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Messaggi - davintro

#586
"Ho evidenziato le parti del tuo discorso con cui mi trovo particolarmente in disaccordo. Ho notato che appartengono tutte al tanto diffuso pregiudizio kantiano del noumeno o della cosa in sé,che stabilisce che la percezione (intesa non come impressione sensoriale,bensi come sua rielaborazione) abbia come riferimento un oggetto che la trascende.
Anche il fatto che la fonte della percezione sia un oggetto è discutibile. L'uomo riceve sensazioni sparse dall'esterno,non oggetti precostituiti già pronti per poter essere utilizzati dall'intelletto. Il problema è che il processo cognitivo agisce in noi,esseri adulti e formati,in maniera così immediata e veloce che abbiamo finito per credere che la coscienza si limiti a riprodurre fedelmente la realtà cosi com'è. Un oggetto resta pur sempre un'elaborata astrazione mentale,non ha significato se non all'interno di una coscienza che lo riconosca come tale. "

In realtà più che la gnoseologia kantiana (che riducendo la conoscenza al piano dei fenomeni e lascia il noumeno come inconoscibile non potrebbe ammettere l'idea di una "cosa in sè" e dovrebbe considerare la conoscenza come pura attività ordinatrice dell'intelletto. Per questo, su ciò, sono d'accordo con Green Demetr sul fatto che sia l'idealismo lo sbocco coerente del kantismo...) avevo in mente l'idea della sintesi passiva delle fenomenologia di Husserl poi ripresa, tra gli altri, dalla sua allieva Edith Stein

A parte i riferimenti storici...
Ovviamente la conoscenza consiste in un processo cognitivo, nessuno lo nega. Ma questo processo cognitivo (al di là della rapidità o meno di esecuzione che ora non ci interessa) si dispiega nel tempo, cioè è un processo diacronico. La temporalità è la struttura fondamentale della coscenza umana. E proprio questa temporalità testimonia necessariamente l'esistenza di un mondo oggettivo autonomo dal soggetto che regge la possibilità della conoscenza. Perchè in assenza di un senso delle cose oggettive preesistente per un certo aspetto all'attività dell'io-penso non ci sarebbe temporalità. In assenza di nulla di trascendente rispetto ad essa la coscienza soggettiva, come creatrice assoluta della realtà, sarebbe una coscienza divina, assoluta, non necessitante di "tempo". per la formazione del sapere delle cose: la sua conoscenza dell cose sarebbe sovratemporale, istantanea, nell'atto in cui pone se stessa la coscienza porrebbe la visione totalizzante della realtà, che sarebbe pienamente immanente, "interna" ad essa. Ovviamente non è così. I processi cognitivi che fondano la conoscenza si costituiscono nel tempo, in quanto questi processi, l'attività formatrice dell'io, devono costantemente superare uno scarto, un residuo di trascendenza del reale che in ogni momento interviene sui nostri schemi percettivi modificandoli (l'esempio del manichino che facevo prima), modificando i nostri schemi associativi che conserviamo nella memoria in base ai quali formiamo le percezioni, il cui decorso però è dato dallo svelarsi, da parte dell'oggetto, dei suoi lati. Questa è in sintesi la conoscenza umana. Unità di intenzionalità attiva della coscienza che interviene sulle sensazioni ordinandole in concetti e categorie da una parte, ma dall'altra, intenzionalità passiva, per cui sono le cose oggettive ad intervenire sull'io offrendo ad esso i contenuti da formare: il rumore che sento all'improvviso stimola il mio io a spostare la sua attenzione da un luogo dell'esperienza a quello dove il rumore viene avvertito. Come sarebbe possibile ciò senza l'esistenza di qualcosa di esterno all'io che ne modifica la direzione d'attenzione?
#587
provo a rispondere sia a Green Demetr sia a Donalduck dato che a quanto ho capito all'incirca stanno esponendo entrambi il tema di una supposta dipendenza della realtà dal pensiero.
