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Messaggi - maral

#556
Sono d'accordo con la conclusione di Green Demetr.
Purtroppo la razionalità, per quanto importante se non altro perché rende necessario fermarsi a riflettere sul significato del proprio agire, non è sufficiente all'etica, non lo è mai stato. Essa può infatti servire a giustificare e a  promuovere qualsiasi intento, buono o malvagio che sia. Certamente si potrebbe assumere come del tutto razionale il comandamento morale di non nuocere agli altri e a se stessi o, come intese Kant nel suo tentativo di stabilire un principio morale fondamentalmente razionale, di considerare l'essere umano sempre come fine e mai come mezzo. Principi sacrosanti di morale cristiana e laica, la cui negazione appare completamente irrazionale, eppure ... eppure nessuna azione malvagia, non etica prescinde da uno scopo che si ritiene buono, soprattutto se pubblica. Nessuna azione intende nuocere, è concepita per nuocere (salvo che in rarissimi casi di nichilismo sadio masochistico forse) ma al contrario, si vuole promuovere sempre il bene (il vero e unico bene) della comunità di cui ci si intende prendere cura, al limite dell'intera umanità e per promuovere questo bene supremo (e supremamente razionale) si rivelano sempre necessari dei sacrifici per rintuzzare "il regno del Male" che si contrappone al nostro adamantino e perfetto "regno del Bene". E a questo scopo può apparire quanto mai opportuno considerare pure l'essere umano, lo sconosciuto quanto l'amico, quanto il mondo intero come mezzi e non più come fini. 
Come ho detto prima se la vera razionalità va intesa come quella che sa ammettere il suo limite, così l'atteggiamento etico deve poter riconoscere il proprio non configurarsi mai come assoluto (o quanto meno non concedersi altro assoluto fuori di questo). L'etica è prassi prima di essere pensiero, non può essere pensiero che domina la prassi, ma che l'accompagna. E credo che questo, più che razionale sia ragionevole. Ogni etica potrà essere volta al bene finché riuscirà a mantenersi ragionevole e per questo il sentimento (modo di sentire) etico viene prima di ogni sua razionalissima definizione.
     
#557
Citazione di: Apeiron il 19 Ottobre 2016, 00:06:31 AM
Pensare che per l'universo noi siamo importanti è avere megalomania. La differenza tra l'ebete e il "filosofo" è questa: il primo ritiene se stesso come la cosa fondamentale dell'universo, il secondo invece contempla la nostra quasi nullità.
Perbacco Apeiron, ma contemplare la propria nullità, cosa che si può fare solo potendo contemplare l'immensità che comunque la esprime, non è per nulla una cosa da nulla! Non lo è né per noi, né per l'universo intero di cui siamo espressione.

#558
Ben ritrovato carissimo.

L'intendere l' uomo come (potenziale) essere razionale, ossia come soggetto del logos (del discorso che razionalmente mira a istituire una verità condivisa) è il grande motivo che segna la nascita della filosofia in contrapposizione al mito, alla volontà irrazionale di credere. E il logos si afferma come negazione della contraddizione. Su questo pilastro si erge tutto il pensiero occidentale, dalla metafisica alla scienza con tutte le meraviglie di conoscenza che ha saputo produrre, e su questo pilastro (principio fermissimo) viene a morire e viene a morire quando si esige che tutto abiti la razionalità e nulla di reale possa ad essa sfuggire, che tutto sia logos, esprimibile secondo misura, analisi oggettiva e calcolo, poiché proprio in tali termini totalizzanti, il pensiero razionale, se onestamente condotto, se non vuole porsi a sua volta come mito, come una sorta di superstizione onto-teo-logica, non può non vedere la propria contraddizione che sta nel pretendersi totalità.
E dunque credo che se vogliamo essere coerentemente razionali è necessario saper accettare il limite (la parzialità) della razionalità e, alla luce di questo limite, intenderla come una costante apertura, un costante superamento delle proprie posizioni che non possono, per quanto ovvie possano sembrare, essere mai definitive. Il rifiuto di ciò che appare ovvio, quindi esente da interpretazione e dibattito, è ciò che il razionale deve saper costantemente rifiutare, razionalmente.
Per questo l'uomo non nasce razionale né lo diventa realmente mai. La razionalità umana non è uno stato, ma un percorso continuo in cui nulla resta esente dal dubbio e ogni soluzione è solo inevitabilmente provvisoria, sempre aperta alla sua re interpretazione senza porsi mai come insormontabile de-finizione su cui non si possa mai ulteriormente dire e ridire. 
#559
Citazione di: sgiombo il 18 Ottobre 2016, 20:25:31 PM

Ma che male c' è e perché mai quel che dico non varrebbe nulla se dico che la natura è come è indipendentemente da coma la si dice (e in particolare da come personalmente ora la dico essere)?
Citazione
Semplicemente perché appunto lo stai dicendo e sei tu stesso che dici che quello che si dice non ha nessuna rilevanza su come è la natura.

Citazione[/font][/size][/color]Dare arbitrariamente nomi alle cose è ben altra, diversissima cosa che pretendere di decidere cosa è assolutamente (oggettivamente) vero o no!
Ma è lecito pretenderlo? Esiste a tuo avviso questa realtà in sé a cui si deve fare riferimento?


Citazione[/font][/size][/color]Ma la natura è del tutto indifferente a noi e alla nostra conoscenza di essa, e ai nomi che usiamo per parlarne e conoscerla.
E questo mi è del tutto incomprensibile. Se noi siamo la natura, dato che ne siamo parte, non possiamo esserne fuori. Cosa vuol dire che la natura è indifferente a noi? noi non siamo altro da essa. E' la natura che dà i nomi attraverso noi, che siamo quella parte di natura che da significati e nomi. Vuoi dire che la natura è indifferente a se stessa? Ma non lo è, ci siamo noi che siamo natura e non siamo ad essa indifferenti e di sicuro non lo siamo a noi stessi! 
Noi siamo la natura non indifferente. E ti par poco?
#560
Citazione di: sgiombo il 18 Ottobre 2016, 20:16:28 PM
CitazioneContinui a confondere la realtà con la conoscenza della realtà.

