mondo, ma anche conseguenza correlata del modo d'essere del nostro agire. Un agire pienamente libero, quello divino, non limitato da altro da sè, non può che promanare da un soggetto che nella sua conoscenza di sè e di tutto il resto, non è in alcun modo condizionato e disperso dal tempo, ma tutto raccolto pienamente nel suo eterno presente. Quanto più siamo responsabili delle nostre azioni e dei risultati di queste, quanto più la loro conoscenza va riportata al nostro essere attuale, cioè presente, senza vuoti di memoria riferiti al passato o aspettative tradite del futuro. Cioè la pienezza e l'auteniticità della conoscenza, il suo non cadere nella frammentazione temporale finisce con l'essere direttamente proporzionale al nostro essere liberamente responsabili dell'essere degli oggetti di tale conoscenza. Un importante nesso conoscenza-prassi

Spero di aver in qualche modo colto lo spirito del tema
#533
Citazione di: anthonyi il 24 Agosto 2016, 17:35:48 PMRispondo a davintro 45, l'idea di una dialettica tra immanente e trascendente mi convince poco, la dialettica presuppone basi per un linguaggio comunicativo comune e i significati di fondo, tra una rappresentazione immanente e una trascendente (naturalmente pure) del mondo sono differenti. La dialettica può insistere tra individui su contenuti trascendenti se entrambe sono "predisposti". La dialettica su argomenti immanenti è più facile, perché tutti hanno esperienze e contenuti immanenti. Se poi con dialettica si intende il confronto interiore tra esperienze immanenti ed esperienze che si reputano trascendenti allora sono d'accordo. Rispondo a paul11 56, nell'altro thread mi dicevi che qui definivi la tua idea di razionalità. In realtà mi sembra che qui si parli soprattutto di senso, ma chissà forse le due cose si avvicinano. Potremmo differenziare tra un senso immanente ed un senso trascendente. Orrore! Cos'è un senso immanente, posso fare un esempio pratico preso dal thread, dove ci si domandava che senso ha il suicidio, ora se la domanda trovasse una risposta compatibile con la legge evoluzionistica (Cosa problematica, visto che è un comportamento direttamente opposto all'istinto di sopravvivenza), questo ridurrebbe la problematicità di trovare un altro tipo di senso, magari trascendente. Il senso, trattato in questo modo, si avvicina molto all'idea di razionalità, entrambe nascono dallo stesso bisogno umano di "chiudere il cerchio", trovare cioè una spiegazione per tutto (o almeno illudersi di averla trovata).

Quando parlavo di dialettica non la intendevo in senso linguistico-comunicativo, ma in senso logico-argomentativo. La dialettica come forma della razionalità che cerca di trovare collegamenti fra una molteplicità di fenomeni a prescindere dalla necessità di dover comunicare intersoggettivamente le proprie idee. Ma nel momento in cui la dialettica viene identificata con la comunicazione linguistica si crea pregiudizialmente un ostacolo per la possibilità di una conoscenza razionale di tutto ciò che ha a che fare con la dimensione spirituale, compreso dunque il trascendente. Il linguaggio è un sistema di simboli sensibili, udibili, visibili. Dunque mi è tanto più facile comunicare qualcosa quanto più la sensibilità delle parole rispecchia la sensibilità degli oggetti a cui le parole si riferiscono. E se la razionalità coincide con la comunicatività allora una dialettica che riconosca un' ulteriorità rispetto alla conoscenza dell'immanenza sensibile diviene quasi impossibile. Ammettendo invece che i limiti della pensabilità non coincidono con quelli del linguaggio (seppur livelli reciprocamente correlati), allora si riapre per la dialettica lo spazio per un riconoscimento di un sapere spirituale, a cui potremmo pervenire nell'autocoscienza, quanto più la mente si rivolge alla propria interiorità, un sapere non riferito a oggetti sensibili, bensì intelligibili e dunque difficilmente adeguabile e rappresentabile dal linguaggio esteriore, fatto di parole e suoni, cioè di sensibilità, ma non per questo un sapere non dialetticamente e argomentativo valido. Mi rendo conto che tale visione presuppone un'idea di rapporto pensiero-linguaggio improntato al riconoscimento di un certo margine di autonomia del primo termine rispetto al secondo, un'idea controversa, che personalmente condivido anche se per ora preferisco non approfondire (forse sarà per un'altra discussione)

