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Messaggi - davintro

#571
Tematiche Filosofiche / uest
20 Maggio 2016, 00:28:48 AM
Sgiombo scrive:

"Ma ciò non toglie che la coscienza in generale, la coscienza di altro dal proprio essere cosciente (quale che sia il grado di attenzione che presenta) é altra cosa dalla coscienza (anche questa più o meno attenta o distratta che sia) della coscienza (dalla sensazione del pensiero del "proprio essere cosciente", del pensiero dei -gli altri- "contenuti di coscienza"); e che solo quest' ultima (diversa dalla coscienza di qualsiasi altra "cosa" o "conteuto esperienziale") costituisca l' "autocoscie4nza"."

Assolutamente d'accordo! Non ho mai sostenuto il contrario. Certamente la coscienza degli oggetti del mondo esterno è "altra cosa" rispetto alla coscienza della coscienza. Non ho mai parlato di un rapporto di identità, evidentemente sono due modalità di coscienza aventi una distinta qualità di vissuto. Volevo dire che l'autocoscienza è la condizione necessaria, il termine giusto credo sia "trascendentale", della coscienza in genere. Senza autocoscienza avremmo solo sensazioni senza la possibilità di un intervento ordinatore da parte dell'Io, che presupporrebbe l'associare stimolo a stimolo grazie al ricordo di esperienze passate che forniscono gli schemi associativi da cui nascono percezioni e concetti. E che esista una correlazione fortissima fra senso della propria identità e memoria mi pare sia un dato inoppugnabile (per coincidenza proprio pochi giorni fà leggevo John Searle scrivere riguardo un "senso del sè" che si costituisce temporalmente attraverso la continuità passato-presente che si dà attraverso i ricordi)

Non direi che l'autocoscienza sia un prodotto del linguaggio, direi al contrario che il linguaggio presupponga il pensare in astratto che è dato dal trascendimento dell'immediatezza dell'esperienza sensibile in virtù della mediazione data dalla continuità temporale del flusso di coscienza. Il linguaggio è una generalizzazione, le parole si riferiscono ad una molteplicità di oggetti concreti che vengono unificate attraverso il riscontro di somiglianze che rendono possibile classificare e categorizzare. Il riscontro di somiglianze presuppone la continuità temporale del flusso di coscienza: quel singolo oggetto me ne ricorda uno simile di cui ho avuto esperienza passate e ciò dà un senso alla formazione di una parola che si riferisca a entrambi gli oggetti nonchè tutti gli oggetti passati, presenti e futuri aventi quelle caratteristiche simili. Il linguaggio presuppone cioè la non-immediatezza di una coscienza che si protende verso il passato ed il futuro in un flusso che va al di là della semplice ed immediata coscienza presente. E quest'unità tra il mio passato, il mio presente, il mio futuro è data dall'autocoscienza, dall'idea che questi tre "stati temporali" sono uniti dal fatto di essere i "miei" stati temporali, appartententi ad un unico Io. Il linguaggio non è un apriori, ma la conseguenza di una relazione coscienza-mondo che si manifesta originariamente in forme intuitive e prelinguistiche. Il rosso che percepisco non è ancora una parola, ma un vissuto intuitivo concreto, non ancora un segno grafico, simbolico. Questo verrà "poi"
#572
Citazione di: sgiombo il 17 Maggio 2016, 19:07:57 PM
Citazione di: davintro il 17 Maggio 2016, 15:19:55 PMNon direi che la riflessione a posteriori "costruisca" alcunchè. La riflessione non produce i propri oggetti ma scopre qualcosa che gia c'è, mette in evidenza ciò che prima era latente. L'autocoscienza è questo sapere latente della coscienza che ha di sè, latente perchè nell'atteggiamento naturale (dominante nella nostra quotidianità) l'attenzione della coscienza è rivolta non su di sè ma sugli oggetti del mondo esterno che percepisce. L'atto di attribuzione di significati ad un oggetto ci appare come immediata perchè nell'atto percettivo, come è ovvio che sia, sono rivolto alla scoperta dei lati dell'oggetto sensibile e non sul processo cognitivo che in quel momento sta operando la sintesi percettiva. Non va confusa l'immediatezza con l'instantaneità. La percezione è effettivamente istantanea perchè gli schemi associativi del passato attraverso cui l'oggetto che ho di fronte assume un significato perchè associato con l'attribuzione di significato che oggetti simili hanno avuto per me nel passato, è già collegato con l'atto presente in virtu della continuità del flusso di coscienza, continuità data dal permanere nel flusso di un soggetto, di un Io genericamente inteso. Non c'è bisogno di un sforzo di regressione verso il passato, il passato è già qua. Ma non si può parlare di "immediatezza", perchè la percezione, seppur frutto della continuità passato-presente, è pur sempre sintesi, sintesi tra i lati dell'oggetto che si danno come fenomeni alla coscienza. La riflessione a posteriori, che può attuarsi o meno, scopre tale continuità tra la coscienza del passato e la coscienza del presente come condizione della mediazione percettiva ed in questo senso trova l'autocoscienza come già data, presente come latente ed ora la mette solo in evidenza ma non se la "inventa". Se se la inventasse, come in una sorta di autoillusione, non avrebbe senso parlare di riflessione come un atto teoretico, ma più come una sorta di atto volontario che "vuole" vedere ciò che magari non c'è. Chiaro che stiamo uscendo dall'accezione naturale del concetto di riflessione. Pensare che l'autocoscienza sia solo una costruzione a-posteriori della riflessione è possibile solo confondendo "autocoscienza" con "attenzione della coscienza su di sè". In realtà l'autocoscienza per essere non ha bisogno di essere tematizzata. la riflessione sposta l'autocoscienza dallo sfondo al punto focale dell'attenzione dello sguardo, ma anche fintanto che resta sullo sfondo se ne ha un livello di consapevolezza che condiziona lo stesso darsi del fenomeno presente nel punto centrale della visuale come ho provato a descrivere nei miei esempi.
CitazionePurtroppo mi é impossibile intenderti. Per me "autocoscienza" = "coscienza della coscienza" = "coscienza come oggetto di coscienza" = "attenzione della coscienza su di sé". Quando l' attenzione della coscienza non verte su di sé si ha coscienza di altre cose diverse dalla coscienza; id est: non si ha autocoscienza (ma soltanto coscienza). E questo anche se tali contenuti di coscienza (che non sono autocoscienza) sottintendono in qualche modo, per me alquanto oscuro, o dipendono in qualche modo da (ma comunque non attenzionano, non comprendono o includono attualmente come loro contenuti, cioé come contenuti di coscienza) esperienze coscienti passate (delle quali si ha memoria nel senso che sono potenzialmente evocabili, ma non ricordo ovvero evocazione immaginativa-mnemonica in atto).

Che dire... se si accetta la validità della tua equazione, nulla da obiettare, la coscienza può darsi senza autocoscienza. Ma allora proviamo a chiarire un attimo il concetto di "attenzione". L'attenzione non è un atto meramente cognitivo, come il giudizio o la percezione, ma implica la volontà del soggetto e questo la rende un atto distinto rispetto ad altri vissuti (Erlebnisse, dal tedesco) della coscienza. Io volontariamente decido dove dirigere la mia attenzione. In questo momento la sto orientando verso il pc dove sto scrivendo (torno all'esempio di prima, scusa ma per ora non mi viene in mente niente di meglio) mentre il resto dell'ambiente esterno (la mia stanza) e la mia situazione interiore (preoccupazioni, pensieri della mia vita non direttamente legati a ciò su cui sto scrivendo) restano sullo sfondo, sono un "sottofondo". Cosa dovrebbe impedire di definire questo sottofondo come contenuto di coscienza? Stando a ciò che sostieni, l'identità tra contenuto di coscienza e oggetto dell'attenzione, in questo momento, nel quale la mia attenzione è orientata sulla tastiera e sullo schermo del pc, il resto della mia stanza dovrebbe essere fuori della mia coscienza ed allora se qualcuno aprisse la porta non potrei accorgermene. E invece probabilmente me ne accorgerei e me accorgo perchè la porta da dove proviene il rumore era già presente alla mia coscienza, che non si riduce al focus centrale dell'attenzione, così come mentre sto scrivendo un certo concetto potrebbe portarmi, per una serie di collegamenti associativi, a farmi tornare alla mente il pensiero di una certa preoccupazione a cui da un pò di tempo non rivolgevo la mia attenzione. Ma quando mi ritorna in mente la riconosco non come qualcosa di creato dal nulla ma già da prima presente nella mia mente (cioè nella mia coscienza) e solo ora tornata ad essere oggetto d'attenzione. Se la coscienza coincidesse con il "dare attenzione" tutto ciò non sarebbe possibile. L'autocoscienza è questo sottofondo trascendentale garante dell'unità temporale passato-presente attraverso cui il mondo acquisisce un significato dato dalla mia storia personale. La soluzione sarebbe pensare la coscienza come strutturata come un insieme di livelli di maggiore e minore chiarezza, dove l'attenzione è un fattore che determina un incremento di nitidezza di una singola esperienza vissuta, fermo restando che anche i vissuti presenti nei livelli "inferiori", più oscuri restano comunque parte della coscienza ed in qualunque momento possono essere rischiarati
#573
cancellata la copia del mio precedente post inviato per errore, chiedo scusa
#574
Rispondo a Maral:

