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Messaggi - davintro

#541
Volevo parlare del problema della critica della conoscenza, cioè di quell'ambito della filosofia, definibile come epistemologia, che si preoccupa di stabilire i principi e le condizioni fondanti la conoscenza scientifica. La mia opinione è che la possibilità di qualunque critica, di qualunque epistemologia, presupponga a sua volta un metalivello di conoscenza il cui riconoscimento dovrebbe portare a rifiutare certi modelli di conoscenza che presentino caratteristiche incompatibili con tale riconoscimento. Mi riferisco in particolare al paradigma empirisitico che, seppur riformulato con importanti varianti, ha pesantemente condizionato la gnoseologia kantiana con il suo rifiuto di una conoscenza razionale della metafisica (ridotta di fatto ad un'esigenza della morale). Per Kant il materiale di una conoscenza scientifica è sempre ricavato dall'esperienza sensibile, di una realtà spirituale o intellegibile  come Dio o l'anima non possiamo, razionalmente, sapere nulla. Ora, la mia opinione è che queste tesi siano incompatibili con la possibilità di una critica della conoscenza stessa come prova a fare Kant, critica tesa a far emergere degli elementi della nostra mente che hanno un significato trascendentale, cioè indipendente dalla contingenza spaziotemporale della realtà sensibile, che rendano necessariamente possibile la conoscenza di tale realtà. In altre parole: come potrebbe Kant riconoscere la presenza di categorie trascendentali come "causalità", "tempo", "spazio" ecc. se poi sostiene che il materiale della conoscenza è solo sensibile e spazio-temporalmente delimitato? A mio avviso il tipo di conoscenza che rende possibile una critica della conoscenza, in cui possiamo parlare di concetti aventi valore universalistico come "tempo in sè", spazio in sè" "causalità in sè" non può essere dello stesso tipo di conoscenza che Kant vorrebbe fondata, quella conoscenza che esteticamente può solo ricevere materiale sensibile. E non basta per risolvere il problema dire che le categorie intelligibili sono solo "funzioni", mezzi che la mente usa per ordinare ai fini di una conoscenza scientifica il materiale dell'esperienza che è sempre sensibile. Non basta perchè, come è evidente, una cosa per "funzionare" non ha per forza bisogno di essere riconosciuta dal soggetto a cui le funzioni appartengono, potrebbe limitarsi a svolgere un "lavoro silenzioso". Nel momento in cui invece le condizioni a-priori della conoscenza divengono oggetti di un sapere, il sapere della critica, queste condizioni non sono più solo "funzioni" ma oggetti di una conoscenza (potremmo dire, una "metaconoscenza"), non sono più forme vuote da riempire con un materiale sensibile, ricavato dal mondo fisico, ma divengono esse stesse il MATERIALE della conoscenza, un materiale intelligibile, e bisogna dunque smentire l'idea che l'unico materiale sui cui l'esperienza umana può conoscere e giudicare sia sensibile. Così la possibilità della conoscenza che fonda la critica della conoscenza stessa riapre a mio avviso la strada per il riconoscimento di una conoscenza diretta della reltà intelligibile e dunque legittima il recupero di una metafisica e  di un'ontologia razionale, presupposti necessari di qualunque critica della conoscenza, di ogni epistemologia


In fondo, è sempre stato questo il limite di ogni empirismo materialista affermante che tutto ciò che possiamo conoscere va appreso  in modo sensibile e deve limitarsi alla realtà fisica delle cose che si manifestano nella contingenza e mutevolezza della conoscenza, mentre tutto ciò che va oltre la spazio-temporalità dovrebbe essere ridotto a dogmatismo e fideismo. Questa posizione si autocontraddice nel momento in cui usa la parolina "tutto", e si afferma così l'impossibilità assoluta di una conoscenza che vada oltre la realtà spazio temporale finendo con l' assumere un punto di vista a sua volta assoluto, che pretenda di  valere al di là della limitatezza spazio temporale. Da dove si ricaverebbe l'idea di "tutto", di "totalità" in base a cui escludo la possibilità della conoscibilità di una realtà intelligibile indipendente dalla contingenza spazio-temporale? Non sarebbe questo ricavare a sua volta il frutto di una visione metafisica e sovrasensibile? Il concetto di totalità" è qualcosa di fisico e che sperimentiamo empiricamente in un certo tempo e luogo delimitato? Non  credo proprio...


Il tema è ovviamente estremamente complesso e spero di aver realizzato un sintesi sufficientemente chiara... Buon ferragosto a tutti!
#542
Certamente l'idea di un nemico rafforza nei membri di una comunità il senso di appartenenza ad essa. Di fronte a un nemico che ci minaccia le divergenze passano in secondo piano e ciascuno orienta il suo agire sulla base di un'idea di unità. Ma non direi che il bisogno di un nemico sia il principale motivo di differenza tra una spiritualità che può portare l'individuo a riconoscersi all'interno di una comunità, di un gruppo di cui si condividono i valori, e si condividono in modo spirituale, a partire cioè da un sentire interiore comune, e una confessione organizzata. Si può dire che cambia il modo e le motivazioni di intendere il nemico. Una confessione organizzata può agitare l'idea della minaccia di un nemico in modo strumentale, proprio al fine di rinforzare la coesione interna, di mettere a taciare eventuali dissensi interni che potrebbero minare l'ordine su cui si regge un potere (ma questo è un discorso che evidentemente va al di là del caso di una confessione, e riguarda anche il modo di fare di qualunque organizzazione politica laica come lo stato, si pensi a quanto una società si ricompatta durante una guerra e quante volte nella storia un conflitto viene utilizzato da un governo per mettere in secondo piano i conflitti sociali). La possibilità di successo di questa strategia presuppone l'assenza di una componente fondamentale per definire la spiritualità, il senso critico, dei membri dell'organizzazione, che ritenendo credibile la minaccia, sono manipolati dalla propaganda a comportarsi come determinato dal potere. Tuttavia il riconoscimento del nemico può essere prerogativa anche di una formazione spirituale come una comunità di popolo (nella misura in cui il popolo non va inteso come concetto puramente biologico o etnico, ma come risultato di un'unità formatasi a livello storico-culturale, e dunque spirituale), nel momento in cui un popolo riconosce in modo razionale la presenza di una concreta minacca alla sua esistenza e al suo benessere. Si può pensare che le persecuzioni, il costante clima di ostilità, l'antisemitismo abbia finito con il rafforzare nel popolo ebraico il senso di appartenenza alle proprie tradizioni, e il senso di solidarietà. In sintesi: spiritualmente il riconoscimento di un nemico avviene in modo spontaneo, a partire da un convincimento interiore e razionale, a livello di confessioni organizzate tale riconoscimento è l'effetto propagandistico di un'azione di convincimento di un potere che interviene sulla sfera pschica ed emozionale delle persone (non ancora critica e razionale, cioè spirituale)

