Menu principale
Menu

Mostra messaggi

Questa sezione ti permette di visualizzare tutti i messaggi inviati da questo utente. Nota: puoi vedere solo i messaggi inviati nelle aree dove hai l'accesso.

Mostra messaggi Menu

Messaggi - maral

#541
CitazionePer cui, una volta correttamente esplicitata, qualificandone il soggetto, la proposizione: "L'affermazione <<Questa affermazione é falsa>>, è falsa.", è facilmente definibile come oggettivamente FALSA!!!
Il paradosso (che è del linguaggio formale classico) è l'autoreferenzialità negativa della preposizione.
Se tu arrivi a concludere che "questa affermazione è falsa" è oggettivamente falsa si sta oggettivamente dicendo (ossia la stesa proposizione dice di sé) che questa "affermazione che è non vera" dice di se stessa di essere non vera, dunque dice la propria verità quindi dice il vero, ma dicendo il vero non può non essere non vera proprio come dice. Assumendo la propria falsità oggettiva la proposizione assume la propria verità oggettiva che a sua volta assume la propria falsità oggettiva e così via all'infinito (si genera un infinito negativo che si conclude formalmente in (P) = NON (P)).
Il paradosso del Mentitore si può tentare di risolverlo solo dal punto di vista dialettico della logica hegeliana, ossia ammettendo che la non verità per sussistere deve sempre ammettere in sé un momento di verità e viceversa (deve includere il proprio contraddirsi) e l'insieme di tutte le volte in cui questa affermazione è falsa deve comprendere la sua antitesi, ossia il suo essere vero come caso particolare nell'insieme "non vero della prooposizione". Dunque "Questa affermazione è falsa, ma non lo è sempre" e proprio poiché non lo è sempre essa può significare qualcosa, ossia che la sua falsità in tutti gli altri casi.
In altre parole Se "tutti i Cretesi mentono" l'insieme di "tutti i Cretesi mentitori" dovrà includere un Cretese che non mente, che è colui che qui lo afferma.
#542
Davintro, due veloci osservazioni sulla tua ultima considerazione.
In merito al talento e alla fatica, non è detto che il talento eviti la fatica, anzi in genere non lo fa. Si può avere un enorme talento e uscire letteralmente spossati sia in senso fisico che psichico dal lavoro che si è compiuto con talento. Il punto è che quella fatica è gratificante e si è pronti a ripeterla mille volte anche decuplicata, e questo fa la differenza.
In merito al lavoro retribuito: l'aspetto nobile del lavoro retribuito è, come ho detto prima, il senso di autonomia che procura, di potersi con il proprio sforzo manuale o intellettuale procurarsi ciò di cui si ha bisogno e che si desidera senza dipendere da qualcuno che ci mantiene (magari con il suo lavoro e la sua fatica) e ci condiziona. La retribuzione inoltre costituisce una forma di riconoscimento sociale oggettivo per quello che si fa ed è molto importante per sentire fiducia in se stessi: qualcuno mi paga per quello che so fare, dunque quello che so fare è apprezzabile, letteralmente ha un prezzo riconosciuto, quindi è un valore che non è solo per me e il fatto che mi pagano lo rende tangibile. Essere pagato per quello che si fa garantisce autonomia esistenziale in una dimensione pubblica.
#543
Tematiche Filosofiche / Re:Nulla è contro-natura
10 Novembre 2016, 16:19:59 PM
Citazione di: green demetrMa il "cosa" nella tradizione dell'idealismo diventa Fenomeno, dunque non si dà mai come Natura.
Piuttosto come Mondo. Allora raffiniamo i termini, SE vogliamo dire che la Natura è il Mondo, allora possiamo dire che è il problema del soggetto che si avvinghia alsuo oggetto il Mondo (come rappresentazione).
Direi che la natura non è in fondo che l'iniziale trasposizione mitica del mondo, ossia tutto ciò che si dà accadendo e presentandosi nel significato si manifesta come ciò che ci comprende nel nostro accadere e ci rigetta fuori di sé, nel nulla di un mai accaduto. E' questa contraddizione che richiede continuamente un'interpretazione che non può mai giungere a conclusione, al massimo a una sospensione.
Il sentimento mitico è la prima forma di interpretazione, nasce dai riti che sono prassi ripetute che consentono all'essere umano, consapevole del suo sentirsi trattenuto e rigettato dall'esistenza, proprio in virtù del poterli ripetere, di prendere dimora nel mondo. La tecnica ha il medesimo significato del rito (il rito è una forma di tecnica e ogni tecnica una forma di rito), la tecnica nasce per la riproduzione di ciò che nel mondo ci trattiene  e ci trattiene al mondo. La ripetizione dei riti da sola tuttavia non basta, occorre una garanzia che supplisca all'errore di riproduzione: la condivisione dei riti a livello sociale e pubblico è una prima garanzia, la nascita degli Dei (gli eterni privilegiati) con le loro teogonie è una seconda e più potente garanzia, la promessa di un mondo fuori dal mondo, a sua volta garantita dall'amore di un solo vero Dio immensamente onnipotente e buono è una garanzia ancora più grande. Le stesse metafisiche fino ad arrivare alla unica vera scienza che si costruisce dandosi un metodo sono ancora garanzie. Il processo è quello di un perenne tentativo di addomesticamento del mondo che iniziò nei primi riti tribali, nella scoperta dei riti dell'agricoltura, ma a ogni tentativo il mondo che credevamo addomesticato ripresenta, insieme al suo modo di comprenderci, il suo modo di negarci e in quanto negazione di farci resistenza, perché proprio in virtù di quella resistenza noi veniamo a esistere, perché è solo in virtù di una condanna a morte che noi viviamo.
Trasformiamo il mondo in quanto il mondo continuamente ci trasforma, ma le due cose non avvengono mai simultaneamente, perché in mezzo ci sta la consapevolezza di esistere, dettata da un mondo che si presenta davanti anziché solo includerci, è solo per questo che immaginiamo un fuori e un dentro, un corpo e un'anima, un mondo e un altro impossibile mondo depositario di garanzie assolute, in cui, se non più Dio, la tecnologia tutto potrà, poiché essa, per definizione, è l'essenza di ogni potenza, con essa si sa come fare riproducendo quante volte si vuole quello che occorre fare per vincere qualsiasi resistenza.
Questo è il quadro "naturale" dell'umano alla perenne ricerca della sua "natura", ossia del suo mondo. Di "contro natura" in questo discorso non vi è nulla, se non la traduzione di un'esistenza che per natura si sente dalla natura rigettata, poi ognuno viva del pharmacon che crede gli possa offrire maggior garanzia, per come il mondo glielo presenta.
Esistendo in un mondo umano, in una comunità plurale di esseri umani, di esseri viventi e di cose e solo per la relazione che ognuno intrattiene con gli altri questo discorso non può che essere un discorso etico e politico, laddove etica è la dimensione del mio discorso con un "tu" che ogni volta si pone e si ripropone come origine di "me stesso", mentre politica è la prosecuzione di questo discorso quando "tu" e "io" possiamo diventare "noi" e il molteplice (io, tu) torna a essere uno (noi, noi e voi). La politica continua dall'etica il cui presupposto è nel primo modo di sentire l'altro e quindi nella assunzione di responsabilità di un me stesso nei confronti di ciò da cui posso nascere e rinascere e che, proprio per questo, ogni volta, con la sua differente presenza che resiste, mi condanna a morire.
Per questo il senso di responsabilità e di cura per l'altro (per la differenza che resiste e resistendo mi nega e negandomi mi fa ogni volta rinascere per riaccogliermi nel mondo in cui mi condanna a morire) non è il risultato di un comandamento sovra naturale, non è una trascendente sovrastruttura a fronte di un naturale e mondano presunto egoismo, ma fa parte anch'esso della natura-mondo, esattamente come il suo contrario che solo nell'uomo si presentano come distinti e divisi.
#544
Citazione di: Eutidemo il 06 Novembre 2016, 06:47:46 AM
Sono fondamentalmente d'accordo quasi su tutto.
Ed invero, non c'è dubbio che, in buona parte, sia alla base della "coscienza personale", sia alla base che della "legge scritta",  si debba considerare il contesto sociale di cui l'una e l'altra sono espressioni; ed infatti, in non piccola misura, è questo contesto sociale che determina il prevalere della posizione che privilegia il formalismo oggettivante e pubblico della norma per prenderla a definizione, oppure quella che rimanda alla problematicità individuale del significato di ciò che sta scritto per tutti.
Ma, a mio avviso, non si riduce tutto a questo.
