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Messaggi - davintro

#556
Tematiche Culturali e Sociali / identità europea
14 Giugno 2016, 18:29:11 PM
Al di là del fatto di esserci progressivamente dotati di una struttura politica comune come l'Unione Europea, avente una certa similarità con l'ordinamento politico dei singoli  stati nazionali (dotata di un parlamento, una presidenza un'organo esecutivo come la Commissione) ancora sembra lontano il formarsi di un autentico senso di appartenenza europeo da parte dei popoli che vivono nello spazio politico comune. Italiani, francesi, tedeschi, inglesi sembrano sentirsi ancora molto più legati culturalmente alle loro singole identità nazionali piuttosto che sentirsi interiormente europei. Limitarsi a riconoscere come difficoltà primaria le grandi differenze culturali e di mentalità storicamente sedimentate è certamente corretto ma ancora non ci aiuta a dare una risposta plausibile al problema

Pensiamo agli USA. La distanza di cultura e valori che separa un italiano da un danese o un greco da un tedesco non è poi tanto più ampia di quella sussistente tra un contadino dell'Alabama o dell'Arkansas profondamente religioso e credente in un'interpretazione letterale della Bibbia e un intellettuale newyorkese di tendenza progressista che ha studiato ad Harvard o Yale... eppure siamo abituati a considerare gli USA a differenza dell'UE come un tutt'uno, una nazione unita. E in effetti la cultura americana è fortemente impregnata di patriottismo e da ciò deriva la stabilità delle istituzioni federali centrali. Ma è sempre stato così? In realtà mi sembra che l'evento storico che ha segnato all'avvento di un processo di un'autentica unità politica e un auntentico sviluppo di un'identità culturale unitaria del popolo USA sia stata la guerra di Secessione. Prima di essa in fondo la situazione politico-culturale degli USA non era poi così dissimile da quella dell'UE attuale: grandi poteri lasciati ai singoli stati ciascuno dei quali impegnato a perseguire politiche autonome contrapposte tra loro. L'avvento di condizioni storiche favorevoli a un conflitto armato dai due modelli contrapporti, il Sud latifondista e agricolo e il Nord industriale e capitalista, ha portato alla distruzione del modello sudista e il trionfo di quello nordista come unico possibile. Da lì si è innestato quel processo per cui gli americani hanno sviluppato un vero senso di appartenenza a una nazione comune e il potere federale centrale si è rafforzato intorno a un modello politico-economico-sociale-culturale vincente che ha soppiantato il modello concorrente aristocratico-latifondista: il modello nordista capitalista celebrante la figura dell'individuo impegnato alla ricerca del successo economico con le sue doti di attivismo imprenditoriale, il mito del self-made-man. Oggi a parte qualche sventolare di bandiere confederate nessuno nel Sud si sognerebbe di riprovare la secessione: sanno che quel modello ormai si è rivelato perdente, ci hanno provato, è andata male, basta così. Quasi "hegelianamente"l'unità politica-culturale si è formata come sintesi dialettica che ha necessitato di passare per il "momento negativo" del conflitto e del conseguente rischio di dissoluzione. La sintesi si è realizzata attraverso l'antitesi

Questo ci appare come un precedente inquietante: la formazione di una coscienza nazionale europea dovrà passare come quella americana per una guerra, un conflitto attraverso il quale i vincitori imporrano le loro idee agli sconfitti? Certo, non ncessariamente. Più realisticamente  credo che dovranno maturare determinate condizioni storiche per le quali un singolo paese europeo o anche un insieme, un'alleanza di paesi, possa giungere ad un livello di forza e di prestigio politico sulla scena non solo europea ma anche mondiale di molto superiore agli altri paesi europei cosicchè, nel tempo, progressivamente questi altri paesi, i loro governi, i loro popoli finiranno con l'accettare questo predominio e riconoscersi in un unico concetto di Europa presentato da chi detiene il predominio. Le difficoltà che si mostrano in questo processo di costruzione di un'identità unitaria europea potrebbe derivare (solo un mia ipotesi) dalla condizione attuale di relativo equilibrio geopolitico nel quale nessun paese europeo sembra tanto più forte e influente degli altri al punto di orientare in modo unitario una politica comune, estera, economica e presentare un modello culturale e valoriale unico intorno a cui comunemente riconoscersi. Probabilmente la Germania appare come lo stato europeo più forte, ma non lo è al punto che un governo  francese, italiano, inglese debbano perdere le speranza di un futuro "sorpasso" e nell'attesa continuare a operare politiche nazionali autonome e non coordinate in modo europeo e i singoli popoli  debbano rinunciare a riconoscere il loro stile di vita, i loro valori, la lorso storia come qualcosa da conservare  come separato e vedere la "cultura europea" come una vuota astrazione indeterminata oppure come una mera sommatoria disordinata di mentalità diverse tra loro conflittuali. Pensiamo alla stessa costruzione dell'unità nazionale tedesca: non è certo sorta magicamente attraverso una pacifica volontà di armonia della miriade di statarelli della Confederazione germanica, ma attraverso le conquiste di un soggetto politico più forte degli altri (la Prussia di Bismark) che grazie alla sua superiorità ha creato l'unità politica e culturale della Germania.