Continui ad attribuire indebitamente alle cose (tutte, e non solo a quelle particolari cose che son i simboli) un preteso "essere segno" ( e 'dde che?)..
Sgiombo puoi dirmi cos'è questa "Realtà" a cui sei così attaccato senza fare appello alla conoscenza che ritieni di averne fino al punto di poter dire che non è la conoscenza che di essa abbiamo? Cos'è la realtà fuori dal significato che hai appreso? Certo che le cose appaiono come segni per altre cose, continuamente e solo come segni possono apparire. Appaiono nel loro significato, che vuol dire appunto essere fatte a segno, reciprocamente. E in questo non c'è assolutamente nulla di arbitrario. Dimmi un solo nome di cosa che hai inventato tu arbitrariamente che non significasse già qualcosa che si possa intendere. Noi non scegliamo proprio nulla, men che meno i significati. Niente è arbitrario, nemmeno ciò che appare più contingente, nemmeno l'"arbitrarietà" stessa se questa parola ha un significato.
La realtà è tale in virtù del significato che le attribuiamo, non certo perché ciò che io, tu noi, consideriamo reale sia reale in sé e per sé- Come potremmo solo vederla o concepirla se non avesse significato? O pensi forse che noi percepiamo le cose in sé e poi ci appiccichiamo sopra un cartellino concordato con scritto cosa significano e che nome hanno? "Esse est percipi" nella misura in cui percipiendo diamo al percepito un significato, nella misura in cui la mente interpreta mentre percepisce. Percepire è già interpretare e non c'è nulla di confuso in questo. La cosa sta solo nel suo essere per noi e noi per essa, non ci sono io, non ci sei tu, non c'è la sedia su cui siedi, se non nel significato in cui la conosci sedendoci sopra e proprio perché non è un significato arbitrario, non cadi a terra quando ti ci siedi sopra.
Nessun significato è originariamente una denotazione, la denotazione viene dopo, molto dopo, quando si cominciano a scrivere i vocabolari. La denotazione è l'atto finale, non quello iniziale ed è atto dell'osservatore per fermare il continuo scorrere e passare oltre dei significati. E' per questo che la denotazione è una grande opera comune e pubblica, ma non si parte da quella.
I pedoni sono significati quanto gli ippogrifi, ma nel contesto comune a cui partecipiamo (determinato da una storia immensa che ci ha preceduti e che ci seguirà) il significato "pedone", ci pare ammissibile, quello di "ippogrifo" no e non dipende da noi, non siamo noi a stabilire cosa è ammissibile e cosa no. Questo è il punto fondamentale che distingue ciò che chiamiamo realtà, da ciò che riteniamo fantasticheria. Nessuno di noi può decidere cosa fare apparire e cosa no, non solo cosa toccare, ma nemmeno cosa sognare, che nome dare e che nome non dare, perché noi stessi siamo parte del gioco dei significati, non stiamo sopra di esso. E per questo, solo per questo puoi dire che i pedoni ti sono apparsi e basta, ti sono apparsi nel significato di "pedoni" e non in quello di "ippogrifi", ma sempre e solo con significati abbiamo a che fare.
Quello che fa la differenza per quanto consideriamo reale o meno sono i contesti pubblici e collettivi in cui esistiamo come significati da essi espresso, il modo che abbiamo di stare insieme e insieme operare, conseguenza dei modi di operare e di stare insieme di chi ci ha preceduto e che sono sullo sfondo.
Gli ippogrifi non c'entrano nulla, non sono per nulla straordinari, abbiamo scoperto cose ben più incredibili degli ippogrifi! abbiamo scoperto i batteri! Ti rendi conto? E li consideriamo cose normali, esistono perdiana, a miliardi di miliardi! Ed esistono perché il contesto in cui ci troviamo ci permette di considerarli esistenti. Vai tu a raccontare a un antico egizio (o a un cavernicolo o a un indigeno della foresta amazzonica) che il mondo è pieno di batteri, ti prenderà per matto completo ben di più che se gli raccontassi di ippogrifi e avrebbe ragione! Ma non perché i batteri non esistono, ma perché per lui un significato simile è inconcepibile, esattamente come per te è attualmente inconcepibile la realtà di un ippogrifo. Ma, lo ripeto ancora, non sei né tu né lui a decidere cosa è concepibile e cosa no, cosa appare credibile e cosa no.  Diamine 3000 anni di filosofia almeno questo ce lo avranno pure insegnato! Dopo tremila anni a cercare di trovare cosa fosse vero in sé, a inventarsi ogni sorta di "veri in sé" sempre più astratti e impalpabili almeno a questo ci siamo arrivati. di res cogitans e di esse est percipi. I pedoni stanno tutto nel loro significato che si traduce nel loro nome, esattamente come te, il tuo nome è ciò che pubblicamente e pure a te stesso resta il tuo significato stabile, perché nient'altro di te è rimasto invariato, proprio come la nave di Teseo, che è sempre la nave di Teseo, perché solo quel nome (pubblico) è rimasto nei secoli lo stesso. nient'altro resta nell'identità che un nome. 

CitazioneMa come fanno le cose che appaiono come sfondo ad apparire (sia pure come sfondo) se contraddittoriamente sono "il nascosto delle cose"?
Infatti non ti appaiono come cose finché non ci presti attenzione. Guarda la miriade di pixel bianchi sullo schermo del computer. Ora ti appaiono come cose e puoi dire che esse costituivano lo sfondo su cui prima, quando non ci facevi caso, ti apparivano invece dei caratteri scritti, che ora a loro volta, non sono dei caratteri scritti, ma dei punti neri sul cui sfondo appare la parte di schermo bianco.
Il selvaggio non vede assolutamente lo schermo che vedi tu, vede qualcosa a cui attribuisce il significato che a quella cosa dà la sua cultura (fatta di modi di fare e di pensare che lui pratica e non tu) e se la sua cultura non ha significati a cui assimilare quello che tu chiami schermo secondo la tua cultura, lui non lo vede e non gli dà nome. Se invece assomiglia a qualcosa per cui la sua cultura ha un significato le darà un nome simile che richiama quel significato che lui conosce e quindi non lo chiamerà "schermo di computer" che per lui non significa assolutamente nulla. E nessuno in questo dare i nomi si inventa assolutamente nulla, né tu che hai il significato di "schermo di computer", né lui che non ce l'ha.


CitazioneSe così fosse il linguaggio non potrebbe esistere, non esisterebbe; oppure sarebbe sempre esistito in eterno "ab omnia secula seculorum" (e allora l' umanità sarebbe eterna; oppure ce l' avrebbe insegnato Dio).
Il linguaggio esiste con l'uomo (non con Dio, Dio non c'entra nulla con il linguaggio, a meno di non pensarlo come il creatore di tutto, uomo compreso, come il Verbo originario). L'uomo è l'animale che parla, come il pesce è l'animale che nuota nell'acqua e l'uccello quello che vola nel cielo, Non è che prima è nato il pesce e poi piano piano il pesce ha imparato a nuotare magari concordando con gli altri pesci quali movimenti fare con le pinne.
Non c'è nessuna voce baritonale (come non c'è un Dio Pesce che dal profondo del mare insegna agli altri pesci a nuotare), semplicemente una voce comune, che non denota, ma connota a tutti i parlanti che riuniti insieme  sentono e capiscono partecipando delle situazioni (proprio come un bambino sente la voce della mamma e sa già cosa vuol dire) è un canto fatto insieme e accompagnato da gesti, un rito che evoca una storia, un accadere, un significare con il ritmo variato della sua sillabazione. Questo è il primo linguaggio. Nessuno che stabilisce parole e cosa vogliono dire e cosa no, ma tutti che ascoltando, lo sentono insieme, vivendo insieme, partecipando della stessa comunità, delle stesse tecniche e modi di fare e quindi degli stessi significati. Nessuna libera scelta, ma la conseguenza di esistere insieme facendo cose insieme (cacciando insieme, nutrendosi insieme), in reciproco e costante contatto, del tutto immanente.