Comunque non necessariamente spiritualità e religione vanno contrapposti. Se si intende "religione" nel senso etimologico rimandante a un'idea di "legame", nella misura in cui questo legame è la libera e critica adesione di un individuo alla credenza all'esistenza di un Dio o altre verità ad essa correlate, allora si può pensare a un legame spirituale, mentre se prevale l'aspetto dogmatico e conformistico, per cui si crede non per interiore convincimento del contenuto dottrinario ma solo suggestione del carisma di un'autorità religiosa ritenuta infallibile a prescindere dalla ragionevolezza di ciò che predica ("sarà così perchè lo dice lui...), allora sorge il conflitto spiritualità-religione. Ad esempio le chiese cristiane in quanto predicano una religione che storicamente è riuscita ad assorbire la razionalità della filosofia greca presentano un importante livello di spiritualità che convive e si intreccia con elementi non autenticamenti spirituali e meramente fideistici. Se non si tiene conto della mescolanza di spirituale e non-spirituale all'interno delle confessioni religiose qualunque discorso riguardo una supposta separazione tra spirituale e religioso rischia di essere fuorviante ed astratto
#543
Tematiche Filosofiche / Re:Problema Irrazionalità
02 Agosto 2016, 17:19:46 PM
Citazione di: donquixote il 01 Agosto 2016, 23:16:12 PM
Citazione di: davintro il 30 Luglio 2016, 15:06:30 PMPer tutto ciò ritengo che andrebbe recuperata la distinzione classica intelletto-ragione: l'intelletto coglie immediatamente e intuitivamente i principi di verità evidenti, la ragione opera discorsivamente (avendo di fronte la molteplicità degli oggetti empirici) ma tenendo costantemente conto di tali principi. Quando se ne discosta diviene irrazionale e contraddittoria, di fatto smette di essere se stessa
Sicuramente andrebbe recuperata la distinzione intelletto-ragione, a patto però che per "intuizioni intellettuali" e "principi di verità evidenti" non si intendano quelli citati sopra (il principio di identità, quello del terzo escluso, quello di causalità eccetera) perchè quelli non sono propriamente principi (nel senso di "origine prima") ma semplici regole di base necessarie per poter comunicare discorsivamente in modo da potersi intendere, come il 2+2=4 della matematica. I "principi" che l'intelletto coglie intuitivamente non hanno niente a che fare con la logica e nella realtà del mondo del divenire, ove tutto scorre, A non potrà mai essere, neppure per un attimo, uguale a se stesso. L'affermazione del principio di identità è quindi solo una convenzione necessaria, oltretutto esclusivamente umana, e potrà originare proposizioni solo "approssimativamente" vere, o "convenzionalmente" vere, e non un principio universale immutabile da cui dedurre proposizioni assolutamente vere.

Parlavo di principi nel senso che le verità che gli assiomi della logica classica indicano sono verità che hanno in se stesse la loro giustificazione, nel coglimento intuitivo (per questo parlavo di intelletto, che appunto intuisce) dell'assurdità di qualunque tentativo di negarle. Sono principi nel senso che non vi è nulla prima di loro che li fondi e che non si può prescindere da essi in alcun atto di pensiero. Che A sia uguale ad A è una verità da cui non posso prescindere, ovviamente non c'è alcun bisogno quando si ragiona di orientare l'attenzione su di essa,  come non c'è bisogno di concentrare l'attenzione sul fatto di respirare per continuare a respirare, è un presupposto "silenzioso" che regge qualunque processo mentale, senza il principio di non contraddizione nessuna scienza, nessun discorso sarebbe possibile in quanto si potrebbe dire tutto e il contrario di tutto e ogni giudizio cadrebbe nell'arbitrio e nell'insensatezza. Parlare di principi non implica che siano ragioni autosufficienti per la conoscenza del reale, dato che la logica formale necessita dell'apprensione di un materiale dall'esperienza ricavato sinteticamente e non analiticamente. Non basta la logica a comprendere il reale ma senza essa non vi è pensiero, quindi nessuna possibilità di comprensione.

Tra l'altro A=A non è toccato dal divenire del reale perchè questo è sempre un processo diacronico, temporale, nel tempo le cose cambiano. A=A non mi dice che le cose NEL TEMPO restano statiche, ma si riferisce a un piano sovratemporale, sincronico, mi dice che ogni cosa è uguale a se stessa e dunque non potrebbe divenire altra da sè nello stesso momento in cui è in un certo modo (dunque necessariamente si ricollega al terzo escluso) ma non nega affatto un divenire temporale, è una verità formale (fino a un certo punto), se si vuole "astratta" ma non parlerei di "convenzioni". La logica è umana nel senso che si riferisce al pensiero razionale e la razionalità esiste come razionalità umana ma non è umana nel senso che è un'arbitraria convenzione che l'uomo può modificare nel corso della storia. A=A è una verità valida in tutti i tempi e luoghi possibili, condizione necessaria anche se insufficiente della conoscenza, ne è lo sfondo trascendentale. La critica di Husserl allo psicologismo che riduce a un fatto psicologico soggettivo le leggi della logica la condivido appieno
#544
Tematiche Filosofiche / Re:Problema Irrazionalità
30 Luglio 2016, 15:06:30 PM
L'ingiustificabilità degli assiomi, dei principi della logica non determina l'arbitrarietà e la contingenza delle operazioni della logica, ma stabilisce un ultimità oltre il quale non è possibile procedere. La razionalità la intendo come un processo mentale attraverso cui, operando appunto relazioni tra ente ed ente, si ricercano degli argomenti che corroborino e supportino la pretesa di verità dei nostri giudizi sulla realtà. Un'opinione è razionale nella misura in cui si accompagna a motivazioni che mostrino la corrispondenza tra lo stato di cose che l'opinione indica e quelle effettivo. Questo accompagnarsi è sicuramente una relazione.  Quindi si può dire che la razionalità presuppone sempre una molteplicità che è il carattere fondamentale del mondo di cui abbiamo esperienza. Per ragionare dobbiamo avere sempre di fronte qualcosa di differenziato a cui applicare il ragionamento, altrimenti la relazione motivazionale sarebbe impossibile, la relazione presuppone come minimo una dualità. La logica è razionale in quanto opera delle inferenze tra premesse e conseguenze, secondo il modello del sillogismo. Tuttavia questo sistema di inferenze presuppone la validità di alcuni assiomi, il principio di identità, terzo escluso... validità che non può però essere giustificata da altro, proprio perchè in quanto "principi" non hanno nulla prima di loro. Ma tale ingiustificabilità non conduce a pensare che la logica sia una convenzione arbitraria fondata su basi dogmatiche. In realtà queste basi sono intuitive. L'assurdità delle conseguenze a cui condurrebbe il rifiuto di pensare che A= A o di pensare che se A=B e B=C allora necessariamente A=C è un'assurdità che non può essere argomentata ma non ce n'è bisogno perchè è evidente. L'evidenza è il fondamento della razionalità e per questo è anche l'ideale regolativo a cui tende ogni razionalità: giungere a una condizione in cui la visione del reale è così evidente che non ha più bisogno di essere ulteriormente indagata (a prescindere che tale condizione sia effettivamente raggiungibile o meno nella storia). Si può dire la razionalità si fonda su principi non "irrazionali", (contrari alla razionalità) ma comunque "arazionali" (non un risultato della razionalità ma senza necessariamente contrapporsi ad essa), immediati intuitivi ma non per questo dogmatici: delle verità evidenti sui cui si regge ogni possibile catena di razionalizzazioni ma che non possono essere a loro volta razionalizzate. Altrimenti la razionalità resterebbe il gioco infantilistico ed ottuso che si traduce in un regresso all'infinito in cui non si riconoscono i principi primi che fondano la logica e si continua a reitereare inutilmente la domanda "perchè?, perchè? perchè? perchè..." quando ormai le cose sono di per sè evidenti.