Donalduck scrive:
 "Ma se riflettiamo sul fatto, per quanto ovvio, che tutto quello che forma il soggetto di tutto il nostro sapere, e che forma quella che chiamiamo "realtà", proviene da un "atto cognitivo" della coscienza e alla coscienza si indirizza, può capitare che arriviamo alla conclusione che supporre una "realtà" che esiste "inosservata" è una libera fantasia priva di basi sia nell'esperienza che nella logica"

Mi pare che il discorso resti qui all'interno della dimensione dei limiti del nostro sapere. Ovvio che ciò che possiamo sapere della realtà necessariamente è costituito in modo da corrispondere ai concetti e alle categorie della nostra coscienza, è interno alla "pensabilità". Ovvio che la stessa affermazione di una realtà in sè del tutto separata dalla coscienza sia un assurdo in quanto nel momento in cui ne affermo l'esistenza la sto in qualche modo pensando, concettualizzando.... per questo anche prima scrivevo che l'ipotesi del solipsismo è una possibilità che non si può non prendere in considerazione. Posso arrivare a spingermi ad affermare che la realtà e la pensabilità finiscano col coincidere: tutto ciò che è reale è costituito da delle modalità esistenziali che corrispondono alle categorie e ai concetti della nostra mente, che li rendono pensabili e conoscibili e e ciò che sfugge alla nostra conoscenza non è al di là di un limite della pensabilità in generale, ma solo della nostra conoscenza umana, conoscenza di un essere ontologicamente limitato e imperfetto. Eppure... neanche in questo caso (il massimo che mi sento di concedere a un idealismo) sarebbe giustificabile l'idea della dipendenza dell'esistenza del reale dal pensiero. Cioè, la corrispondenza concetti mentali-cose esistenziali è presente ma non è condizione sufficiente e necessaria del loro esistere. Per la semplice ragione che l'atto causale di produzione di esistenza implica un soggetto dotato di "forza", reale, capace di produrre effetti performativi sul reale (operare il passaggio dalla non-esistenza di qualcosa all'esistenza). Come è evidente la coscienza non è capace di produrre effetti performativi sulla realtà, di modificarla, di agire su essa, non direttamente. La coscienza rispecchia in sè la realtà ma non la crea, non la modifica (anche se è un fattore necessario dell'opera di modifica che l'uomo può fare) Per produrre direttamente essa dovrebbe essere a sua volta un ente reale, dotata cioè di un concreto potere causale. La coscienza non è un fatto reale, è un modo d'essere del soggetto pensante, della persona umana. La coscienza, il pensiero si rendono concreti solo come espressioni di cause reali, siano esse di ordine biologico, psichico, spirituale... Come giustamente diceva Cartesio "Cogito ergo sum". Il mio pensiero implica un reale soggetto pensante che pensi. Il pensiero di per sè sarebbe solo astrazione... esso è il punto di partenza dal punto di vista dell'argomentazione riguardo a qualunque esistenza possibile, ecco perchè non posso mai trascendere il pensiero in qualunque mio giudizio sulla realtà, ma dal punto di vista ontologico il pensiero è conseguenza di una realtà che pensa, la cui esistenza comprende il fatto di pensare, ma non è da tale fatto determinato

Riguardo alla citazione di Kant fatta da Green demetr dico che è probabilmente vero che l'idealismo sia stata la conseguenza necessaria di quel modello kantiano, ma quel modello gnoseologico non è necessariamente (almeno per me non lo è) quello più valido possibile. Ad esempio quello fenomenologico husserliano, nei stretti limiti in cui credo di averlo compreso, mi sembra superiore: in particolare l'idea della "sintesi passiva" per cui il livello dell'esperienza che precede e fonda quello intellettuale della formazioni dei giudizi, cioè quello iletico dell'apprensione del materiale, non è di per sè cieco e disordinato, ordinato solo a partire dalle categorie dell'intelletto soggettivo, ma sarebbe già permeato da un'intenzionalità per la quale la nostra percezione soggettiva è costantemente modificata dalla passività delle sensazioni. La percezione possiede già un'intenzionalità: non si limita a cogliere il singolo lato di un oggetto che colpisce il nostro attuale campo sensitivo, ma lega quel lato a lati nascosti creando una "sintesi anticipativa" destinata però a modificarsi nel corso degli adombramenti dell'oggetto che di volta in volta mostra i suoi lati. Se da lontano vedo una forma umana avrò (in base alla memoria di esperienze simili, processo associativo) la percezione di un essere umano, man mano che mi avvicino, scoprendo nuovi lati dell'oggetto, mi renderò conto che in realtà non era realmente un uomo, ma un manichino: la passività della sensazione ha modificato la percezione dell'oggetto dandole un nuovo senso. L'oggetto si è reso attivo nei confronti della coscienza e da ciò si può dedurre la sua autonomia da questa. Esiste dunque un senso presente negli oggetti che interviene sull'esperienza e la conoscenza che abbiamo di essi, e questa modifica è possibile perchè tale senso era tale indipendentemente dall'arbitrio della mia coscienza soggettiva. Questa riceve il suo contenuto a partire dall'essere "colpita" passivamente da qualcosa di ulteriore, di trascendente ad esso, che si annuncia prima di tutto nelle sensazioni che comunicano il contenuto oggettivo alla coscienza, anzi rendendo di fatto possibile la coscienza stessa, che è coscienza in quanto intenzionalità, coscienza è sempre coscienza di qualcosa , rivolta a un mondo di oggetti trascendenti. Il mio "realismo" non vuole arrivare all'assurdo di dire che gli oggetti sono intesi separatamente da un soggetto che li intende, vuole riconoscere un loro senso al di là di un arbitrio relativistico per cui ciascuna singola coscienza individuale può dire sulla realtà tutto e il contrario di tutto vanificando di fatto qualunque concezione di verità, di scienza, dunque di filosofia...
#588
Tematiche Filosofiche / Re:Che cos'e' la Liberta'?