CitazioneIl bimbo di tre anni ovviamente non inventa la frase "ho il mal di pancia", ma l' ha imparata come insieme di segni verbali arbitrari e convenzionali, arbitrariamente e convenzionalmente messi in reciproche relazioni sintattiche.
Non solo il bambino di tre anni, ma nessuno ha mai inventato arbitrariamente e convenzionalmente quella frase, bambino, adulto o vecchio che fosse. Chi sarebbe stato quello che avendo mal di pancia si è inventato che si doveva dirlo così dopo essersi messo d'accordo con altri anche loro con il mal di pancia che invece chiamavano "ben di testa"?
I nomi che tu dici arbitrari non lo sono per nulla, hanno sempre un significato determinato dal contesto. L'Alto Adige corrisponde al Sud Tirolo solo geograficamente, per tutto il resto è altra cosa, soprattutto si è voluto sottolineare con quel nome che doveva essere un'altra cosa, proprio perché una regione non è mai solo un luogo geografico (e certamente non è per nulla "in natura" un luogo geografico, lo è solo in astratto e solo per un geografo), ma anche in questa volontà vi è stata una precisa necessità di contesto storico e culturale.
CitazioneBene: allora ammetti (ma contraddittoriamente a ripetute altre tue affermazioni)  che il nome "cavallo" non è la cosa che denota.
L'ho detto fin dall'inizio e non c'è alcuna contraddizione. Il nome non è certamente la cosa che denota, ma ne è la necessaria e mai arbitraria evocazione. E se la evoca la chiama, e se la chiama è perché non c'è. Il nome "cavallo" evoca un cavallo che non è quel cavallo che hai sotto gli occhi, perché quel cavallo che hai sotto gli occhi non ha alcun bisogno di essere chiamato alla presenza, è lì, davanti a te, non serve che lo chiami, dunque il cavallo che chiami "cavallo" non è quello che è lì.


#561
Tematiche Filosofiche / Re:Realtà e rappresentazione
20 Ottobre 2016, 19:06:14 PM
Per quanto riguarda il verbo essere si potrebbe dire che vi sono due modi per intenderlo. Il primo è quello della perfetta tautologia che si afferma quando si dice che una cosa è (ed è l'uso che ne fa Severino), Se dico che il cavallo è intendo che per qualsiasi cosa significhi "cavallo" esso è se stesso (e chiaramente non può che esserlo sempre). In tal senso la negazione dell'essere è assoluta contraddizione, in quanto non vi può essere alcuna cosa (qualsiasi cosa sia) che non sia se stessa, nemmeno un cerchio quadrato, nemmeno lo stesso contraddirsi logico.
L'altro modo con cui si intende "essere" vuole dire invece che la cosa è nel modo in cui appare e questo è il modo più frequente di usarlo e sul quale è possibile discutere (mentre nel primo caso, trattandosi di una tautologia è assolutamente indiscutibile). E' in tal senso che si può dire: "questo animale è un cavallo" e di conseguenza discuterne con chi non gli appare come un cavallo, ma magari come un ippogrifo (che cito per fare contento Sgiombo, che richiama sempre volentieri questi "animali" :)). Nel senso espresso, in cui l'essere si riferisce all'apparire, l'essere non esclude un modo di apparire diverso, nella prospettiva di un contesto che diversamente lo presenta, pur riconducendolo alla medesima astrazione.
In ogni caso comunque la cosa è ricondotta al gioco dei suoi significati, è solo significando qualcosa (ossia affermando di sé qualcosa in rapporto alle sue negazioni) che qualsiasi cosa può concretamente esistere. 
 