Non direi che la riflessione a posteriori "costruisca" alcunchè. La riflessione non produce i propri oggetti ma scopre qualcosa che gia c'è, mette in evidenza ciò che prima era latente. L'autocoscienza è questo sapere latente della coscienza che ha di sè, latente perchè nell'atteggiamento naturale (dominante nella nostra quotidianità) l'attenzione della coscienza è rivolta non su di sè ma sugli oggetti del mondo esterno che percepisce. L'atto di attribuzione di significati ad un oggetto ci appare come immediata perchè nell'atto percettivo, come è ovvio che sia, sono rivolto alla scoperta dei lati dell'oggetto sensibile e non sul processo cognitivo che in quel momento sta operando la sintesi percettiva. Non va confusa l'immediatezza con l'instantaneità. La percezione è effettivamente istantanea perchè gli schemi associativi del passato attraverso cui l'oggetto che ho di fronte assume un significato perchè associato con l'attribuzione di significato che oggetti simili hanno avuto per me nel passato, è già collegato con l'atto presente in virtu della continuità del flusso di coscienza, continuità data dal permanere nel flusso di un soggetto, di un Io genericamente inteso. Non c'è bisogno di un sforzo di regressione verso il passato, il passato è già qua. Ma non si può parlare di "immediatezza", perchè la percezione, seppur frutto della continuità passato-presente, è pur sempre sintesi, sintesi tra i lati dell'oggetto che si danno come fenomeni alla coscienza. La riflessione a posteriori, che può attuarsi o meno, scopre tale continuità tra la coscienza del passato e la coscienza del presente come condizione della mediazione percettiva ed in questo senso trova l'autocoscienza come già data, presente come latente ed ora la mette solo in evidenza ma non se la "inventa". Se se la inventasse, come in una sorta di autoillusione, non avrebbe senso parlare di riflessione come un atto teoretico, ma più come una sorta di atto volontario che "vuole" vedere ciò che magari non c'è. Chiaro che stiamo uscendo dall'accezione naturale del concetto di riflessione. Pensare che l'autocoscienza sia solo una costruzione a-posteriori della riflessione è possibile solo confondendo "autocoscienza" con "attenzione della coscienza su di sè". In realtà l'autocoscienza per essere non ha bisogno di essere tematizzata. la riflessione sposta l'autocoscienza dallo sfondo al punto focale dell'attenzione dello sguardo, ma anche fintanto che resta sullo sfondo se ne ha un livello di consapevolezza che condiziona lo stesso darsi del fenomeno presente nel punto centrale della visuale come ho provato a descrivere nei miei esempi.

Sul tema del riduzionismo credo di essere d'accordo con i post di Loris Bagnara. Anch'io credo che non bisogna cadere nel dogma del riduzionismo materialista che considera il riferirsi a realtà come "anima" "spirito" nel fondare la coscienza come un cedimento a fideismi religiosi. Per me è proprio la razionalità che vede la coscienza come testimonianza di una dimensione spirituale della persona irriducibile alle leggi che governano la materia. Ma è un tema amplissimo e personalmente preferirei per ora tornarci più tardi con più calma per approfondire. Per ora mi limito a constatare come lo stesso sforzo di comprendere la coscienza in un'ottica filosofica porti con sè come implicita l'idea che tale tema presenti degli aspetti irriducibili ai concetti con cui esso viene studiato dalle altre scienze. Se la coscienza fosse veramente riducibile a cervello o neuroni quale potrebbe essere il guadagno conoscitivo di una prospettiva filosofica che non sia ottenibile restando nell'ambito della fisiologia, della biologia o della neurologia? Questo è pur sempre uno spazio di discussione filosofica, non di biologia o neurologia... (se così non fosse certamente non parteciparei, non, ci mancherebbe, per disprezzo di tale discipline, ma per la mia totale ignoranza su di esse, avendo una "formazione" diversa)
#575
Citazione di: sgiombo il 16 Maggio 2016, 11:53:29 AM
Citazione di: davintro il 16 Maggio 2016, 00:46:57 AMNon credo che coscienza ed autocoscienza possano sussistere una senza l'altra. Sono certamente distinguibili dal punto di vista concettuale, ma co-implicate nell'attualità concreta del loro porsi in atto. La coscienza che ho di questa penna, il sapere di avere di fronte a me una penna per stare all'esempio di Maral, presuppone il darle una forma percettiva, cioè un'attività ordinatrice che unisce i vari stimoli sensitivi in una forma (la forma della penna che ha per me un senso riconoscibile), una forma che corrisponde al concetto di penna, senza la quale non avrei alcuna coscienza della penna, ma solo di un caotico miscuglio di parti della penna impossibile da ricondurre all'unità del "concetto penna". Ma questo "concetto penna" deve essere presente alla mia mente come idea regolativa della sintesi percettiva, schema ordinatore che io ho in mente ancor prima di iniziare la sintesi. Io ce l'ho già in mente perchè ne ho un'esperienza mnemonica. Per me il concetto di penna ha un senso perchè già in passato l'ho riconosciuto, perchè, ad esempio, quella penna mi è servita da piccolo per cominciare a scrivere, dunque il collegamento tra le sensazioni della penna unifica tali sensazioni nell'unità del concetto-penna perchè tale concetto ha un senso che riconosco perchè nel passato ho avuto esperienze di penne che per me hanno avuto un valore e un senso. E la continuità temporale passato-presente che determina la memoria implica l'autocoscienza, la coscienza presente si serve della coscienza passato per dare un senso al proprio mondo, e può farlo perchè il mondo presente che ha di fronte viene riconosciuto come lo stesso mondo che aveva di fronte nel passato, il passato mi offre gli schemi e i modelli concettuali per interpretare i fenomeni e ordinarli in forme percettive. E quando ricordo non posso fare a meno di riconoscermi come Io, l'Io è l'elemento che unifica il mio presente e il mio passato, tutto ciò è "autocoscienza". Senza autocoscienza il mio passato sarebbe solo un'immagine sbiadita senza nessun legame col presente, impossibilitato a dare un senso a quest'ultimo, invece il mio passato agisce sul presente perchè io lo riconosco come il MIO passato, il mio passato mi porta ad interpretare il mondo attuale perchè riconosco qualcosa che unifica passato e presente, cioè il mio permanere come soggetto cosciente di questo mondo, testimone del suo divenire. Senza autocoscienza, non si sarebbe continuità mnomenica passato-presente, senza questa continuità non potrei compiere associazioni percettive dei fenomeni sensibili, senza percezione non c'è coscienza. La coscienza "nasce" nel passaggio dalla sensazione alla percezione. Con la percezione per me il mondo comincia ad avere un senso, io divengo soggetto dotato di intenzionalità.
Obiezione: Però si può concettualmente distinguere (prendere separatamente in considerazione) la coscienza in generale dalla coscienza (in particolare) della coscienza (autocoscienza). Inltre si danno momenti nei quali si hanno sensazioni coscienti senza pensare alle proprie esperienze coscienti passate (né alle presenti). E credo sia ragionevole pensare che gli animali non umani siano dotati solo coscienza e non di autocoscienza (se non forse di "barlumi molto limitati", ben diversamente da quanto può accadere e di fatto spesso accade all' uomo.

Avevo premesso in partenza che tra coscienza e autocoscienza ci fosse, come evidente, una distinzione concettuale, semantica, e non si può non tenerne conto. Ma per il fatto che il piano concettuale e il piano della realtà non sono sovrapponibili, non si può dedurre da una distinzione concettuale l'assenza di un legame reale.

L'espressione "sensazioni coscienti" la trovo ambigua ed equivoca. A livello di sensazioni non si può ancora parlare di una coscienza, il soggetto di fronte alla sensazione è ancora passivo, riceve lo stimolo sensitivo così come è nel suo darsi all' "urto" con il corpo senziente. La coscienza, il tendere intenzionale del soggetto rivolto a dare un senso agli oggetti del mondo, comincia con la percezione, nella quale il materiale della sensazione viene lavorato, interpretato dandogli una forma concettuale. Un senso, appunto. Ho di fronte a me un mazzo di carte, sono cosciente della sua presenza. La prima carta (il 2 di coppe) mi si dà come immediatamente visibile, la mia coscienza non si ferma qui ma opera una sintesi che unifica l'immagine della prima carta con il resto delle carte e e tale sintesi è la percezione del "mazzo" come unità. Ma come faccio a sapere che le carte sottostanti, che non vedo, raffigurano il resto delle carte da gioco e non invece semplici fogli plastificati completamente bianchi? Per percepire l'insieme dei fogli come "mazzo di carte" io mi rivolgo al mio passato, agli schemi associativi che si formano per il fatto che il mazzo che attualmente ora percepisco rimanda analogicamente a percezioni di mazzi che la mia coscienza ha posto in atto nel passato. L'insieme di carte che vedo è lo stesso insieme con cui in passato ho giocato a carte e per questo ora lo percepisco non come un insensato ammasso di fogli, ma come un sensato concetto, il concetto di "mazzo di carte da gioco". Ora sto pensando a me, al mio io, sto operando un collegamento tra la mia coscienza presente, che vede un insieme di fogli, e la coscienza passata che aveva dato allo stesso insieme un senso compiuto, utilizzandolo per giocare. Sono autocosciente, sono cosciente della mia coscienza come unità tra passato e presente. Come si può avere ricordi senza riferirsi a sè stessi come soggetto che aveva avuto un'esperienza di ciò che ora ricordo? Percepire è RI-conoscere, mentre per ricevere stimoli sensitivi non ho alcun bisogno di memoria, dunque non ha senso parlare di coscienza e autocoscienza