Tutto ciò può insegnarci, da un lato, ad accantonare un'accezione troppo romantica ed ingenua del concetto di "unità culturale" qualcosa che si realizzerebbe attraverso un'armonica fusione delle differenze,  ma come qualcosa che il più delle volte si dà attraverso i rapporti di forza per cui un sistema di valori si impone su altri che ad esso si contrappongono, dall'altro lo stretto collegamento tra la forza e la stabilità di sistemi e strutture politiche e un livello di omogeneità culturale che si sviluppa storicamente nel corso dell'esistenza dei popoli e dei rapporti con cui questi entrano in contatto reciproco
#557
Tematiche Filosofiche / Re:Che cos'è la verità?
13 Giugno 2016, 16:58:41 PM
Citazione di: cvc il 13 Giugno 2016, 16:31:27 PM
Citazione di: davintro il 13 Giugno 2016, 15:43:47 PMLa metodologia è un mezzo, uno strumento da utilizzare, per un fine, che è, in sede filosofica, la scoperta della verità, ma non può mai essere fine a se stessa. Io teorizzo epistemologicamente un metodo di ricerca perchè ho l'obiettivo di arrivare ad un risultato che è la conoscenza della verità. Se avessi perso la fiducia nella possibilità di raggiungere tale conoscenza,a che pro affannarmi a definire un metodo migliore di ricerca? La necessità del metodo sorge non dalla perdita di fede (o fiducia) nell'obiettivo, ma dalla coscienza di difficoltà ed ostacoli che vanno rimossi, e la rimozione presuppone il superamento di una condizione esperienziale meramente ingenua, spontanea, premetodica. Non si può dire che la riflessione sul metodo sostituisca quella sulla verità o sul sul senso delle cose, perchè si tratta di due aspetti correlati. Se io in sede epistemologica prediligo la logica deduttiva a quella induttiva ciò ha dirette implicazioni sulla visione ontologica: se per me il metodo di ricerca della verità è deduttivo è perchè pongo come punto di partenza della ricerca un'apriorità del discorso (da cui poi dedurre) che colgo perchè a tale apriorità corrisponde una verità e un senso delle cose, appunto, "a-priori", trascendente la realtà contingente, vale a dire il riconoscimento di un livello dell'essere metafisico. Mentre una metafisica su base induttiva è assurda. In pratica per ogni metodologia è sempre sottesa, magari implicitamente e senza piena consapevolezza da parte dell'epistemologo stesso che teorizza il metodo, un'opzione ontologica, cioè una tesi sulla verità delle "cose stesse". Per ogni metodo corrisponde un aspetto, un livello della realtà all'interno del quale considerare la verità
Sono d'accordo che la metodologia non è fine a se stessa. Ma la metodologia oggi sporge di gran lunga sulla filosofia, perché tante piccole verità certe sono preferite ad una grande verità non verificabile. La scienza avanza al motto di 'dividi et impera'. Tanto è vero che il concetto di grandezza oggi si è perso tranne che nell'accezione di valore relativo.

ma la stessa idea del "dividi et impera" ha alle spalle un'idea della totalità: se penso che la ricerca della verità consista nell'assommare tante piccole verità, scartando una visione globale, è perchè rifiuto una concezione dell'essere di tipo olistico: rifiuto un olismo ontologico secondo cui "il tutto è più della somma delle parti", in favore di una visione frammentata e atomistica della realtà in cui ogni singola parte va trattata separatamente dalle altre per poi operare una riunificazione meramente addizionale ed esteriore, senza considerare un complesso di relazioni che lega ogni singola parte al tutto e che dovrebbe porre come assurda l'idea di comprendere la parte come isolata dal resto. Una concezione atomista e antiolistica che, condivisibile o meno, è comunque pur sempre un modello ontologico, cioè filosofico, a cui è correlata una certa metodologia. La metodologia non "fuoriesce" dalla filosofia perchè  è parte integrante e basilare di questa
#558
Tematiche Filosofiche / Re:Che cos'è la verità?
13 Giugno 2016, 15:43:47 PM
La metodologia è un mezzo, uno strumento da utilizzare, per un fine, che è, in sede filosofica, la scoperta della verità, ma non può mai essere fine a se stessa. Io teorizzo epistemologicamente un metodo di ricerca perchè ho l'obiettivo di arrivare ad un risultato che è la conoscenza della verità. Se avessi perso la fiducia nella possibilità di raggiungere tale conoscenza,a che pro affannarmi a definire un metodo migliore di ricerca? La necessità del metodo sorge non dalla perdita di fede (o fiducia) nell'obiettivo, ma dalla coscienza di difficoltà ed ostacoli che vanno rimossi, e la rimozione presuppone il superamento di una condizione esperienziale meramente ingenua, spontanea, premetodica. Non si può dire che la riflessione sul metodo sostituisca quella sulla verità o sul sul senso delle cose, perchè si tratta di due aspetti correlati. Se io in sede epistemologica prediligo la logica deduttiva a quella induttiva ciò ha dirette implicazioni sulla visione ontologica: se per me  il metodo di ricerca della verità è deduttivo è perchè pongo come punto di partenza della ricerca un'apriorità del discorso (da cui poi dedurre) che colgo perchè a tale apriorità corrisponde una verità e un senso delle cose, appunto, "a-priori", trascendente la realtà contingente, vale a dire il riconoscimento di un livello dell'essere metafisico. Mentre una metafisica su base induttiva è assurda. In pratica per ogni metodologia è sempre sottesa, magari implicitamente e senza piena consapevolezza da parte dell'epistemologo stesso che teorizza il metodo, un'opzione ontologica, cioè una tesi sulla verità delle "cose stesse". Per ogni metodo corrisponde un aspetto, un livello della realtà all'interno del quale considerare la verità
#559
Tematiche Filosofiche / Re:Che cos'è la verità?
08 Giugno 2016, 00:28:59 AM
Rispondo a Maral:

Certamente sono possibili tante definizioni diverse di verità, dato che le definzioni sono una convenzione. Ma se si vuole dialogare occorre adottare per ogni concetto espresso una definizione univoca tale che le parole che uno scrive abbiano per chi scrive lo stesso significato che intende chi legge, pena l'incomprensione. Quindi dal punto di vista della comunicazione, non da quello teoretico, la soluzione più efficace è quella di affidarsi al senso comune entro il quale le parole hanno quel significato e non un altro. Le definizioni sono certamente stabilite a posteriori, ma sono apriori comunicative. L'obiettivo del dialogo filosofico non è quello di stabilire se una certa definizione di verità e migliore o peggiore di un'altra, dato che, essendo le definizioni il frutto di una convenzione, non ha senso pensare a definizioni migliori o peggiori in senso assoluto, ma mostrare le implicazioni logiche deducibili da un complesso di concetti a cui per ragioni comunicative associamo definizioni, l'obiettivo non è dare definizioni, rifare il dizionario, mera terminologia, (anche se una riformulazione linguistica è certamente un esito possibile di una chiarificazione della visione delle cose stesse, ma si tratterebbe perlopiù di un "effetto collaterale") ma riconoscere razionalmente come da una certa definizione di verità discendano certe implicazioni gnoseologiche, ontologiche, morale

Io non sono la mia angoscia. Se lo fossi non potrei tematizzare l'angoscia nè come come esperienza vissuta di me come singolo individuo nè come concetto generale. Questo perchè il rivolgersi intenzionale verso un tema presuppone una condizione di distacco tra me come soggetto dell'atto di rivolgersi e il tema verso cui mi rivolgo. Se io coincidessi pienamente con il tema non sarebbe possibile il rivolgersi intenzionale, giacchè io sarei già da sempre nel tema senza nessun tendere verso esso, di fatto senza nessun dinamismo della mia vita interiore: la coincidenza indica sempre staticità. L'angoscia non coincide con la mia essenza di Io puro soggettivo in quanto il mio essere angosciato non era in me nel passato e potrei non esserlo più in futuro, l'essere angosciato è una mia accidentalità, la mia coscienza è un susseguirsi temporale di diversi vissuti psichici, dalla tristezza, alla rabbia, alla serenità, alla gioia tutti provenienti dal mio io. Il mio Io si concretizza nell'essere la fonte originaria del complesso di queste esperienze, ma è autonomo da ciascuno di essi e ciò permette il passaggio da uno all'altro, nessuno di essi è per me l'unico possibile: ciò è la conseguenza della distinzione tra l'Io puro come soggetto e i contenuti di questi vissuti, oggetti da cui l'Io può distogliersi o tendere verso essi, non si esaurisce in nessuno di essi. Non solo: se l'angoscia fosse per me la condizione naturale del mio essere non mi procurerebbe sofferenza: l'esperienza insegna che ogni sofferenza presuppone l'idea della possibilità del suo superamento: la rassegnazione ci restituisce la serenità. Perchè l'angoscia provochi sofferenza è necessario pensarla come accompagnata dal riconoscimento di un'alternativa, una condizione di serenità, riconoscimento che mi fa soffrire proprio perchè indica l'alternativa di una serenità possibile ma non ancora reale. E nel semplice ammettere la possibilità dell'alternativa la mente soggettiva mostra il suo non essere mai del tutto assorbita nel suo vissuto attualmente presente, mostra la sua trascendenza da esso. Proprio perchè logica e fenomenologia, pur distinte, non sono del tutto separabili non si può ridurre la logica a una grammatica astratta, ma la si deve porre come struttura trascendentale imperniata sulla dialettica soggetto-oggetto che interviene sulla fenomenologia fissando i confini delle possibilità di questa. Io non posso effettuare una fenomenologia, cioè una descrizione intuitiva di un cerchio quadrato, proprio perchè è un concetto che la logica mi impone come autocontradditorio, cioè insensato. E la stessa logica mi impone di pensare ogni esperienza vissuta come implicante un atto originato da un soggetto ed un contenuto del vissuto oggetto di una coscienza rivolto verso di esso

Maral scrive:
"il soggetto che tematizza la propria gioia, se la tematizza non la vive per nulla e allora cos'è che tematizza? Forse solo il ricordo di quella gioia, la sua pallida traccia."

Perchè? Riflettere sulla gioia che provo non cancella l'intensità del vissuto, anzi è proprio l'intensità del sentimento che stimola il soggetto ad indagarne i motivi e gli aspetti in una riflessione oggettivante. Le mie accezioni di soggetto pensante e di soggetto senziente non sono due aspetti contradditori ed escludenti, sono due livelli, due strati compresenti della mia vita di coscienza che rendono a questa coscienza la sua complessità e la sua ricchezza. Magari l'uomo avesse il potere di cancellare od attenuare l'intensità di un vissuto semplicemente riflettendo su di esso! Di fatto non saremmo mai tristi perchè ogni qualvolta sentiamo giungere in noi la tristezza potremmo, tematizzandola in una riflessione, depotenziarla, fuggendo così da essa

Mi associo alle ultime affermazioni di Sgiombo sulla reciproca dipendenza di giudizi e sentimenti
#560
Tematiche Filosofiche / Re:Che cos'è la verità?
06 Giugno 2016, 21:20:45 PM
Rispondo a Maral:

Cosa sarebbe la "verità assoluta del mio amore?" Quale verità posso dire riguardo all'amore che posso provare, per esempio, per una persona? Posso dire che la persona  che amo "merita" di essere amata", posso dire che "io sono innamorato di questa persona", ma queste verità (o falsità) sono prese di posizione che pongo in atto nel momento in cui pongo il mio sentimento non più come situazione che mi assorbe, ma come fatto che io rendo OGGETTO di una valutazione, nel momento in cui io in un certo senso mi scindo tra "me" in quanto soggetto che che valuta e che pensa cose vere e false e "me" in quanto oggetto che diviene il tema della valutazione, l'incapacità di questo duplicarsi renderebbe impossibile il pormi come soggetto della verità

Maral scrive:
"Ammesso che sia mai esistito un giudizio puramente oggettivo che riguarda il vissuto (i giudizi oggettivi possono venire dati solo su preposizioni formali, come i teoremi matematici) e non piuttosto sempre condizionati dalla posizione soggettiva da cui si giudica. Anche la scienza riduce il concetto di oggettività a quello della costruzione di una soggettività condivisa, secondo un metodo applicabile in determinati campi e in altri no."