#562
Tematiche Filosofiche / Re:Realtà e rappresentazione
19 Ottobre 2016, 22:06:49 PM
Mi dispiace per Schopenhauer, se la citazione è corretta, perché il mondo non è una "mia rappresentazione", ma è una rappresentazione che possiamo intendere come "nostra", ossia di una collettività che rappresenta senza decidere cosa voler rappresentare o meno, attrice, non regista della sua parte.
L'oggettività, intesa come la cosa in se stessa che ci sta davanti (in ob-jectum) si presenta, alla nostra coscienza contemporanea (alla nostra rappresentazione contemporanea determinata dal presente accadere) come una mera fantasticheria, una sorta di superstizione, perché in ogni oggetto c'è il soggetto, in ogni percepito c'è il percipiente, in ogni pensato c'è il pensante, letteralmente c'è. Non ci sono quindi soggetto e oggetto separabili, se non come residuo di una volontà (sempre meno credibile) di tenerli separati, e allora non può più esserci nemmeno un dentro e un fuori, mon può più esserci qualcosa che da fuori mi arriva dentro, non può più esserci un io e un mondo che gli sta di fronte e che l'io guarda e descrive ponendosi idealmente fuori dal mondo per godere di quella visione panoramica totale che un tempo era prerogativa degli Dei e di chi in loro confidava e che, morti gli Dei, si è creduto e si crede di trovare nella Scienza, il loro più capace sostituto. Cosa ci resta allora, a parte il ricordo così nostalgicamente struggente delle antiche e superbe "onto-teo-logie"? A parte il senso di assurdo che si sente davanti a ogni pretesa di totalità? Cosa può ancora sapere il nostro sapere, oltre a sapere di non sapere? Cosa si può volere che abbia un minimo senso volere? Quale Verità oltre le verità sempre parziali e limitate, sempre contaminate e dunque sempre per tante misure false, fossero pure logicamente o matematicamente dimostrate perfettamente esatte? Cosa ci resta oltre le nostre patetiche pretese di verifica, come se verificando non interpretassimo? Che ne è della sacrosanta verità oggettiva che ci dava la certezza di un senso ideale a cui poter sempre fare riferimento stabile, che decidessimo di seguirlo o meno? Che resta di noi stessi e del mondo in cui credevamo di abitare, come si abita tra le cose consuete di tutti i giorni? Cosa resta dei fatti che si sono creduti per sempre?
Ci resta forse il senso di un gioco immenso in cui ci troviamo gettati, di cui siamo parte, in cui continuamente siamo giocati e non giocatori e la consapevolezza di esserlo insieme. Ed è proprio nel nostro stare insieme, fare insieme, confrontandoci e ascoltandosi gli uni con gli altri, ognuno per quello che è, che possiamo ritrovarci e riconoscerci; non alla luce di una grande verità oggettiva che illumina tutto il panorama ai nostri piedi, ma alla fioca e sempre incerta luce di una condivisibilità sempre rimessa in discussione che nessuno di noi ha stabilito, nessun Dio o ente metafisico, ma tutti gli enti presenti, passati e futuri, nessuno escluso, neppure il pidocchio che si nascondeva tra i riccioli della parrucca del Re Sole e di cui nessuna traccia è rimasta nella storia.
Ma anche questo senso è il gioco immenso di cui siamo parte e attori che ce lo propone giocandoci e il gioco è l'esistenza stessa, niente di più e niente di meno.
#563
Citazione di: cvc il 18 Ottobre 2016, 18:56:47 PM
Bergson disse che non è mai esistito filosofo degno di tal nome che abbia detto più di una sola cosa
E probabilmente ne ha detto ancora una di troppo ...
Scherzi a parte (ma poi neanche tanto), il fatto è che la filosofia nasce con un problema che non riesce mai a risolvere e il problema è quello di dire la verità, dire quello che è, la verità per tutti (giacché se è verità, solo per tutti può esserlo) e, connesso a questo problema, scopre quell'altro di come si dice la verità, problema tecnico ugualmente insuperabile in cui la filosofia analitica sprofonda attorcigliandosi su di sé (ma anche l'ermeneutica rischia la stessa fine).
Il filosofo sente che la risposta alla questione della verità sta nel logos, nel discorso razionale condotto tra pari, ciascuno ugualmente senza verità, ma tutti in grado di incamminarsi verso di essa discutendone insieme (la famosa dialettica socratica) senza pretese di arrivare a concludere per forza. E' Eraclito il primo a dire di non ascoltare lui, ma il logos, ma anche Parmenide dice la stessa cosa: la dea che ispira i versi del suo poema filosofico si appella al logos, lo invita a considerare le cose che gli dice, non a prenderle come rivelazioni a un predestinato (Oh se il Dio degli Ebrei si fosse rivolto allo stesso modo ai suoi profeti!). Almeno su questo quei due, Eraclito e Parmenide, erano d'accordo.
Non è un caso che la filosofia nasca con la democrazia, e abbia avuto il suo centro in Atene e nelle colonie autonome greche: la filosofia e la politica sono sempre intimamente connesse. Poiché la verità sta nel logos che solo può produrre il discorso vero per tutti, il principio di non contraddizione è la sola guida, il solo appiglio che ha il filosofo, ma poi questi si perde quando pensa di poter fare del logos un mito: "non avrai altro logos al di fuori del mio" tuona allora il filosofo che assurge a Dio (l'assoluto interpretante che tutto interpreta) dall'alto della sua posizione panoramica che ogni cosa vede, prevede e controlla, come se lui non ci fosse dentro a quel panorama, come se lui non ci fosse dentro fino alla cima dei capelli. E allora cos'è che vede e prevede? E la scienza è  questo cattivo modo di filosofare che ha ereditato dalla filosofia. Certo non ci si affida più solo al logos, si crede di avere superato ogni ambascia con il setaccio più fine della verifica sperimentale oggettiva, come se quella verifica sperimentale oggettiva potesse verificare qualcosa che sta oltre e fuori dal discorso che ne fa la scienza, dell'interpretazione che essa dà con il suo linguaggio! La verifica è solo l'ultima e più pervicace delle superstizioni e l'oggettività del dire sperimentando il suo mito.
L'ebete invece non ha né ha mai avuto la preoccupazione di dire la verità, semplicemente perché si sente sempre nella verità, sia che la cambi ogni istante facendosi menare per il naso da chi gliela racconta, sia che non la cambi mai, fedele nei secoli dei secoli. L'ebete può essere uomo di grande fede, l'esatto contrario del filosofo che si arrovella in dubbi che per l'ebete restano del tutto assurdi tanto gli appaiono banali e insulsi, mere perdite di tempo per chi non ha di meglio da fare. Per questo l'ebete è felice, il problema della verità non esiste per lui, quello che si dice e si pensa va benissimo, è la realtà stessa.
In "verità" per lo più siamo tutti un po' ebeti e un po' filosofi, solo che, morti gli Dei e le grandi metafisiche con le loro grandi pretese panoramiche, il rischio è di fare dell'ebetudine quella sorta di pensiero unico che è già diventata, a comoda disposizione di tutti grazie al progresso tecnico che tutto facilita e del nichilismo l'essenza che da sotto la conduce.
La filosofia è cosa per tutti e per nessuno: ci vuole coraggio per fare i filosofi, ci vuole quel coraggio della verità che Foucault richiamò nelle sue ultime lezioni, pur sapendo che quel coraggio non è mai abbastanza, non basta mai nemmeno a sfiorarla la verità, come un'amata che sempre sfugge all'amante, ma che l'amante non può fare a meno di continuare a inseguire amandola mentre soffre di quel suo continuo sottrarsi, ma più lei si sottrae, più la desidera, si tormenta e la ama. Il vero filosofo è chi sa sbattere la testa contro un muro fino a farla sanguinare, eppure continua imperterrito a sbatterla, come diceva Nietzsche, finché la testa non gli andò in frantumi.
Poi c'è a chi (e sono i più, anche tra i filosofi) invece basta un panino che non sarà la verità, ma per un po' riempie la pancia e sembra poterci fare tutti contenti e spensierati, pancia piena e testa salva.
#564
Citazione di: sgiombo il 18 Ottobre 2016, 14:02:01 PM
Esistere in quanto apparenze, cioè come fenomeni, percezioni coscienti, ed esistere in sé sono due possibili reciprocamente alternative condizioni delle "cose" assolutamente da non confondere.
Certamente, ma dato che di ogni cosa si può conoscere solo nell'interpretazione di ciò che appare e per come il contesto ce lo fa apparire nel suo essere segno, la cosa in sé resta del tutto inconoscibile ed è anche assurdo pretendere di conoscerla e di dirla. In realtà la distinzione non la facciamo mai tra l'apparenza e la cosa in sé, ma tra le apparenze che hanno valore soggettivo individuale e privato e le apparenze che hanno valore condiviso, pubblico e comune, cercando sempre di ricondurre le prime alle seconde. E dare un nome alle cose significa appunto questo: presentare con una valenza pubblica (a tutti udibile) ciò che si sente individualmente.
Forse vi saranno pure, come dici, "cose reali  non accompagnate inoltre da- (-le sensazioni fenomeniche costituenti) il pensiero, la predicazione del loro accadere, id est (per definizione) la loro conoscenza, ovvero senza che siano conosciute", ma resta il fatto che pure queste "cose reali" le stiamo predicando esistenti solo in quanto le pensiamo e ce le diciamo. I pedoni che stanno raggiungendo il poliambulatorio li puoi concepire in quanto li pensi e li puoi pensare solo in quanto li hai precedentemente e ripetutamente visti, in qualche modo ti si sono presentati e ti sono apparsi nel significato che di loro conservi. Non c'è nulla che esca dal significato e dall'interpretazione di esso. quei pedoni non sono cose in sé, ma significati per te, la cui realtà non è per nulla "oggettiva", ma  è data da una condivisione pubblica, condivisione pubblica che invece verrebbe certo a mancare se tu pensassi che un ippogrifo stesse volando verso il poliambulatorio. Quello che fa la differenza non è la realtà in sé (assoluta) della cosa, ma il trovarla insieme e pubblicamente condivisibile quando se ne parla e la si nomina. E questa condivisibilità è prodotta dal contesto in cui insieme esistiamo e operiamo, non da noi, è sempre e solo a partire da questo contesto che noi giudichiamo ciò che ha senso reale e ciò che non lo ha.
Tutto quello che immaginiamo e pensiamo è rappresentazione di qualcosa che realmente accade, altrimenti, se fosse immagine del nulla, anche l'immagine sarebbe nulla, non si può immaginare il nulla, Ma appunto sono queste rappresentazioni che godono di maggiore o minore credibilità nel momento e nel luogo in cui si presentano, sono esse a determinare in noi un senso e la stessa rappresentazione di ciò che immaginiamo di essere, riassunta dal nostro nome. Le cose pensate che non sono non reali sono solo interpretazioni di eventi reali che noi possiamo pensare nel contesto in cui esistiamo, solo come non reali

CitazioneNon vedo come "cose" che non appaiono" possono in alcun modo essere "lo sfondo" di alcunché: contraddizione!
Non appaiono come cose-figure, ma appaiono come sfondo. La cosa non appare rispetto al nulla, poiché non vi è il nulla, vi è il nascosto e il nascosto delle cose è appunto lo sfondo ed è rispetto a questo sfondo che gli eventi che appaiono prendono forma, così come una figura tracciata con una matita nera prende forma sullo sfondo di una superficie bianca costituita da una miriade di punti diversamente bianchi (mescolati ad altri punti neri) che non appaiono.
Lo schermo di un computer può apparire a un selvaggio solo se in quella cosa (che noi vediamo apparire nel significato di schermo di un computer) ha per lui un significato, che non sarà certamente il nostro, ma deve esserci, altrimenti non lo vede, proprio come noi non vediamo un ramoscello spezzato nella foresta, mentre il selvaggio lo vede e lo interpreta per quello che significa. Non appare non perché si soffre di disturbi visivi, non perché si è ciechi alle cose in sé, ma perché si è ciechi al loro significato e dunque, come insignificanti, esse costituiscono lo sfondo su cui altro da esse appare.  
Ed è proprio questo apparire che nell'essere umano è nel richiamo di un nome. Un nome che non è mai arbitrario, poiché è legato al significato stesso per come esso si manifesta e deve essere richiamato con il suo nome, non qualsiasi. La parola non è la cosa, ma è ciò che la fa pubblicamente apparire chiamandola per come appare.
Potremmo chiamare quello schermo come vogliamo, ma invece è proprio "schermo" che lo chiamiamo e non "arturo" e se volessimo chiamarlo in altro modo, solo riferendoci a "schermo" potremmo dirci cos'è: il problema irrisolto del linguaggio che nasce dalla sua assenza (il problema in generale della semiologia, un problema che si è scoperto ormai da un secolo) è che ci vuole un linguaggio per costruire qualsiasi linguaggio, dunque non c'è alcuna origine del linguaggio prima della quale non c'era nessun linguaggio.
I nomi che indicano (più o meno) le stesse cose sono diversi nelle diverse lingue non perché sono arbitrari, ma, esattamente al contrario, perché le cose che considerano non prescindono dai contesti storici, sociali e culturali che in un determinato luogo e tempo hanno portato a chiamarle (e quindi intenderle) così.