Per tutto ciò ritengo che andrebbe recuperata la distinzione classica intelletto-ragione: l'intelletto coglie immediatamente e intuitivamente i principi di verità  evidenti, la ragione opera discorsivamente (avendo di fronte la molteplicità degli oggetti empirici) ma tenendo costantemente conto di tali principi. Quando se ne discosta diviene irrazionale e contraddittoria, di fatto smette di essere se stessa
#545
Citazione di: paul11 il 22 Luglio 2016, 09:24:03 AM
Citazione di: davintro il 22 Luglio 2016, 01:45:49 AMPenso che si possa parlare di perdita della responsabilità umana nel momento in cui il nostro essere è il prodotto, logicamente e cronologicamente successivo e secondario all'azione di un essere considerato esterno come Dio. Ma se, come nella mia ipotesi, l'azione divina progettante l'uomo comprende in sè una visione dell'essenza di ogni singola personalità allora si deve pensare a una coincidenza tra il mio "essere me stesso" in base a cui definisco la mia libertà e il progetto divino. C'è una simultaneità tra la mia identità, seppur ideale, e la mente divina, quasi un'intimità, quindi non ha senso pensare a un'intervento esteriore che toglie la libertà e in base a cui sono deresponsabilizzato, non ha senso dire che le mie azioni non dipendono da me ma da Dio, perchè il mio "me" coinciderebbe con ciò sono nella mente di Dio, e questo "me" non sarebbe creato o prodotto, ma in quanto idea, sussistente da sempre nella mente divina. Non so se ora il discorso è più chiaro Per quanto riguarda l'osservazione di Paul11, se l'ho ben capita, direi che certamente il concetto di un'idea, un'essenza della personalità pensata in modo sovratemporale segna una distinzione tra una conoscenza assoluta di queste idee da parte della mente divina e la conoscenza che ne possiamo avere noi umani limitati nel tempo, che possiamo avere una conoscenza confusa e limitata. Quindi la conoscenza sia di noi stessi che degli altri è sempre imperfetta, una conoscenza che dipende dalla nostra posizione temporale, di volta in volta contingente, non avremmo in questo mondo una visione pura della nosta essenza. Mi pare evidente che questa ipotesi, a prescindere che la si condivida o meno, possa avere un senso solo nel contesto teologico e metafisico di un dualismo tra Dio e uomo e quindi una dualismo tra sapere divino, assoluto, e conoscenza umana e imperfetta
..... e di nuovo sei vicino a quello che penso. C'è un origine, un principio ordinatore a cui noi intimamente siamo legati, dall'altra parte esiste uno spazio tempo in cui ogni esistenza che è stata, che c'è e che ci sarà, è calata nell'esperienza conoscitiva.Il punto di raccolta fra quell'intimità originaria, metaforicamente direi l'"eco dell'origine" e la nostra singola esistenza conoscitiva nell'esperienza (per conoscenza intendo affetti, psiche, scienza, insomma tutto) è l'autocoscienza come momento di riflessione e direi di contraddiizione. Perchè è nella coscienza che nasce la domanda di senso, la richiesta di signiificati che l'esistenza raccoglie e mette in relazione con il suo eco originario che è dentro il principio originario. Noi relazioniamo i due domini, il divino e il mondo nel tentativo di riunirli in principi logici, come l'eterno e il divenire, come il determinismo e l'indeterminismo. L'etica e la morale è già all'interno del principio ordinativo come sintesi del divino e del mondo, proprio perchè c'è un ordine leggibile linguisticamente dall'uomo attraverso la sua conoscenza che non è perfetta. Noi relazioniamo quindi l'esperienza conoscitiva nel mondo con un principio etico che ci viene dall'origine. La nostra responsabilità deriva dalla nostra coscienza come momento sintetico e contraddittorio, perchè noi incarniamo nell'esistenza quella verità che sta nel principio ordinativo originario e la vita nel mondo. Personalmente non ho trovato altre soluzioni più "logiche" sull'esistenza umana.Ma è solo un mio parere. Non ha senso per me che il mondo da una parte sia leggibile e quindi implica un ordinamento linguisticamente accessibile dalla parte della nostra mente che sia depositatanella coscienza, che abbiamo un'intelligenza e che poi tutto finisca in nulla o solo in un principio termodinamico per cui tutto s itrasforma.Ma la trasformazione implica un origine e un fine ch ec isono nascosti,c iappare solo un'idea d isenso, come momento relazionale d isintesi d itutte le nostre esperienze. Ci terrei alla tua e alle altrui opinioni del forum su quanto scrivo. Correggetemi pure e dissentite possibilmente con una contro tesi.