Mi sembra (possibile che abbia capito male) che si stiano un pò confondendo i piani del discorso. Per il problema della definizione della verità è sufficiente riconoscere in generale l'idea di un mondo oggettivo come ideale regolativo, criterio trascendentale in base a cui pensare un giudizio come più o meno adeguato, cioè più o meno vero. Il fatto (innegabile) del condizionamento della posizione soggettiva nella nostra conoscenza della realtà non smentisce il dato che noi in quanto soggetti pensanti siamo intenzionalmente rivolti verso un'oggettività che cerchiamo di riconoscere, intepretare, giudicare. La questione dell'impossibilità di raggiungere una conoscenza pienamente oggettiva è altra rispetto a quella di ammettere, al di là di tutte le possibili concettualizzazioni o interpretazioni, l'esistenza di una realtà oggettiva pensata genericamente che funga da criterio di definizione della verità. Il "quid", l'essenza, della verità resta indipendente dal fatto che gli uomini per i loro limiti intrinseci siano impossibilitati a giungere a una piena conoscenza di tale verità: per dire che l'uomo non giungerà mai a una verità oggettiva slegata dal condizionamento soggettivo devo ammettere A PRIORI l'idea di sapere in cosa consiste il concetto di "verità" e di "oggettività". E questa apriorità separa il problema della definizione della verità da quello delle possibilità umane di conoscerla nelle sue determinazioni concrete.

Così come bisogna stare attenti a distinguere il piano fenomenologico da quello logico: giustamente distingui l'angoscia, che non ha presente il suo oggetto dalla paura, in cui ciò è presente, ma l'angoscia è assenza di oggetto dal punto di vista fenomenologico, nell'impossibilità di associare a tale angoscia un contenuto determinato e specifico, è un vuoto che non riesco fenomenologicamente (cioè intuitivamente) a "riempire materialmente". Ma dal punto di vista logico e formale l'oggetto c'è: questo vuoto, questa indeterminatezza, nella misura in cui ne ho coscienza diviene oggetto. Oggetto e soggetto sono poli di una dialettica logica e trascendentale che regolano ogni tipo di esperienza, non hanno bisogno di un riempimento empirico per costituirsi. Qualunque cosa può essere oggetto e soggetto, l'essere oggetto e soggetto non dipende da delle qualità "materiali" delle cose, ma dal tipo di relazioni logiche e formali che legano le cose ad altro cose E nel momento in cui riconosco di essere io il soggetto che prova angoscia l'angoscia acquisisce anche un soggetto, così come riflessivamente riconosco me stesso come il soggetto della mia gioia. La gioia non ha bisogno di avere un motivo per divenire oggetto: è sufficiente che sia tematizzata da un atto riflessivo del soggetto che prova gioia rivolto verso il proprio stato psichico, l'oggetto della gioia non sarà il motivo, ma il vissuto stesso che definiamo "gioia".

Comunque non vorrei passasse l'idea che io sia una sorta di iperrazionalista che esclude ogni legame tra la verità e il piano estetico dei sentimenti. Il nesso c'è. A parte le banalità sentimentalistiche sull' "amore cieco" o "l'amore che fa perdere la testa", l'amore presuppone un livello di conoscenza (dunque di giudicabilità) di ciò che si ama, dunque chi ama è amante in quanto presume delle verità (a prescindere da eventuali errori o illusioni) su ciò che ama: il formarsi dei sentimenti è in un certo senso la conseguenza di giudizi in cui sosteniamo verità o falsita riguardo le qualità di ciò che amiamo, dunque, retrospettivamente, i sentimenti che provo possono illuminarmi circa delle conoscenze in me latenti che divengono escplicito e chiaro contenuto di coscienza e di attenzione, che però senza l'emergere del sentimento sarebbero rimasti "inconsci". In questo senso il sentimento è un fondamentale supporto per la scoperta della verità, ma non perchè i sentimenti determino i giudizi, ma al contrario perchè i sentimenti che provo si formano a partire anche (non solo) a partire dai giudizi. Semplificando molto il discorso si può dire che risalgo dagli effetti alle cause
#561
Freedom scrive:
"Credo che la sua libertà di fomentare l'odio vada contrastata impedendogli di parlare."