CitazioneDire che "Salta fuori originariamente dal contesto dei parlanti che vivono insieme e praticano quotidianamente le stesse cose" non può significare altro che il fatto che costoro arbitrariamente (per una loro libera scelta, non imposta loro da nessuno) convengono di assegnare quel nome a quella cosa.
Assolutamente no. Dire che salta fuori dal contesto dei parlanti non implica per nulla alcuna scelta in merito, alcuna volontà che decida di farlo saltar fuori, questo nome anziché un altro.
Il pianto di un bambino non è simbolico per il bambino, per il quale non esiste nemmeno il bambino che ha fame, esiste solo fame-bambino-pianto tutto insieme, ma è simbolico per noi. E' segno del suo aver fame e a questo segno in genere rispondiamo, senza bisogno di vocabolari o interpreti (forse oggi un po' meno, dato che riusciamo sempre meno a cavarcela senza de-finizioni). Il pianto di un bambino non è ancora così diverso dall'uggiolare di un cane che ha il mal di pancia, ma è un segno, l'elemento primordiale di un linguaggio.
Il dire (il dire di qualsiasi linguaggio) nasce da una necessità che lega il segno a quello che accade, è espressione che evoca propriamente quello che si sente (pur non essendo quello che si sente, ma appunto il segno) e nasce da quello che effettivamente si sente, non dalla nostra arbitrarietà. Un bambino di tre anni che piagnucolando ha imparato a dire anche "ho mal di pancia" non ha inventato alcun linguaggio, perché infatti nessun linguaggio è mai stato inventato da nessuno, adulto o bambino che fosse, ma ogni linguaggio si forma a partire dal contesto sociale in cui si vive, senza che nessuno lo voglia.  
Continui a dire che i nomi delle cose sono convenzionali (pur non essendovi traccia di alcuna convenzione, pur essendo la storia delle convenzioni una pura mitologia) perché le stesse cose si potrebbero benissimo chiamare in modo diverso, ma resta il fatto che non le chiamiamo in modo diverso e se un giorno le chiameremo in modo diverso sarà solo perché i contesti che ne esprimono i significati cambiano, dunque cambiano anche le cose, dato che solo nei loro significati esse esistono.
Certo, pancia si può dire anche addome, ma i contesti in cui si dice "addome" invece di "pancia" o "algia" invece di "dolore fisico" sono ben diversi e sono i rapporti sociali a determinarli. Noi possiamo chiamare la stessa cosa in modi diversi in relazione alla capacità che abbiamo di comprenderla in modi diversi, non in relazione alla nostra arbitraria volontà di chiamarla in un modo o nell'altro. E' la stessa cosa che accade quando impariamo un'altra lingua: infatti non impariamo solo dei segni fonici arbitrari, ma la cultura e il modo di pensare di un popolo. Non è una questione di genetica, ma di cultura, che è pe certi versi più fondamentale della stessa genetica (essendo la stessa visione genetica un risultato culturale). In questo senso i poliglotti possono davvero accedere a modi di essere, non certo solo a segni arbitrari.
Sono costretto a segnalare un' altra contraddizione. "anche se questa cosa è lì presente, il nome la chiama e la chiama perché quello che chiama non c'è mai davvero"
Non c'è contraddizione, perché il nome non è la cosa che chiama. Il "cavallo" evoca un cavallo che anche se ci fosse un cavallo in carne e ossa qui davanti, non è quel cavallo in carne e ossa. E' sempre un assenza che il nome comunque evoca chiamandola.

CitazioneNon vedo alcuna inconciliabilità degli accenni ipotetici che proponi sull' origine del linguaggio con una scelta arbitraria e convenzionale.
L'inconciliabilità sta nel pensare che quel mettersi insieme ad esempio a modulare ritmicamente la voce partecipando di un'immediata comprensione comune sia una scelta arbitraria e convenzionale e non che tale possa apparire solo a posteriori




CitazioneInfatti la natura é come è indipendentemente dalla frase "la natura è come è, ecc.": la natura è come è sia che se ne parli in qualsiasi modo, sia che non se ne parli; non è come è dipendentemente dal modo di parlarne; ad esempio per dirne che è deterministica o meno, comprendente ippogrifi o meno: non è che dicendo che comprende gli ippogrifi accada che esistano in essa ippogrifi (questo potrebbe farlo solo Dio, se esistesse!).
Dunque vale anche il contrario: non è che dicendo che non comprende gli ippogrifi accade che  non esistano in essi ippogrifi? (non è che sia attaccato agli ippogrifi, è solo per rilevare l'assurdità di un certo realismo ingenuo per cui le cose e le cose dette sono sempre ben separabili per una mente ben raziocinante. Ingenuità che si rivela appunto in quella aggiunta: "la natura è indipendente da come la si dice", ma perdinci è così che la stai dicendo! E se la dici così, proprio perché lo dici e dando ragione a quello che hai detto, non vale nulla.
Citazionein quest' ultima mia affermazione, che infatti non è una mera tautologia c' è "qualcosa di più" che ritengo molto importante a livello ontologico e gnoseologico, e che constato tu continui a ignorare, confondendo due ben diverse nozioni, quelle di "realtà" e di "pensiero circa la realtà (o meno)".
Ma infatti: come se ci fosse una realtà dalla quale tutto è dicibile con verità! E dove sta questa realtà? Non sta forse solo nei discorsi che ne facciamo? non sta forse solo nel nostro attuale, contingentissimo dire di essa che pretende di dire che le cose stanno così e cosà perché sono così e cosà?
Noi non ci inventiamo mai nulla, le nostre idee, le nostre immagini, i sogni , le fantasie più assurde sono risultati, effetti necessari e reali di quello che c'è e quello che c'è è così che ci incontra. Il sogno più assurdo non sono gli ippogrifi, ma un io che possa volere e sappia decidere dall'alto della sua visione panoramica cosa è assolutamente (oggettivamente) vero o no. Eppure anche questa mostruosità fantastica, questa chimera ben più assurda di qualunque chimera-animale-divinità, esprime una realtà, esprime un reale significato, sia pure con conseguenze sempre terribilmente nefaste.