Penso di essere nel complesso d'accordo. Ogni convinzione etica presuppone una tensione tra gli oggetti appartenenti alla contingenza spaziotemporale e un riferimento all'Assoluto in virtù dei quali tali oggetti assumono un senso, una coscienza indicante un assoluto da utilizzare come criterio ideale regolativo per fondare i propri giudizi e le azioni che ne derivano. Non posso definire ingiusta l'uccisione di un uomo se non alla luce di un'idea universale di giustizia comprendente al suo interno il valore della preservazione della vita umana. Non solo l'etica, ma anche i giudizi scientifici, vero, falso, o estetici, bello, brutto, mi piace, non mi piace, in definitiva tutto ciò attraverso cui la nostra coscienza si rivolge al mondo dandogli un senso presuppone l'indicazione di criteri di giudizio assoluti, di natura diversa in relazione alle diverse prospettive possibili di considerare le cose. Questi criteri assoluti di giudizio sono ciò in base a cui stratificare un ordine, una "scala di valore". Ogni scelta è sempre una discriminazione, un anteporre un valore all'altro in base a delle preferenze, e tutto ciò è reso possibile dall'avere in mente questa gerarchia in cui posizioniamo un valore ad un livello maggiore o minore rispetto a un altro. L'assoluto, un'idea di bene universale sarebbe il fondamento regolativo in base a cui far corrispondere un certo valore ad una certa posizione gerarchica: quanto più un valore somiglia all'idea del bene assoluto che abbiamo in mente quanto più è da collocare in una posizione superiore. Ma essendo quest'accezione di assoluto una forma, un criterio regolativo, non c'è una necessità di far coincidere tale "scala di valore" con il progetto o ordine che riconosciamo come determinato da un'Origine o Finalità a cui facciamo cosmologicamente risalire la nostra realtà. Se l'etica ha a che fare con i valori e non con i "fatti", o meglio nell'etica i fatti vengono valutati non in quanto tali ma come oggetti a cui attribuire un valore, allora, parlo in linea teorica, non esiste un passaggio necessario di derivazione dal riconoscimento "di fatto" dell'esistenza di un Essere originario e fine a cui tende la storia all'attribuzione di un "valore" morale all'ordine che ne deriverebbe. In altre parole, io posso riconoscere la presenza di un progetto o ordine divino e nonostante ciò non porre l'adesione e la fedeltà a tale progetto come un valore a partire da cui orientare il senso della mia esistenza, delle mie scelte, della mia personale scala di valori. Ovviamente posso anche decicere diversamente, ma in ogni caso resterebbe una preferenza soggettiva. Tuttto ciò alla luce della distinzione tra fatti e valori o meglio della non-deducibilità dei secondi dai primi. Ragion per cui anche il problema teoretico dell'esistenza di Dio e quello morale di conciliare il male nel mondo con la bontà di Dio, la Teodicea, sono due questioni, ovviamente legate fra loro, ma non confondibili o sovrapponibili, nel senso che le eventuali risposte in un piano non possono essere la premessa per dedurre consequenzialmente le risposte nell'altro piano.

Spero di non essere eccessivamente uscito fuori tema rispetto al tuo discorso
#546
Penso che si possa parlare di perdita della responsabilità umana nel momento in cui il nostro essere è il prodotto, logicamente e cronologicamente successivo e secondario all'azione di un essere considerato esterno come Dio. Ma se, come nella mia ipotesi, l'azione divina progettante l'uomo comprende in sè una visione dell'essenza di ogni singola personalità allora si deve pensare a una coincidenza tra il mio "essere me stesso" in base a cui definisco la mia libertà e il progetto divino. C'è una simultaneità tra la mia identità, seppur ideale, e la mente divina, quasi un'intimità, quindi non ha senso pensare a un'intervento esteriore che toglie la libertà e in base a cui sono deresponsabilizzato, non ha senso dire che le mie azioni non dipendono da me ma da Dio, perchè il mio "me" coinciderebbe con ciò sono nella mente di Dio, e questo "me" non sarebbe creato o prodotto, ma in quanto idea, sussistente da sempre nella mente divina. Non so se ora il discorso è più chiaro

Per quanto riguarda l'osservazione di Paul11, se l'ho ben capita, direi che certamente il concetto di un'idea, un'essenza della personalità pensata in modo sovratemporale segna una distinzione tra una conoscenza assoluta di queste idee da parte della mente divina e la conoscenza che ne possiamo avere noi umani limitati nel tempo, che possiamo avere una conoscenza confusa e limitata. Quindi la conoscenza sia di noi stessi che degli altri è sempre imperfetta, una conoscenza che dipende dalla nostra posizione temporale, di volta in volta contingente, non avremmo in questo mondo una visione pura della nosta essenza. Mi pare evidente che questa ipotesi, a prescindere che la si condivida o meno, possa avere un senso solo nel contesto teologico e metafisico di un dualismo tra Dio e uomo e quindi una dualismo tra sapere divino, assoluto, e conoscenza umana e imperfetta
#547
Citazione di: sgiombo il 20 Luglio 2016, 20:37:11 PM
Citazione di: Jacopus il 20 Luglio 2016, 19:20:58 PM
Citazione di: Daniele_Guidi il 20 Luglio 2016, 16:35:48 PMSe tutto cio' accade è perchè deve essere.. bisogna avere il coraggio di vedere oltre cio' che i nostri sensi fisici vedono quotidianamente. Ma non è da tutti!! il Piano del creatore è ben preciso ..lui non Erra!! o noi siamo cosi presuntuosi di saperne piu del creatore? cè una motivazione ad ogni atto! possiamo noi conoscere questi accadimenti? ed il perchè accadono? certo! sono atti contro il prossimo! non è semplice accettare tutto cio'.. ma ce un piano ben preciso dietro a tutto cio' e che noi non possiamo saperlo. certo.. è che ognuno pagherà per cio' che commette e solo esso il responsabile. non diamo colpe a Dio! è l'uomo il solo responsabile. comprendere tutto cio' che accade non è semplice.. ma almeno possiamo comprendere meglio noi stessi e le nostre azioni.. il mondo è malato perchè gli uomini sono malati.. il Padre non centra nulla.. si cerca di scaricare sempre le colpe all'esterno e mai vedere le proprie.. quando tutti impareranno a vedere se stessi come completezza del tutto e non come esterno da esso, allora tutto si comporrà in una sola unità col creatore stesso.
Il mio Dio, a giudicare dal post precedente, faciliterebbe sintomi psichiatrici. Quello che espone Daniele Guidi in psichiatria si chiama " double bind" ed e' un segnale di dinamiche relazionali patologiche. Infatti non mi sembra possibile orientarmi in modo logico e coerente. Se Dio ha gia' prediposto tutto non vedo come posso sentirmi colpevole dei miei eventuali peccati. Se invece godo del libero arbitrio, Dio deve concedere degli spazi di imperscrutabilita' al suo volere. Se tutto cio' e' un mistero si aggiunge al double bind un principio di autorita' violento: il Dio terribile e vendicativo delle sacre scritture che quando non puo' persuadere si trincera dietro il mistero a cui e' necessario dedicare la genuflessione definitiva.
CitazioneNon credo sia il caso di attribuire ad altri intervenuti nel forum presunte patologie psichiche: per fortuna si può errare e si possono dire anche grossolane castronerie senza essere pazzi (chè altrimenti saremmo tutti pazzi, chi più chi meno...). Fatta questa per me doverosa premessa, nemmeno io sono d' accordo con Daniele Guidi. Per me infatti c' é una contraddizione (il-) -logica nel ritenete che siamo stati creati da Dio e siamo responsabili delle nostre azioni. Infatti o tutto accade a caso (e allora nessuno é colpevole di niente perché quel che fa non é determinato dalla sua volontà, buona o cattiva che sia, ma si tratta di eventi accidentali, fortuiti, più o meno fortunati, e non di azioni più o meno buone); oppure tutto accade per dei precisi motivi; (e allora noi agiamo come agiamo -più o meno bene- a seconda di come siamo; ma siamo come siamo -più o meno buoni- a seconda di come chi ci ha fatto ci ha fatto essere; dunque in questo caso unico responsabile delle nostre azioni é il nostro creatore). Tertium non datur.