27 Aprile 2016, 22:17:38 PM
Citazione di: acquario69 il 27 Aprile 2016, 06:25:42 AM
Citazione di: davintro il 27 Aprile 2016, 00:13:55 AMLa seconda opzione è quella in genere definita "compatibilismo". Secondo essa libertà non si contrappone alla necessità, ma solo alla necessità proveniente da un fattore appartenente al mondo esterno al soggetto della libertà. Ma se io compio una scelta determinata non da qualcosa da esterno, da un non-io, ma dal mio carattere, dal mio modo d'essere, inclinazione profonda, interiore, innata allora non importa il fatto che non avrei potuto fare altrimenti, che era una scelta necessitata: in quanto proveniente da un principio necessitante che però appartiene alla mia identità, è assolutamente libera. In questo contesto la libertà torna ad essere un fatto reale, in quanto conciliata con la necessità, cioè con la legge della causalità che governa il reale. Personalmente quando penso alla libertà tendo a seguire questa seconda opzione
io pero non credo possa esistere una assoluta libertà,nel senso di come mi pare averla intesa sopra,perché a quel punto se mi viene in mente di prendere una pistola perché devo soddisfare una mia inclinazione o un mio desiderio (camuffato come necessita) di quel momento e magari di sparare alle persone che mi passano accanto,allora penso che ce qualcosa che non torna..allora penso che quella diventi alienazione e non libertà e se e' alienazione forse vuol dire che non mi conosco ancora abbastanza


Intendevo brevemente esporre un criterio regolativo, necessariamente ideale, in base al quale definire la libertà e poterne valutare la presenza nella realtà. Poi è ovvio che di fatto, se si parla di essere imperfetto come l'essere umano non si può parlare di libertà assoluta, ma limitata, data la presenza di un mondo esterno che offre una resistenza al potere della nostra volontà. Parlare di "alienazione e non libertà" riguardo le scelte cattive che decidiamo di compiere ha un senso solo se pensiamo che la libertà, la vera libertà dovrebbe solo portarci a compiere il bene... in un certo senso tutto ciò implica una visione ottimistica dell'uomo, se faccio il male non riguarda me bensì una componente alienata di me, ma io mi chiedo: perchè la libertà di cui disponiamo non potrebbe essere utilizzata in modo malvagio? Non potrebbe invece essere il male, certo in misura diversa da individuo a individuo, essere connaturato all'animo umano e dunque espressione di libertà? Parlare di alienazione lascia aperto il problema: da dove nasce l'alienazione? Da me stesso? La mia libertà porta ad "autoalienarmi"? Allora torna di nuovo l'idea della possibilità della libertà malvagia (e allora non potrebbe essere lo stesso mettermi a sparare alle persone frutto della libertà stessa?) Oppure nasciamo liberi e buoni e la società o l'ambiente porta ad alienarmi, a perdere di vista la mia autenticità... in questo caso il concetto di "responsabilità" subirebbe un colpo: come tutti sono nato buono e libero, la colpa del male che faccio non è mia ma dell'ambiente che mi circonda...
#589
Tematiche Filosofiche / Re:Che cos'e' la Liberta'?
27 Aprile 2016, 00:13:55 AM
La libertà... questione fondamentale e decisiva della filosofia
Io credo che buona parte delle differenze di vedute e divergenze di opinioni su questo tema dipendano, come accade spesso, dal fatto che le "parti" in causa utilizzino differenti significati per qualificare lo stesso concetto. Volendo sintentizzare la questione, secondo me sono 2 le accezioni con cui il concetto di libertà può essere pensato: la prima, forse maggioritaria nel senso comune, è l'accezione per cui la libertà viene vista in contrapposizione con l'idea della  necessità: libera sarebbe l'azione che avrei potuto non compiere, che avrei potuto svolgere altrimenti... in questo contesto la libertà finisce di fatto a coincidere con l'irrealtà, con l'assurdo. Perchè se il reale è ciò il cui essere è legato ad una causalità allora la libertà (cioè la possibilità di alternative alla realtà) implicherebbe la rimozione delle cause agenti che hanno prodotto l'effettivo svolgersi dei fatti, e quindi una realtà totalmente alternativa a quella di fatto attuale, la libertà resterebbe un sogno, una possibilità dell'immaginazione, ma non reale, perchè ciò che è reale ha una causalità che lo rende tale, e tale causalità determina gli eventi nella misura in cui un corso degli eventi esclude un altro. La seconda opzione è quella in genere definita "compatibilismo". Secondo essa libertà non si contrappone alla necessità, ma solo alla necessità proveniente da un fattore appartenente al mondo esterno al soggetto della libertà. Ma se io compio una scelta determinata non da qualcosa da esterno, da un non-io, ma dal mio carattere, dal mio modo d'essere, inclinazione profonda, interiore, innata allora non importa il fatto che non avrei potuto fare altrimenti, che era una scelta necessitata: in quanto proveniente da un principio necessitante che però appartiene alla mia identità, è assolutamente libera. In questo contesto la libertà torna ad essere un fatto reale, in quanto conciliata con la necessità, cioè con la legge della causalità che governa il reale. Personalmente quando penso alla libertà tendo a seguire questa seconda opzione
#590
Rispondo a Donalduck:

"Bisogna chiarire cosa si intende per "realtà esistente indipendente dalla soggettività". Se si parla di soggettività individuale, è abbastanza facile essere d'accordo che l'esistenza o meno di un singolo soggetto cosciente tra tanti non incide sull'esistenza della realtà, ma se invece si intende una realtà indipendente da qualsiasi soggettività è tutta un'altra storia. In quest'ultimo caso ritengo che sia perfino logicamente contradditorio ipotizzarla."