Se non sbaglio Paul11, che ringrazio per gli immeritati complimenti, mi chiedeva di operare una critica al mio post sulla razionalità del collegamento tra fenomeni dell'immanenza e un piano metafisico. Se ho ben capito, un'autocritica. Io direi che un'apparente difficoltà di questo "mio" discorso potrebbe riscontrarsi nel fatto che i fenomeni, in quanto apparenze, sarebbero descrivibili e analizzabili delimitando qualunque loro significato al relativismo di una soggettività il cui sguardo sul mondo è rinchiuso all'interno dei limiti spaziotemporali della prospettiva dei singoli individui, nel senso che i fenomeni che osservo non sono oggetti da cui potrei ricavare un complesso di giudizi universali, autenticamente scientifici, validi non solo dal mio punto di vista. Tuttavia penso che tale difficoltà possa superarsi alla luce dell' approfondimento della nozione di "soggetto". Quando parliamo della coscienza soggettiva che riceve il manifestarsi dei fenomeni parliamo della mia particolare coscienza individuale, costituita da caratteri contingenti e non universalizzabili, ciò che appartiene a me e non ad altri, o dobbiamo considerare la coscienza nelle sue strutture universali, tali a prescindere dalla diversità dei singoli individui, nel senso essenziale intuibile dei suoi vissuti? In sintesi, fondamentale è la distinzione tra "soggetto empirico" e "soggetto trascendentale". Nel secondo dei suoi significati, la soggettività non è chiusa nel relativismo, ma si riconosce come dotata di caratteri universali che permettono di investigare in modo razionale e oggettivo i fondamenti della sua possibilità in generale di fare esperienza del mondo, cioè di ricevere il darsi dei fenomeni. La soggettività resterebbe il contenuto di un sapere la cui forma invece sarebbe invece oggettiva, dunque razionale
#534
Rispondo a Paul11

Per quanto riguarda l'infinito, va distinto l'infinito attuale da quello potenziale. L'infinito matematico ha a che fare solo quello potenziale, quello che caratterizza una serie numerica che posso contare e immaginare, appunto all'infinito, perchè infiniti sono i numeri. In sede metafisica e ontologica ben più significativo è l'infinito attuale, cioè una realtà che si pone come assoluto, non finito, nel senso di non realmente limitato da altro da sè, una vita che persiste illimitatamente, non come possibilità, ma come realtà, e in questo senso infinito coincide con l'eternità

la razionalità metafisica prova a riconoscere un collegamento che verifichi la presenza dei segni di tale eternità nei fenomeni del mondo. La logica formale è presupposto necessario del pensiero, ma non sufficiente per tale esercizio, giustamente, come affermi, è necessaria la logica dialettica, questo non l'ho mai negato. Se per dialettica si intende un processo della ragione non immediato ma mediato perchè deve considerare non una realtà isolata dal resto ma la relazione inferenziale fra il nostro mondo immanente, in cui constatiamo il divenire e la possibilità di nullificazione degli enti, e una dimensione metafisica (che non è opposta alla fisica, però la trascende quantomeno a livello concettuale) nella quale le nostre identità personali saranno eternamente preservate, tutto ciò è dialettica. Mostrare come la speranza, il desiderio di tale eternità possa già di per sè essere un argomento valido, magari non esaustivo, del riconoscere di essere fondati da un essere eterno per me è assolutamente ragione dialettica, non formale e astratta, perchè è una ragione che ha anche fare con il molteplice, con una dualità, la distinzione (non opposizione) tra l'immanenza mondana in cui vive l'uomo e una trascendenza metafisica che dovrebbe essere chiamata in causa nella misura in cui riesce a giustificare il modo d'essere dell'immanenza. E la relazione che collega tale dualità presuppone la mediazione, il pensiero discorsivo, cioè dialettico. Come scritto prima, la giustificazione dell'immanenza a partire dal riconoscimento di una trascendenza (che in fondo è il modus operandi di tutte le prove dell'esistenza di Dio che la razionalità metafisica ha provato ad attuare) presuppone una relazione di analogia e somiglianza per la quale i concetti validi per pensare valgono, entro certi limiti, anche per interpetare il trascendente. Altrimenti dovremmo constatare solo un fossato invalicabile tra le due dimensioni che renderebbe arbitrario ogni passaggio logico cerchi di collegarle, lasciando qualunque discorso sul trascendente al fideismo, al sentimentalismo, che al di là di quanto possa essere rilevante psicologicamente nell'equilibrio delle persone, non credo possa pretendere di essere base di un discorso che voglia essere davvero filosofico, speculativo