Ed infatti è frequente riscontrare che persone che provengono dallo stesso contesto socio-culturale (ad esempio dei fratelli), sul tema, hanno atteggiamenti COMPLETAMENTE diversi; ciò che influisce sulle scelte personali, infatti, è anche l'"individuale" esperienza coscienziale, e lo sviluppo di "proprii" ragionamenti e convinzioni maturate nel tempo.
Anzi, col tempo, queste possono mutare anche all'interno di un singolo individuo.
Peraltro, se è vero che il contesto socio-culturale influisce -in parte- sull'individuo, è anche vero anche il contrario: ed infatti, molti pensieri "individuali", espressi in libri che "hanno fatto la storia", hanno anche indubbiamente contribuito a cambiare il contesto sociale, e quello che era il vecchio "pensiero prevalente".
Tra singoli individui (autonomamente pensanti) e contesto culturale, secondo me c'è una continua interazione...in entrambi i sensi.
In concreto, comunque, secondo me la scelta "tra uno o un altro modo di fare", dipende fondamentalmente sia dalla coscienza personale del soggetto,  sia da ciò che sta scritto nelle norme oggettive di diritto; o meglio ancora, o dalla concomitanza tra le due cose (come di regola dovrebbe accadere), ovvero, in caso di contrasto tra l'una e l'altra, dal "libero arbitrio" dell'individuo, che, in concreto, opera la scelta.
Ad esempio, le prescrizioni legali che vietano l'omicidio, in genere (ma non necessariamente) concordano con la coscienza personale dei singoli individui; ma quelle che concernono l'eutanasia, invece, molto spesso non collimano con la coscienza e la sensibilità individuale (per non parlare della ragione).
Per cui, il soggetto che, secondo la sua coscienza (in determinate circostanze), ritiene giusto praticarla, deve scegliere se fare ciò che ritiene GIUSTO, ovvero quello che sa essere LEGALE; e si tratta indubbiamente di una scelta individuale, che può essere emotiva o razionale, ovvero anche determinata da mera convenienza pratica (evitare la sanzione penale).
Comunque mi sembra MOLTO appropriata la tua citazione del CRITONE, in cui Socrate sostiene una tesi sostanzialmente GIUSPOSITIVISTICA; che è l'opposto di quella GIUSNATURALISTICA di Sofocle nell'ANTIGONE, quando quest'ultima dice a Creonte: " Non pensavo che i tuoi editti avessero tanta forza, che un mortale potesse trasgredire le leggi non scritte e incrollabili degli dei".
Non mi è invece ben chiara la tua conclusione, quando scrivi:
"Di quali individui dunque le nostre leggi si prendono davvero cura per esercitare la funzione in ragione della quale sussistono?  Questa è una domanda che non trova risposta nell'ottemperanza formale della lettera della norma in quanto tale, le leggi non sono degli assoluti semplici per i quali basta la lettera, occorre comunque per esse l'assunzione di una coscienza politica."
Secondo me, infatti, tu introduci nel dibattito una ulteriore prospettiva: quella "politica", che, se ho ben capito, dovrebbe (giustamente) tendere a far modificare quelle leggi che non esercitano più esercitare la funzione in ragione della quale sussistono.
Sulla quale cosa sono perfettamente d'accordo.
Quanto, invece, al tuo principio "ermeneutico" per il quale l'obbedienza alla legge non consiste:"...nell'ottemperanza formale della lettera della norma in quanto tale, le leggi non sono degli assoluti semplici per i quali basta la lettera", essa corrisponde pienamente all'idea (sostanzialmente) GIUSNATURALISTICA, superbamente espressa da San Paolo, quando scrive: "La lettera uccide, solo lo spirito vivifica" (2Cor 3,6).
Non corrisponde del tutto, però, sotto il profilo GIUSPOSITIVISTICO, a quanto espresso dall'art.12 delle PRELEGGI, per il quale: "Nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore.".
Quest'ultima è la c.d. "interpretazione logica" che mira a stabilire lo "scopo" che il legislatore ha inteso realizzare, emanandola; ma, si noti la congiunzione proposizionale "e", che è un connettivo logico attraverso il quale, a partire da due proposizioni (A e B) si forma una nuova proposizione, la quale è vera se siano entrambe vere, mentre è falsa in tutti gli altri casi possibili.
Per cui, in parole povere, l'unica intenzione del legislatore "positivisticamente" recepibile, è solo quella che deriva dal senso che, a seguito dell'esegesi giuridica del testo scritto, scaturisce dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse.
Ma se tale "scopo", sia pure correttamente interpretato ai sensi dell'art.12, contrasta con quello che qualcuno ritiene essere il "diritto" naturale (come nelle leggi razziali), anche correttamente interpretando lo spirito della norma, la nostra coscienza può benissimo rifiutarne l'osservanza.
Per cui l'antinomia permane!
Sì Eutidemo, sono d'accordo sul fatto che l'individuo nella sua peculiare differenza entra comunque in gioco davanti alla legge, ma non è l'individuo che sceglie questa sua differenza e quindi "opera la scelta", semplicemente la vive in ambito collettivo e per come la vive la intende giusta o no. E la legge stessa considera comunque in termini sociali quell'individuo e se l'eutanasia oggi presenta una problematica legislativa non è perché la legge prende in esame una particolare sensibilità individuale (che pur sussiste), ma perché esiste un ambito culturale collettivo e sociale in cui quella particolare sensibilità individuale trova pubblica ragion d'essere, per cui la scelta che sembra del singolo è già una scelta socialmente attuabile, il modo comune e pubblico di vedere le cose consente di sentirla e assumerla lecita. Resta comunque il "costume pubblico" che esprime la legge e i modi di sentire degli individui, ma mentre la legge la si può fissare uguale per tutti in forma scritta, gli individui no, essi vivono del loro diverso e sempre variante modo di sentire, che non è "scelto" da loro, ma partecipa di una determinazione sociale fatta di prassi condivise (e a loro volta varianti) nella quale possono sentirsi esclusi o compresi. Poi è chiaro che l'esclusione, quando coinvolge il modo di sentire sociale di più individui, può a sua volta determinare un diverso modo sociale condiviso e quindi forzare una riscrittura della legge e qui entra in ballo il discorso politico che riprendo alla fine.
Mi sembra chiaro che la posizione giuspositivista con il suo riferimento alla lettera intende mantenere il campo fermo, giacché solo a "bocce ferme" si può avere la formale certezza di un giudizio, ma in realtà le bocce non sono mai ferme, per questo occorre tener conto dello "spirito" che, per dirla come dice San Paolo vivifica, laddove la legge uccide. Anche se questo introduce un nuovo problema, perché lo spirito enunciato nella legge come "intenzione del legislatore", se preso a sua volta nel suo senso letterale non potrà che continuare a uccidere. E quindi il problema resta; né un'ermeneutica infinita, né una riduzione alla lettera che vede il significato espresso da ben definite connessioni sintattiche può risolverlo. Occorre, credo, in ogni caso, mantenersi in una posizione intermedia dettata da un "buon senso" pubblico sempre inevitabilmente discutibile.
Giustamente tu vedi nella posizione di Socrate nel "Critone" un richiamo giuspositivisco, però in fondo le Leggi rivolgono a Socrate una domanda (che possiamo sentirla anche in modo retorico, ma non è detto che la si debba sentire come tale), ossia gli chiedono se trova che esse si siano prese cura di lui, di lui proprio come individuo. Qui è l'individuo Socrate che è chiamato a giudicare le Leggi e non sulla loro lettera, ma sulla concreta cura che esse hanno saputo offrirgli. E Socrate le assolve: le Leggi hanno fatto ciò che dovevano, dunque, coerentemente, lui non trova giusto sottrarsi ad esse: la cura è stata propriamente esercitata, non per forma, non a priori, ma per sostanza. Egli quindi accetta la sua condanna a morte, pur sapendola ingiusta, proprio perché quelle leggi che bene lo hanno preso in cura, possano continuare a prendere in cura, come lui, ogni altro cittadino ateniese. In questo senso non avverto un'assunzione formale per cui la Legge domina assoluta con la sua perfezione a cui è doveroso conformarsi alla lettera, ma un giudizio politico sulle prassi (e non sintattico sulla forma) che ogni individuo dalla legge stessa è chiamato onestamente a esprimere assumendosene fino in fondo le conseguenze. Certo quel giudizio non è semplicemente di Socrate, soggetto individuale, partecipa della storia e della cultura in cui Socrate è vissuto, ma lui è chiamato nella sua individualità a farsene carico e, facendosene carico, assumendosene cioè una responsabilità politica, l'individuo nella "polis" torna al centro di ogni questione. 