CitazioneIl nome è irrilevante per la natura, che tanto non ne dipende nel suo modo di essere, ma è rilevantissimo per la conoscenza della natura, essendo necessario per pensarne, descriverne predicarne il modo di essere (predicazione che, se adeguata, veritiera, per definizione ne costituisce appunto la conoscenza).
Ed è appunto compito della filosofia indagare se e come (a quali condizioni, entro quali limiti, in che senso, ecc.) ciò possa accadere
Sì mai noi, comunque siamo nella natura, la scienza e la tecnico sono nella natura del mondo. Quindi se il nome per esse è rilevante, è rilevante pure per la natura di cui fanno parte. Non è che la scienza ci possa lanciare ad altezze siderali da cui godere tutto lo spettacolo della natura, come se non vi appartenessimo. La filosofia è questo che può e deve dirci, non se gli ippogrifi sono veri o no, ma perché un significato acquista senso reale e un altro lo perde e soprattutto ricordarci che il vertice del nostro sapere può solo essere sapere di non sapere, come già si era espresso Socrate più di 2 mila anni fa, contro tutte le pretesi di quelli (e in primo luogo noi stessi) che credono di sapere di sapere, mentre solo non sanno di non sapere.
#565
CitazioneSono costretto a ripetere che per definizione le "cose" in generale non significano nulla (né collettivamente, intersoggettivamente, né privatamente, individualisticamente): sono (accadono), se e quando sono (accadono), "e basta"!
Sono le cose in generale e prive di significato (ossia le cose in sé) che non esistono proprio (nel senso letterale che non appaiono in alcun modo). Questo non significa che non siano, accadono con grande probabilità tantissime cose in questo preciso istante che non ci appaiono, ma quelle innumerevoli cose prive di significato e di nome, sono lo sfondo su cui qualcosa invece appare e apparendo esiste per noi tutti e non in sé, non "oggettivamente". Lo schermo che immagino tu abbia davanti agli occhi, mentre leggi queste mie righe (e su cui ho ora attirato la tua attenzione per fartelo apparire dallo sfondo in cui non appariva) non è originariamente una cosa in sé senza significato e senza nome, ma, nel momento in cui appare appare già con il suo significato che dice cos'è. E questo significato ha come simbolo pubblico (per tutti noi), quel nome che ben prima di denotarlo e definirlo, lo connota e lo evoca.
Citazioneda dove salta fuori quel nome? Dal cappello del prestigiatore? Da Dio? Dal nulla?
Salta fuori originariamente dal contesto dei parlanti che vivono insieme e praticano quotidianamente le stesse cose.
Come ipotesi potrei dire che forse accade qualcosa di simile al canto degli uccelli o ai vari versi che emettono i cani e i lupi a seconda delle situazioni. Un cane non inventa che un suono latrante ha un certo significato, guaire un altro ecc., esattamente come nessun bambino si inventa il suono del pianto o del riso per poi mettersi d'accordo con gli altri sul suo significato. La comunità di appartenenza riprende quei suoni e risponde con altri suoni complementari (succede anche ai genitori con i bambini piccoli, finché non decidono di interpretare il loro ruolo sociale di correttori). Nell'essere umano ci sono possibilità di fonazione assai superiori a quelle di qualsiasi altro essere vivente, ma non solo, c'è soprattutto una capacità simbolica condivisa, che vive di una simbologia comune di significati. Così la combinazione dei suoni che un uomo emette (che non sceglie lui, così come non si sceglie né si concorda su che suono emettere quando si ride o si piange, né lo si impara perché si sia udito nel cielo una risata stridula o baritonale con sotto scritto "questo è il suono da riprodurre quando sei allegro") può presentarsi a tutti come un simbolo per quella situazione, per quell'accadimento e acquisire una capacità evocatrice autonomamente persistente. La parola, il nome è un'evocazione per qualcosa che non c'è, significa "chiamare insieme la presenza di ciò che manca". Il nome non è mai la cosa che denota proprio per questo, anche se questa cosa è lì presente, il nome la chiama e la chiama perché quello che chiama non c'è mai davvero. In origine, come avevo già detto, forse il linguaggio è stato solo una specie di balbettamento da ripetere ritualmente insieme accogliendone il significato, senza scegliere cosa dovesse significare, già significava evocando per risonanza tra parlanti che vivevano intimamente insieme senza  dover concordare nulla per capirsi. Forse il linguaggio è nato come un canto evocativo e ritualmente ripetuto, un canto le cui espressioni foniche prese di per sé non significavano nulla (solo una modulazione vocale, che gli altri potevano sentire), finché non ci si è messo a cantarlo insieme facendosi anche il contrappunto e insieme variandolo qua e là, ma non troppo.
CitazioneLa frase "la natura è come è, indipendentemente da come la si dice" non è affatto contraddittoria

Ripeto, dato che "la natura è come è, indipendentemente da come la si dice" è una frase che dici riguardo alla natura, se è vera, la natura per come è, è indipendente pure da questa frase che dici di essa, la natura è cioè indipendente dall'essere indipendente da come la si dice (dato che lo dici). Basterebbe allora dire "la natura è come è" (per quanto anche questo è sempre qualcosa che solo si dice, ma almeno fino a qui non sembra contraddittorio), ma dirlo non vuol dire nulla (Anche se Severino ci vedrebbe la prova dell'eternità della natura per come è), dato che qualsiasi cosa, pure gli ippogrifi, sono come sono (e in qualche modo sono, anche se qui e ora non ce li troviamo davanti in carne e ossa. Perché come non appaiono cose senza significato, così non possono apparire significati senza qualcosa a cui poterli riferire fossero anche solo immagini di un sogno o giochi della fantasia nostri o altrui). Ma se il come si dice la natura è del tutto irrilevante dato che conta solo come è, tanto vale non dire nulla (anzi meglio non dire nulla evitando di dire come la natura non è credendo, per averlo detto, che lo sia), ma allora perché continuiamo a dirla, a spiegarla e a interpretarla? Non è che qualcuno (o più probabilmente tutti) pensa di dirla, nel modo suo, proprio per come è, ossia per come gliela hanno detta essere come è? Sempre si ritiene (tu, io, chiunque altro, fosse anche il più relativista e scettico) che come la si dice (come il contesto ha insegnato a dire) dica come davvero stanno le cose. E in base a cosa si può pensarlo?
#566
Il significato di arbitrario è legato a un punto di discussione filosofica basilare e molto più generale: l'esistenza del libero arbitrio. Nello specifico la domanda è se vi sia o meno libero arbitrio nella scelta dei nomi e nel linguaggio. Ancora più radicalmente il problema coinvolge l'effettiva esistenza di un soggetto (un io) che in quanto tale possa esercitare delle scelte (con riferimento alla critica di Spinoza a Cartesio).
Tu dici che "arbitrario" non significa "immotivato" né "casuale" e sono d'accordo, ma quali sono i motivi che portano il soggetto a una certa scelta anziché a un'altra? Li sceglie lui, fermo restando che avrebbe potuto scegliere in modo diverso? A me sembra piuttosto evidente che non li scegli lui tra una serie equivalente (casuale) di possibilità, ma li determina nella loro prevalenza il contesto in cui esiste e questo contesto esprime già un accordo tra i soggetti che vivono in esso, poiché usano gli stessi strumenti, esercitano le stesse prassi, hanno in comune gli stessi riferimenti simbolici e quindi le stesse conoscenze e prospettive di significato. Nel caso specifico dei nomi e del linguaggio quando dico che la cosa si mostra con il suo nome non dico nulla di metafisicamente arcano, ma semplicemente che la cosa viene subito colta nel suo significare collettivo, intersoggettivo e questo significare è espresso pubblicamente da un nome che emerge e trae il suo senso comunicabile dall'insieme dei parlanti senza che vi sia nulla di arbitrario o concordato per tentativi. Nessuno dei parlanti esercita delle scelte, nessuno dei parlanti agisce arbitrariamente e nessuno dei parlanti in quel contesto è poi chiamato a stipulare accordi con altri parlanti per potersi intendere, perché si intende già e quel nome solo rende pubblica quell'intesa.
E' proprio in questo modo che noi ci parliamo ed è sempre stato così, poiché l'essere umano nasce con il linguaggio, non nasce prima del linguaggio per istituirlo in seguito concordando sui termini da usare. Nessun uomo, nessun ominide, nessuna scimmia che potesse parlare ha mai originariamente stabilito alcun accordo, né ha mai scelto o inventato alcun segno (vocale o di altro tipo) a suo arbitrio, perché è stato il contesto in cui viveva a imporglielo mentre in quel contesto, e non nel vuoto assoluto, qualcosa accadendo emergeva già con il suo significato particolare, ossia con quella particolare espressione prospettica in cui si mostrava accadendo. Il nome non è originariamente che il segno sonoro pubblico (che coinvolge tutti gli udenti parlanti) di qualcosa che accade in un certo modo (proprio come una forma e un colore con tutto il loro significato emotivo sono segni visivi e soggettivi di quel medesimo accadere) e questo suono ci dice a tutti che qui e ora quel qualcosa significa (è un simbolo per)  questo e non quest'altro.
E proprio poiché quel suono simbolo di un particolare accadere lo sentiamo intimamente nostro nella sua originaria risonanza pubblica e collettiva che possiamo poi credere a posteriori che quella cosa avremmo potuto indifferentemente chiamarla in modo diverso, ma non è così e non è così perché così è stata chiamata e potrà essere chiamata (al futuro, non al condizionale passato) in modo diverso quando il contesto in cui accade la farà apparire in modo diverso e questo "modo diverso" sarà allora necessariamente e non arbitrariamente espresso da un nuovo nome che ne darà un significato collettivo, pubblico e per nulla arbitrario.