le apparenze, i fenomeni non sono di per sè nè verità, nè illusioni, sono la di là di questa dicotomia. Verità e illusione sono categorie che hanno senso per quanto riguarda i giudizi, non i fenomeni, che sono solo dati, manifestazioni con cui le cose si "aprono" all'accoglimento nella nostra coscienza. Per questo, prima, quando provavo a muovere un critica al monismo che relega ad "illusione" la distinzione sostanziale delle individualità personali, affermavo che l'analisi dei fenomeni deve preliminarmente mettere tra parentesi il giudizio di verità o illusorietà dei fenomeni stessi, non considerando se il fenomeno che ora mi si manifesta corrisponda ad un reale oggetto o no, ma descrivendolo nei modi in cui si dà come vissuto alla mia coscienza. E quanto più la coscienza sarà in gradi di operare al suo interno una sorta di purificazione per la quale si cerca di silenziare i pregiudizi che vincolerebbero la ricezione dei fenomeni alla limitatezza di schemi interpretativi dettati da un particolare contrsto storico, quanto più la relatività del contesto storico viene trascesa, tanto più i fenomeni disvelano un'essenza, o meglio la descrizione dei fenomeni si costituisce come visione eidetica, visione nella quale mi accorgo di aspetti che caretterizzano i fenomeni nel loro valore universale. E tutto ciò diviene la base per ricostruire un discorso ontologico razionale, razionale perchè chiamato in causa nel giustificare il modo d'essere dei fenomeni di cui la mia coscienza ha colto il senso. Per questo un'ontologia critica è possibile nella misura in cui ha una base fenomenologica. Come affermi, la conoscenza nasce dalla coscienza, ma solo a patto che questa coscienza consideri i fenomeni non come verità o illusione (riservando l'utilizzo di tali categorie ai giudizi sui fenomeni e non alla pura apprensione dei fenomeni stessi) ma come semplici dati originari dell'esperienza del mondo che racchiudono un senso universale che va in qualche modo fatto emergere intuitivamente
#535
Paul 11 scrive:

"Davintro,
francamente non ti pensavo così.
ma come, ad ogni dimensione, ad ogni sistema costruisco leggi logiche diverse? ma questo non lo compie quasi(perchè a volte lo fa)nemmeno la scienza moderna che vive di accomodamenti
Allora la verità cos'è? Un' indagine opinionista per alzata di mano? Siamo al relativismo

Se da fastidio la fede, allora risolvete il problema logico dell'identità al netto di ogni fede."