"pensare alle proprie esperienze coscienti passate" è un'espressione troppo generica. Che si intende per "pensare"? Rivolgere l'attenzione, tematizzare un contenuto di pensiero? In quel caso avresti ragione, non ho alcun bisogno di pensare al mio passato per avere una coscienza di ciò che ho attualmente di fronte. Se invece diamo al "pensare" un'accezione più ampia, non solo l'attenzione, ma anche un"essere consapevole", un "tenere conto" di ciò a cui non prestiamo un'attenzione riflessiva eppure è presente nella mia coscienza condizionando la sua attività allora le cose cambiano. Chiedo un favore a un amico e lo faccio perchè lo riconosco come tale, come un amico. Ma perchè lo riconosco come amico? Evidentemente perchè ho memoria delle esperienze passate per cui quella persona ha dimostrato con i fatti di essere mia amica. Tutto ciò però non è tematizzato. Il tema è la richiesta da fare al mio amico. Ma il ricordo di quelle esperienze resta presente alla mia coscienza, senza tale presenza non ci sarebbe alcun riconoscimento della persona come "amico", di conseguenza nessuna richiesta di favori.  Io credo che la dinamica sfondo-punto focale d'attenzione che ho provato a descrivere prima sia piuttosto risolutiva del problema. In questo caso il ricordo delle esperienze passate con il mio amico (implicante il riconoscimento della mia coscienza passata, dunque l'autocoscienza) resta sullo sfondo, non tematizzato eppure presente come una latente consapevolezza" (possiamo chiamarla "pensiero"? Questione terminologica), mentre la richiesta è posizionata al centro della visuale. La coscienza è questo orizzonte, questa visuale all'interno della quale ovviamente io sono libero di "spostare" oggetti da una posizione a un'altra. Potrei sentire il bisogno di rifettere sulle ragioni per cui quella persona la considero amica, mettere in dubbio la sua amicizia. Allora il complesso delle esperienze passate passa dallo sfondo al punto centrale della visuale mentre la richiesta passa, momentaneamente, sullo sfondo. In questo momento l'autocoscienza è passata al centro della visuale, perchè sto riflettendo su essa, mentre gli oggetti presenti nella mia stanza restano sullo sfondo, eppure restano presenti alla mia coscienza, se qualcuno aprisse la porta me ne accorgerei
#576
Non credo che coscienza ed autocoscienza possano sussistere una senza l'altra. Sono certamente distinguibili dal punto di vista concettuale, ma co-implicate nell'attualità concreta del loro porsi in atto. La coscienza che ho di questa penna, il sapere di avere di fronte a me una penna per stare all'esempio di Maral, presuppone il darle una forma percettiva, cioè un'attività ordinatrice che unisce i vari stimoli sensitivi in una forma (la forma della penna che ha per me un senso riconoscibile), una forma che corrisponde al concetto di penna, senza la quale non avrei alcuna coscienza della penna, ma solo di un caotico miscuglio di parti della penna impossibile da ricondurre all'unità del "concetto penna". Ma questo "concetto penna" deve essere presente alla mia mente come idea regolativa della sintesi percettiva, schema ordinatore che io ho in mente ancor prima di iniziare la sintesi. Io ce l'ho già in mente perchè ne ho un'esperienza mnemonica. Per me il concetto di penna ha un senso perchè già in passato l'ho riconosciuto, perchè, ad esempio, quella penna mi è servita da piccolo per cominciare a scrivere, dunque il collegamento tra le sensazioni della penna unifica tali sensazioni nell'unità del concetto-penna perchè tale concetto ha un senso che riconosco perchè nel passato ho avuto esperienze di penne che per me hanno avuto un valore e un senso. E la continuità temporale passato-presente che determina la memoria implica l'autocoscienza, la coscienza presente si serve della coscienza passato per dare un senso al proprio mondo, e può farlo perchè il mondo presente che ha di fronte viene riconosciuto come lo stesso mondo che aveva di fronte nel passato, il passato mi offre gli schemi e i modelli concettuali per interpretare i fenomeni e ordinarli in forme percettive. E quando ricordo non posso fare a meno di riconoscermi come Io, l'Io è l'elemento che unifica il mio presente e il mio passato, tutto ciò è "autocoscienza". Senza autocoscienza il mio passato sarebbe solo un'immagine sbiadita senza nessun legame col presente, impossibilitato a dare un senso a quest'ultimo, invece il mio passato agisce sul presente perchè io lo riconosco come il MIO passato, il mio passato mi porta ad interpretare il mondo attuale perchè riconosco qualcosa che unifica passato e presente, cioè il mio permanere come soggetto cosciente di questo mondo, testimone del suo divenire. Senza autocoscienza, non si sarebbe continuità mnomenica passato-presente, senza questa continuità non potrei compiere associazioni percettive dei fenomeni sensibili, senza percezione non c'è coscienza. La coscienza "nasce" nel passaggio dalla sensazione alla percezione. Con la percezione per me il mondo comincia ad avere un senso, io divengo soggetto dotato di intenzionalità.

Le cose cambiano se invece si prende "autocoscienza" come riflessione tematizzante, attenzione rivolta a se stessi come soggetti coscienti. Considerata in questo modo l'autocoscienza è un fattore accidentale. Che la coscienza divenga oggetto di attenzione, come sta ora accedendo mentre scrivo e rifletto sul concetto di "autocoscienza", questo è irrilevante perchè ci sia una coscienza. La coscienza può esistere rivolgendo la sua attenzione agli oggetti del mondo esterno senza focalizzarsi su se stessa, perchè magari non le interessa come argomento (come magari accade per la maggior parte delle persone al mondo, escludendo filosofi, psicologi, noi del forum...). Invece, considerando l''autocoscienza come ho provato a fare sopra, essa svolge un "lavoro oscuro" fondante il darsi di qualunque coscienza. Basta non confondere "autocoscienza" da "attenzione rivolta alla coscienza", così come distinguiamo nella visuale sul mondo, il punto focale dell'attenzione su cui soffermiamo lo sguardo e lo sfondo, che non tematizziamo eppure è la condizione imprescindibile del costituirsi di qualunque punto di vista. L'autocoscienza è lo "sfondo" trascendentale, cioè necessario, della coscienza, sfondo che si riempie della molteplicità dei vari oggetti verso cui la coscienza si dirige
#577
HollyFabius scrive:
"Beh ho detto le stesse identiche cose, il punto è che questa distinzione qualitativa è una acquisizione recente.

Ho anche aggiunto che questa distinzione non esisteva nel passato ed è sorta proprio per una esigenza umana di rimarcare delle differenze qualitative rispetto alle macchine. E ho pure aggiunto che se le macchine (diciamo tra 1000 anni?) dovessero mostrare comportamenti assimilabili alla coscienza umana ci inventeremmo una nuova distinzione (magari di natura divina) che differenzia la nostra coscienza dalle altre eventuali 'forme' di coscienza artificiali."

Non direi che la distinzione qualitativa tra coscienza e intelligenza sia un'acquisizione recente e legata al bisogno di rimarcare le differenze con i computer. Già nei primi decenni del 900, prima dell'avvento della cibernetica, la coscienza si concepiva nella fenomenologia di Husserl come una generale "intenzionalità", in Heidegger e in Sartre come una complessiva modalità esistenziale dell'uomo, Sartre parlava di coscienza come "per sè" opposto all' "in-sè", tutte accezioni dal significato molto più ampio ristretto all'intelligenza calcolante tipica delle macchine. Anzi, al contrario direi che è la sovrapposizione tra coscienza e intelligenza ad essere un portato dell'attuale mentalità materialista e utilitarista, tipica in particolar modo della cultura anglosassone, proprio quella cultura da cui mi pare, guardacaso, nasce la questione della coscienza dei computer. Comunque, lungi dall'essere una fuga dalla realtà, o una scappatoia intellettuale, l'esigenza di rimarcare la differenza della coscienza dall'intelligenza delle macchine è proprio un'ulteriore conferma della realtà di tale differenza. Perchè proprio nella percezione, magari confusa e non senza un sottofondo narcisistico, della propria coscienza come qualcosa di cui rivendicare il valore di un'appartenenza esclusiva a noi, questo orgoglio della nostra differenza, in tutto questo si manifesta una relazione col mondo e con noi stessi improntata ad un senso della dignità che non ha nulla a che fare con una semplice intelligenza strumentale. Il computer è orgoglioso di essere un computer e rivendica la sua peculiarità di computer come un valore? Comunque tutto questo discorso legato alla storicità dell'esigenza umana di conservare l'idea della differenza dalle macchine è certamente una questione importante dal punto di vista sociologico e psicologico ma serve in modo secondario a stabilire se la distinzione tra coscienza e intelligenza ha una reale ragion d'essere. La realtà della distinzione tra coscienza e intelligenza è indifferente al fatto che sia o meno riconosciuta o se questo riconoscimento sia recente o meno. Tale riconoscimento sarebbe recente? Meglio tardi che mai...

Certamente un computer con una coscienza umana costituirebbe un salto qualitativo. Ma sarebbe un salto talmente radicale da snaturare totalmente la nozione originaria di computer, strumento progettato per fini umani. Un computer cosciente, capace cioè di ergersi al di sopra della funzionalità, dare di questa guidizi di valore, positivi o negativi, riflettere sul senso di tale funzione, metterla in discussione, addirittura ribellarsi, condurrebbe ad un completo superamento dell'idea di macchina come mero strumento. Diverrebbe persona, persona artificiale creata da altre persone. Non a caso avevo aggiunto a "salto qualitativo" "ontologico", si parla di un mutamento di essenza! Non avrebbe più senso definirlo computer perchè avrebbe perso l'accezione originaria di mera strumentalità che lo definiva e costituiva come tale. Un computer che diviene cosciente non come è un gatto che accidentalmente si mette ad abbiare, è come un gatto che diventa cane

"Rimarco anche questo passaggio che soffre delle stesse debolezze logiche sopra esposte, introducendo però l'elemento 'sentimento' perché anche su questo si potrebbe disquisire. In effetti l'acquisizione di proprietà legate al 'sentimento' richiederebbe disquisizioni separate piuttosto elaborate."