Se tutto accade per precisi motivi, come penso dato che ritengo il "caso" solo la definizione per ciò che riconosciamo stante i nostri limiti conoscitivi come inspiegabile in termini causali, la contraddizione tra libero arbitrio e dipendenza da un creatore potrebbe essere superata intendendo il nostro essere autentico e originario come un'essenza, cioè un'idea eternamente presente nella mente del creatore. Noi saremmo liberi, cioè nella misura in cui agiamo in conformità con quell'idea, quel progetto che corrisponderebbe alla personalità individuale di ciascuno, che sarebbe il nostro "vero essere" e coinciderebbe con la volontà del soggetto creatore che ha eternamente in mente quelle essenze, rendendo insensata la contrapposizione tra libertà del nostro essere e progettazione predeterminata. In questo caso non sarebbe corretto e preciso parlare di "chi ci ha fatto essere", perchè quest'essenza della personalità, essendo un idea e non un fatto non sarebbe stata "fatta" da nessuno, non sarebbe, come le cose reali, un prodotto posteriore di una causa efficiente anteriore, perchè, essendo idea sarebbe da sempre pensata e solo con la nascita verrebbe resa reale. Il limite alla libertà consisterebbe piuttosto nel fatto che tale idea della nostra personalità non sarebbe un assoluto indipendente dal resto, ma parte di una progetto globale, il progetto della storia, in cui l'essenza individuale è empre condizionata dal rapporto con il contesto di altre essenze a noi esterne, all'interno di un'ordine che trascende ogni singola individualità
#548
Tematiche Spirituali / Re:pentimento ed espiazione
13 Luglio 2016, 16:00:10 PM
L'idea di una continuità della persona che va al di là del susseguirsi delle diverse azioni che si compiono rende ragione dell'idea dell'irriducibilità del soggetto alle azioni esterne: le azioni, i comportamenti mutano, ma il nucleo essenziale della persona resta. E già nel momento in cui commetto un'azione di cui poi mi pento c'era già qualcosa di me, nascosto in me, che si contrapponeva ad essa. Altrimenti da dove nascerebbe il pentimento? Io il pentimento lo vedo come un'esplicitazione di una latenza interiore già da sempre presente in me che, entro certe condizioni si manifesta, una latenza intesa come un contrapporsi a ciò che si sta facendo e che nel pentimento emerge e prende il sopravvento. L'Innominato manzioniano aveva già sviluppato un ritrosia verso i suoi soprusi, la conoscenza di Lucia ha offerto le condizioni per cui tale ritrosia è divenuta il sentimento prevalente, ma non l'ha creato. Vero che è  sempre la stessa persona che ha commesso il male e poi si è pentita, ma ciò che l'ha portato a commettere il male sono degli aspetti, delle caratteristiche della persona, che nel pentimento non ci sono più (certo potrebbero tornare in futuro...), perchè la persona pentita ora utilizza criteri di giudizio diversi da quelli che utilizzava prima. Ciò che permane della persona, l'essenza, non è il responsabile delle azioni cattive, se nelle azioni passate e ora nel pentimento c'è qualcosa per cui io resto "me stesso", questo "me stesso" permanente è qualcosa di indipendente dalle azioni che ho compiuto, se fosse il responsbile delle azioni passate, ora che quelle azioni non le commetterei più, questo principio di permanenza dovrebbe scomparire e dunque non si potrebbe più dire che per certi versi resto "me stesso".

Comunque non penso di convincere nessuno perchè mi pare che si fronteggino visioni morali molto diverse, anche se tutte legittime. La mia personale visione morale è di tipo eudaimonisitico, il principio della morale è la ricerca della felicità, il bene è tutto ciò che produce, in me e negli altri, benessere e felicità. La giustizia per me non è una sorta di equilibrio livellabile verso il basso per cui se acceco una persona debbo espiare accecandomi a sua volta, un'azione che non restituisce la vista a chi l'ha persa e la toglie a me. Quale felicità si produce con quell'atto? Le virtù non sono qualcosa di fine a se stesso, ma condizioni per raggiungere il bene, cioè la felicità, o quantomeno la serenità, il coraggio è una virtù nella misura in cui produce una spinta interiore a superare difficoltà esistenziali che mi impediscono di raggiungere i miei obiettivi, obiettivi che una volta raggiunti dovrebbero portarmi in uno stato di appagamento e felicità, la sincerità è una virtù perchè, non dicendo la verità alle persone, le privo di una conoscenza della realtà delle situazioni in cui vivono e questa mancata conoscenza delle situazioni diviene spesso impedimento per il raggiungimento dei loro obiettivi, come nel caso in cui uno, mentendo, dica alla fidanzata di esserle fedele facendo in modo che lei continui a sentirsi legata a una persona che in realtà non la rispetta e la tradisce, mentre un altro uomo la renderebbe molto più felice Prive del riferimento al fine ultimo della felicità non so quale possa essere il fondamento delle virtù. La felicità è il fine comune di ogni vita e non è vincolata a dei "meriti", quantomeno oggettivi: ciascuno ha il diritto di cercare la felicità seguendo la sua natura ed inclinazioni, sempre diverse in base agli individui, nel rispetto del cammino di ricerca altrui,  A me un mondo di "virtuosi" infelici  che meriterebbero la felicità ma non ne godono in concreto perchè continuamente dediti all'automortificazione e ai sensi di colpa farebbe orrore
#549
Tematiche Spirituali / Re:pentimento ed espiazione
13 Luglio 2016, 00:29:00 AM
Rispondo a Sgiombo:

Eppure la possibilità stessa del pentimento presuppone implicitamente una verità fondamentale: la persona non coincide con le sua azioni. Se coincidesse con esse il pentimento non sarebbe possibile. Io mi pento delle mie azioni a partire da uno scarto, da un'ulteriorità del mio essere profondo rispetto al  comportamento esteriore, la cui osservazione è insufficiente a decifrare compiutamente la profondità dell'animo. E in nome di questo scarto posso pentirmi, posso cioè distaccarmi dalle azioni di cui mi pento, ne prendo le distanze e posso farlo perchè la persona che ora è pentita non è più lo stesso tipo di persona che ha commesso quelle azioni in passato. Il pentimento è già di per sè superamento. E non è assurdo e insensato che io desideri subire un male, che va al di là del minimo necessario sufficiente a rimediare i danni prodotti dalle azioni passate, da rivolgere alla persona che sono ora, pentita, che non è più la persona che ha commesso quelle azioni? Il tipo di persona che ha commesso il male dopo il pentimento non esiste più, è passata, trascesa. Questo è il principio che ritengo molto valido e condivisibile riassumibile nella formula classica "punire il peccato non il peccatore"