Non capisco. Dove avrei scritto che occorrerrebbe utilizzare logiche diverse per ogni dimensione del reale? Tutt'altro, anzi nel mio ultimo post ho provato proprio a sottolineare un rapporto di somiglianza e analogia tra il piano immanente e il piano trascendente che permetterebbe alla razionalità di poter argomentare quantomeno la possibilità del secondo partendo dall'analisi dei fenomeni del primo. Cosicchè dalla spinta che porta la mente umana a ipotizzare una vita eterna, a sperare in essa e consequienzialmente a temere la morte come caduta nel Nulla riconoscevo una seppur relativa capacità di trascendimento della dimensione sensibile e contingente rimandante analogicamente alla piena trascendenza rispetto a tale dimensione che caratterizzerebbe una realtà teologica e metafisica. Tutto questo discorso non starebbe in piedi se ipotizzassi logiche diverse e pensassi che l'apparato concettuale con cui si interpreta questo mondo non avesse nulla a che fare con quello necessario a pensare il trascendente (come invece sostiene la teologia del negativo). Se tutto ciò con cui posso pensare Dio avesse una valenza e me sconosciuta e totalmente altra rispetto ai concetti con cui penso i fenomeni della mia coscienza mondana come potrei razionalmente riconoscere nell'esperienza di questi un collegamento che permetta di ricondurre la loro possibilità d'essere ad un trascendente?
#536
Io direi che la paura della morte è la conseguenza di una tensione dinamica dell'uomo che vive "a cavallo" tra due dimensioni, il mondo della finitezza e l'intuzione di un'idea di infinito e di eternità senza la quale non sarebbe possibile avere la speranza di una vita eterna, e conseguentemente la stessa paura del Nulla che non potrebbe sussistere se non accompagnata dalla speranza del suo opposto, altrimenti si muterebbe in quieta rassegnazione. Compito della razionalità è quella di elaborare una visione che armonizzi i due piani, che renda ragione da un lato dell'esistenza della realtà finita e dall'altro dell'idea presente alla nostra mente dell'infinito e della vita eterna. Questa sintesi armonica razionale è possibile svolgerla perchè non c'è alcuna contraddizione nella compresenza di due piani differenti dell'essere. Contradditorio sarebbe ammettere due contrari in una stessa realtà considerata nello stesso tempo, ma dal punto di visto di una complessità per la quale sono chiamato a considerare l'ipotesi di un'ontologia che vede due realtà, una trascendente, eterna, ed una immanente, contingente e diveniente, la contraddizione cessa nel momento in cui la compresenza di queste due realtà avviene in una distinzione, che non è opposizione. La razionalità verificherà la possibilità di una relazione fra finito e infinito che non sarà nè di identificazione (altrimenti si cadrebbe nella contraddizione logica di ammettere un'unica realtà al contempo finita e infinita) nè di assoluta opposizione e separazione (che renderebbe impossibile uno scorgere nella nostra esperienza del finito i segni del rimando alla realtà infinita che pure la dinamica paura-speranza ci indicherebbe). Questa relazione la vedo come relazione analogica: il mondo in cui viviamo è finito, imperfetto, diveniente, ma proprio nell'angoscia (in quanto correlata alla speranza) che esso ci provoca avvertiamo la presenza di qualcosa che rende questo mondo seppur distinto e non ad esso identico, comunque simile ad una realtà ad esso ulteriore e trascendente.