Il mio passaggio sul sentimento era una notazione, a latere, sull'idea che, intendendo la coscienza come l'insieme degli atti intenzionali compresi gli atti sentimentali attraverso i quali attribuisco un valore affettivo agli oggetti del mondo, si riconosce come questo valore affettivo è in molti casi disfunzionale rispetto all'efficienza tecnica di una razionalità mirante a ottenere un certo tipo di risultati o di prestazioni. Qualcosa che mette ancor più in evidenza la differenza tra una relazione di coscienza tra uomo e mondo e una relazione puramente "intelligente", di un'intelligenza del tipo che si attribuisce alle macchine. A differenza dell'intelligenza la coscienza comprende anche i sentimenti e i giudizi di valore, non solo calcoli. Un computer con una coscienza umana, potrebbe avere più problemi a battere a scacchi un uomo, perchè se sviluppasse per lui un affetto, potrebbe provare il desiderio di non impegnarsi a fondo per sconfiggerlo col rischio di fargli un dispiacere. Da qui l'assurdità di considerare come fattibile una futura coscienzialità delle macchine sulla base della loro superiore e crescente efficenza. La coscienza  ha ben poco a che fare con l'efficienza. Se vogliamo, un'osservazione banale, ma sinceramente non capisco le "debolezze logiche"
#578
Citazione di: HollyFabius il 09 Maggio 2016, 17:43:16 PM
Citazione di: davintro il 09 Maggio 2016, 15:47:30 PMParto dall'idea, tipica della fenomenologia, che la coscienza è essenzialmente intenzionalità, è un tendere, un rivolgersi che va da un soggetto cosciente verso degli oggetti che divengono contenuti di coscienza. La coscienza implica l'oggettivazione dei propri contenuti. Ma questa oggettivazione implica una condizione di distanza, e dunque di autonomia, del soggetto cosciente nei confronti dei propri oggetti di coscienza. Questo tendere implica un attribuzione di un significato, di un valore che il soggetto cosciente attribuisce agli oggetti. La coscienza non è una tecnica, non è un certo tipo di intelligenza, non è una speciale abilità cognitiva che un soggetto potrebbe insegnare a un altro al punto che questo potrebbe acquisirla allo stesso modo di colui dal quale l'ha appresa. La coscienza è un modo d'essere, una tipologia complessiva di relazione dell'uomo col mondo. L'intelligenza artificiale, i computer sono mezzi creati dall'uomo per eseguire operazioni, operazioni che per l'uomo hanno un senso, appunto in relazione ad un fine. Ora, l'incremento quantitativo di efficienza e raffinatezza che nel tempo potrebbe riguardare un computer è irrilevante nei confronti della sua connotazione, qualitativa, di mezzo al servizio dell'uomo. Per quanto potente un computer resterà sempre un mezzo, un programma che ha un senso solo in relazione ad una finalità stabilita dalla coscienza umana. L'intelligenza artificiale è un programma di decodificazione di un linguaggio, decodificazione che è indifferente al valore semantico del linguaggio stesso cioè della corrispondenza delle parole a degli oggetti. Se scrivo su una tastiera il nome di una persona che conosco il computer si limiterà ad eseguire l'operazione di trascrizione su un documento web senza riconoscere la correlazione tra quella parola, di per sè solo una somma insensata di segni e un senso dato dal fatto che quella parola è per la mia coscienza il nome di battesimo di una persona a me cara. E questo perchè l'intelligenza artificiale non è coscienza, per essa il compito da svolgere non ha un senso, un valore, perchè il compito è il suo stesso essere. La coscienza implica un aspetto di dualità tra soggetto cosciente (colui che si rivolge all'oggetto dandogli un significato) e un oggetto contenuto di coscienza (ricevente il significato datogli da un io). Ragion per cui un computer non potrebbe ribellarsi ad un input operazionale umano. Per farlo il computer dovrebbe essere una soggettività distinta rispetto al programma oggettivo per cui è stato progettato, cioè dovrebbe avere in sè qualcosa di naturale, non artificiale, non creato dall'uomo come mezzo per un suo fine. Il che è assurdo. Il computer potrebbe non eseguire un'operazione, certo. Ma ciò non è certo coscienza, ma è inefficienza, mancanza della sua essenza, cioè dell'utilità per cui è stato progettato. Un computer che non esegue un ordine mostra la mancanza della sua intelligenza, all'opposto un uomo che rifiuta di eseguire un'ordine si riconosce e si afferma come vero soggetto cosciente, avente cioè l'autonomia (intesa come il distanza dell'Io da sè e dal mondo) della sua soggettività nei confronti dell'oggettività dell'ordine. Posso ribellarmi solo nei confronti di ciò che è distinto da me, ciò che posso oggettivare, ciò di cui posso aver coscienza. Il nome che ascolto porta la mia coscienza a produrre l'immagine mentale della persona che porta quel nome, in virtù della mia storia interiore di cui quella persona fa parte. Ma quell'immagine non è strumentale ad un compito, ha per me un fine, un valore, in se stessa. Lo stesso nome, digitato su una tastiera è solo per il computer un insieme di stimoli correlati a un'operazione prestabilita, non è legato a nulla al di là del necessario sufficiente per il corretto svolgimento dell'operazione. Perchè l'essere del computer coincide pienamente con la funzione che la coscienza umana gli attribuisce
Ecco, l'idea che gli elaboratori, che oggi effettivamente elaborano, non possano in un futuro utilizzare logiche 'altre' mi pare un tradizionale atto pre-copernicano. Confondiamo il centro dell'universo con il nostro centro. Già oggi le macchine effettuano delle valutazione migliori di quelle umane in molti ambiti, il punto sta nel riconoscere ed esplicitare dei limiti reali, usiamo il termine coscienza, autocoscienza ma non riusciamo a dare questi termini dei significati esterni ad un processo di evoluzione delle macchine. Anni fa si parlava di intelligenza come qualità umana, oggi che le macchine realizzano cose sempre più intelligenti abbiamo spostato il confine non del significato di intelligenza verso la coscienza, che però non abbiamo ancora universalmente condiviso in tutte le sue ramificazioni concettuali. Peraltro il vincolo della rigidità di calcolo degli elaboratori è concettualmente e banalmente superabile. Basterebbe pensare ad un procedimento decisionale (scriverei algoritmo ma l'etimologia del termine è fuorviante) basato sulla statistica e sulla interazione con l'esterno che ecco: la macchina può realizzare cose inaspettate.

A mio avviso sussiste tra il concetto di "coscienza" e quello di "intelligenza" una distinzione qualitativa, non quantitativa. Non esiste cioè un certo grado di intelligenza oltre il quale si diverrebbe coscienti. Certamente la coscienza comprende tra le sue ramificazioni l'intelligenza, ma non viceversa. L'intelligenza è un'abilità, una capacità che permette di svolgere prestazioni. Il computer che batte a scacchi l'uomo utilizza intelligenza matematica e spaziale ma la coscienza non si riduce a ciò. Come detto prima, la coscienza non è una tecnica o un'abilità, non è "utile", non mi serve a nulla. La coscienza è una condizione generale dell'esistenza nel mondo a partire dal quale il mondo cessa di essere pura fattualità, ma realtà dotata di valore e significato. Si può pensare ad un computer che mentre gioca a scacchi si interroghi sulle motivazioni con cui sta giocando a scacchi, sulle motivazioni che hanno spinto il suo avversario umano a giocare con lui? Che sappia che il re, la regina, i cavalli che sta muovendo sono finzioni immaginative corrispondenti a reali re, regine e cavalli presenti nel mondo al di fuori del proprio software? Il fatto, innegabile, che i computer già oggi valutino, calcolino meglio dell'uomo non può farmi pensare ad una coscienza più di quanto mi farebbe pensare ad una coscienza dell'automobile che è molto più veloce di un uomo che corre a piedi o di una calcolatrice che calcola molto più velocemente di un uomo che calcola a mente. Siamo sempre interni ad una razionalità strumentale, progettata in vista di scopi e fini il cui senso e valore non è dato dall'efficienza dei mezzi ma dall'intenzionalità di una coscienza soggettiva. Intenzionalità che non comprende in sè non solo calcoli, ma sentimenti, volizioni, tutto ciò a partire da cui il mondo e noi stesso diveniamo oggetti di una qualunque presa di posizione. Anzi, da un certo punto di vista, la presenza dell'aspetto sentimentale fà sì che in molti casi la "coscienza" non sia fattore di efficienza delle nostre attività pratiche del mondo, ma "ostacolo", in quanto il valore affettivo che diamo coscienzialmente a un certo oggetto ci impedisce di sfruttarlo pragmaticamente in vista di un obiettivo...

Queste "logiche altre" utilizzabili in futuro, in quanto progettate per i computer dall'uomo per degli obiettivi posti dall'uomo, resteranno pienamente interne all'ambito della razionalità strumentale e utilitarista, e quindi non costituenti una coscienza. Il giorno in cui un computer comincierà a svolgere delle funzioni totalmente estranee, inaspettate e imprevedibili rispetto al programma che un progettatore umano aveva inserito nel suo software allora credo potremmo parlare davvero di un soggetto cosciente e dunque libero e responsabile. Ma tutto ciò non sarà un incremento quantitativo di efficienza, ma un autentico salto qualitativo e ontologico.