       
#545
Tematiche Filosofiche / Re:Nulla è contro-natura
06 Novembre 2016, 18:00:43 PM
L'etica non è nella natura esattamente come nella natura non c'è l'appartamento o la casa in cui abiti. L'etica è un prodotto umano, ma essendo il fare umano un fare che è in natura i prodotti dell'uomo restano prodotti di natura, proprio come il nido di una rondine che può essere fatto solo da una rondine.
Certo che la natura introduce nell'uomo una problematica, è quella che ho tentato di spiegare e per la quale l'uomo non è un lombrico e il suo mondo non può essere letteralmente lo stesso di un lombrico, ma questa problematica non sta nell'esserci una "natura" e una "non natura" che chiamiamo cultura, una res extensa e una res cogitans ciascuna per conto suo, la prima del mondo e la seconda dell' "isola che non c'è". La problematica appartiene tutta alla natura umana per come essa è naturalmente nel mondo, è la stessa natura umana, ossia è il modo umano di vivere la propria naturale presenza e questo modo umano, naturale, proietta naturalmente l'uomo fuori dalla natura, lo fa sentire come se ne fosse fuori, spaventato e solo, diverso da ogni altro essere che ha intorno a sé, ma allo stesso tempo convinto dalla sua immaginaria posizione esterna su un'altura ben recintata, di poter godere di viste panoramiche portentose sulla natura stessa e di condurla dove e come vuole, come se fosse una materia a completa disposizione d'uso della sua "non natura" (leggasi cultura) che se ne sta fuori dal mondo per conto suo.
Non so se rendo l'idea, ma mi rendo conto che accettare il fatto che noi, le nostre culture e i nostri prodotti (compresa la macchina che si guida da sé, di cui si parla in un altro topic, o i pomodori di forma cubica per inscatolarli meglio) sono comunque espressioni di natura, dopo secoli e secoli, millenni di pensiero in senso contrario, con tutte le suggestioni di grande potenza con cui questo pensiero ha gratificato, spronato e a momenti alterni tranquillizzato l'essere umano, può non essere facile. La natura dell'uomo è anomala rispetto al resto dei viventi (o meglio l'uomo stesso avverte nella propria esistenza una profonda anomalia, dunque si immagina una non natura in cui sogna di poter meglio abitare e la progetta), ma, per quanto la immagini e la progetti, essa resta comunque natura in cui si sentirà ancora angosciato e quindi ancora capace di modificarla per poterci stare.
Il problema vero è: dato che la natura umana ha per natura questa anomalia, come si può convivere umanamente con essa? E' possibile conviverci o dobbiamo continuare a immaginarci mondi che non ci sono da progettare e costruire per poterci stare? (in altre parole "cosa davvero ci manca nella nostra naturale mancanza?"). E la risposta è tutt'altro che facile. ma già aver pensato la domanda può aiutarci. Si può cominciare a rifletterci sopra anziché ripetere in eterno gli stupefacenti giochi illusionistici fatti di auto che si guidano da sé e di pomodori cubici di cui poi non si può più fare a meno.
#546
Tematiche Filosofiche / Re:Nulla è contro-natura
06 Novembre 2016, 09:16:10 AM
Citazione di: paul11 il 06 Novembre 2016, 00:24:33 AM
L'uomo appartiene ala natura ,ma è anche cultura.
Certamente, è anzi la cultura che dà il senso della natura dell'uomo, ma a sua volta come possiamo considerare la cultura se non come espressione propria della natura umana? Certo, le auto e le fabbriche che inquinano, le bombe nucleari e via dicendo non si trovano direttamente nell'ambiente in cui l'uomo vive come si potrebbero trovare i funghi buoni e velenosi: ci vogliono degli esseri umani che le pensino, le progettino e le costruiscano, ma ciò non toglie che essendo questi esseri umani comunque esistenti in natura, mi pare lecito e opportuno considerarli il mezzo con il quale la natura si attua. Analogamente i nidi degli uccelli, le tane dei castori, i termitai non sono come tali presenti in natura, occorrono uccelli, castori e termiti a realizzarli, ma non per questo considererei il nido di una rondine un prodotto artificiale. La effettiva differenza dell'uomo sta nel progetto che egli costruisce in vista di un fine dettato dalla sua consapevolezza di esistere e quindi da un'esistenza che si presenta per l'uomo come una domanda che sorge e risorge di continuo nella sua coscienza, ma anche questo fa parte della natura, a meno di non voler pensare che questa particolarità umana non venga da un extra mondo, da una sorta di fantastica "Isola che non c'è" ma che deve pur esserci per rendere conto all'uomo della stranezza dell'uomo.
Si tratta di una stranezza molto pericolosa e angosciante, non c'è dubbio, ma è un pericolo e un'angoscia che riguarda solo l'essere umano, non la natura che in sé lo include come fatto infinitesimo e del tutto marginale. Quando arriveremo a capire che i nostri modi di pensare, di produrre e di fare sono proprio noi che mettono in discussione a tutti i livelli, non certo il creato, non certo il mondo, non certo l'universo intero, ma quella nicchia minimale e infinitesima e finora unica dell'universo in cui possiamo esistere per il modo del tutto contingente in cui in essa possiamo trovare dimora, forse cominceremo a porre più attenzione alla nostra natura e ci sentiremo un po' meno demiurghi aventi un mondo lì fuori come un puro oggetto a disposizione del finalismo del soggetto e scopriremo che noi siamo questo mondo, noi siamo il nostro oggetto, senza nessun mandato speciale da parte di un extra mondo.
In fondo si potrebbe anche dirla così: l'uomo è quel prodotto naturale dell'universo con cui l'universo viene naturalmente a conoscersi e questo espone ogni uomo a un rischio costante che si traduce nella consapevolezza del suo stesso poter morire, consapevolezza in cui si scopre uguale a ogni altro uomo e allo stesso tempo unico rispetto a tutto ciò che non come uomo ci appare.
#547
Le autoautomobili... un altro di quegli effetti da baraccone delle meraviglie che la tecnologia è sempre ben felice di fornirci per fare soldi. Non vedo proprio quale utilità possano avere o quale bisogno soddisfare: se si voleva salire su un auto comunicando solo la destinazione per arrivarci, dopotutto ci sono già i taxi (per non parlare dei sistemi di trasporto collettivo come autobus e treni che un tempo facilitavano anche il contatto sociale, finché non sono stati inventati gli smartphone) con un autista a cui si può demandare ogni problema morale sulla guida confidando nel suo limbico agire umano che sicuramente crea molti meno problemi e sorprese di una morale programmate algoritmicamente a tavolino. Google comunque ci conta, proprio come ai suoi tempi il grande Barnum con il suo circo, e c'è davvero da contarci, la idiozia della clientela aumenta progressivamente con l'offerta tecnologica di cui non si finisce comunque con il non poterne fare a meno. per quanto demenziale inizialmente si presenti.
L'aspetto della programmazione della morale resta forse l'unico aspetto interessante della questione, l'umanità farà da cavia per un'etica algoritmicamente evolutiva in fase sperimentale.
#548
Non c'è dubbio che il discorso sul lavoro sia un discorso che si va facendo sempre più interessante, dati i tempi e merita di essere considerato per i suoi fondamentale aspetti sociali, politici ed esistenziali compresa la domanda fondamentale: si può vivere in una società senza lavoro? Quale lavoro ci attende?