Forse precedentemente sono stato impreciso... quando parlavo di indipendenza della realtà dalla soggettività mi riferivo alla soggettività intesa come soggettività "mentale", soggettività pensante, non soggettività tout court. Se si dà al soggetto un'accezione che va al di là del suo essere "pensante" allora mi sembra abbastanza evidente che la realtà non che essere prodotto di un soggetto, a condizione di dare a tale concetto il significato più ampio possibile, non solo soggetti umani, ma anche semplici agenti fisici che producono un'azione. Concepita la storia come un insieme di eventi o anche un semplice insieme di realtà esistenti occorre attribuire a tali eventi o esistenze una causa agente che li produca, dunque un soggetto, ma soggetto inteso come soggetto agente non necessariamente soggetto pensante e conoscente. Ciò che io contestavo è l'idea della dipendenza del reale, non da un soggetto inteso genericamente, ma dalla pensabilità o conoscibilità di tale realtà. Sostenevo l'autonomia del reale da un soggetto pensante, non da un soggetto in senso generico, che non si riduce certo al pensiero, ma produce la sua azione causale anche indipendentemente dal fatto di pensare l'oggetto che produce. Il riferimento all' "informazione" non è sufficiente a giustificare la dipendenza della realtà dal pensiero, l'informazione è la base della conoscenza, dunque può essere vista come base anche del reale soltanto accettando pregiudizialmente l'idea che la realtà si riduca alla conoscenza che abbiamo di essa, che invece è proprio quello che stiamo cercando di dimostare come risultato finale. In altre parole: vero che l'informazione è ciò che costituisce la realtà intesa come oggetto della conoscenza, ed è vero che l'informazione implica una mente che riceva l'informazione, ma bisogna ancora dimostrare che la realtà si riduca davvero all'essere oggetto di una conoscenza: perchè la realtà deve necessariamente emettere informazioni a una mente? Non è possibile ammettere una realtà che si limita a esistere tranquillamente senza necessità di informare un soggetto pensante della sua esistenza? Comunque questo discorso non voglio estremizzarlo fino al punto di escludere il pensiero da qualunque ruolo all'interno della produzione di ciò che esiste. Ma l'azione del dare esistenza a un oggetto potrebbe porre l'idea di tale oggetto (cioè la conoscenza) come ausilio, fattore che contribuisce a progettare le cose così come poi di fatto si realizzano. Resta il fatto che l'idea, il pensiero, in quanto tali non producono effetti sul mondo reale, contribuiscono a progettarlo, ma l'atto creativo del reale non può che essere un altro reale: il soggetto che produce l' esistenza del reale non può che essere un altro reale, non l'idea che di per sè è qualcosa di statico

Per quanto riguarda l'ultima parte, certamente qualunque prodotto creato assume significati che vanno al di là di quelli attribuiti dall'autore, io ho fatto l'esempio dell'opera d'arte, ma si potrebbe parlare anche di oggetti tecnologici, macchine, orologi... ma questo non cambia comunque il fatto che tanto più si cerca di compendere un oggetto quanto più occorre risalire alle cause che hanno determinato il suo essere, nel caso di un'opera d'arte, queste cause comprenderenno il soggetto che l'ha prodotto materialmente, l'autore, e poi gli ulteriori significati che nella storia sono stati attribuiti da intepreti successivi. La possibilità che ho io, attualmente, in questo momento, di attribuire a un'opera un significato originale, diverso da quelli dati nel passato è ammissibile proprio nella misura in cui l'opera possiede un suo senso oggettivo per il quale contiene in modo latente la potenzialità di intepretazioni diverse da quelle finora date. Nella misura in cui un concetto coincide una realtà oggettivamente presente posso indagarla nella mia esperienza diretta e, appunto, attuale dell'oggetto. Nella misura in cui il concetto è una creazione di una mente e non esiste se non in relazione a quella mente mi pare inevitabile vincolare la comprensione di quel concetto al pensiero che l'ho storicamente prodotto. Non cambia granchè il fatto che siano dati significati successivi rispetto a quello dato dal primo iniziatore di qul concetto, in quel caso la comprensione di quel concetto coinciderà con la storia della sedimentazione semantica che quel concetto ha via via subito da menti diverse. E sarà una comprensione storica, perchè quel concetto essendo determinato dalla mente del/dei pensatore/pensatori e non coincidente con un oggetto reale e presente non potrà essere compreso in un'esperienza diretta e attuale che ognuno di noi può  compiere in qualunque momento, a causa appunto dell'assenza di tale oggetto "qui e ora" disponibile a cui far corrispondere il concetto in questione. Spero di essere stato un minimo chiaro...