Io in linea teorica potrei anche essere d'accordo ( in parte) con il limitare la libertà di opinione di chi incita all'odio verso persone o categorie di persone in singoli casi...  il punto fondamentale è che nel momento in cui ammetto la possibilità per uno stato di intervenire nel limitare alla libertà di opinione in un singolo caso creo un precedente che nel futuro potrà legittimare ulteriori interventi repressivi contro qualsivoglia opinione che i governanti stabiliranno essere, dal loro punto di vista, inappropriata al di là del loro effettivo essere fonte di espressione di odio. In pratica si cadrebbe in un vero regime dittatoriale in cui i governanti stabiliscono cosa si può dire e cosa no usando l' "incitamento all'odio" come pretesto, maschera per attuare i loro interventi repressivi. Ecco perchè per difendere in generale una sacrosanta libertà bisogna conservarla sempre, di principio, a prescindere dai contesti: o tutto o niente. Come scritto prima: nulla impedisce agli oppositori di Salvini di combattere le sue idee non impedendogli di esprimerle ma cercando di controbatterle portando argomentazioni razionali. Se poi non si ha fiducia nell'intelligenza del popolo nel riconoscere la validità di tali argomentazioni non ha più alcun senso il valore della democrazia. Come dire: "siamo democratici e vogliamo la libertà delle persone, ma solo quando la libertà viene utilizzata in modo che piace a noi" Eh, no! un vero democratico accetta la libertà delle persone a prescindere dalle conseguenze e si rimette al principio di maggioranza: il torto e la ragione (a livello di legittimità politica) di Salvini dipende dal suo ottenere o meno la maggioranza del consenso del voto libero delle persone. Si parla del rischio di "incendiare la polveriera": probabilmente è un rischio reale (e comunque la sociologia non è una scienza esatta quindi non è possibile dare previsioni certe e aprioristiche delle conseguenze della circolazione di certe idee sulla società), ma io preferisco il rischio del caos che nasce dalla libertà degli individui piuttosto che un ordine, un'armonia di facciata frutto della repressione di un'elite che mortifica la libertà arrogandosi di stabilire chi ha il diritto di parola e chi no. Ma è ovviamente una mia preferenza personale che non conta nulla
#562
Citazione di: paul11 il 04 Giugno 2016, 16:35:58 PMFinchè non si conosceranno le basi "civili" di uno Stato, non si potrà che generare confusione. A casa tua sei libero di dire e fare quel che vuoi se non lede un diritto di un tuo familiare e se non rompi le scatole al tuo vicinato. Questo è il privato. Prova ad indire un'assemblea su una piazza della tua città senza autorizzazione e incitando alla violenza e al razzismo....poi mi dirai cosa sarà successo. Quello è suolo pubblico, non privato. Il pubblico è tutto ciò che attiene allo Stato e alla sua organizzazione diretta e indiretta compresi enti pubblici e funzione pubbliche nei suoi organismi attivi e sono comprese le strade pubbliche, le piazze, i beni demaniali, ecc. A casa tua con i tuoi amici puoi discutere di quello che vuoi, perchè ti sentono solo amici o parenti, sul suolo pubblico tutti possono ascoltarti. Il potere mediatico di un politico è parlare per giornali e televisori, vale a dire utilizzare i massmedia, Tu puoi parlare, tranne che in questo forum, a milioni di persone? Ecco quindi quella libertà di espressione che è ridimensionata nel privato e invece assurge ad un eco ancor più forte con i massmedia moderni. Quì sta un'ulteriore diseguaglianza sulla libertà di espressione e di pensiero. Il potere di un pensiero di poter raggiungere milioni di persone e in qualche modo influirne i loro pensieri. Quindi la commistione fra potere mediatico e potere politico, di scegliere quali politici pubblicizzare e altri no. Quando qualcuno abusa di un potere di un diritto ,qualcunaltro lo sta perdendo.

Quindi la distinzione privato-pubblico sarebbe dunque riconducibile a un mero piano di spazi fisici? La casa è il mio privato e la piazza è il pubblico? Ma se fossimo coerenti con tale assunto allora lo stato dovrebbe essere indifferente a ciò che avviene a casa mia e a non punirmi se a casa mia uccido e ferisco membri  della mia famiglia o amici e limitarsi a sanzionare come reato solo ciò che commetto quando sono fuori casa?  Ovviamente (e fortunamente) non è così... La distinzione tra privato e pubblico la intendendevo in senso generale, nel senso della sua visibilità non nel senso della proprietà: casa mia è proprietà privata ed entra solo chi ha il mio permesso ad entrare, la piazza è un luogo pubblico, è "proprietà statale", ma non nel senso di essere appannaggio di un potere esterno alla volontà dei singoli, che controlla tali singoli, ma nel senso che è proprietà comune, la piazza è di tutti. Se faccio una passeggiata con un mio amico in piazza ed esprimo delle idee dovrei autocensurarmi nel timore che ci sia qualcuno che possa ascoltarmi? Lo stato dovrebbe inviare agenti dei servizi segreti in incognito a spiare i discorsi che fa la gente mentre cammina in piazza? E quando sono al bar e voglio parlare di politica ad un tavolino con dei miei amici dovrei prima chiedere permesso al barista, proprietario del locale che dovrebbe approvvare come "leciti" i contenuti dei nostri discorsi? Resterebbe la libertà a casa mia di dire quello che voglio, ma anche lì sarebbe una libertà condizionata...  parlare solo se ho la ragionevole certezza che le persone che mi ascoltano non ripetano certi discorsi anche fuori di casa... insomma fondare la separazione tra pubblico e privato sul concetto di "proprietà" porterebbe a una sorta di "stato di polizia". basato sul terrore e la repressione.