C'è un errore in cui in sede argomentativa e razionale non dovremmo cadere: accettare aprioristicamente come esistente e reale una certa visione del mondo, teologica o metafisica che sia, per poi relegare ad "apparenze illusorie" tutti i fenomeni in base a cui altri potrebbero smentire tale visione. Razionalità è proprio questo rendere ragione dei fenomeni, astenendoci preliminarmente dal ritenere esistente o meno il contenuto dei fenomeni. Se concetti come "vita eterna" o "anima" o "personalità individuale" sono idee presenti alla nostra mente, e questa presenza non può essere smentita anche di chi nega la realtà oggettiva di quei concetti, allora lo sforzo filosofico-argomentativo sarà quello di rendere ragione, cioè spiegare le cause che spiegano l'essere presente a noi tale concetti, e nel riscontro di tali cause ricostuire un'ontologia critica. L'idea secondo il nostro Io individuale sarebbe solo illusione in quanto semplice parte di una totalità indifferenziata ad esempio, dovrà mostrare di poter reggere in modo convincente non limitandosi a tacciare come "illusione" il pensiero di una molteplicità di sostanze individuali distinte tra loro ma spiegando, in modo coerente con la sua tesi, l'orgine di tale pensiero, a prescindere che sia illusorio o meno. E qui sorgono grandi difficoltà: quale sarebbe l'oggetto che produce in me l'idea della mia personalità individuale distinta (seppur in una certa relazione) dal pc su cui sto scrivendo, dagli alberi, dalla pietre , dagli altri esseri umani? Se esiste solo un flusso indistinto di vita come spiegare la realtà fenomenica a partire da cui distinguiamo diverse forme, colori, percezioni sensibili, diversi concetti, valori ecc? Quanto è credibile l'ipotesi di una Totalità vitale originaria indistinta da cui poi a un certo punto salterebbero fuori delle parti che si ribellerebbero all'idea di questa fusionalità rivendicando una loro autonomia qualitativa e sostanziale dal resto? Perchè la Totalità dovrebbe "autoingannarsi" riguardo se stessa? Non è più credibile invece riconoscere che le idee delle distinte qualità fenomeniche alla nostra coscienza corrispondano a reali cause e fattori ontologichi da sempre presenti nel seno dell'Essere? In fondo il problema di tutte le varie forme di monismo immanentista, sia di tipo materialistico che idealistico, è sempre stato questo: come rendere ragione delle diversità qualitative della nostra esperienza? Ammettendo pure che chi non riconosce un Flusso unitario vitale si inganni e chi invece lo riconosce è un "illuminato" che ha superato l'egocentrismo dell' "Io individuale", come spiegare le due opposte tesi se non ricadendo in un dualismo tra "svegli" e "dormienti" che pregiudicherebbe l'unità stessa del reale? E se la distinzione tra chi ha superato l'idea della sostanza, di un'anima individuale e chi la conserva, magari auspicandone un'eterna prosecuzione dopo la morte è determinata dalla differente personalità degli uomini allora dovremmo tornare ad ammettere l'idea della distinzione tra  singoli individui: ognuno di noi arriva a pensieri diversi perchè ha interiorità diverse e dunque autonome l'una dall'altra, cosicchè il concetto di "sostanza personale", con tutto quello che comporta rientra in gioco. Se il monismo fosse coerente con se stesso non potrebbe spiegare il perchè della differenza  e del pluralismo di visioni del mondo e, giusto per rientrare in tema, di atteggiamenti di fronte alla paura della morte...

Rispondo a Duc in altum dicendo che la distinzione tra  la mia morte e quella degli altri voleva essere un'approfondimento del tema della paura dell morte che mi era sembrato rischiasse di cadere in una certa superficialità fintanto che lo si continuasse a considerare in maniera indifferenziata, non era direttamente collegata al tuo esempio (anche se magari mi ha offerto lo spunto) di cui comunque mi sembra di aver capito il senso
#537
Citazione di: Duc in altum! il 20 Agosto 2016, 17:29:40 PM** scritto da davintro:
CitazioneLa morte, intesa come andare nel Nulla, è l'interruzione di ogni possibilità di adeguamento dell'essere reale al "dover essere" ideale. In nome di tale condizione umana ontologica, ogni morte è prematura, o meglio ogni morte non può che essere percepita come prematura.
Ecco perché in tanti non intendiamo la morte come andare nel Nulla, ma quale esperienza ontologica per far parte, definitivamente e per sempre, del Tutto. Solo allora la morte diventa il valore attraverso il quale si distingue il dover essere, reale ed ideale, se stessi. Dimensione (l'essere se stessi) che annulla la facoltà di avere paura di morire, giacché la morte (ossia l'interruzione di ogni possibilità di adeguarsi al Tutto) non fa parte del Tutto. Anni fa mi struggevo nel cercare il perché un mio amico fosse morte prematuramente ed invece io avevo avuto un'altra possibilità, poi un giorno, confessando questa mia inquietudine, qualcuno mi disse: "...e come puoi essere certo che il tuo amico non abbia avuto già un'altra possibilità?!?!...". Da allora avverto, intuitivamente, per fede, che non è morto invano e neanche prematuramente.