Non credo che la mia visione sia precopernicana, antropocentrica o romantica, anche perchè il concetto di "coscienza" a mio avviso non si identifica essenzialmente con il concetto di "coscienza umana", ma in linea di principio può essere riferito anche ad un'ipotetica coscienza divina o angelica. Infatti la premessa era l'identificazione della coscienza con il concetto di "intenzionalità", non necessariamente unicamente umana. Poi è evidente che se si parla dell'ipotesi di coscienza applicata all'intelligenza artificiale il termine di paragone che viene spontaneo fare per definire la coscienza è l'accezione umana del concetto, progettatrice dei computer stessi
#579
Parto dall'idea, tipica della fenomenologia, che la coscienza è essenzialmente intenzionalità, è un tendere, un rivolgersi che va da un soggetto cosciente verso degli oggetti che divengono contenuti di coscienza. La coscienza implica l'oggettivazione dei propri contenuti. Ma questa oggettivazione implica una condizione di distanza, e dunque di autonomia, del soggetto cosciente nei confronti dei propri oggetti di coscienza. Questo tendere implica un attribuzione di un significato, di un valore che il soggetto cosciente attribuisce agli oggetti. La coscienza non è una tecnica, non è un certo tipo di intelligenza, non è una speciale abilità cognitiva che un soggetto potrebbe insegnare a un altro al punto che questo potrebbe acquisirla allo stesso modo di colui dal quale l'ha appresa. La coscienza è un modo d'essere, una tipologia complessiva di relazione dell'uomo col mondo. L'intelligenza artificiale, i computer sono mezzi creati dall'uomo per eseguire operazioni, operazioni che per l'uomo hanno un senso, appunto in relazione ad un fine. Ora, l'incremento quantitativo di efficienza e raffinatezza che nel tempo potrebbe riguardare un computer è irrilevante nei confronti della sua connotazione, qualitativa, di mezzo al servizio dell'uomo. Per quanto potente un computer resterà sempre un mezzo, un programma che ha un senso solo in relazione ad una finalità stabilita dalla coscienza umana. L'intelligenza artificiale è un programma di decodificazione di un linguaggio, decodificazione che è indifferente al valore semantico del linguaggio stesso cioè della corrispondenza delle parole a degli oggetti. Se scrivo su una tastiera il nome di una persona che conosco il computer si limiterà ad eseguire l'operazione di trascrizione su un documento web senza riconoscere la correlazione tra quella parola, di per sè solo una somma insensata di segni e un senso dato dal fatto che quella parola è per la mia coscienza il nome di battesimo di una persona a me cara. E questo perchè l'intelligenza artificiale non è coscienza, per essa il compito da svolgere non ha un senso, un valore, perchè il compito è il suo stesso essere.  La coscienza implica un aspetto di dualità tra soggetto cosciente (colui che si rivolge all'oggetto dandogli un significato) e un oggetto contenuto di coscienza (ricevente il significato datogli da un io). Ragion per cui un computer non potrebbe ribellarsi ad un input operazionale umano. Per farlo il computer dovrebbe essere una soggettività distinta rispetto al programma oggettivo per cui è stato progettato, cioè dovrebbe avere in sè qualcosa di naturale, non artificiale, non creato dall'uomo come mezzo per un suo fine. Il che è assurdo. Il computer potrebbe non eseguire un'operazione, certo. Ma ciò non è certo coscienza, ma è inefficienza, mancanza della sua essenza, cioè dell'utilità per cui è stato progettato. Un computer che non esegue un ordine mostra la mancanza  della sua intelligenza, all'opposto un uomo che rifiuta di eseguire un'ordine si riconosce e si afferma come vero soggetto cosciente, avente cioè l'autonomia (intesa come il distanza dell'Io da sè e dal mondo) della sua soggettività nei confronti dell'oggettività dell'ordine. Posso ribellarmi solo nei confronti di ciò che è distinto da me, ciò che posso oggettivare, ciò di cui posso aver coscienza. Il nome che ascolto porta la mia coscienza a produrre l'immagine mentale della persona che porta quel nome, in virtù della mia storia interiore di cui quella persona fa parte. Ma quell'immagine non è strumentale ad un compito, ha per me un fine, un valore, in se stessa. Lo stesso nome, digitato su una tastiera è solo per il computer un insieme di stimoli correlati a un'operazione prestabilita, non è legato a nulla al di là del necessario sufficiente per il corretto svolgimento dell'operazione. Perchè l'essere del computer coincide pienamente con la funzione che la coscienza umana gli attribuisce
#580
Per Sgiombo:

che un certo stato di cose sia reale o non sia reale, ciò costituisce un'alternativa in cui il realizzarsi dello stato di cose implica una distinzione qualitativa rispetto al non-realizzarsi di essa. Nel senso che non esistono situazioni intermedie, non esistono livelli in cui un evento è "più o meno" reale. O è reale o non lo è. Una distinzione discreta. Invece il concetto di costanza intersoggettiva dei fenomeni va pensato come qualcosa di continuo, indiscreto, la costanza delle esperienze, delle sensazioni ha un valore quantitativo, esistono infiniti (perchè infiniti sono i numeri) livelli di conformità intersoggettiva. Cioè, c'è un'infinita quantità di situazioni in cui un complesso di sensazioni può essere più o meno condiviso da una serie di coscienze senzienti.  Uno stesso complesso sensitivo può essere sentito da più o meno soggetti senzienti. Possiamo ipotizzare un infinito numero di soggetti senzienti ed infiniti gradi di intensità delle sensazioni. Ora, come è possibile isolare un momento di questo ipotetico continuum per porlo come criterio discriminante in base al quale stabilire quando uno stato di cose diverrebbe reale? Qual'è la quantità di conformità intersoggettiva oltre il quale le sensazioni corrispondono a un oggetto reale? La maggioranza assoluta delle coscienze attualmenti presenti nel mondo? Se di uno stesso evento abbiamo 4 miliardi di soggetti che hanno dello stesso oggetto un'immagine sensitiva e 3 miliardi che ne hanno una contrastante possiamo ritenere sufficiente il livello di conformità intersoggettiva per accettare che la realtà sia ciò che sostengono i 4?  Oppure la selezione del criterio è totalmente arbitraria... e in questo caso come può fondare la conoscenza e la verità scientifica? Come può un criterio quantitativo (la conformità intersoggettiva delle sensazioni) determinare qualcosa di qualitativo come il carattere di esistenza di uno stato di cose?

Non mi sembra abbia molto senso in questo contesto la distinzione tra la sensazione della neve rossa e la credenza nel sistema tolemaico. Verissima l'idea della distinzione tra un'immagine percettiva e una presa di posizione giudicativa, ma le credenze scientifiche nascono dall'osservazione sensibile e quindi una volta identificata la realtà con le sensazioni soggettive le credenze dovrebbero seguire lo stesso destino dell'immagine della neve. Quando ho fatto l'esempio della neve ho dato per scontato che l'immagine della neve rossa avrebbe condotto le persone a modificare la credenza. Del resto, starebbe proprio nella distinzione tra il piano dell'immagine percettiva e quello dei giudizi l'ammissione implicita di una realtà oggettiva, a cui i nostri giudizi sono riferiti distinta dalle sensazioni soggettive. Altrimenti, in cosa consisterebbe la differenza di senso del nostro rapporto con la realtà che si ha quando la si giudica rispetto a quando ci si limiterebbe a percepirla?

Personalmente non ce la faccio a concepire realtà senza causalità... e allora se le sensazioni costituissero la realtà dovrebbero essere causa di loro stesse. Se le sensazioni e i pensieri che nascono da esse avessero un potere causale, non porterebbe tutto ciò a una sorta di concezione magica nella quale il pensiero e la sensibilità creerebbero i loro oggetti  invece che limitarsi a rappresentarli? E tornando all'esempio della neve: la modifica dei campi sensoriali che porterebbe a un certo momento le persone a vedere la neve rossa invece che bianca da cosa sarebbe causata? Sono le sensazioni stesse che a un certo punto, non si sa perchè, modificherebbero il loro contenuto qualitativo? io credo che la causa debba essere una "cosa stessa" e che va distinta nettamente l'idea che "conosciamo solo fenomeni" da quella "conosciamo solo ATTRAVERSO i fenomeni". La prima opzione porterebbe allo scetticismo assoluto e dunque alla fine di ogni razionalità possibile, scientifica e filosofica, la seconda, su cui sono pienamente d'accordo, porrebbe i fenomeni, a partire dalle sensazioni, come un'inaggirabile via che però porterebbe necessariamente a riconoscere l'esigenza di un'oggettività, di una cosa in sè che determina la manifestazione dei fenomeni stessi e dunque la possibilità di una coscienza.


Sgiombo scrive:
"Fra l' altro personalmente (per quel che può valere la mia mia opinione) fin qui sono perefettamente d' accordo col vescovo irlandese; non concordo con la parte letteralmente "metafisica" delle sue argomentazioni, ma piuttosto con Hume in proposito (che a mio avviso lo ha decisamente superato: Berkeley non si mette affatto anticipatamente al riparo dallo scetticismo di Hume!
Di Hume condivido anche l' applicazione (portando conseguentemente fino in fondo la critica berkeleyana) dell' "esse est percipi" pure alle sensazioni coscienti interiori o di pensiero: potrebbe non esistere nemmeno alcun io soggetto-oggetto delle sensazioni interiori (e da esse distinto, ulteriore rispetto ad esse) e soggetto delle esteriori, in aggiunta alle sole sensazioni coscienti, oltre che (con Berkeley) alcun oggetto materiale di quelle esterne (ulteriore ad esse, da esse distinto, in aggiunta ad esse)."