Con questo non voglio certo negare la possibilità di comportamenti autopunitivi connessi con il pentimento (io stesso sono un tipo che si arrabbia molto con se stesso per gli errori che commette...), solo li ammetto come possibili effetti collaterali di quest'ultimi, non necessari oltre che inutili, irrazionali (in nome della mia personale accezione di giustizia che certo non tutti condividono) e credo, anche psicologicamente poco salubri in riferiemento alla serenità ed equilibrio interiore della persona
#550
Tematiche Spirituali / Re:pentimento ed espiazione
12 Luglio 2016, 17:12:56 PM
Per stabilire la necessità del rapporto tra pentimento ed espiazione andrebbe chiarito il senso del secondo concetto. In cosa dovrebbe consistere l' "espiazione"? Io penso che se l'espiazione consite nell'agire in modo da ridurre il più possibile gli effetti del male prodotto allora non può esserci pentimento senza volontà di espiazione. Ma non è solo impossibile dal punto di vista del "dover essere", ma anche dall'essere di fatto. Non posso essere pentito di aver fatto una cosa senza provare il desiderio di rimediare all'errore annullando gli effetti di ciò che ho commesso. Pentirsi vuol dire desiderare di poter tornare indietro. Ovviamente questo è impossibile, ma ci si può avvicinare all'idea nel fare in modo di ridimensionare entro i limiti del possibile i danni causati. Se sono pentito di aver detto una cosa che ha offeso una persona la volontà di espiare consisterà necessariamente nel chiedere scusa e consolare quella persona sperando di togliere dal suo stato d'animo il malumore dovuto a quell'offesa. Ma se per "espiazione" s'intende invece una sorta di punizione in cui si danneggia l'individuo senza modificare in senso positivo gli effetti negativi del male commesso allora non c'è un nesso con il pentimento. Io posso pentirmi del male che ho fatto nel senso che avrei non voluto più farlo senza per forza voler soffire o sacrificare cose della mia vita che posso mantenere a prescindere dalle azioni compiute. Se mi pento di aver sferrato un pugno, vorrei non averlo fatto, non desiderare tagliarmi la mano (perchè la mano non mi serve solo per sferrare pugni...), se lo desiderassi, sono d'accordo con Phil, ciò non avrebbe nulla a che fare con la giustizia, è solo masochismo e vendetta, vendetta di fronte a un fantomatico "ordine cosmico" di fronte a cui ciascuno dovrebbe stare alla pari in una bilancia tra male commesso e male subito. Per ma giustizia vuol dire fare il bene, non aggiungere male a male, il male può essere giustificato solo come indipensabile strumento per il bene. Perdere soldi con le tasse è un male ma giusto perchè lo stato acquisisce denaro per i servizi, uccidere un assassino non fa resuscitare le vittime, quindi è un  male fine a se stesso, che non produce bene dunque ingiusto


Essendo il pentimento un fatto interiore ha a che fare con il piano spirituale e religioso (non vorrei soffermarmi su questo anche perchè prossimamente mi piacerebbe aprire una discussione a parte riguardo questo ambito), mentre dal punto di vista politico ciò che conta è l'espiazione ma non necessariamente il pentimento. Uno stato liberaldemocratico e non etico, come per fortuna è il nostro, non manda in carcere i criminali per punizione o vendetta, ma pragmaticamente, per evitare che, lasciati in libertà, possano continuare a nuocere: una volta riconosciuta la pericolosità sociale di un individuo lo si isola temporaneamente dal consesso civile. L'obiettivo non è fargli del male (vendetta) ma anteporre al bene della sua libertà un bene maggiore che è quella della comunità. Lo si isola fino a che non si considera la possibilità di un ravvedimento, ecco perchè la detenzione dovrebbe essere coordinata con momenti di socializzazione che permetta di osservare ed esaminare eventuali comportamenti che potrebbero lasciar intendere tale ravvedimento. Dal punto di vista politico il pentimento è utile perchè porta il reo a non commettere più i reati ma non indispensabile: se un criminale non dovesse pentirsi, ma considerando la durezza del carcere riconoscesse utilitaristicamente che non valga più il rischio di commettere reati, per lo stato andrebbe bene comunque, fermo restando che se ci fosse anche il pentimento sarebbe ancora meglio perchè il rientro alla vita civile sarebbe più profondamente motivato e dunque tale scelta sarebbe più irreversibile. Lo stato non si occupa delle anime ma delle relazioni esterne fra le persone. Ragion per cui se un assassino appena dopo aver commesso l'omicidio subisse un incidente che lo lasciasse totalmente paralizzato (quindi innocuo), a mio avviso uno stato di diritto non dovrebbe infliggergli alcuna pena. Qualunque male contro di lui sarebbe inutile, gratuito e dunque ingiusto
#551
Tematiche Filosofiche / Re:Cosa sono i Ricordi?
08 Luglio 2016, 00:37:52 AM
Io credo che  i ricordi siano una, non l'unica, forma di espressione di una dimensione spirituale, o se si vuole, di un livello della persona irruducibile alla materialità (seppur quest'ultima è certamente a sua volta una dimensione antropologica fondamentale). I ricordi presuppongono la memoria, cioè la capacità dell'Io, presente ed attuale, di trascendere il piano della presenzialità immediata e di portendersi vero il proprio passato, di conservarlo in sè, rendendolo in un certo senso ancora presente, e soprattutto influenzante il corso presente della vita di coscienza. Il ricordo del passato lega, condiziona, motiva (senza rigidamente determinare) i vissuti, i sentimenti, i pensieri, le decisioni che sto attualmente ponendo in atto. Questa capacità di "trattenere" il passato mostra come la  vita della coscienza sia costituibile come un "flusso", un continuum irriducibile alle leggi della spazialità ,della res extensa, cioè della materia, un flusso dove ogni vissuto non si cancella, ma si conserva negli altri che temporalmente gli succedono. Non solo dal punto di vista biologico il mio presente, il mio stato attuale è la conseguenza di cause operanti nel passato, ma soprtattutto la mia vita interiore presente non sarebbe nella sua peculiare qualità riconoscibile senza tener conto del mio passato conservato nei ricordi.  Ecco perchè il tempo della coscienza non è totalmente spaziale: se lo fosse i vissuti che costiuiscono il "flusso" sarebbero assimilati a "parti", atomi tra loro legati in rapporti di pura vicinanza esteriore e casuale, ogni "parte" resterebbe qualitativamente ciò che è al di là delle sue relazioni con l'insieme. I miei vissuti invece non hanno senso astratti dal complesso delle relazioni che li legano temporalmente. Il mio sollievo presente non ha senso se non si tiene conto del timore passato, che è passato, ma di cui ho ancora memoria. L'unità della coscienza è un'unità interiore, olistica, organica, non spaziale ed esteriore unità spaziale. Ciò i ricordi testimoniano