Quando sento parlare del timore riguardo alle persone che si fanno influenzare, pur condividendo in linea generale l'idea dell'esistenza di persone con meno consapevolezza e senso critico, rimango sempre perplesso riguardo la possibilità che alcuni ritengano come "influenzabili" le persone che hanno solo la colpa di non pensarla come loro. A scanso di equivoci, non sono razzista, ma sono convinto che i razzisti giudichino i non-razzisti come me persone influenzabili, con poco senso critico che si fanno influenzare dalla "propaganda progressista egualitarista". Lo stato si preoccupa di formare un certo livello di consapevolezza attraverso l'imposizione dell'obbligo scolastico ( certo, si può discutere sulla sua attuale efficacia in tal senso). Una volta concluso il ciclo scolastico obbligatorio non può più discriminare la libera espressione degli individui, che diventano anche cittadini elettori. Lo stato, con i suoi organi, è un mezzo, uno strumento al servizio della libertà individuale, compresa quella di espressione dell'opinione, non un soggetto etico e paternalistico che mostra di non avere fiducia nell'intelligenza dei suoi cittadini, che "per il loro bene" si preoccupa di reprimere la diffusione di certe idee per "preservarli dalle cattive influenze", che si presenta come prottettore della libertà di pensiero arrogandosi però di stabilire che certi pensieri sono inesprimibili, in quanto non piacciono ai governanti
#563
Io intendo il concetto di "libertà di espressione" come concetto che ha un senso unitario e che dunque comprende la libertà di esprimere le proprie idee indipendetemente dal contesto nel quale tali idee si manifestano. Non comprendo bene la distinzione tra "privato" e "pubblico": io sarei libero di dire ciò che penso di fronte ai miei parenti, amici, conoscenti, mentre nello spazio pubblico dovrebbero esserci limitazioni... ma cosa sarebbe questo "spazio pubblico" separato dal privato? Io intendo il "pubblico" come uno spazio nel quale ogni privato può partecipare e comunicare le proprie idee, e dobbiamo  considerare il fatto che la differenza tra "pubblico" e "privato" è una differenza quantitativa, non qualitativa, non esiste un confine definito tra i due ambiti: se io esprimo un opinione di fronte a un amico si può definire espressione in ambito privato... ma se l'amico riprende la stessa idea e la comunica a sua volta a un altro amico e questo a sua volta a un altro man mano l'opinione diviene sempre più un fatto pubblico, ma un pubblico che nasce dal privato: chi stabilisce quando si arriva al punto in cui sarebbe necessario introdurre limitazioni? Il pubblico slegato dalle relazione private è solo un'astrazione: il pubblico altro non è che l'insieme dei privati o meglio l'interrelazione dei rapporti tra privati e non ha senso separare le due cose: la visibilità è un valore quantitativo: chi parla in tv è più visibile di me che parlo a due amici, ma dal punto di vista qualitativo (quello che più conta) è la stessa cosa: un privato che parla ad altri privati. Ci sono privati che possono decidere di spegnere la tv così come i due amici a cui parlo possono riferire le mie idee a decine, centinaia di altri individui, così come in linea teorica la mia idea può diventare più "pubblica" di un'opinione tramessa in una tv che quasi nessuno segue: dovè il confine? Ovviamente non mi sfugge l'idea che all'aumentare della visibilità debba necessariamente aumentare il senso di responsabilità di chi esprime una tesi, ma questo non ha nulla a che fare con limitazioni esterne, ma sta alla coscienza dell'individuo, che nessuno di noi può a priori prevedere come si esprimerà

Così parlando del valore della libertà di espressione nella sua universalità prescindendo da una in un certo senso artificiosa differenza tra pubblico e privato non mi sembra di aver prodotto confusione. Se così fosse mi dispiace anche percè il tema è fondamentale e ricco di interesse
#564
Razionalmente parlando ha un senso riconoscere che l'espressione di certe opinioni possa produrre effetti negativi sulla società. Penso agli incitamenti, all'odio, al razzismo ecc. Ma il punto è: se cominciamo a porre dei paletti, delle condizioni limitanti l'espressione delle opinioni come possiamo poi impedire che altri si sentano in dovere di reprimere la libertà di pensiero anche riguardo idee di per sè legittime e non necessariamente nocive alla pace sociale? Chi fissa il criterio di demarcazione oltre il quale stabilire che un'espressione può essere nociva e dunque stabilire quali opinioni possono essere espresse e quali represse? In base a un'altra opinione? E perchè quell'opinione sarebbe più valida di quelle che si vogliono riconoscere come nocive?
L'incitamento all'odio non dipende solo dall'opinione in sè ma dalla soggettività che le ascolta. Una persona fortemente insicura può intepretare una frase a lui rivolta come offensiva quando offendere non era nelle intenzioni di chi ha parlato... questo perchè quasi qualunque pensiero può in linea teorica essere intrepretato come incitante all'odio e alla violenza e non esistono parametri oggettivi stabili per riconoscere a priori gli effetti della circolazione di tali idee
Ecco perchè io sono contro in linea di principio a qualunque limitazione della libertà di opionione. Se pensiamo che le idee di Salvini siano pericolose si cerchi di smentirle con argomentazioni razionali, invece che impedirgli di parlare passando di fatto dalla parte del torto. Poi il popolo ascolterà tutte le opinioni e argomentazioni razionali e il giorno delle elezioni deciderà di conseguenza. Io mi chiedo: se si sente l'esigenza di limitare la libertà delle opinioni che ci appaiono violente, finendo a trattare i cittadini di uno stato come bambini a cui si chiede di andare a letto presto la sera per non fargli vedere il film violento alla Tv per paura che si impressionino e diventino violenti a loro volta, che senso ha la democrazia? Che senso ha una democrazia in cui lo stato reputa i propri cittadini degli immaturi impressionabili incapaci di ragionare con la propria testa e che hanno bisogno di qualcuno che ogni tanto gli tappi le orecchie? Uno stato democratico può avere sfiducia nel suo popolo?
#565
Tematiche Filosofiche / Re:Che cos'è la verità?
01 Giugno 2016, 23:25:28 PM
Citazione di: Lou il 01 Giugno 2016, 22:19:39 PMdavintro, fammi capire, dove non aattiene una oggettivazione non ha senso parlare di "veritá"? ???