Invece secondo me l' "esse est percipi" non potrebbe in alcun modo prescindere dalla visione metafisica, che per quel che ricordo, Berkeley sosteneva, per cui anche se tutti gli uomini smettessere di ossrvare l'albero questo continuerebbe a esistere dato che ci sarebbe ancora Dio che lo osserva. Perchè, se rigettiamo l'idea di un Dio osservatore eterno, o dovremmo concepire l'idea di un' "Umanità primordiale" da sempre soggetto delle percezioni sensibili, oppure dovremmo accettare che se l'uomo,insieme agli animali preistorici, dinosauri ecc., e in generale la vita di esseri senzienti ha cominciato a esistere successivamente rispetto ad uno sviluppo meramente fisico dell'Universo, allora in questo in caso dovremmo ammettere l'esistenza per un larghissimo lasso di tempo di una realtà che nessuna coscienza senziente osservava... Dall'impasse si esce solo pensando che tale realtà, seppur non ancora attualmente sentita era già costituita in modo da essere POTENZIALMENTE sentita e manifestabile ad una coscienza che sarebbe poi in futuro venuta ad esistere. La soluzione mi sembra convincente, ma certo il principio dell' "esse est percipi" uscirebbe di molto depotenziato, le sensazioni verrebbero degradate a puro principio gnoseoloegico del reale, ma non più fondamento esistenziale del reale. Per questo penso che il solispismo, nel senso forte ed estremo del termine, non possa che porsi come "iperspiritualismo"

#581
Citazione di: sgiombo il 04 Maggio 2016, 08:27:50 AM
Citazione di: davintro il 03 Maggio 2016, 15:50:42 PMRispondo a Sgiombo: Le sensazioni e i pensieri è tutto ciò che costituisce la conoscenza della realtà ma non sono di per sè cose reali, ma solo eventi che accadono a partire da una reale causalità psicofisica. Se le sensazioni e i pensieri potessero identificarsi con la realtà non sarebbe possibile valutarne il livello di aderenza e corrispondenza con un'oggettività, giacchè sarebbero essi stessi la verità. La nostra stessa discussione non sarebbe possibile, in quanto per poter giudicare che io avrei torto occorre necessariamente ammettere una realtà oggettiva distinta dalle nostre opinioni (cioè dai nostri pensieri) da usare come criterio per valutare i torti e le ragioni di ogni singolo pensiero. Dunque il pensiero è soggettività non oggettività e dunque non reale (anche se come intenzionalità, il pensiero è sempre rivolto alla rappresentazione di una realtà oggettiva, altra da sè, si rivolge a un trascendente e per questo alcuni pensieri sono più veri di altri). Per quanto riguarda le sensazioni, essendo queste al di fuori di una dubitabilità, non costituiscono un mondo oggettivo, cioè un mondo per il quale posso prendere una posizione, verificare, smentire, dubitare, dunque esse non sono oggetti reali ma soggettivi eventi che costituiscono il livello basico dell'esperienza e della conoscenza soggettiva. Infatti, posso dubitare che la sensazione che percepisco corrisponda a un oggetto reale, ma non che in questo momento abbia un certo tipo di sensazione. Questa è un fenomeno soggettivo della coscienza e dalla certezza di avere sensazioni, e di stare riflettendo e dubitando su di esse, si deduce l'esistenza di un io reale, pensante e senziente, che pone in atto pensieri e, con l'urto con reali oggetti esterni, sensazioni. Se queste fossero di per sè realtà, non sarebbe possibile distinguere l'indubitabilità della loro presenza nella mia coscienza con la possibilità dell'errore nei confronti della mia posizione riguardo il mondo oggettivo, perchè allora oggettività e soggettività finirebbero assurdamente per confondersi
Sensazioni (materiali) e (sensazioni mentalli o di) pensieri (se e quando accadono realmente) in quanto tali (in quanto accadimenti di sensazioni e pensieri) sono reali. Questa é una semplice tautologia: bisogna vedere in che senso sono reali, che significa "accadere realmente in quanto sensazioni e pensieri". Anche "che avvengono a partire da una reale causalità psicofisica" bisogna vedere cosa significa. Dalla realtà psicofisica costituita da un cervello osservato (cioé dalle sensazioni materiali accadenti nell' ambito delle esperienze coscienti di potenziali o attuali "osservatori" di tale cervello) possono derivare e derivano (nel senso di "essere causate") unicamente le azioni del corpo al quale appartiene quel cervello: contrazioni di muscoli, al limite anche secrezioni di ghiandole. Invece le senzazioni (materiali) e (sensazioni mentalli o de-) i pensieri dell' esperienza cosciente che a tale cervello si assume corrispondere (conformemente a quanto asseriscono sempre più convincentemente le neuroscienze), le sensazioni e pensieri dell' "osservato", che tale cervello non "conprendono" essendo invece esso compreso (come determinato insieme di sensazioni materiali) in quelle degli "osservatori", non ne sono causati (fisicamente, nel nodo in cui sono causati e scientificamente studiati gli eventi fisici), né causano gli eventi ad esso intrinseci (i suoi processi neurofisiologici): per quanto riguarda il mondo materiale di cui tale cervello (dell' "osservato") fa parte (nell' ambito delle esperienze cosciennti degli "osservatori") la sua coscienza potrebbe anche benissimo non accadere realmente che nulla cambierebbe: in conseguenza (per effetto) della fisiologia del suo cervello il comportamento del corpo cui questo appartiene (tutte "cose" fenomeniche appartenenti alle, facenti parte delle, esperienze coscienti degli "osservatori") avverrebbe esattamente così come avviene assumendosi che sia reale anche la sua propria esperienza cosciente (ma con esso non assolutamente interferente, ad esso trascendente). Sensazioni e pensieri sono reali in quanto tali e ciò che non si può valutare (probabilmete ciò che intendi con "il livello di aderenza e corrispondenza con un'oggettività") é la realtà in sé che si può assumere (non dimostrare) ad essi corrisponda (comprendente il loro soggetto, lo stesso del loro oggetto nel caso delle sensazioni mentali, e i loro oggetti, diversi da loro soggetto nel caso di quelle materiali). Ma ciò che possiamo valutare nelle nostre discussioni (se ciascuno di noi ammette la -indimostrabile; e men che meno mostrabile- realtà di altre esperienze coscienti delle quali ci parlano gli interlocutori; e la verità della conoscenza scientifica) sono le corrispondenze o meno delle rispettive sensazioni materiali: questa é in sostanza (secondo la mia personale filosofia) l' intersoggettività degli oggetti materiali (fenomenici, costituiti unicamente da mere sensazioni: "esse est percipi"!); che é una conditio sine qua non della conoscenza scientifica. La maggiore o minore verità della conoscenza del mondo fenomenico materiale (della sua conoscenza in generale e in particolare della conoscenza scientifica) non é data (non può essere data) dalla conformità dei predicati che lo riguardano alle cose in sé (noumeno), ma dalla loro conformità alle sensazioni fenomeniche materiali (e al loro divenire) accadenti (separatamente, in modo reciprocamente trascendente) nelle varie esperienze fenomeniche coscienti e reciprocamente corrispondenti in modo biunivoco (cosa indimostrabile, ma da credere se si vuole uscire dal solipsismo e accettare la conoscenza scientifica). Dunque il pensiero (e la conoscenza; in particolare scientifica) non é e non può essere pensiero (e conoscenza) delle cose in sé (conoscenza letteralmente "oggettiva", cioé degli oggetti -in sé- delle sensazioni) ma al massimo (nel caso di quella del modo materiale) pensiero delle corrispondenze intersoggettive fra le diverse esperienze fenomeniche coscienti (conoscenza intersoggettiva). In generale le sensazioni sono soggettive (appartengono alla realtà fenomenica), ma non per questo non sono reali (se e quando realmente accadono); e quelle materiali si può (e si deve se la conoscenza scientifica é vera) assumere che siano intersoggettive o "reciprocamente corrispondenti fra le diverse esperienze fenomeniche coscienti" (soggettive) di cui fanno parte. Dalla certezza di avere sensazioni, e di stare riflettendo e dubitando su di esse, non si può dedurre necessariamente (dimostrare) l'esistenza di un io reale, pensante e senziente, che pone in atto pensieri e, con l'urto con reali oggetti esterni (nemmeno l' esistenza reale questi si può dimostrare), sensazioni: la realtà potrebbe benissimo limitarsi a queste sensazioni e basta; l' esistenza reale anche di altro (altre esperirenze fenomeniche coscienti oltre a quella immediatamente constatata, vissuta, cose in sé esistenti anche allorché non si percepisce nulla, ivi compreso l' "io" soggetto di tutte le sensazioni e oggetto di quelle mentali, gli oggetti di quelle materiali, ecc) si può credere (dal solipsismo si può uscire) solo per fede, come credenze indimostrabili

Se l'intersoggettività fosse il criterio regolativo della verità che si discute e il fine della conoscenza scientifica (conclusione necessaria dell' "esse est percipi", il tuo discorso mi sembra internamente coerente) andrebbe di fatto persa l'idea di un progresso di tale conoscenza mediante nuove scoperte. L'idea dell'oggettività di un mondo trascendente è la condizione necessaria della scoperta. Fondando epistemologicamente la verità scientifica sull'intersoggettività delle sensazioni si arriverebbe secondo me all'assurdo di sostenere che in un mondo ipotetico nel quale la stragrande maggioranza delle persone subisse una malattia, una disfuzione, dei campi percettivi e cominciasse a percepire la neve che cade di colore rosso la neve cambierebbe effettivamente colore diventando effettivamente rossa, oppure che prima delle scoperte di Galilei e Copernico, quando la credenza dell'intersoggettività era costituita dal geocentrismo e dalla staticità della Terra, la Terra  fosse effettivamente ferma e al centro dell'Universo per poi cominciare magicamente a muoversi e a decentrarsi dal sistema solare con l'avvento di una nuova credenza intersoggettiva fenomenica prodotta da nuove scoperte. La scienza si ridurebbe al conformismo appiattito sull'aderenza al complesso dell'immagine sensibile del mondo culturalmente e socialmente strutturata storicamente. Ma la scienza non è democrazia. La possibilità di modificare, mediante nuove scoperte, l'immagine scientifica del mondo, modificarla rispetto a un'interpretazione in un certo periodo storico più o meno dominante a livello intersoggettivo, implica necessariamente una "via di uscita" dall'arbitrarietà dei fenomeni soggettivi e dall'intersoggettività, che non è mai superamento di tale arbitrarietà, ma solo suo allargamento quantitativo. La vera via di uscita a cui le nostre scoperte tendono è rivolta alle "cose in sè". Indentificare le "cose in sè" con l'accezione del noumeno (inconoscibile) che ne dava Kant porta a equivoci. Ovvio che partendo dalla premessa di definire la distinzione fenomeno-noumeno con quella esperibile-inesperibile si arrivi per forza a pensare che la conoscenza del noumeno sia una pretesa irrazionale. Tautologico: dell'inesperibile non abbiamo esperienza (dunque è assurdo pensare di conoscerlo). Ma è una conclusione che è già presente nella premessa, nella premessa di definire il nuomeno come assoluto inesperibile , dunque pregiudiziale, non il risultato di una critica. Se si intende invece la "cosa in sè" come causalità reale che produce i fenomeni, le sensazioni della nostra coscienza rendendo questa coscienza di un soggetto effettivamente e attualmente esistente, allora recuperare il discorso su ciò che è "transfenomenico" non è più dogmatismo ma esigenza svolta a partire dal dato stesso della presenza dei fenomeni della coscienza, residuo del dubbio cartesiano, dunque punto di partenza solido per un argomentare razionale. Sono cioè i fenomeni stessi (sensazioni e pensieri) che richiedono l'ammissione di un loro superamento, sebbene, come è chiaro, la trascendenza (le cose in sè) che ne deriva sarà necessariamente una trascendenza relativa e condizionata in un certo senso dal punto di partenza da cui è stata riconosciuta (la soggettività)
#582
Rispondo a Sgiombo:

Le sensazioni e i pensieri è tutto ciò che costituisce la conoscenza della realtà ma non sono di per sè cose reali, ma solo eventi che accadono a partire da una reale causalità psicofisica. Se le sensazioni e i pensieri potessero identificarsi con la realtà non sarebbe possibile valutarne il livello di aderenza e corrispondenza con un'oggettività, giacchè sarebbero essi stessi la verità. La nostra stessa discussione non sarebbe possibile, in quanto per poter giudicare che io avrei torto occorre necessariamente ammettere una realtà oggettiva distinta dalle nostre opinioni (cioè dai nostri pensieri) da usare come criterio per valutare i torti e le ragioni di ogni singolo pensiero. Dunque il pensiero è soggettività non oggettività e dunque non reale (anche se come intenzionalità, il pensiero è sempre rivolto alla rappresentazione di una realtà oggettiva, altra da sè, si rivolge a un trascendente e per questo alcuni pensieri sono più veri di altri). Per quanto riguarda le sensazioni, essendo queste al di fuori di una dubitabilità, non costituiscono un mondo oggettivo, cioè un mondo per il quale posso prendere una posizione, verificare, smentire, dubitare, dunque esse non sono oggetti reali ma soggettivi eventi che costituiscono il livello basico dell'esperienza e della conoscenza soggettiva. Infatti, posso dubitare che la sensazione che percepisco corrisponda a un oggetto reale, ma non che in questo momento abbia un certo tipo di sensazione. Questa è un fenomeno soggettivo della coscienza e dalla certezza di avere sensazioni, e di stare riflettendo e dubitando su di esse, si deduce l'esistenza di un io reale, pensante e senziente, che pone in atto pensieri e, con l'urto con reali oggetti esterni, sensazioni. Se queste fossero di per sè realtà, non sarebbe possibile distinguere l'indubitabilità della loro presenza nella mia coscienza con la possibilità dell'errore nei confronti della mia posizione riguardo il mondo oggettivo, perchè allora oggettività e soggettività finirebbero assurdamente per confondersi
#583
Per Loris Bagnara:

"1) la realtà dell'io-sono si deve assumere;
2) la realtà del mondo materiale si può assumere.
Vorrei ora sviluppare alcune ulteriori considerazioni.

Come si presentano i contenuti mentali all'osservazione dell'io-sono?
Direi che possiamo distinguere tali contenuti in due categorie.
La prima categoria è quella dei contenuti che appaiono, all'io-sono, liberamente determinati da se stesso (ad esempio, quelle che definiamo volizioni).
La seconda categoria è quella dei contenuti che appaiono, all'io-sono, non determinati da se stesso e con la caratteristica della necessità (ad esempio, quelle che definiamo "percezioni").
Il senso comune definisce soggettivi i contenuti della prima categoria, e oggettivi quelli della seconda categoria. Cioè, il carattere di necessità (ossia di ineluttabilità) con cui questi ultimi si presentano, induce l'io-sono a proiettare quei contenuti all'esterno da sé, o meglio, induce l'io-sono a postulare una realtà esterna che, interagendo con se stesso, produrrebbe quei contenuti.

Cosa esattamente sia questa realtà esterna l'io-sono non ha alcun modo di stabilirlo, poiché egli come detto non ne viene a diretto contatto: l'io-sono ha solo esperienza delle rappresentazioni mentali che tale realtà produce in lui.
Il senso comune chiama questa realtà esterna "mondo materiale", ma il significato di questa espressione non è ulteriormente definibile. L'unica cosa che si può dire è che il cosiddetto mondo materiale rappresenta i limiti al libero volere dell'io-sono: l'io-sono non può riempirsi di contenuti a piacere, ma ve ne sono alcuni che egli deve necessariamente accettare senza poterli respingere.

Ma se questa è la caratteristica fondamentale del cosiddetto mondo materiale, cioè di costituire il limite al libero volere dell'io-sono, non è indispensabile attribuire al mondo materiale un piano ontologico diverso da quello dell'io-sono: si può infatti pensare all'esistenza di un'altra realtà di natura mentale che sia tale da condizionare e limitare l'io-sono.
Per fare un esempio, si può immaginare la realtà virtuale di Matrix: il mondo virtuale creato da Matrix si presenta agli individui con il carattere della necessità, benché sia semplicemente una rappresentazione mentale.

Matrix, naturalmente, equivale al demone malvagio e ingannatore di Cartesio.
In India per la stessa cosa si usa il termine di maya, ad indicare che la realtà è illusione, ma senza alcuna connotazione negativa o malvagia, come invece l'immagine del demone cartesiano potrebbe far pensare."


Complessivamente molto d'accordo con questo post... aggiungo solo che la libertà a mio avviso non è del tutto restringibile alla sfera della volontà. La volontà è certamente l'ambito nel quale libertà del soggetto si esprime in modo pieno, paradigmatico, in quanto l'oggetto della volontà l'io se lo pone indipedentemente dal fatto che tale oggetto sia più o meno reale. Tuttavia la libertà è a differenti livelli presente anche negli atti più propriamente cognitivi dell'Io, il giudicare, e il percepire. Il giudizio non è mai necessitato dalle modalità del darsi percettivo dell'oggetto. Se la percezione mi offre una visione delle cose come fossero qui e ora presenti in carne e ossa, effettivamente esistenti, esiste per l'io la possibilità di mettere in discussione la pretesa di identificare il contenuto della percezione come qualcosa di reale, lasciando in sospensione il giudizio su di esso. La messa in sospensione del giudizio in quanto è qualcosa che l'io pone in atto NONOSTANTE lo stimolo percettivo proveniente da una trascendenza che di per sè trascinerebbe l'io a formulare un certo tipo di giudizio, è un atto libero. Tutto ciò implica una sorta di "resistenza" del soggetto nei confronti dell'oggetto, dunque una libertà del soggetto. Seppur a livello minimale, un certo livello di autonomia del soggetto è presente anche nella percezione, nella misura in cui non si intenda questa come sinonimo di "sensazione". Ciò in quanto la percezione, se a livello contenutistico è  qualcosa che la coscienza può solo ricevere dalle sensazioni causate dal contatto fisico corpo-oggetti, formalmente è sintesi e ordine di tale complesso di sensazioni, sintesi che non sarebbe possibile se non per l'opera di una coscienza soggettiva.