Per quanto riguarda la tautologia, filosoficamente ognuno è libero di uscirne, ma se ne esce deve dimostrare di non contraddirsi. La frase che avevo indicato come contraddittoria è "la natura è come è, indipendentemente da come la si dice", dato che in tutta evidenza, mentre proclamiamo la natura essere indipendente da come la si dice, la si dice tale pretendendo che quanto si dice dica come è certamente la natura!
Ma ora precisi:
CitazioneNon dico che la natura è "indipendente da come la si dice (quindi compreso anche come la sto dicendo io)", bensì che è come è indipendentemente dal fatto che il suo essere come è comprenda (ipoteticamente, fra l' altro) me che lo dico (che parlo della natura) oppure (come ipotesi alternativa) che non lo (mi) comprenda
Allora se semplicemente intendi dire che la natura è come è, che comprenda o meno il "come la si dice", che fine fa il "come la si dice" su cui stiamo discutendo e quindi dicendo? e che fine fa tutta quello che pensiamo di poter dire e quindi di sapere e spiegare sulla natura? Wittgenstein arrivò a concludere che ciò di cui non si può dire (in questo caso la natura) bisogna tacere, ma anche così aveva detto troppo, quindi non resterebbe che un assoluto silenzio, forse il silenzio assoluto dell'Essere. E' questa la realtà? Se lo è, a questa domanda può solo seguire, per coerenza, il silenzio.
#567
CitazioneLa tendenza sembra quella del formarsi di una élite sempre più ristretta e specializzata di tecnici le cui conoscenze diventano sempre più inaccessibili, per complicazione, alla massa.
Sì, questo è un punto di riflessione molto importante, collegato al ruolo demiurgico che assume il tecnologo. La tecnologia ha sempre cambiato l'umano con i suoi prodotti, ma lo ha fatto indirettamente, attraverso i mezzi che offriva e questo poteva consentire un maggior tempo di adattamento, ma qui, agendo sul genoma, il cambiamento viene direttamente stabilito.
Ovviamente non è possibile rifiutare una simile offerta tecnologica, qualsiasi resistenza si rivelerà velleitaria a fronte delle possibilità che offre.
Fermo restando che la cosa è assai complessa e con grossi margini di rischio in quanto i geni lavorano insieme. Una piccola modifica a una singola porzione del genoma per aumentare la resistenza a una malattia può determinare l'insorgenza di malattie più gravi e impreviste (ad esempio lo sviluppo di tumori). Un po' come quando si introduce nell'ambiente un organismo geneticamente modificato  che, nelle condizioni controllate di laboratorio, appare funzionare in modo ottimale e prevedibile. 
#568
Citazione di: sgiombo il 13 Ottobre 2016, 18:22:56 PM
Di qualunque "cosa" (soggetto di predicato; anche della natura) dire (predicare) che é come é (ovvero ciò che é) é una tautologia.
E infatti io non mi sono limitato a questa tautologia, ho invece affermato che é come é indipendentemente dal se e come la si pensa essere: appunto, la natura é ciò che é ovvero come é indipendentemente dal fatto che questa affermazione venga avanzata o meno (lo sarebbe anche se non lo dicessi: senza che ne faccia parte questo pensiero o facendone parte questo pensiero, in entrambi i casi tautologicamente sarebbe come é).
La tautologia al massimo può essere: "la natura è come è", ma se ci aggiungi che è "indipendente da come la si dice o la si pensa" non è più una tautologia, perché nella tautologia non c'è nulla che implichi che essendo com'è il "com'è" non comprenda come la si dice e la si pensa. Introduci quindi una specificazione (di cui sei lecitamente convinto) che però non è implicita nella semplice tautologia A=A. Stai dicendo qualcosa in più, ossia come è A (ossia specifichi la natura di A), stai dicendo che A è questo e non quello. Ma soprattutto è una evidente contraddizione dato che lo dici, mentre sostieni che la natura è indipendente da come la si dice, quindi compreso anche come la stai dicendo tu, a meno che non intendi il tuo dire sulla natura escluso dalla regola che tu stesso hai enunciato.

CitazioneOvviamente li ho appresi (a parte "Asiafrica"): mica sono un grande poeta o un autore di scoperte scientifiche!
Dante e Galileo e tanti altri hanno coniato ex novo del tutto arbitrariamente più di una parola.
O credi che Galileo "Pianeti Medicei" l' abbia letto al telescopio scritto su uno dei satelliti di Giove a mo' di etichetta su una merce del supermercato?!?!?!
E Amerigo Vespucci (o chi per esso) "America" l' abbia letto sulla collina di Hollywood come la scritta (peraltro altrettanto arbitrariamente arbitrariamente appostavi da qualcun altro) "Hollywood"?!?!?!
Ma nessuno ha mai inventato le parole scegliendole liberamente a caso, ma sempre secondo un significato nato da altri nomi con i loro significati. Asiafrica è la combinazione di Asia e Africa, nomi che hanno già un preciso significato sulla base del quale intendo cosa indichi con quel nome, lo stesso "Pianeti Medicei", mica Galileo si è messo a emettere suoni a caso e poi ne ha scelta una combinazione a piacere tra le tante che gli uscivano dalla bocca per chiamare così quelle cose che vedeva con il cannocchiale, e Amerigo Vespucci (se davvero fu lui) ha chiamato l'America così in relazione al suo nome, quindi anche qui il motivo c'era. Poteva chiamarla diversamente? Forse, ma quel nome riflette la sua reale relazione con la cosa che ha nominato, proprio così e non in altro modo e nasce già con un preciso e chiaro significato.