A mio avviso no, non avrebbe senso... Quantomeno se si accetta l'idea della verità come corrispondenza del giudizio con la realtà delle cose. Se non sono in grado di riferire i miei pensieri ad una realtà oggettiva allora mancherebbe il criterio in base a cui definire la corrispondenza dei miei giudizi con la realtà perchè... non ci sarebbe nulla a cui far corrispondere! Ciò che pongo come valore solo per la mia soggettività è al di qua della verità o falsità perchè in me mancherebbe l'idea di una realtà oggettiva di fronte a cui stabilire la verità dei miei pensieri. Le cose sarebbero diverse solo cambiando lo statuto e la definizione del concetto di "verità", slegando questa dalla relazione di corrispondenza con la realtà... ma secondo me ciò sarebbe la fine di qualunque senso si possa attribuire alla conoscenza scientifica, che cerca appunto la verità del reale, almeno così penso...
#566
Tematiche Filosofiche / Re:Che cos'è la verità?
01 Giugno 2016, 22:14:46 PM
Completamente d'accordo con Sgiombo, la verità attiene al piano dei giudizi, ciò attraverso cui il soggetto prende posizione nei confronti di un mondo oggettivo, non a quello estetico dei sentimenti o delle sensazioni, che restano eventi in cui è ancora assente un'oggettivazione. Fintanto che mi limito ad avvertire un dolore, questo dolore non è tematizzato, non è oggetto di una presa di posizione per la quale posso dire cose vere o false. Non ha alcun senso dire che un dolore, una gioia, una paura, una tristezza è "vera", posso dire cose vere di essi nella misura in cui trascendo la condizione di soggetto senziente per farmi soggetto conoscente, dunque giudicante, giudicante nei confronti di questi sentimenti che vengono oggettivati. Eppure anche i sentimenti hanno a che fare con la realtà oggettiva. Ma non nel senso della "verità", ma dell' "adeguatezza". La paura dello studente il giorno prima dell' esame non è "vera" o "falsa", perchè la  paura di per sè non è giudizio. Io posso avere paura del fatto che l'esame possa andar male e tuttavia non emettere un giudizio negativo. Questo perchè mentre il giudizio vero-falso si pone come un aut-aut, un salto qualitativo tra due alternative che si escludono a vicenda, la paura come tutti i sentimenti sono una quantità, qualcosa che è presente "più o meno" in me, è presente in me condividendo uno spazio psichico con la speranza di un buon esito dell'esame. Se l'esame fosse più facile di quello che pensi si può dire che la mia paura è eccessiva in relazione all'evento che mi attende, ma non che è "falsa". E nel caso dell'amore ci allontaniamo ancora di più dall'ambito della verità, dato che, mentre la paura almeno è collegata all'eventualità di un fatto oggettivo (la non riuscita di un esame), l'amore è legato ad un gusto soggettivo, un'attribuzione di un valore soggettivo che l'amante rivolge nei confronti della persona amata, è vero che amo e che ho paura, ma nel momento in cui sto amando o temendo non sto affermando alcuna verità o falsità. La verità va considerata all'interno del piano logico e cognitivo dei giudizi, va distinto dal piano estetico dei sentimenti, è appannaggio della scienza (comprendente anche la filosofia), non dell'arte, quantomeno non in modo esplicito e diretto
#567
Tematiche Filosofiche / Re:Che cos'è la verità?
30 Maggio 2016, 22:09:44 PM
Maral scrive:
"Anche fondare oggettivamente la verità è velarla, poiché se la fondo oggettivamente, che ne è della verità soggettiva e perché mai dovrei escludere l'una in nome dell'altra? La verità non si preoccupa di essere né soggettiva né oggettiva, poiché gioca sempre tra soggetto e oggetto."