Il lavoro è un valore? Direi di no, in senso universale. Ci sono stati tempi e luoghi in cui il lavoro non era per nulla un valore (in una società aristocratica dover lavorare per vivere è degradante, come è degradante essere attendere di essere pagati per il lavoro che si svolge) e biblicamente il lavoro è una maledizione divina (anche se poi in Occidente, in era moderna, agli inizi del pensiero scientifico, questa maledizione è stata vista implicante il riscatto salvifico del genere umano). Oggi direi che il lavoro sta diventando sempre più un privilegio da conquistare, anche il lavoro più abbruttente e degradante (grande furbizia del capitale che così si risparmia pure la pena e la spesa di cercare schiavi, dato che li trova volontari, tra loro competitivi e in grande abbondanza).
Il significato valoriale del lavoro inizia con l'affermarsi del modo di pensare e di vivere borghese. Ecco che allora entra in gioco il significato di dignità legata a quello che si dimostra di saper fare, cosa che implica che fondamentalmente, prima di saper fare non vi sia alcuna dignità nella esistenza in sé. Il lavora instaura la dignità nell'essere umano che si rivela a se stesso, mediante il proprio lavoro, capace di conquistarsi la propria autonomia esistenziale, di costruirsela con le proprie mani senza dipendere da nessun altro che da se stesso. In tal modo il lavoro è lo strumento di realizzazione della propria individualità autentica, della propria libera ontogenesi e letteralmente, a questo punto, per vivere occorre lavorare.
Green Demetr giustamente dice che il soggetto si viene a conoscere (conosce se stesso) nel suo rapporto con l'oggetto, il lavoro costruisce questo rapporto ed è sempre il lavoro che costruisce una relazione pubblica tra soggetti che reciprocamente si rispettano e si ammirano per quello che sono capaci di fare l'uno per l'altro: è il lavoro che permette l'esistenza di una società, di un senso oggettivo della realtà e di una stabilità di se stessi in questa realtà, non vi è dubbio.
Ma, ammettiamolo, c'è lavoro e lavoro, questo è il punto, e non tutti i lavori vanno nella direzione della dignità, anzi direi che questo accade sempre di meno, perché la necessità di un continuo incremento di potenza non richiede dignità, anzi. Senza dubbio il lavoro intellettuale, il lavoro del poeta, il lavoro del filosofo, che diano a loro o meno di ché vivere sono lavori a tutti gli effetti, sono dello stesso tipo dei lavori dello scienziato, dell'artigiano, del bravo tecnico e operaio che ci mette l'anima in quello che fa, fosse anche stringere un bullone in una catena di montaggio, finché quel bullone gli restituisce una dignità in cui può riconoscersi, ma purtroppo non è così in generale. Ed è senza il sentimento di questa dignità che si può solo essere dei miserabili, anche se si può vivere di rendita anziché dipendere dall'altrui elemosina.
Prima di dire che il lavoro dà dignità all'uomo ed è quindi un valore universale occorrerebbe analizzare e definire il tipo di lavoro di cui si parla e forse anche il tipo di uomo che quel lavoro costruisce, fermo restando che senza lavoro non ci si può sentire comunque liberi. Quello che c'era scritto all'entrata dei campi di sterminio era purtroppo vero: il lavoro rende liberi. E' perché è vera che quella frase rispecchia tutto l'orrore e la nefandezza schifosa a cui riesce a giungere e anche piuttosto spesso l'essere umano (ad Auschwitz, come in un gulag in Siberia, in una fabbrica che lavora per la Apple in Cina o in una miniera di Coltan in Congo non fa molta differenza).
#549
Tematiche Filosofiche / Re:Nulla è contro-natura
05 Novembre 2016, 20:12:56 PM
CitazioneDi fatto c' é un' accezione "forte", un senso più immediatamente letterale (ma "estensionalmente più largo") del concetto di "natura" come "res extensa in toto", genericamente intesa, includente (anche) tutto ciò che é umano o culturale o artificiale, ecc.; e c' é un' accezione più "debole" o meno immediatamente letterale (ma "estensionalmente più limitata") del concetto di natura come "res extensa ad esclusione di ciò che é umano".
Si potrebbe dire che c'è un'accezione ancora più forte (che condivido) che include nella "natura" (intesa, come dice Voltaire, nel senso di realtà per come si manifesta) anche la res cogitans, o, se si vuole, "l'autocoscienza" che è un fenomeno del tutto naturale in quanto realmente accade (anzi potremmo dire, che è solo in relazione ad essa che qualsiasi cosa effettivamente accade, res extensa e cogitans comprese come tali). Ma il problema che chiede ragione della natura della "natura" dando risposte forti o deboli, non è ovviamente solo una faccenda linguistica, a cui basta il vocabolario giusto a risolverlo, perché l'uomo effettivamente, proprio in quanto "naturalmente" cosciente dell'accadere e del proprio accadere si vede gettato fuori dalla natura e questo da un lato lo terrorizza e lo angoscia, dall'altro gli dà il senso di poter progettare il proprio dominio umano sulla natura che gli si presenta davanti in visione panoramica. Poi magari scopre che non è per nulla così, che non domina proprio nulla, in quanto comunque egli resta sempre nella natura, ma ci resta, lo ripeto, sentendosene in qualche misura sempre rigettato tanto da considerare "artificiale" quello che lui naturalmente fa.
Per il lombrico ad esempio non è così, il lombrico è del tutto nella natura e lì ci sta contento e soddisfatto (mi si perdonino i termini antropomorfici e mi perdonino i lombrichi, ma è per rendere l'idea tra esseri umani). In realtà tra il lombrico e l'uomo esistono forme di coscienza e probabilmente anche di autocoscienza intermedie che sarebbero interessanti da esplorare, ma non vi è dubbio a mio avviso che l'uomo è di per sé una grande anomalia naturale, una sorta di contraddizione vivente, ossia è veramente nella natura sentendosene al di fuori.
#550
Citazione di: Eutidemo il 04 Novembre 2016, 07:49:52 AM
Al termine della sua esposizione, io alzai la mano per ottenere la parola, e chiesi: "Professore, si potrebbe sintetizzare il tutto, dicendo che i Giuspositivisti ritengono che sia giusto osservare solo la legge "scritta", mentre i Giusnaturalisti, invece, ritengono che sia giusto osservare anche la legge "non scritta", quale impressa nella nostra coscienza (sia pure condizionata culturalmente)?"
Lui rispose: "Sintetizzando all'estremo, in effetti, il nocciolo della questione è proprio questo.".
"Ma allora...", feci io "...in effetti anche i Giuspositivisti sono Giusnaturalisti, in quanto, "a monte" della loro asserzione di voler dare la preminenza alla legge scritta, c'è pur sempre un giudizio valoriale; e, cioè che è GIUSTO osservare la legge scritta, a prescindere da ciò che ci detta la nostra coscienza personale. MA NON E' FORSE SEMPRE LA LORO COSCIENZA PERSONALE, AD AVERLI INDOTTI A TALE SCELTA, CIRCA CIO' CHE E' GIUSTO O MENO OSSERVARE?"
Trovo che la tua osservazione sia fondamentalmente giusta, anche se alla base sia della "coscienza personale" che della legge scritta  si debba considerare il contesto sociale di cui l'una e l'altra sono espressioni, è infatti questo contesto sociale che determina il prevalere della posizione che privilegia il formalismo oggettivante e pubblico della norma per prenderla a definizione, oppure quella che rimanda alla problematicità individuale del significato di ciò che sta scritto per tutti. In realtà la scelta tra uno o un altro modo di fare non dipende fondamentalmente né da una coscienza personale del soggetto né da ciò che sta scritto in oggetto di norma, essendo sia la coscienza personale che lo scritto modi diversi di tradurre l'esperienza culturale e sociale da un lato per riconoscerla nella propria vita concreta insieme agli altri, dall'altro per preservarla definendola nel modo meno ambiguo possibile e quindi astratto, di principio.