#591
Rispondo a Sgiombo:
Il problema della necessità è distinto da quello della questione ordine-caos. Sia nell'ambito dell'ordine, inteso come molteplicità di cause che convergono, coscientemente o meno, nella realizzazione di un unico accadimento, sia nell'ambito del caos, inteso come conflitto tra agenti causali rivolti ad effetti opposti, nel quale gli agenti dotati di maggior forza si impongono su quelli più deboli e danno alla storia una certa direzione, in ogni caso la dimensione della necessità non può essere trascesa. C'erano alternative al corso degli eventi rispetto alla forma in cui si è effettivamente realizzato? Le cose potevano andare in modo diverso? Certo, ma solo a condizione di modificare i fattori causali sottostanti gli eventi. Secondo me è assurdo pensare che uno stesso fattore causale, considerato isolatamente dal resto, possa produrre effetti diversi e opposti fra loro. Giustamente parli di scelte compiute dall'uomo come fattore fondamentale della storia... ma le scelte che si fanno sono comunque pur sempre determinate da una causalità, sia essa interna al soggetto che sceglie (carattere, personalità) o esterna (condizionamenti provenienti dall'ambiente familiare, sociale, più semplicemente fisico). La possibilità di ammettere cause diverse da quelle effettivamente agenti, possibilità chiamata ad alleggerire il rigore della necessità, è ammissibile fintanto che si parla di causalità contingenti, che possono esserci come non esserci, che non hanno in loro stessi la loro ragion d'essere e che dunque richiamano la necessità di essere spiegate da una causalità superiore non contingente (oppure si procede all'infinito...). Si può dire che la possibilità di ammettere come realmente possibili scenari alternativi a quelli realmente accaduti, ucronie varie, sia una possibilità che è tale quanto più la nostra conoscenza razionale della storia sia limitata.. La conoscenza razionale è un "sapere di cause", e quanto più attribuiamo cause agli effetti che osserviamo quanto più dobbiamo limitare le possibilità di pensare alternative che sarebbero potute ragionevolmente accadere... La necessità dunque io la vedrei in contrapposizione non tanto con il "caos", ma con l'irrazionale, l'inspiegabile. Il caos non è irrazionalità, ma una situazione di conflitto dove una causalità più forte si impone contro le altre, questa differenza di forza è la causa che spiega l'evento e dà a quell'effetto una necessità.

La mia idea di un "miscuglio" di ordine e caos non la vedo incoerente con l'idea di pensare ordine e caos come contrapposte. Io per contrapposizione intendo il fatto che con l'aumentare dell'aspetto di ordine nella storia dimunuisce il caos e viceversa. Questo non vuol dire che la storia sia tutto cosmo o tutto caos, vuol dire che essa nella misura in cui è cosmo non è caos e nella misura in cui è caos non è cosmo. Da qui la metafora, rozza certo, dell'elastico che si distende nell'essere tirato da due poli contemporaneamente in direzioni opposte fra loro, fattori opposti sì, ma agenti nello stesso tempo. Altro esempio: quanto più un oggetto ha un colore chiaro non è scuro, quanto più è scuro non è chiaro. Il richiamo alla "sintesi hegeliana" non è secondo me molto appropriato in questo contesto. Sintesi per me vuol dire condizione per la quale due elementi non solo sono entrambi compresi, ma convivono armonicamente cessando di essere presenti ciascuno a scapito dell'altro. La sintesi farebbe cessare il dinamismo della storia, la tensione dell'elastico. La storia non è "sintesi" di ordine e caos (altrimenti sarebbe già cessata) ma miscuglio, eterno conflitto dove questi due opposti sono compresenti ma in un modo in cui uno dei due tende a eliminare l'altro, conflitto che rende possibile il proseguire del dinamismo, come la tensione dell'elastico. Tornando alla metafora dei colori, il grigio esiste, certo, ma non è "sintesi" di bianco e nero, chiarezza ed oscurità, ma più propriamente "miscuglio", se si preferisce, "amalgama"
#592
Citazione di: sgiombo il 24 Aprile 2016, 14:49:40 PM
CitazioneDavintro ha scritto: il punto è che nel mio post di apertura c'èra anche un sottofondo polemico verso un certo modo di discutere di filosofia, dominato dal citazionismo: cioè pensare che la verità di una tesi filosofica dipenda dal consenso degli autori del passato invece che dal corrispondere alla realtà oggettiva delle cose, capita, nei contesti accademici, di assistere a discussioni filosofiche che finiscono solo con l'essere con un'esposizione di citazioni di autori "Nietzsche ha detto che..." "Sì, ma Hegel ha detto che..." senza argomentare in modo logico le proprie posizioni. Questo è dogmatismo. Invece che portare argomenti che possano razionalmente convicere l'interlocutore si cerca di "intimidirlo" (ed è un atteggiamento molto spiacevole che purtoppo il più delle volte mi sono trovato a subire e che fa soffrire...) citando autori che si presume lui non abbia mai letto dando per scontato che la verità di un discorso sia data quantitativamente dla numero di libri o autori che appoggiano quel discorso. La discussione filosofica finisce col diventare una gara a chi riesce a portare più esempi di autori che sostengono il proprio punto di vista. Questo io contesto. Il