CitazioneCerto, ovviamente, con i fonemi che stavano arbitrariamente inventando!
L' accordo l' hanno probabilmente trovato spontaneamente, senza istituire una apposita "commissione per lo stabilimento dei fonemi" (cosa che invece accadde quando fu inventata la lingua indonesiana, attualmente parlata da centinaia di milioni di persone).
E come hanno fatto a trovare l'accordo spontaneamente se ognuno si creava i suoi fonemi a caso senza che ve ne fossero altri per intendersi? Con quali fonemi si capivano per potersi mettere d'accordo?


CitazioneChe ha imparato a simboleggiare le varie cose (i concetti denotanti cose; oltre a quelli puramente immaginari, privi di denotazione reale) con parole arbitrariamente stabilite.
Nessun nome è privo di significato e nessun significato è immaginario (se per immaginario intendi del tutto arbitrario e quindi insignificante), a intenderlo per quello che davvero significa.

CitazionePerfettamente coerente con l' arbitrarietà dei nomi delle cose e non con il preteso, mitico "apparire delle cose con i loro nomi già incoporati".
Eppure anche in quello sketch, il motivo per dire "sarchiapone" c'era: https://it.wikipedia.org/wiki/Sarchiapone v. origine del termine. E quel motivo dà la realtà della cosa che ha come nome sarchiapone nel contesto in cui si è usato quel nome, ossia cosa davvero è.
CitazioneIn compenso ti posso fare l' esempio dei nomi italiani delle località sudtirolesi (fra l' altro la stessa denominazione di "Alto Adige"; o Vipiteno per Stertnzig o giù di lì, non so di preciso), che furono inventati di sana pianta durante il fascismo (noto, fra le altre sue colpe, per l' esasperato imperialismo e nazionalismo d' accatto) e "decretati per legge", ed oggi sono di fatto comunemente usati (perfino da gran parte delle popolazioni locali, accanto ai corrispondenti tponimi tedeschi).
Ma ti sembra che "Alto Adige" o "Vipiteno" usati per sostituire i nomi tedeschi siano stati scelti così, arbitrariamente emettendo suoni a caso con la bocca? O non rappresentavano piuttosto qualcosa (e qualcosa di ben reale e significativo) di quello che indicavano?
#569
Studiando il meccanismo con cui alcuni batteri riescono a difendersi dai virus inglobandone parti del codice genetico e usandolo poi per costruire filamenti di RNA guida con attaccata una proteina che funziona come una specie di bisturi chirurgico sul codice genetico di un virus invasore simile, recentemente è stato scoperto il modo per tagliare e modificare con grande precisione il codice genetico di qualsiasi cellula, consentendo di indurre le modificazioni desiderate in tempi enormemente più brevi e con costi notevolmente inferiori rispetto ai vecchi sistemi. Questa tecnologia (CRISPR) offre dei vantaggi di grande efficacia ed economicità (è praticabile in un qualsiasi laboratorio): ad esempio per aumentare la resistenza dei prodotti agricoli, per estinguere definitivamente specie parassite (come le zanzare che portano la malaria), ma soprattutto potrebbero eliminare malattie genetiche specifiche e permettere di studiare molto più rapidamente e quindi risolvere malattie che coinvolgono un numero elevati di geni come la distrofia muscolare, l'HIV, il cancro ai polmoni, l'autismo, l'alzheimer, fermare o addirittura invertire il processo di invecchiamento, senza far ricorso alle tanto controverse cellule staminali degli embrioni. I cambiamenti indotti, anche in organismi già adulti, si trasmetterebbero infatti alle generazioni successive e gli esseri umani potrebbero giungere a progettare e crearsi un DNA su misura, come viene spiegato in questo filmato (si possono impostare i sottotitoli in italiano da impostazioni): https://www.youtube.com/watch?v=jAhjPd4uNFY.
Anche se non in tempi brevi non vi è dubbio che la rivoluzione delle biotecnologie sta aprendo scenari meravigliosi e inquietanti sul futuro del mondo e del genere umano a cui si accompagnano problemi etici di portata enorme (ad esempio possiamo tranquillamente sterminare una specie di zanzare introducendo una mutazione nel loro DNA che faccia sì che possano generare solo prole maschile? http://comune-info.net/2016/09/quella-specie-dannosa-va-estinta/
E se un giorno davvero sarà possibile, come in linea di principio appare sempre più alla portata, possiamo sentirci tranquilli riguardo alle possibilità di progettare una sorta di specie umana perfetta o questo determinerà situazioni sociali esplosive con tutti i rischi che una simile attività demiurgica comporterebbe? O finiremo con l'adeguarci al nuovo stato di cose, a trovarlo del tutto normale, un po' come ci siamo adattati alla comunicazione a mezzo internet, per quanto essa ci abbia cambiato?
#570
Scusa Sgiombo, ma dicendo che la natura è come è, indipendentemente da come la diciamo, stiamo dicendo proprio qualcosa della natura e non è nemmeno una tautologia, (la tautologia sarebbe che la natura è la natura, senza ulteriori specificazioni su ciò che è o non è, che se ci si mettono vanno ad aggiungersi debitamente o indebitamente). Ma il punto è che proprio assumendo per vera tale affermazione essa si dimostra completamente insignificante (ossia se è vera è falsa). Se la natura è indipendentemente da come la diciamo, ora che diciamo questo della natura, stiamo dicendo qualcosa da cui la natura è del tutto indipendente, proprio per come la si è detta.
CitazioneIo non ho mai visto alcunché di naturale (di non fatto appositamente, intenzionalmente in siffatto modo da uomini) che apparisse alla mia vista insieme a una scritta (o alla pronuncia di un vocalizzo) costituita (-o) dalla parola (in che lingua?!?!?!) con cui si è invece deciso arbitrariamente (essendo più o meno esplicitamente consapevoli dei questa decisione arbitraria a seconda dei casi) di chiamarla (proprio come nello sketch si è finto fosse stato deciso di chiamare così l' inesistente sarchiapone: l' unica differenza, fra il sarchiapone e il mio gatto Attila è che il primo non esiste, il secondo per mia fortuna sì: non riguarda in alcun modo la loro rispettiva denominazione, la quale, nella realtà nel secondo caso, nella finzione artistica nel primo, è stata comunque arbitraria).
Niente appare con una scritta con il suo nome sotto, ma questo non significa che i nomi li mettiamo noi come ci pare e infatti neppure questo accade. Hai forse mai messo a tuo arbitrio dei nomi a delle cose o non li hai forse appresi? Pensi che gli uomini di decine di migliaia di anni or sono si siano messi a pronunciare fonemi a caso e poi si siano messi d'accordo su cosa dovessero significare? E con che linguaggio lo avrebbero fatto? Con gli stessi fonemi su cui dovevano ancora concordare?
I nomi vengono dal contesto culturale e sociale che conosce i significati che ha imparato a conoscere nel vedere e usare le cose. I nomi variano, certo, a seconda di cosa si vede, come lo si percepisce e lo si usa, a seconda di quale parte della cosa appare o meno come rilevante e per questo quando qualcuno dice un nome che non conosco ("sarchiapone" ad esempio), è ovvio che cerco e immagino la cosa che quel nome penso indichi, non denotandola, ma evocandola sulla base di riferimenti ad altri suoni di cui già so e sappiamo il significato.

P.S. tra l'altro pare che il sarchiapone esista, in dialetto napoletano e abruzzese, ma non è un animale.