Mi sembra interessante filosoficamente richiamare qui il famoso dialogo di Platone "Critone", ove appunto Critone, amico e discepolo di Socrate, si presenta a Socrate condannato a morte per empietà, proponendogli di fuggire (fuggire alle leggi sulla base delle quali  era stato giudicato ingiustamente reo). Le ragioni morali che Critone presenta sono tre: non fuggendo Socrate farebbe torto a se stesso (egli infatti è innocente), farebbe torto ai suoi figli che verrebbero di lui privati, farebbe torto ai suoi amici che perderebbero ogni pubblica considerazione non avendo fatto tutto il possibile per salvarlo. Socrate risponde che la pubblica considerazione non è un criterio sufficiente a stabilire ciò che è giusto o no fare, ma il ragionamento corretto e per questo immagina che siano le Leggi stesse a venire a chiedergli: chi si occupato della tua nascita e di quando eri bambino? Sei soddisfatto del modo in cui si celebrano i matrimoni nella tua città? Chi ti ha allevato? Chi si occupa di ciò che accade nella Città?
In questa "Prosopopea" Le Leggi ricordano a Socrate che esse offrono cura a ogni individuo della comunità affinché la comunità stessa con la sua possibilità di cura possa preservarsi, quindi non è bene sottrarsi ad esse per motivi soggettivi proprio in ragione di questa cura (epimeleia). Ma proprio in quanto la ragion d'essere delle leggi sta nella cura (una sorta di profilassi terapeutica) non penso che vadano accettate semplicemente della loro lettera che vuole fissarle formalmente, ma sempre pubblicamente comprese, condivise e rimesse anche coraggiosamente in discussione in nome della verità della cura per come si realizza nella vita di ogni individuo della comunità, a partire dal proprio quotidiano sentire per come trova riscontro pubblico.
Di quali individui dunque le nostre leggi si prendono davvero cura per esercitare la funzione in ragione della quale sussistono?  Questa è una domanda che non trova risposta nell'ottemperanza formale della lettera della norma in quanto tale, le leggi non sono degli assoluti semplici per i quali basta la lettera, occorre comunque per esse l'assunzione di una coscienza politica.
#551
Tematiche Filosofiche / Re:Nulla è contro-natura
04 Novembre 2016, 20:14:33 PM
Credo sia logico considerare comunque l'uomo un elemento della natura e quindi anche ciò che produce e trasforma. Non è detto però che quello che l'uomo produce e trasforma e soprattutto il modo con cui lo fa vada a vantaggio della sopravvivenza dell'uomo stesso (dell'uomo, ripeto, non della natura come tale, ma semmai della natura intesa come quel contesto che garantisce all'essere umano di esistere). Quando parliamo di "naturale" e di minaccia alla "natura" da parte dell'attività antropica, in realtà questa minaccia riguarda quel contesto ecologico, culturale e sociale (frutto di millenni di trasformazioni umane) in cui l'uomo può abitare, ove il poter abitare va inteso sia in senso fisico che psichico. Quando ci troviamo in una cosiddetta "riserva naturale", tra prati verdi e montagne innevate, ci troviamo comunque in un ambiente che da millenni è stato profondamente modificato dagli esseri umani. Ambienti davvero naturali sono rimasti pochissimi sul pianeta e comunque anche questi hanno subito modificazioni indirette da parte dell'uomo.
Se la tecnologia resta a mio avviso un fenomeno del tutto naturale, lo sviluppo tecnologico, per quello che ha provocato soprattutto dalla rivoluzione industriale in avanti, con la scoperta delle fonti di energia fossili, ha determinato in modo esponenziale un rischio di impatto enorme per la vita dell'uomo sul pianeta (dell'uomo e non della natura), oltre a un modo di pensare e quindi di vivere (in uno stato di pressocché totale dipendenza dai prodotti tecnologici) che ci rende praticamente impossibile uscire da questa corsa sempre più accellerata.
Personalmente sono contrario agli OGM e alle manipolazioni genetiche, non abbiamo ancora una scienza in grado di valutare la complessità dei fenomeni ecosistemici, per non parlare di quelli sociali da cui lo scienziato pensa sia lecito per lui tirarsi fuori, limitandosi al discorso tecnico per come lo studia in condizioni di riproducibilità controllata. Non solo, ma lo stesso controllo proprio dell'operatività scientifica tende a nascondere o a sottovalutare la probabilità del fenomeno imprevisto in contesti più complessi. Purtroppo però mi rendo anche conto che di fatto ci sono ben poche vie di uscita: il prodotto tecnologico comunque lo si veda, esercita sulla stragrande maggioranza degli esseri umani un effetto seduttivo irresistibile, legato alla potenza facilitante che sembra poter offrire a chi lo possiede. Gli OGM (o altri modi per progettare e modificare il genoma con la bio ingegneria) prima o poi ce li ritroveremo ovunque, come oggi ovunque si trovano ovunque cellulari, computer, automobili e via dicendo e ci sembra del tutto "naturale" e anche indispensabile il possederli.
#552
Tematiche Filosofiche / Re:Nulla è contro-natura
03 Novembre 2016, 17:02:45 PM
Il discorso non è semplice.
Di sicuro l'uomo non è fuori dalla natura, essendone comunque un prodotto e quindi il medio (naturale) con cui la natura si produce e soprattutto si conosce, ma vi si trova come in bilico, dove questo stare in bilico si traduce sia nel domandarsi sulla natura (come se essa fosse qualcosa che si può considerare in oggetto, separata e diversa da noi), sia in un'angoscia originaria che pone l'uomo a interrogarsi su se stesso, sulla sua natura e a voler trasformare la natura per poterla abitare sicuro e tranquillo.
Di per sé la natura pare non essere interessata per nulla all'essere umano, né di meno né di più di quanto possa interessarle una pulce o un lombrico che, al contrario dell'uomo sono a tutti gli effetti nella natura e quindi non si pongono quel problema esclusivamente umano che consiste nel potersi continuare a ritrovare in ciò che la natura comunque dispone (magari anche e soprattutto, almeno su questo pianeta, a mezzo dell'uomo stesso, un mezzo che si illude di essere il demiurgo che sceglie e crea ciò che vuole per i fini che lui progetta).
Il discorso sugli OGM è un discorso che andrebbe anch'esso inteso nel suo ambito perfettamente naturale e insieme antropologico. E' da quando sono stati scoperti agricoltura e allevamento (non così tanto tempo fa dopotutto, meno di una decina di millenni or sono, un tempo che su scala cosmica è meno di un battito di ciglia) che gli esseri umani hanno progettato e prodotto OGM. Sono OGM (progettati e manipolati dall'uomo) praticamente tutto il cibo "naturale" di cui ci cibiamo e gran parte degli animali che abbiamo addomesticato: ciò che andrebbe considerato non è l'OGM in quanto tale, ma il fattore potenza, ossia l'entità rispetto al tempo con cui oggi si possono produrre queste trasformazioni, ed è la prospettiva che questa potenza pone su se stessa (e illude magari di risolvere problemi come la fame, che hanno ben poco a che vedere con la "soluzione" OGM). Il problema è che l'uomo è chiamato sempre più a vivere in una continua modificazione che lui stesso induce, senza riuscire a modificare se stesso con pari velocità, dunque, nella misura in cui egli stesso è natura, non è capace più di comprendersi né di ritrovarsi in ciò che va facendo, anche quando lo fa con grande competenza tecnica.
Dopotutto, parafrasando Sgiombo, il problema non è l'autostrada, ma come riusciamo (o meglio, non riusciamo) ad andare in autostrada.