La categoria di "vero" è applicabile a dei giudizi, che sono il prodotto di un pensiero soggettivo... in questo senso la verità certamente presuppone la soggettività, un pensiero pensante, ed è giusto distinguere il concetto di "verità" da quello di "realtà", al tempo stesso il criterio della viertà è la corrispondenza del giudizio alla realtà oggettiva: "la neve è bianca" è verità se e solo se la neve è realmente ed oggettivamente bianca. Soggetto e oggetto da un lato si oppongono nella misura in cui qualcosa di oggettivo trascende la mia soggettività empirica e relativa e mi trascende perchè mi sta "di fronte", dall'altro si implicano in quanto nel pensiero il soggetto si rivolge intenzionalmente alla conoscenza di una verità oggettiva, ed in questo rivolgersi ci esponiamo alla possibilità di dire il falso o il vero. Fintanto che ho semplicemente paura sono una soggettività ancora chiusa in se stessa, che subisce la paura in forma sostanzialmente passiva (passiva fino a un certo punto, ma per ora lasciamo stare), quando comincio a PENSARE di aver paura oggettivo la paura, mi distacco da essa e mi pongo nelle condizioni di dire il vero o il falso su questo stato psichico. In questo modo la verità è al contempo oggettiva, in quanto ha il reale come propria misura regolativa, e soggettiva in quanto presuppone un pensiero giudicante e che dica dunque la verità. Non si deve confondere il riferimento alla soggettività con il relativismo. Il relativismo sorge quando la soggettività si chiude in se stessa nel particolarismo e contingenza del proprio punto di vista tagliando ogni via d'uscita che la apre all'universalità del reale. Ed è la ragione il medium che collega la soggettività particolare con l'oggettività del reale. Confondere "soggettività" e "relatività" nasce dall'errore di pensare soggetto e oggetto come dimensioni chiuse in sè stesse ed incomunicabili invece che poli di una dialettica di reciproca interrelazione. Quando dico la verità, la dico in quanto soggetto che pensa e dice ma ho rappresentato uno stato di cose che sarebbe stato indipendentemente dal fatto che io abbia detto la verità o abbia mentito. Nel dire la verità il soggetto in un certo senso "esce fuori da sè", o meglio dalla sua singolarità contingente
#568
Nel paradosso per cui la nascita di una vita, cioè di una libertà, è presente una costrizione nei confronti di una vita che non decide essa di esistere sta tutta la finitezza ontologica e creaturale dell'uomo. Mentre Dio si autoafferma e in un certo senso "decide" di esistere, l'uomo riceve l'esistenza da una volontà esterna: è una non-libertà che però rende possibili tutte le altre libertà. Una libertà limitata ma è l'unica libertà umanamente possibile. La costrizione è qui "al servizio" della libertà. Quindi secondo me ha poco senso ritenere ingiusta la riproduzione in nome del valore della libertà, quanto più, come scritto prima, in riferimento a una vita che liberamente ha la possibilità di rimediare ad un'esistenza non desiderata attraverso il suicidio. Ma quale libertà c'è nell'assoluto non-essere? Porre la libertà come valore in base al quale rinunciare alla riproduzione ha un senso unicamente in riferimento alla libertà del genitore che con la nascita di un figlio si priva inevitabilmente di una fetta considerevole della propria libertà vitale, dei propri spazi, gravato dal peso della responsabilità di un accudimento. Ingiusta la riproduzione diviene quando non preceduta da un' onesta autovalutazione delle proprie capacità genitorali, solo per obbedire ad una sorta di fantomatico e moralistico (non morale) "dovere di riprodursi", come purtroppo troppo spesso accade anche oggi, finendo con la creazione di un'infelicità nei figli cresciuti da genitori non adatti ad esserlo e un'infelicità dei genitori schiavi di figli non profondamente e non onestamente davvero voluti
#569
Tematiche Filosofiche / Re:Che cos'è la verità?
24 Maggio 2016, 18:00:08 PM
Non riesco a vedere una contrapposizione tra le due accezioni della verità, quantomeno non necessaria. L'idea della verità come disvelamento del reale presuppone la concezione realista per cui è l'adeguazione del pensiero soggettivo alla realtà oggettiva a porsi come misura della verità Se il pensiero cristiano, direi soprattutto l'agostinismo, e la modernità a partire dalla svolta cartesiana ha considerato la necessità di fondare la conoscenza della verità come uno scavo interiore, ciò non contraddice l'idea della verità come rivelazione, ma indica un metodo finalizzato a porre l'uomo nelle condizioni ideali per ricevere la rivelazione, o manifestazione della verità nel modo più chiaro e meno ambiguo possibile. Il riconoscimento dell'arbitrarietà della pretesa di identificare la propria esperienza soggettiva con la realtà oggettiva, che si radicalizza nell'assunzione della possibilità del solipsismo, ha portato alla necessità di fondare la conoscenza con un dato stabile e al di là della dubitabilità, e tale dato è rinvenibile nella coscienza, ciò la cui esistenza non può essere messa in dubbio in quanto il suo essere coincide per definizione con l'esperienza e l'apparenza stessa e comprende in sè la stessa possibilità di errare. Questo passaggio dall'esteriorità all'interiorità implica certamente un ruolo più attivo del soggetto ricercante la verità, ma resta pur sempre un'attività non autoreferenziale, ma strumentale al recupero di una passività più adeguata ad accogliere la rivelazione dell'essere. Dalla svolta moderna del cogito cartesiano non discende solo l'idealismo immanentista, ma anche lo spiritualismo metafisico di un Rosmini per cui la verità è un dono che l' uomo riceve da una trascendenza, l'idea dell'essere come oggetto interiore presente alla mente o la stessa fenomenologia husserliana che anelava al "ritorno alle cose stesse", e il concetto di "cosa stessa" ha senso in relazione all'idea classica  e realista della verità come rivelazione... Perchè la verità per "rivelarsi" dovrebbe per forza provenire dall'esteriorità e non invece "risalire" da un'interiorità, da una profondità che viene scoperta dall'uomo che si rivolge alla conoscenza di se stesso? Non c'è alcuna "violenza", un violentare la natura, semplicemente la si riconosce a partire da un diverso punto di vista, "la violenza" semmai la rivolgiamo verso noi stessi in quanto soggetti conoscenti modificando il nostro punto di vista per rendere questo il più possibile "degno" di ricevere la rivelazione.
#570
Io credo che, al di là delle molteplici varianti che entrano in gioco, la riproduzione se da un lato "costringe" all'esistenza un essere che non ha scelto di esserlo e che potrebbe vivere nell'infelicità, dall'altro è la condizione necessaria per cui sorge la stessa libertà umana: come è ovvio che sia, per essere liberi bisogna vivere. Il coefficiente di rischio di condannare un essere alla infelicità si accompagna al coefficiente di possibilità di "condannarlo" alla felicità. Ciò che fà la differenza è, credo, una razionale valutazione delle condizioni economiche all'interno delle quali una vita avrebbe la possibilità di vivere una vita serena, quantomeno da quel punto di vista non totalizzante ma comunque imprescindibile, accanto ad un'autoconsapevolezza dal parte del genitore delle proprie capacità di cura ed accudimento, superando lo stereotipo sociale e culturale per cui la genitorialità sarebbe un destino naturale e necessario di ogni uomo e riconoscendo che non tutti le persone.sono ugualmente adeguate ad essere genitori capaci di crescere figli in modo equilibrato, dunque felice. Aggungo che, anche nel caso della condanna all'infelicità, esiste, come possibilità estrema, da parte del soggetto in questione, la libertà di stabilire se la propria vita sia più o meno degna di essere vissuta ed in caso negativo, esiste la possibilità del suicidio, mentre in caso della non-nascita la possibilità di essere felice sarebbe nulla, cosicchè la riproduzione, al netto delle diverse opzioni, non si pone come atto irrazionale (questo modo di pensare, se si vuole ricalca, rivolto a un argomento diverso, la scommessa pascaliana...) In questo senso l'incremento di autocoscienza non conduce necessariamente ad un'estinzione, ma condizionerebbe la riproduzione a criteri di giudizio in base a cui riconosciamo come differenti scelte portino a differenti conseguenze