A questo punto andrebbe fatta una distinzione fondamentale. Si parla della paura della nostra morte e della morte degli altri?

Nel primo caso, dal punto di vista dell'Io non avrebbe senso parlare di una paura della "morte in sè", ma di ciò che ci sarebbe eventualmente dopo cioè il Nulla (credo che anche l'inferno al di là delle varie letterarie rappresentazioni figurative, le fiamme, il diavolo con le corna e il forcone, sia identificabile teologicamente con questo Nulla, la dimensione di annicchilimento nel quale la persona perde il contatto con l'Essere perchè si è definitivamente allontanato dalla sorgente dell'Essere e fondamento del suo esistere, Dio). Quindi riferendosi a se stesso l'Io sarebbe certamente sollevato da ogni timore nella misura in cui crede che giungerà ad un'eterna e paradisiaca beatitudine.

Diverso è il caso della paura della morte degli altri, dei nostri cari. Qui il timore riguarda non solo e non tanto il "dopo", ma la morte come evento considerato in se stesso. Infatti la consolazione che porterebbe il pensiero che i nostri cari godranno di una beatitudine eterna di fatto è piuttosto relativa e parziale rispetto all'angoscia del pensiero di non poterli avere più vicino, vederli in carne ossa, comunicarci ecc. In fondo ci farebbe molto più piacere che essi continuino a godere di una felicità imperfetta e finita in questo mondo imperfetto e finito, ma restando fisicamente vicino a noi piuttosto che saperli eternamente felici ma in una dimensione a noi sconosciuta e incomunicabile. Si può dire che questo è un pensiero piuttosto "egoistico", anche se si tratterebbe di un egoismo assolutamente comprensibile e umano, un egoismo da scrivere tra virgolette. Immagino che il superamento di questa visione "egoista" presupporrebbe da parte di ciascuno una forza, un'energia spirituale di un'intensità quasi sovrumana (la santità forse?) che pochissimi potrebbero avere.

In sintesi, il conforto dell'idea di Aldilà che le religioni e le metafisiche ci propogono è psicologicamente molto più efficace e forte  nel caso della nostra morte rispetta che per ciò che riguarda la morte altrui
#538
Io credo che l'unica possibilità di vincere la paura della morte sia quella di non considerare più la vita come valore... è evidente che potrei disfarmi senza rimpianti e serenamente solo di qualcosa che per me non ha importanza, qualcosa la cui presenza mi lascerebbe indifferente. Ma chi ama la vita, o almeno la sua vita, come potrebbe restare sereno e distaccato di fronte all'ipotesi di perderla? In questo senso direi che la paura della morte è una "sana paura", il segno che per noi la vita che viviamo è piacevole, sensata, rappresentativa del nostro essere. Io mi preoccuperei se un'altra persona o anche me stesso cominciasse a smettere di aver paura di morire, vuol dire che la vita non ha più valore!