riferimento agli autori non deve scomparire ma penso dovrebbe, in sede di discussione teoretica, essere messo in secondo piano rispetto all'analisi logico-deduttiva e dialettica tra i concetti. Gli strumenti fondamentali del filosofare sono l'esperienza diretta delle cose stesse e l'argomentazione logica. Il modello di insegnamento della filosofia che provavo a sostenere è quello tipicamente socratico che emerge in alcuni dialoghi platonici. Socrate non citava autorità per giustificare le sue tesi, non imponeva ex-cathedra le sue idee, ma dialogava con loro in modo paritario stimolando dubbi che spingevano gli interlocutori a ripensare, rimettere in discussione le loro illusorie certezze approfondendo il discorso fino a raggiungere una visione dell cose più razionale rispetto a quella di partenza. Il docente di filosofia dovrebbe essere, socraticamente, una guida per gli studenti che attraverso il dialogo presenta loro diverse possibilità di modelli interpretativi di risoluzione dei problemi fondamentali aiutandoli attraverso la logica a comprendere le implicazioni conseguenti ad ogni singola assunzione di un certo modello: esempi "in cosa consiste la distinzione tra idealismo e realismo" "quali sono le implicazioni conseguenti all'assunzione di un'etica teista", " e le implicazioni teoretiche di un'ontologia materialista e di una visione della natura meccanicista". E queste implicazioni non devono necessariamente identificarsi con gli effettivi sviluppi storici che si sono realizzati nel passato a partire da quelle premesse, ma aperte anche a conclusioni originali che nascono in seno alle discussioni. Non si dovrebbe tanto trasmettere un sapere ma aiutare attraverso una palestra dialettica di continui ragionamenti e discussioni a sviluppare una forma mentis utilizzabile poi da ciascuno, se vorrà, a risolvere autonomamente i vari problemi filosofici. Potrebbe essere tutto questo una possibilità costruttiva?  Rispondo: Perfettamente d' accordo con le considerazioni sul "citazionismo". Meno sulle considerazioni "didattiche". Continuo a preferire un insegnamento scolastico della storia della filosofia, mentre ritengo che la ricerca filosofica "diretta", per chi ne sente l' esigenza e nella misura in cui è sentita da ciascuno, trovi una sede migliore nella "vita in generale" di ciascuno: educazione familiare, frequentazioni amicali, esperienze di vita, letture personali, partecipazioni a eventi culturali, ecc. Anche frequentazione di forum come questo!   Davintro ha scritto: Questa idea della storia come progresso implicherebbe l'idea della storia come svolgimento di una logica, di un ordine che la governa, orienta il suo divenire ma che di per sè si afferma come logica e ordine immutabile, un'immutabilità che governa il mutabile verso il progresso, verso un fine... e la filosofia che riconosce tale logica è un sapere dell'immutabile. La visione della storia come progresso non è una visione, dal punto di vista formale, storica, ma sovratemporale, teologica, escatologica o altrimenti il divenire, lasciato a se stesso, assolutizzato, sarebbe solo caos, non progresso..., secondo me.  Rispondo: Ritengo che non necessariamente l' "idea della storia come progresso implicherebbe l'idea della storia come svolgimento di una logica, di un ordine che la governa, orienta il suo divenire ma che di per sè si afferma come logica e ordine immutabile, un'immutabilità che governa il mutabile verso il progresso, verso un fine". Mi sembra che la storia umana possa (come mera potenzialità, non inesorabilmente, fatalmente) evolversi non "caoticamente" e in modo assolutamente imprevedibile e "ingovernabile" bensì secondo alcune caratteristiche relativamente costanti e "parzialmente, relativamente vincolate" (in qualche misura studiabili e "applicabili praticamente"), ma non in quanto guidata da un fine cosciente che trascenda dei naturali (e culturalmente declinati) scopi umani immanenti, semplicemente per una caratteristica di fatto della sua natura (la naturalissima e non "teleologicamente scelta da nessuno", per quanto peculiarissima, sua natura di "specie animale culturale").  Davintro ha scritto: Realista è chi sostiene l'indipendenza dell'esistenza delle cose reali dal fatto che ci sia una mente che le pensa, sostiene l'autonomia della realtà, ma senza specificare se la realtà di cui si parla sia materiale o immateriale...  Rispondo:  Penso che anche ammettendo il solispsismo, la realtà della sola esperienza cosciente immediatamente esperita ("da ciascuno", scriverei se non fosse contraddittorio, sottintendendo la realtà anche di altre), si potrebbe distinguere tra un certo relativo "realismo" per il quale l' accadere di sensazioni è indipendente dalla conoscenza –eventuale- di esse (dall' accadere della sensazione dl predicato –vero- del loro accadere; o meno: potrebbero essere reali anche senza essere pensate) da un' alternativa difficilmente definibile ("iper-idealismo"?) per la quale l' accadere della conoscenza delle sensazioni (la sensazione della predicazione di sensazioni predicanti l' accadere di altre sensazioni) fosse condizione necessaria dell' accadere delle sensazioni conosciute (pertanto non reali se non unicamente in quanto pensate).  Mi scuso per la pignoleria.