Eppure certamente non siamo puri spiriti, abbiamo un corpo e credo che la presenza della materialità del corpo, fondamentale per la nostra esperienza del mondo si esprima proprio nel fatto che i ricordi seppur presenti sono sempre più o meno confusi, non raggiungono mai l'evidenza e la vividità dell'esperienza presente attuale e percettiva. La materialità del corpo introduce questa opacità nel rapporto col passato che altro non è che l' "irruzione" dello spazio nel tempo, dell'elemento di seprabilità ed esteriorità per cui il passato è pur sempre passato e, seppur trattenuto, è comunque sempre in parte superato e ogni vissuto successivo tende (a prescindere dal differente livello di significatività che ha per noi, per la nostra esistenza, ogni ricordo) a scalzare, a sospingere in là i precedenti, sempre più fuori dal centro dell'attenzione dell'Io. L'oblio è il tempo nella misura in cui diviene spazio, il continuum indiscreto che diviene discontinuo discreto
#552
Il punto è che la politica intesa come servizio per il benessere della comunità non può ridursi alla tecnica. Un tecnocrate, una commissione di tecnocrati può certo stabilire con razionalità il "come", i mezzi adeguati per raggiungere un determinato obiettivo politico, ma non può fondare il "perchè", legittimare eticamente l'assunzione di tale obiettivo come valore primario, perchè i giudizi di valore non sono oggettivi, non sono determinati dalla conoscenza dei fatti ma provengono da preferenze soggettive. Se anche gli economisti avesserero ragione  (solo un esempio ipotetico) nel sostenere che i vantaggi economici della Brexit sarebbero molto maggiori degli svantaggi questo ancora non legittimerebbe politicamente la decisione di uscire dall'UE. Perchè esistono altri criteri di giudizio in base a cui decidere. Si può ammettere che, al di là degli svantaggi economici, l'unità europea sia un valore, un valore dal punto di vista culturale e spirituale e restare nell'UE gioverebbe alla crescita culturale della Gb. Chi ha deciso che la crescita economica debba essere l'unico principio in base a cui orientare l'azione politica degli stati? La tecnocrazia non è arbitro neutrale chiamato a sentenziare tra concorrenti visioni ideologiche, ma di fatto finisce con l'essere a sua volta una specifica ideologia: l'ideologia dell'economicismo o del "produttivismo". Perchè ciò in cui i tecnici sono più competenti degli altri è nell'elaborare strategie per raggiungere risultati oggettivi, cioè quantificabili. La quantificabilità è economia, dunque una politica in mano ai tecnici porrebbe la produttività e la crescita economica come unico "valore"  in base a cui orientare l'agire politico. Ed in nome di ciò sarebbe lecito, ad esempio come molti non a caso chiedono, di operare discriminazioni riguardo le scelte dei giovani riguardo il percorso di studio favorendo facoltà legate alla produttività economica come ingegneria e squalificando facoltà come lettere o filosofia, molto più inutili dal punto di vista dello sviluppo economico. Ma allora mi chiedo: mortificare e ostacolare le libere inclinazioni dei giovani favorisce il benessere complessivo della comunità? Di solo pane vive l'uomo?

Ecco perchè la democrazia e il suffragio universale restano per me il modello migliore. Il ruolo dei tecnici deve essere fondamentale e probabilmente ampliato ma deve limitarsi a teorizzare i mezzi più efficaci per realizzare degli obiettivi politici, ma la selezione degli obiettivi presuppone una visione etica che essendo soggettiva non si fonda su competenze oggettive ma deve esprimere le preferenze e la sensibilità morale della comunità popolare e il criterio di selezione più indicato è quello di maggioranza. Un economista ne sa più di me di economia, ma riguardo la questione se la crescita economica debba essere l'unico valore delle scelte politiche di un paese... le mie idee valgono esattamente quanto le sue, perchè non si parla più di "fatti", ma di "valori"  e dal punto di vista dei valori gli individui di una comunità sono tutti uguali

Tutto ciò fermo restando che sono d'accordo sul fatto che l'accesso al suffragio universale andrebbe filtrato maggiormente, ma penso a cose come "test" o "patentini" di cultura generale concentrati soprattutto a valutare le conoscenze basiche del cittadino sulla storia del suo paese e sulle principali dottrine politiche a cui i partiti politici si ispirano, nulla a che vedere con la tecnocrazia
#553
Più che "ottimismo" direi che riconoscere il popolo come soggetto dotato di intelligenza è una richiesta di coerenza con l'idea di democrazia: una dottrina politica che affida al popolo la sovranità attraverso il suffragio universale, seppur con tutte le mediazioni del caso (siamo una democrazia parlamentare, non diretta), dovrebbe riconoscere al popolo una certa autonomia di giudizio e saggezza. Non direi che questo sia in conflitto con la necessità dell'istruzione giustamente sostenuta da Live. L'istruzione è fondamentale ma non può "creare dal nulla", ma mostra la sua efficacia come opera formatrice di individui che hanno già in loro stessi delle facoltà intellettuali in base a cui apre i contenuti culturali. Vero anche che non esiste un nesso necessitante tra senso critico e livello di istruzione, ma è vero che l'istruzione è un fattore che contribuisce allo sviluppo di tale senso critico. Si può essere dogmatici con la laurea ed intelligenti con un basso livello di istruzione ma è anche vero che ciò che si apprende a scuola favorirebbe il tendere in una direzione nell'altra. Altrimenti la pubblica istruzione sarebbe solo una spesa inutile e potrebbe tranquillamente soppiantata