E per chi ama la vita non è sufficiente l'idea secondo cui la morte è il destino universale e inevitabile di ciascuno. A prescindere ora dalle forme con cui le religioni e le filosofie ipotizzano un Aldilà, l'idea che prima o dopo tutti si muore non può mai produrre serena rassegnazione perchè anche se sappiamo che prima o poi accadrà speriamo sempre di allontanare, rimandare il momento, cerchiamo e speriamo di vivere il più a lungo possibile, e non solo per un semplice animalesco principio di autoconservazione o sopravvivenza, ma per un'insoddisfazione costitutiva del nostro essere che ci porta a non poter essere mai appagati da ciò che di fatto nella nostra vita si è già realizzato. Siamo sempre spinti a desiderare di fare di più e meglio, ad adeguare sempre più ciò che siamo, ciò che facciamo realmente a un ideale regolativo di ciò che dovremmo essere, di ciò che dovremmo fare. La morte, intesa come andare nel Nulla, è l'interruzione di ogni possibilità di adeguamento dell'essere reale al "dover essere" ideale. In nome di tale condizione umana ontologica, ogni morte è prematura, o meglio ogni morte non può che essere percepita come prematura
#539
Citazione di: acquario69 il 18 Agosto 2016, 07:15:52 AM
Citazione di: davintro il 17 Agosto 2016, 23:00:07 PMQuindi non riesco a vedere la spiritualità come qualcosa di impersonale, una totalità informale... Lo spirito ci porta verso l'universalità, ma questa è universalità è formale, una forma che si riempie di un contenuto dato dalla differenti personalità dei singoli individui.
credo innanzitutto che non sia corretto dire che lo spirito "ci porta" (come ad intendere un movimento direzionale) perché lo spirito trascende (il concetto stesso) di spazio-tempo inoltre, lo spirito al pari dell'universo,come puo avere una forma? l'universo (uni-verso) essendo uno,non puo avere parti,essendo queste cio che costituisce la forma,e del resto va da se che non si può nemmeno de-finire,essendo infinito (cioè senza forme) usando i tuoi stessi termini..se..come dici tu,il contenuto (che mi pare indichi come spirito) riempie la forma (cioè l'individuo) allora e' l'individuo ad essere formale ma non lo spirito,percio tutte le differenti forme avranno la stessa,unica ed identica essenza (cioè lo spirito) che come detto all'inizio e' UNO/Tutto (e in un certo senso -analogico- si puo percio dire che non e' lo spirito ad essere contenuto in un corpo,ma il contrario) ...anche se,ed indipendentemente dal fatto che,molti o se lo negano,o non se ne accorgono nemmeno

Ci sono alcuni equivoci che provo a chiarire, colpa mia, non sono stato abbastanza chiaro...

L'idea che lo spirito ci "porti" da qualche parte va inteso in senso metaforico, non letterale. Come dici giustamente lo spirito trascende lo spazio e il tempo, perchè non è una realtà fisica che come un treno o un autobus ci trasporta verso qualche luogo fisico.. Il portare va visto come una "spinta" motivazionale attraverso cui la persona orienta il suo pensiero e la sua azione concreta verso degli oggetti. Poi è anche vero che lo spirito umano si riferisce ad una realtà che ha anche un corpo e dunque è interno a una spaziotemporalità. Quindi lo spirito nel determinare le mie azioni favorisce necessariamente anche un movimento nello spazio. Non mi riferivo all'universo nel senso comune del termine, parlavo di universalità, non di universo... Questa universalità la vedo come una forma, una modalità d'essere. In quanto soggetto spirituale elaboriamo dei riferimenti valoriali in base a cui attribuiamo un senso alla vita e compiamo delle scelte coerenti. L'universalità è forma perchè non mi dice di per sè nulla in cosa consistono questi riferimenti. Ogni singolo individuo stabilisce il loro quid, i valori personali che per esso sono più importanti, la famiglia, il lavoro, l'amicizia ecc. ma una volta stabiliti questi valori divengono universali perchè sono criteri che ciascuno assume come validi per tutte le situazioni, criteri regolativi delle nostre valutazioni morali. Se per uno il valore in assoluto più importante sarà la famiglia questo valore diverrà il criterio universale, cioè assoluto in base a cui agire e riconoscere un senso alla propria esistenza ma è lui in quanto singolo ad aver stabilito così. Forma e contenuto non vanno intesi in senso letteralmente spaziale, non è che gli individui "riempiono" una totalità fisica come l'universo (o meglio non è a questo che mi riferivo) ma come una distinzione concettuale. L'universalità è la forma, il modo con cui intendo i valori per me più importanti  della vita, ma in cosa concretamente consisitono (il contenuto) questi valori lo stabilisce l'individuo, l'individuo riconosce come valido universalmente qualcosa che lui a partire dalla sua particolarità personale stabilisce come punti di riferimento esistenziale. Lo spirito non è solo forma e non è solo contenuto, è la dinamica che porta la persona a rapportarsi in questo modo all'esistenza
#540
Peculiarità dell'uomo è che la paura della morte e, correlativamente, l'attaccamento alla vita, non è mai per lui un'esigenza assoluta ma condizionata. A nessuno di noi basta vivere, cerchiamo anche delle ragioni per vivere. Esiste anche per noi l'istinto di sopravvivenza ma non ci riduciamo a questo. Se così non fosse come spiegare il suicidio? Ecco, potremmo dire che l'uomo è l'unico animale che si suicida. E quindi l'intensità con cui la morte è prospettiva angosciosa e la vita reputata degna di essere vissuta è determinata da condizioni stabilite individualmente. Ciascuno di noi riconosce un complesso di significati differente tra individuo e individuo in base a cui attribuire un valore alla vita, significati identificabili con gli affetti familiari, le amicizie, il successo professionale, lo studio, la militanza politica, religiosa... senza questi significati il nulla diviene quasi una prospettiva se non piacevole quantomeno confortante nei confronti di una fatica dI un vivere insensato (sto ipotizzando, fortunatamente per ora non mi sono mai trovato in una condizione esistenziale così estrema...). Comunque, all'uomo non è sufficiente vivere per il vivere, ha bisogno di valorizzare la sua vita con dei significati, e questa cosa la chiamo "spiritualità". Riguardo alla differenza tra "anima" e "spirito" chi in questa discussione è stata accennata, direi che mentre in ogni forma di vita c'è anima, anche nelle piante e negli animali, nell'uomo quest'anima si configura come anima propriamente spirituale. In questo senso, lo spirito trascende l'istinto di autoconservazione, pone condizioni ad esso.