#553
Tematiche Filosofiche / Re:Il saggio rabbino
01 Novembre 2016, 22:49:16 PM
Non trovo necessariamente "atea" la posizione di Panikkar come da te presentata e che condivido. Essa fa appello all'assoluta inconoscibilità (e non negazione ontologica) dell'Uno (unica verità) come tale pur richiamandone la evidente necessità e nello stesso tempo sottolinea come questa unicità solo nella pluralità può di fatto svelarsi e pertanto attuarsi; pluralità che quindi mantiene il suo orizzonte di senso nell'Uno di cui è la chiara e concreta manifestazione. Tra le varie posizioni della pluralità si riflette il medesimo rapporto di contraddizione - complementarietà che lega l'Uno alla pluralità. Avvertire solo la contraddizione (per cui o è così o non lo è) significa porre all'orizzonte la prospettiva nichilistica: nel reciproco volersi annientare dei contendenti, l'Uno (tutto ciò che è) è già inteso come Niente, ossia come assoluta contraddizione (tutto ciò che è è niente proprio poiché procede per progressivo annientamento di ciò in cui si manifesta, ossia gli enti che l'un l'altro si annientano, rendendosi l'un l'altro giustizia, come direbbe Anassimandro). D'altro canto la complementarietà è un processo sempre incompiuto, in cui la verità appare sempre come un ancora "da farsi", sempre nel suo errare (nel senso di essere in cammino trovandosi sempre in errore rispetto all'unità che la esprime venendone espressa).
Le due fazioni di ebrei avevano entrambe ragione e la loro ragione appoggiava sull'aver ragione dell'altra fazione (e magari rendendosene conto una soluzione, per quanto certamente non definitiva, si sarebbe potuta trovare), così come la ragione del rabbino poggia dialetticamente sull'obiezione degli anziani e degli scribi che si arrestano alla evidenziazione della contraddizione logico-formale.
#554
Citazione di: sgiombo il 23 Ottobre 2016, 11:23:24 AM
Continui a confondere la realtà con la conoscenza della (il pensare, il richiamare alla mente la) realtà, la quale ultima soltanto (e non la realtà) necessità inevitabilmente di proposizioni o giudizi fatti di parole le quali hanno un significato.
Non confondo nulla, solo noto che nemmeno la realtà può prescindere dal suo significato, ossia da ciò che di essa si pensa, si conosce e si dice dicendolo reale.