Ciò che è giusto o sbagliato è soggettivo e per questo il criterio di discernimento è dato dalla maggioranza, ma il fatto che alcune opinioni , quelle per cui si parla di mettere un limite alla loro espressione, riguardano questa soggettività non vuol dire che la possibilità di essere influenzati in questo senso sia maggiore che nel caso dove si parla di razionalità oggettiva: in questo ultimo caso il filtro critico sarà dato dalla ragione e dal livello culturale, nell'altro caso dalla soggettività morale (che secondo me offre una resistenza ancora più forte che la ragione). Poi... il giorno, si spera lontano, in cui il razzismo conquisterà la maggioranza delle coscienze morali diverrà politicamente (non moralmente) legittimo che la politica di uno stato democratico attui politiche razziste al di là della sensibilità morale di chi quel giorno sarà minoranza. E quel giorno sarà questa minoranza a temere di vedere il suo diritto all'espressione delle sue opinioni antirazziste limitato dal potere...
#554
Citazione di: Live il 17 Giugno 2016, 12:49:36 PMSi è parlato molto di conseguenze catastrofiche quali disordini sociali e politici, dando però la colpa alla parte sbagliata, a mio modo di vedere. Il giornalista, politico o manifestante che sia, infatti, rivolge le sue "idee pericolose" a persone che ascoltano ed agiscono. Sono le azioni di queste persone a nuocere, e non le idee in sé. Nonostante ciò, si tende a ritenere responsabile anche il giornalista/politico/manifestante, come colui che ha appiccato il fuoco. Questa analogia, secondo me, non regge. Se io getto un fiammifero acceso su un corpo cosparso di benzina, ho la quasi certezza che esso prenderà fuoco, in quanto il corpo non può far altro che incendiarsi a causa di processi chimici talmente basilari da essere perfettamente prevedibili. Ma le persone non sono corpi pregni di benzina. Il fatto che io scenda in piazza incitando le persone ad imbracciare i fucili e marciare contro Palazzo Chigi non si risolve automaticamente in una sommossa popolare, o peggio ancora una rivoluzione. Si presume, infatti, che le persone, al contrario del corpo inerte, siano in grado di decidere da sé se agire o meno, se lasciarsi coinvolgere o meno. È di parole che stiamo parlando, e non di mezzi coercitivi come minacce e ricatti, giusto? Dunque è davvero all'agitatore di folle che dovrebbe essere rivolta la nostra attenzione? Oppure all'ignoranza dilagante che spinge una massa di persone a seguire un'opinione soggettiva che non è neanche la propria? Non si può essere "vittime del proselitismo". Soltanto complici. Il demagogo, così come il mandante di un omicidio, si macchia sicuramente di un crimine, certo. Ma il crimine commesso non è la sommossa o l'omicidio in sé, perché questi sono esclusivamente responsabilità di un gruppo di persone ed un assassino perfettamente in grado di intendere e di volere. Attraverso la comunicazione si può esprimere o un fatto, o un'opinione. Quest'ultima differisce dal primo in quanto non è in grado di reggersi autonomamente attraverso delle argomentazioni oggettive. Un fatto, invece, soprattutto se definito con un linguaggio più chiaro e neutrale possibile (come la matematica, per esempio), non può essere soggetto ad interpretazioni. E non può nemmeno essere dibattuto per mezzo di urla in piazza e sommosse popolari. La libertà, quella vera, è "libertà di dire che 2 + 2 = 4, tutto il resto viene di conseguenza", (cit.). La cosa bella, è che anche la maggior parte delle opinioni soggettive possono essere sottoposte ad un "test della realtà", ed essere quindi sviscerate di ogni preziosità retorica ed emotività di fondo, per essere trasformate in affermazioni oggettive, e dunque falsificabili senza nemmeno disturbarsi a scendere in piazza. Incitare all'odio è un tentativo di far leva sulle emozioni di una classe di persone poco istruite e fin troppo suscettibile. Il nostro problema sono proprio queste persone, e non colui che decide di sfruttarle. Chiunque sia invece dotato di una buona istruzione e di pensiero critico, invece, dà importanza soltanto a quelli che sono i fatti nudi e crudi. In questo caso, la libertà di parola non può essere un problema, perché come ho già detto ogni affermazione può essere falsificata o convalidata con mezzi empirici, da frasi come "Il politico X sta distruggendo la nazione Y", a "L'Inghilterra dovrebbe uscire dall'UE in quanto ne trarrebbe più vantaggi che svantaggi". Se piuttosto che promulgare leggi che limitino la libertà di espressione, Edrogan si impegnarsi a migliorare l'istruzione e l'educazione nel suo paese, otterrebbe molti, molti più benefici.

Completamente d'accordo con questo intervento

Una democrazia che per tutelare se stessa finisce con il contraddire uno dei suoi capisaldi, la libertà di espressione del pensiero, finisce con l'ammettere il suo fallimento, quello di riconoscere il popolo come soggetto sovrano delle decisioni politiche in quanto dotato di sufficiente intelligenza e senso critico per discernere il vero dal falso senza che bisogno di qualcuno che gli tappi le orecchie
#555
Tematiche Filosofiche / Re:Cartesio aveva ragione?
16 Giugno 2016, 22:33:55 PM
Cartesio aveva certamente ragione nell'idea che la certezza fondamentale  da cui doveva fondarsi ogni pretesa di edificare il sapere sia il riconoscimento di ciò il cui esistere comprende la possibilità estrema di dubitare di tutto: il riconoscimento del dubbio stesso, cioè il pensiero. L'errore è stato quello di operare un passaggio logico arbitrario: dal riconoscimento della certezza di essere pensanti al fatto di considerare il pensiero come sostanza (res cogitans), esistenza autonoma e separata dal mondo fisico. Ma concepire il pensiero come "res" non tiene conto del fatto che il tratto costitutivo del pensiero è quello di essere sempre "pensiero di qualcosa" attività del soggetto che tende al rispecchiamento e rappresentazione del mondo oggettivo  e che da ciò si dovrebbe dedurre che la coscienza non è una realtà in sè, ma condizione, modalità d'essere per cui il soggetto pensante e cosciente non è chiuso in se stesso ma è sempre correlato ad una realtà trascendente e oggettiva. Questo errore cartesiano verrà corretto dal riconoscimento del carattere trascendentale, cioè concettuale dell'autocoscienza dalla gnoseologia kantiana e, in modo ancora più efficace, dalla fenomenologia husserliana con l'idea della coscienza non come realtà, ma come universale, cioè trascendentale punto di vista sul mondo, intenzionalità rivolta verso esso. La coscienza non sarà cioè più vista come "realtà", "sostanza", confusa col concetto di "anima", ma come necessario punto di partenza da prendere in considerazione per ogni discorso critico sulla realtà.

Cartesio resta comunque un grande per aver indicato come metodo del sapere razionale il portare il dubbio alle estreme conseguenze, senza timori reverenziali per l dogmi, la sottomissione intellettuale alle tradizioni, e per aver posto la conoscenza di se stessi come la sfondo necessario di ogni ricerca della verità che se vuole essere davvero critica deve prima di tutto essere "autocritica"cioè rivolgersi prima che verso l'esterno, verso se stessa, riconoscendo il proprio soggettivo punto di vista. In questo modo si riallaccia, certo a suo modo, alla grande tradizione socratico-agostiniana che cerca la verità prima di tutto nell'uomo interiore. Tradizione che andrebbe secondo me recuperata, rivalutata, chiarificata