per quanto riguarda il discorso didattico: 
la tua posizione secondo me tende troppo a trattare scuola e quotidianità come due dimensioni separate fra loro. Io la scuola l'ho sempre intesa come strumento al servizio dell'esistenza concreta, formativa del futuro dei giovani sia in chiave professionale-economia e soprattutto in chiave intellettuale-culturale.. se il tipo di filosofia che va insegnata nelle scuole fosse di una natura diversa da quell che possiamo in qualche modo "applicare" nella quotidianità" (come dici tu, relazioni sociali in famiglia, amici, luoghi di lavoro, forum...) allora non si rischierebbe di rompere il filo scuola-vita e rendere l'insegnamento scolastico qualcosa di totalmente astratto ed autoreferenziale, impossibile da utilizzare al di fuori si essa? Volendo essere provocatori si potrebbe dire, che tanto varrebbe a questo punto, con tali premesse, cancellare del tutto lo studio della filosofia dall'istruzione, oppure all'opposto introdurre nei programmi scolastici qualunque tipo di disciplina o attività indipendetemente dalla loro effettiva utilità vitale! (origami, scacchi...) 

Su storia e progresso:
Ovviamente esistono fattori causali contigenti (agenti per differenti aspetti, economico, politico, psicologico, religioso) che possono orientare gli eventi storici in una direzione evolutiva... Parlando di storia come progresso avevo in mente un modello di evoluzione che approda ad un fine in un'ottica di necessità, in questo senso mi sembrerebbe indipensabile concepire una sorta di ordine finalistico che fa sì che il corso prenda quella direzione invece che un'altra (un regresso, una decadenza). Tra l'altro, forse, non sarebbe neanche in questo caso necessario parlare di un "fine cosciente", che implicherebbe una visione teista per la quale il cammino della storia è stabilito da una mente trascendente la storia stessa (per intenderci, la provvidenza divina), il fine può anche essere non cosciente: è ipotizzabile anche che il corso degli eventi sia scandito da una logica che li governi che  però non ha coscienza di sè e e della meta da raggiungere, in questo caso la logica si costituirebbe non come "mente", "soggetto personale", ma più propriamente "ritmo", "sequenza immanente al processo che lo scandisce dall'interno", "schema". Se tu invece parli di non-necessità del progresso allora possiamo ammettere l'idea di una storia come prodotto di fattori causali che interagiscono tra loro ma rivolti a fini diversi. L'effettivo svolgersi degli eventi sarebbe così la risultante di una combinazione di forze che, considerate nella loro isolatezza, possono agire anche in contrapposizione fra loro. Ma a questo punto, o si pensa ad una molteplicità di fattori concorrenti, ed allora non si può pensare a un ordine ,un cosmos (per me ordine vuol dire armonia, situazione in cui differenti fattori operano, in ruoli diversi, come rivolti ad uno stesso risultato, e ripeto, non c'è bisogno per forza che ci sia "coscienza" di tutto ciò) ma si deve parlare di "caos", una "legge della giungla" dove il fattore causale più forte si impone su quelli più deboli a impone al divenire la sua legge, oppure la contrapposizione non c'è, c'è la molteplicità delle forze in campo che agisce nel modo armonico che ho provato a descrivere nella mia ultima parentesi ed in base al quale ha senso parlare di ordine e di progresso come necessario. Parlare di "alcune caratteristiche relativamente costanti e "parzialmente, relativamente vincolate" non risolve secondo me il problema. Relativamente costanti ed eterne non vuol dire eterne ed assolute ma contingenti... dunque, o queste caratteristiche cessano di produrre la loro forza causale nello "scontro" con altri caratteristiche agenti in direzione contraria, e si torna alla situazione del caos, oppure la ragion d'essere di tali carateristiche è data da altre leggi ad esse non opposte ma comunque sovraordinate e superiori che stabiliscono il tempo del loro conservarsi e del loro cessare... e si ritornerebbe all'idea di una "gerarchia" di fattori causali, fatta di "cause prime" e "cause seconde", una sorta di "cosmo" non necessariamente provvidenziale e cosciente, (lasciamo perdere per ora, ma magari ci torneremo...) ma che comunque imprime una necessità agli eventi nel complesso delle sue componenti. Il problema è che non esiste una terza realtà tra ordine e caos che li possa conciliare... esiste la situazione di miscuglio delle due componenti che si potrebbe definire come "ordine imperfetto", ma comunque cosmo e caos sono due polarità opposte che tirano in direzioni opposte una sorta di "elastico" che sarebbe la storia  


Sull'ultima parte per ora dico solo che effettivamente la prima alternativa giustamente può essere definita come "realismo relativo", relativo, perchè la constatazione di una realtà indipendente dal mio esperirla sarebbe però posta a partire dal fenomeno fondante proprio l'esperienza stessa, cioè le sensazioni. Ma, nella misura in cui, consideriamo la sensazione come prodotto di un "urto" soggetto-oggetto nel quale il soggetto resta inerte e passivo, allora è possibile inferire l'esistenza di una realtà oggettivamente esistente, indipendente dai nostri pensieri, la realtà che ha prodotto l'urto, mentre se la sensazione fosse il risultato di un'attività della mente che opera a partire da categorie in essa presenti allora il reale resterebbe una costruzione del soggetto attivamente pensante. Per quanto mi riguarda, in ogni caso l'accettazione, quantomeno a livello provvisorio, dell' ipotesi del solipsismo è una punto inaggirabile per chiunque voglia affontare in modo critico e non dogmatico il tema gnoseologico (e inevitabilmente non solo gnoseologico...) del rapporto esperienza soggettiva-realtà oggettiva, realisti o idealisti che siamo... ci sarebbero infinite altre cose da dire su tale tema ma per ora mi fermo qua anche perchè forse siamo un pò andando fuoritopic (anche se è inevitabile che sia così in un forum filosofico, la bellezza della filosofia sta proprio nella ricchezza di collegamenti e interrelazioni per la quale in fondo, "fuoritopic" in senso assoluto non si cade mai in fondo...)