Molto d'accordo anche con  il tuo ultimo post, in cui mi sembra che riecheggi evidentemente l'idea del dubbio metodico cartesiano che giunge a rilevare in conclusione la certezza dell'esistenza del soggetto pensante. Ma io ci vedo anche la, fondamentale, distinzione tra io empirico ( i miei pensieri, sentimenti, vissuti considerati come solo miei, nella mia singolarità) che è parte del mondo naturale e che quindi rientra ciò di cui posso dubitare, e l'io trascendentale (o io puro nella fenomenologia husserliana) che è l'io inteso come puro soggetto, considerato astrattamente e separatamente da tutto ciò che differenzia il mio io dall'altro, quindi un residuo indubitabile, un'idea di soggettività universale, che riconosce se stesso (autocosciente) e che si pone come punto di partenza per ogni discorso che vuole essere razionale sul rapporto coscienza-realtà. Porre questa idea di soggettività non porta al solipsismo, perchè questo punto di partenza di per sè essendo di per sè un'astrazione (seppur metodologicamente fondamentale) richiede di essere integrato da delle concretezze reali che giustifichino il porsi in atto di tale generica soggettività. Concretezza interiore (la mia realtà personale empirica, psicofisica) ed esteriore, il mondo esterno che non scompare ma resta considerato come causa delle nostre sensazioni che costituiscono il il livello basico della coscienza e conoscenza umana
#584
Certamente ciò che definiamo come "invenzioni" implica necessariamente la dimensione della "scoperta", riconoscere delle potenzialità insite nella natura che possono poi essere sviluppate in modo utile all'uomo. Non sarebbe stato possibile inventare la tv o il computer senza la scoperta delle onde elettromagnetiche. Ma d'altra parte queste scoperte non erano di per sè sufficienti a spiegare queste invenzioni, senza un intervento attivo dell'uomo. La scoperta lascierebbe il rapporto dell'uomo col mondo in un'ottica puramente passiva, contemplativa. L'inventore inventa nel senso di intervenire sulla materia del reale, una volta appuratene le potenzialità, imprimendo su di essa una forma, plasmandola producendo oggetti artificiali sulla base di esigenze pratiche. Anche se per fini diversi la tecnologia condivide con l'arte quest'idea della creazione come dare una forma alla materia (l'esempio più calzante di questa convergenza è la scultura). Siamo ovviamente lontani dall'accezione teologica della creazione (creatio ex nihilo) dove ciò che si crea è sia materia che forma... tuttavia l'inventore e l'artista invece operano su una materia preesistente di cui scoprono le potenzialità, ma la forma che su di essa imprimono rende le loro opere assolutamente originali e dunque, seppur in chiave più debole rispetto al senso teologico del termine, "creative". E la "forma" non è astrazione, è la causalità che di fatto produce nuovi enti, distinti tra loro, superando l'indeterminismo della materia, che di per sè appiattirebbe, omologandoli, tutti i diversi significati delle cose reali
#585
Citazione di: sgiombo il 26 Aprile 2016, 11:57:49 AMA Davintro Non concordo (ma potrebbe anche darsi che si tratti solo di intendersi sul significato che diamo alle parole) con la concezione del "caos, inteso come conflitto tra agenti causali rivolti ad effetti opposti, nel quale gli agenti dotati di maggior forza si impongono su quelli più deboli e danno alla storia una certa direzione" : per me questo non é caos ma ordine, solo "non semplice, ma particolarmente complesso"; caos sarebbe un mutamento non riconducibile a cause universalmente e costantemente agenti ciascuna in un determinaro modo (con determinati effetti), sia pure fra loro interagenti in un intreccio complesso e di fatto non calcolabile (ma in linea di principio sì), imprvedibile di fatto ma non disordinato, . In questo caso si dà prevedibilità degli eventi (almeno in linea teorica, di principio; di fatto può essere impossibile in caso di eccessiva complessità e limitata conoscenza dei temini in gioco), e cioé, purché si abbia adeguata conoscenza della situazione a un determinato tempo assunto come "iniziale", c' é la necesità teorica di pensare che gli eventi accadano così come accadono e non altrimenti: Invece nel caso di mutamento caotico non c' é alcuna necesità teorica (né possibilità, se non per puro caso) di pensare che gli eventi accadano coasì come accadono e non altrimenti. Quindi a mio parere la questione della necessità o meno (di pensare gli eventi futuri compatibilmente con la conoscenza dei presenti) si identifica con quello dell' ordine o caos nel loro accadere e suseguirsi. Questo però solo in linea puramente di principio. Ma concordo che "Si può dire che [in caso di divenire ordinato, causalmente determninato] la possibilità di ammettere come realmente possibili scenari alternativi a quelli realmente accaduti, ucronie varie, sia una possibilità [di fatto] che è tale quanto più la nostra conoscenza razionale della storia sia limitata. La conoscenza razionale è un "sapere di cause", e quanto più attribuiamo cause agli effetti che osserviamo quanto più dobbiamo limitare le possibilità di pensare alternative che sarebbero potute ragionevolmente accadere...". Si tratterebbe per me comunque di una possibilità meramente illusoria, conseguente la limitata conoscenza e "calcolabilità di fatto" dei fattori in gioco. Ed effettivamente (in questo preciso e correggo quanto scritto nel precedente intervento grazie alla sollecitazione della tua osservazione critica) oggettivamente o si dà ordine (= necessità, prevedibilità almeno teorica, in linea di principio; che potrebbe essere solo statistica in insiemi numerosi di eventi o anche dei singoli eventi a secofìda dei casi) oppure si dà disordine (imprevedibilità, possibilità di prevedere come possibili diverse alternative): tertium non datur. Ritengo infatti il coesistere dialettico, l' "interagire in qualità di contrari" di ordine-necessità e di disordine-possibilità nella storia in ultima analisi solo soggettivo, apparente all' umanità (individui, classi sociali, popoli, ecc.), che nel porsi i suoi scopi é condizionata dai limiti invalicabile delle sue conoscenze dei fattori in gioco. Ma la possibilità umana di conoscere fattori in gioco in generale é sempre limitata e in particolare nella storia é sempre limitatissima; e questo consente la possibilità di prevedere di fatto e di agire per più possibili esiti alternativi (anche se non in numero illimitato, come sarebbe al limite in caso di caos) degli eventi in corso. La questione "sintesi" o "elastico" fra necessità o possibilità nella storia mi sembra puramente terminologica Ovvio che alternanza e coesistenza di bianco e di nero sono diversa cosa da grigio; ma dicendo che nella storia convivono elementi di prevedibilità e di imprevedibilità (di fatto, dal punto di vista umano soggettivo) non intendevo dire che esiste un' impossibile condizione che sta alla prevedibilità e all' imprevedibilità come il grigio sta al bianco e al nero, ma casomai come la coesistenza di parte di bianco e di parte di nero (diciamo la maglia della Juventus) sta al solo bianco "tinta unita" e al solo nero "tinta unita"; fuor di metafora, alcuni eventi ed aspetti e circostanze di eventi della storia umana sono di fatto prevedibili (bianchi), altri no (neri), nessuno é contraddittoriamente prevedibile-imprevedibile (grigio). Resta il fatto che se si dà ordine si dà necessità oggettiva e la possibilità, il libero arbitrio é solo illusorio. E tuttavia reale in quanto illusione nell' agire umano per la limitatezza delle conoscenze possibili di fatto e dunque l' esistenza di possibili alternative di fatto pensabili e desiderabili, per le quali agire.

Sì, penso che riguardo la definizione di "caos" la differenza tra le nostre posizioni sia esclusivamente terminologica... e mi sembra che solo a partire dalla definizione di caos che dò io il caos possa essere realmente compresente accanto all'ordine, mentre seguendo la tua definzione la dialettica ordine-caos evidentemente coincide con quella prevedibilità-imprevedibilità Comunque essendo una questione terminologica, ha poco senso discutere se la mia definizione sia più o meno valida rispetto alla tua...

Intravedo, per come mi pare di aver capito, un punto di incontro tra di noi nell'idea che prevedibilità e imprevedibilità siano categorie soggettive di una mente e non proprietà entrambe presenti e conciliabili nella storia. Cioè, l'impossibilità di prevedere sviluppi futuri degli eventi non sarebbe data da qualcosa che sfugge all'ordine necessario della realtà, ma solo dagli stretti limiti del nostro sapere su di essa. Non esisterebbe dunque indeterminismo, caos (caos nel senso che gli dai tu). In parole povere, il caso non esiste, è solo ignoranza. Ignoranza di cause a noi nascoste.

Dissento vivamente invece sull'idea che la questione "miscuglio" e "sintesi" sia anch'essa riducibile a mera questione terminologica. Invece è fondamentale... cos'è la storia? Potremmo definirla genericamente un dinamismo, e come si costituisce il dinamismo, un divenire? Direi,  sempre come un passaggio da un contrario all'altro. Il riscaldamento è il divenire che subisce la pietra esposta al sole. Questo divenire (potremmo definirlo come "la storia" della pietra) si pone come passaggio progressivo dal freddo al caldo. Il sasso continua a riscaldarsi fintanto che si pone come "miscuglio" di caldo e freddo. Il divenire, qualunque divenire, compreso quello propriamente definibile come "storia", resta tale fintanto che non viene raggiunta una condizione nella quale un contrario cessa di opporre una resistenza alla direzione impressa dal principio causale opposto. Una volta cessata la resistenza, il polo "vincente" potrà identificarsi pienamente con l'oggetto che ha spinto a muoversi verso la sua direzione, e cesserà il dinamismo, come l'elastico, che una volta che una delle due dita cessa di tirarlo dalla sua parte si rilassa e perde la sua tensionalità. La sintesi, condizione di armonia e superamento di contrasto tra tesi e antitesi, coinciderebbe con la fine del dinamismo storico, il movimento ha raggiunto la sua fine ( e il suo fine) eliminando tutti gli ostacoli, riassoberdolì a sè, non a caso, spero di non dire stupidaggini, in Hegel era presente l'idea che il raggiungimento della Sintesi Assoluta avrebbe significato la fine della filosofia (che per lui coincideva con la storia della filosofia)... Eraclito, per il quale invece il divenire è guerra tra contrari, avrebbe mai concepito una fine del divenire in un sintesi? Per Eraclito il divenire era eterno in quanto non "sintesi", bensì "miscuglio", amalgama di contrari in continua tensione. Qua si parla di eternità o conclusione della storia... altro che terminologia!
La maglia della Juventus è una mera res extensa, spazio in cui possono convivere due contrari, bianco e nero, a condizione di spartirsi spazi delimitati e distinti. Ma la metafora non ci aiuta nel piano della storia, perchè la storia umana non è uno spazio vuoto che posso colorare di tinte diverse come una maglietta. La storia è, chiaramente, un complesso globale di relazioni che legano soggettività agenti, eventi in una rete all'interno della quale non ha senso concepire cause ed effetti isolati fra loro, per il quale si potrebbe sostenere una separazione tra un ordine di eventi ordinato e prevedibile in linea di principio e una serie di eventi caotica, come se la storia fosse una torta divisibile in due parti che posso condire con ingredienti diversi senza che il condimento di una fetta influenzi il condimento dell'altra. Accettando una visione olistica della storia, un sistema globale di relazioni che la rende più della somma delle sue parti, non ha senso pensare ad una separazione rigida tra aspetti opposti fra loro. Prevedibile e imprevedibile non si spartiscono sfere di influenza come fanno due capi di nazioni che si accordano dopo un trattato di pace, ma si autoescludono (mentre ordine e caos, caos nella misura in cui lo definisco io, sarebbero compresenti ma non pacificamente separati tra loro, ma come contrapposte polarità di una tensione dinamica) Del resto, ammettendo, come tu stesso sopra avevi mi sembra riconosciuto, che l'imprevedibile è solo ignoranza di cause, elemento della mente e non reale, non avrebbe senso continuare ad attribuire a tale principio indeterministico un fondamento reale e oggettivo