Ora, se da un lato questa richiesta di senso che lo spirito pone alla vita presuppone che tale spirito conduca l'Io al di là del proprio particolarismo individuale conducendolo a riconoscere una sfera di valori universali che utilizziamo per giudicare il nostro benessere esistenziale , definire una gerarchia tra i valori che ho citato prima (la famiglia, l'amicizia, la conoscenza, il lavoro, la bellezza, la giustizia sociale ecc) e il livello di coerenza della nostra vita rispetto a tale gerarchia dall'altro è anche vero che tale porre condizioni alla vita esalta la personalità individuale e l'unicità del singolo: mentre l'istinto di sopravvivenza è qualcosa che accomuna ogni esistenza, le condizioni valoriali per le quali la vita ha un valore le stabilisce liberamente l'Io individuale: ciò che rende per me la vita degna d'essere vissuta non è lo stesso per altri. Quindi non riesco a vedere la spiritualità come qualcosa di impersonale, una totalità informale dove il così tanto ingiustamente vituperato Io dovrebbe annullarsi, ma trovo che proprio quanto più l'Io appartiene a sè stesso quanto più si spiritualizza, nella mistica, nell'introspezione, nelle situazioni in cui l'Io abbandona il dispersersi nell'esteriorità e, agostinianamente, "rientra in sè stesso" e arriva a una conoscenza più profonda  della propria identità soggettiva e da questo fondo della propria anima sa riemergere con più consapevolezza dei valori che per lui sono più importanti per dare un significato all propria vita ed effettuare scelte coerenti. Lo spirito ci porta verso l'universalità, ma questa è universalità è formale, una forma che si riempie di un contenuto dato dalla differenti personalità dei singoli individui. Dico, un pò provocatoriamente: ha poco senso chiedersi perchè l'uomo, inteso nella sua generalità ha paura di morire, più che altro ha senso chiedere perchè QUEST'uomo, diverso dagli altri, ha paura di morire, cos'è che lo porta a ritenere la sua vita degna di essere vissuta?