CitazioneMentre del segnale stradale "divieto di svolta a destra" é evidente il significato (per chi conosca il codice della strada) dell' albero di abete qui nel mio giardino e di tantissime altre cose che simboli non sono non esiste alcun significato (per definizione).
Dunque il tuo albero di abete non significa assolutamente nulla. Nemmeno che è quell'albero di abete.



CitazionePer ragioni puramente soggettive, e non certo perché le cose in generale e non simboliche (e in particolare il territorio dell' attuale provincia -se non l' hanno abolita, cosa che non é facile capire nelle mene penose della politica corrente) hanno un significato.
Esistono forse ragioni puramente oggettive? E dove mai?
Il simbolo (che è sempre sia soggettivo che oggettivo e quindi non è né questo né quello, ma precede sia l'oggetto che il soggetto) è la sola realtà manifesta che continua proprio in quanto simbolica a significare. Quando non significa più nulla non è più nulla, né Sud Tirolo, né Alto Adige, né altro.

Citazione
L' abete nel mio giradino appare eccome!
E non significa proprio nulla! Mi piace, spero che viva a lungo e cresca bene, ma queste sono miei sentimenti, non suoi significati!
[/size]E se fosse stato chiamato "eteba" non sarebbe cambiato proprio nulla nel suo reale essere e accadere
Come no, non significa forse "abete nel mio giardino"? ove ogni locuzione (abete, giardino, nel, mio, giardino) ha un significato legato a quello delle altre. Non so come puoi dire che se fosse stato chiamato "eteba" sarebbe la stessa cosa, dato che è invece "abete" che si chiama e come "abete" lo riconosciamo per quello che è.

CitazionePosso benissimo pensare e anche dire ad alta voce "questo é un cavallo" in perfetta solitudine (umana, ovviamente): il cavallo é presentissimo anche se lo vedo solo io.
E allora perché te lo nomini?

CitazioneArbitrariamente e convenzionalmente!
Impossibile, dato che non avevano alcun linguaggio per convenzionare tra loro dei suoni arbitrari.
Nessun nome può essere arbitrario, giacché è un nome, non un flatus voci.

CitazioneNon possono essere percepite, pensate, conosciute e non semplicemete essere reali, accadere realmente se come tali non sono percepite e interpretate; ma anche se non lo sono, sono comunque benissimo reali.
Certo, se in questo modo sono percepite e interpretate

CitazioneSgiombo:Dunque secondo te, non esistendo i microbi per il cavernicolo che non vede e studia al microscopio i microbi della polmonite , che non riconosce un significato di senso all'espressione "vedere al microscopio", ecc., costui non può ammalarsi e magari morire di polmonite!
Beato lui!
Anzi : beata illusione (perché lui, senza antibiotici, ha molte più probabilità di noi di lascrci la pelle)!
Il cavernicolo muore nella misura in cui vede morire. Muore a causa dei batteri nella misura in cui vede e conosce i batteri. Il nostro mondo pieno di batteri non è più reale del suo, dove ugualmente si muore, ma non per i batteri.

CitazioneMa tu credi avvero che, pur non conosciuti da noi, esistano davvero  [/size]omini verdi su Plutone o ippogrifi in una valle nascosta del Tibet???
Come posso saperlo? Posso solo dire che non li ho mai potuti vedere.
CitazioneSono convinto che abbiamo molte cose da insegnare a e da imparare a chiunque e da chiunque (in particolare ai e dai cavernicoli; se ancora ce ne fossero).
Qualcuno ancora c'è, ma è meglio (per lui) che non lo incontriamo, gli saremmo letali ben più di qualsiasi batterio, con tutte le cose che riterremmo doveroso insegnargli.

CitazioneSgiombo:
Che rideva l' hai detto tu, non io.
Veramente l'hai scritto tu:
Citazione...e anche più probabilmente potrà morire il cavernicolo che se la rideva

CitazioneIo so l' immensa storia, ecc. che il cavernicolo ignora, ma se  non siamo ciechi e guardiamo lo stesso schermo del computer, allora vediamo lo stesso schermo del computer.

Vedere (sentire, percepire) =/= sapere.
Vedete qualcosa e ne vedete il significato: tu vedi lo schermo di un computer, lui no, per nulla (a meno che non glielo insegni e lo convinci), quindi non è la stessa cosa


CitazioneSgiombo:
E allora?

Lo scettico non dice che tutto ciò che é creduto é falso ma che tutto ciò che é creduto é dubbio: sospende il giudizio non afferma la falsità di tutto.
Resta il fatto che se tutto è dubbio, tutto può essere falso, compreso che tutto è dubbio e quindi che tutto può essere falso.

CitazioneIl paradosso pseudoscettico é tutt' altra cosa da ciò che affermo.
Non affermo affatto che dire qualcosa su come é la realtà é non dire qualcosa su come é la realtà, bensì la ben diversa affermazione che la realtà é come é , indipendentemente da come si dice che é (es: se é deterministica la é anche se qualcuno dice ché indeterministica e non: se qualcuno dice che é indeterminsituica non é che qualcuno dice che é indeterministuica)
Se dici che la realtà è come è e per di più mi aggiungi che lo indipendentemente da come si dice che è non dici forse qualcosa su come è la realtà? E dato che lo dici che valore potrà mai avere rispetto alla realtà? Dici che la realtà è così, ma dici anche che quello che dici non ha nulla a che vedere con la realtà.

CitazioneFin che per te "dire, pensare circa la realtà" = "la realtà" non potremo mai intenderci!
Allora ci intendiamo, perché anche per me dire e pensare circa la realtà è diverso dalla realtà (anche se è comunque reale essendone un aspetto, il solo che ci permette di coglierla e condividerla). Ma la realtà per come è si accompagna sempre al dire e pensarla. Non può esistere l'una senza l'altra. Mentre per te c'è una realtà per come è che può esistere senza nulla significare (e che poi in qualche modo strano e misterioso corrisponde per tutti esattamente con il tuo/nostro pensarla e dirla, come lo schermo del computer o i batteri). Come possa accadere questo per me resta un totale mistero. E' per questo che non ci intendiamo.

CitazioneNon pretendo che ciò che dico abbia alcuna rilevanza circa ciò che é (ciò che é é ciò che é così com' é sia che io ne dica qualcosa, sia che io non ne dica qualcosa; se ne dico qualcosa comprendendo fra l' altro che ne dico qualcosa, se non ne dico nulla non comprendendo il dirne alcunché da parte mia).[/size][/color]
Sì, ma tutto questo non spiega perché ne dici qualcosa che è esattamente (per quello che tu - e non io- dici) equivalente a non dirne nulla, dato che la realtà la dici e la pensi del tutto indipendente da quello che tu ne dici e ne pensi.
#555
Citazione di: sgiombo il 21 Ottobre 2016, 11:28:11 AM
Essa comprende determinate cose molto peculiari, dette "simboli", come le parole, i segnali stradali, le icone dei desktop de computer, ecc., cui sono attribuiti (arbitrariamente; e di solito convenzionalmente accettati) significati; e inoltre tutte le altre cose che non sono simboli, le quali invece non hanno alcun significato: appaiono come (insiemi e successioni di) sensazioni fenomeniche e basta!
Il problema è qui Sgiombo: quali sono queste cose che appaiono come successioni di sensazioni che non hanno significato se nel momento stesso in cui solo le richiami alla mente è solo nel loro significato che puoi richiamarle? Non solo i segnali stradali o le icone sul desktop del computer (che sono pur sempre cose, oltre che segni convenzionali), ma anche un albero, una pietra, un animale in quanto tali sono segni e fatti a segno e solo per questo possono esistere come "albero", "pietra" e "animale", esistere per noi a cui da esse veniamo fatti segno. E il nome rappresenta il loro condiviso e pubblico significare che non è semplicemente convenzionato, ma è il risultato di una storia immensa, antica quanto l'umanità che al presente, in questo luogo dà questi nomi, in altro tempo e luogo ne dà altri, ma che non siamo noi a scegliere. Anche "Alto Adige", al posto di "Sud Tirol" è il risultato di una situazione storica, non si sceglie "Alto Adige" solo per fare dispetto a chi vuole chiamarlo "Sud Tirol" o viceversa, ma in ragione del contesto storico per cui si sente necessario far dispetto, non si sceglie arbitrariamente. E l'Alto Adige non è il Sud Tirol, non è letteralmente la stessa cosa, anche se geograficamente coincidono perfettamente, anche se i sassi e le piante e gli animali sono gli stessi comunque si chiamino quelle zone. Il significato e quindi il modo di essere di quelle zone, è diverso, poiché se non fosse diverso, per nessuna ragione se ne sarebbe cambiato il nome e per nessuna ragione i tirolesi della zona pretenderebbero da decenni di tornare alla toponomastica tedesca. Se il nome è indifferente alla cosa che in sostanza è sempre la stessa, per quale ragione si dovrebbe contestare un nome, accidente del tutto ininfluente sulla realtà sostanziale?
Nulla può apparire senza significare per il semplice fatto che appare e il significato implica, per venire pubblicamente stabilito, un nome proprio per quella cosa, non un nome qualsiasi (e dove mai sarebbe poi questa riserva di nomi che di per sé non significano nulla e in cui si va a pescare ad libitum come in una sorta di grande magazzino?). Il nome indica un modo di accadere ed è da questo modo di accadere stabilito, non dal soggetto a suo arbitrio.
A me pare che il motivo principale per cui continuiamo a dibattere stia nel tuo timore che così dicendo si arrivi alla pretesa che il nome sia la cosa stessa. Non è così, l'ho già detto, non è la cosa, anzi il nome c'è quando la cosa non c'è, proprio perché la chiama. Se dico "questo è un cavallo", quel "cavallo" che dico  non è in alcun modo questo cavallo, ma è il nome che lo chiama alla presenza di tutti, che ne fa segno in modo che tutti lo vedano.  
Con questo non sostengo (per quanto personalmente non abbia mai convenzionato alcun nome, ne ho conosciuto nessuno che lo abbia fatto e nessuna memoria storica mi rimanda a mitici inventori di nomi, al massimo ricombinatori di significati) che non si possa arrivare a convenzionare sui nomi, ma è un punto di arrivo per il linguaggio e non di partenza, è il momento in cui si precisano delle definizioni su parole che già nominavano, che già risuonavano significanti ed esprimevano connotazioni condivise tra tutti quelli che facevano insieme le stesse esperienze e partecipavano dei medesimi significati.
Poi ci sono pure nomi per cose solo immaginate, o solo pensate e non percepite né percepibili, oppure sentite nell'animo, ma nemmeno questi sono nomi arbitrari, corrispondono a qualcosa che comunque realmente accade e che in un determinato contesto può trovare solo quel modo di significare e di esprimersi, credibilmente oppure no.

[
Citazionecolor=black]Ognuno di noi percepisce continuamente un' infinità di cose senza pensarci né interpretale in alcun modo, per esempio quando è alla guida del proprio veicolo su un percorso abituale.[/color]
Certo, ma quell'infinità di cose che si percepiscono senza pensarle o interpretarle, possono essere tali (ossia "infinità di cose percepite senza pensarle o interpretarle) solo se come tali sono percepite e interpretate, altrimenti non esistono.

CitazioneMa tu ti rendi conto che i batteri esistono realmente (anche se un cavernicolo si può mettere a ridere sentendolo dire) e gli ippopgrifi no, e che questa è una differenza enorme?
Ma i batteri esistono realmente per noi, che li vediamo e studiamo al microscopio, che riconosciamo un significato di senso all'espressione "vedere al microscopio", frutto di millenni di storia e simbolicamente condensati nel microscopio che abbiamo imparato a usare, non per il cavernicolo. per il cavernicolo i batteri non esistono, quanto per noi non esistono omini verdi su Plutone o ippogrifi in una valle nascosta del Tibet. Il cavernicola sa che esiste quello che è abituato a vedere, pensare e interpretare. Noi non sappiamo nulla più di lui, sappiamo in modo diverso e magari in certi ambiti più efficace, mentre in altri meno. Questo è un punto fondamentale da riconoscere, altrimenti si rischia di continuare ad andare in giro per il mondo convinti di poter insegnare a chiunque come stanno o devono stare veramente le cose (e magari pure a "esportare democrazia" per salvare i poveri selvaggi di turno!)  

CitazioneNon potrò mai morire per un calcio in testa da parte di un ippogrifo, mentre potrei benissimo morire (e non necessariamente per pretesa "malasanità", come pensano giornalisti e cretini in generale; e anche più probabilmente potrà morire il cavernicolo che se la rideva) per una polmonite!
Tu no, ma il cavernicolo sì. perché è questo il significato che dà a quello che tu chiami polmonite di cui non ride affatto, mentre può ridere della tua interpretazione finché non entra nella tua visione culturale.
Lui non vede lo stesso schermo che vedi tu, poiché tu sai (l'immensa storia da cui provieni te lo ha insegnato) cos'è uno schermo e cos'è un computer, lui no, lui non sa di schermi, sa altre cose che tu non vedi e non sai, per cui quella cosa che tu e lui vedete non è per nulla la stessa cosa e lo sarà solo quando il selvaggio si metterà una maglietta con su scritto "I love New York", verrà in città e imparerà a usare un computer, se nel frattempo non impazzisce o si suicida.  





Citazioneperché mai quel che dico non varrebbe nulla se sono io stesso che dico che [/color]quello che si dice non ha nessuna rilevanza su come è la natura

Perché sei tu stesso che lo dici. Stai dicendo che quello che si dice non ha rilevanza, quindi anche quello che tu dici quando dici questo (ossia quando dici che "quello si dice non ha rilevanza") non può averla, quindi è di fatto irrilevante che tutto quello che si dice non ha rilevanza.
E' lo stesso motivo per cui lo scettico non può che contraddirsi quando il suo scetticismo è assoluto: se tutto non è vero, non è vero nemmeno che tutto non è vero.



CitazioneChe la natura è indifferente a noi (essendo noi nient' altro che una parte di essa) significa che ad esempio sé è determinstica é deterministica anche se noi diciamo che è indeterministica, che se diviene diviene malgrado Parmenide e Severino lo neghino, che se non comprende ippogrifi non li comprende anche se molteplici miti lo affermano.

[/quote]
Già, ma come fai a dirlo e allo stesso tempo pretendere che abbia una qualsiasi rilevanza?