#593
D'accordo con Donalduck con l'idea che non dovrebbero esserci "lezioni" bensì "discussioni di filosofia" e che occorre formare i giovani all'indipendenza mentale, al senso critico e a non valutare conformisticamente gli autori come divinità infallibili sottomettendosi al loro giudizio anche quando ci sembra personalmente poco convincente. Il senso del mio post di apertura era questo. Aggiungo solo che l'insegnamento (anzi, no, a questo punto possiamo anche dire "discussione"...) per temi non esclude affatto il supporto degli autori del passato. Solo che non verrebbero considerati tanto nel loro effettivo succedersi storico, ma in relazione al tema di volta in volta trattato, come degli spunti di riflessione utili a "mettere carne a fuoco", ispirare la discussione. In questo modo verrebbe maggiormente evidenziato il carattere di attualità del loro pensiero, il fatto che seppur vissuti in epoche lontane ci aiutano indicandoci aspetti diversi del mondo che ci circonda in questo momento. Io penso che il valore teoretico di un pensatore è in un certo senso inversamente proporzionale al suo essere "figlio del suo tempo", mentre si manifesta per quanto esso sia riuscito a cogliere verità della realtà nella sua universalità, per ciò che della realtà vale per ogni tempo e luogo.

Sul resto invece dissento con lui... la questione idealismo-realismo (almeno per come ho provato a porla io...) è basilare per rispondere al tema della dipendenza o indipendenza della filosofia e della storia della filosofia. La questione tra realismo e idealismo non riguarda lo stabilire se sono più reali le idee, gli oggetti intelligibili (idealismo) oppure il mondo sensibile (realismo). Questa si potrebbe definire la contrapposizione tra spiritualismo e materialismo, che non coincide affatto con la diatribia idealismo-realismo. Se da un lato è vero che un idealismo, sostenere come fondamento del reale un principio immateriale, come l'idea, il pensiero, in generale la soggettività mi sembra quasi impossibile da conciliarsi con un materialismo, dall'altro però realismo e materialismo non combaciano necessariamente. Realista è chi sostiene l'indipendenza dell'esistenza delle cose reali dal fatto che ci sia una mente che le pensa, sostiene l'autonomia della realtà, ma senza specificare se la realtà di cui si parla sia materiale o immateriale..., da quel punto di vista è neutrale. La maggior parte della filosofia cristiana è di orientamento realista e combatte il soggettivismo moderno che sfocia nell'idealismo tedesco. I cristiani non sono certo materialisti! Io stesso, modestamente, mi ritengo un realista assolutamente non materialista. Per il realista, che ritiene la realtà esistente indipedentemente dalla soggettività la conoscenza non può che essere "scoperta" della verità, ciò che si "scopre" è sempre qualcosa che c'era prima che qualcuno andasse prima a scoprirla... Qui si inserisce il tema del rapporto con "filosofia-storia della filosofia". Se la filosofia è scoperta allora le sue verità possono essere scoperte a partire dall'esperienza e dalle riflessioni personali, le verità fanno parte di un mondo oggettivo perennemente a disposizione di chi ha voglia e interesse di andare a conoscerlo, indipendetemente dal fatto di sapere che altri prima di noi abbiamo fatto le stesse scoperte, mentre se è creazione allora comprendere un concetto coincide necessariamente col comprendere il contesto storico in cui la mente di qualcuno ha prodotto quel concetto, allo stesso modo di come capire un'opera d'arte implica intepretare le intenzioni soggettivie dell'artista che l'ha creata, mentre nel caso del realismo i concetti sono paragonabili a leggi fisiche della natura che esistono a prescindere dal pensiero di chi le ha pensate e dunque ognuno di noi può osservarle individualmente senza per forza sapere che qualcuno prima di noi l'ha già fatto. Vero, come dici tu, che il pensiero, che crea o scopre, non è solo il pensiero dei filosofi, ma il pensiero di tutti, ma se si parla dei concetti della filosofia, o concetti che si vuole comunque considerare in un'ottica filosofica allora credo che la questione dell'indipendenza o dipendenza di questi concetti o verità non può che essere fatta in relazione col pensiero dei filosofi nella loro storia, così come, presumo..., un idealismo applicato alla fisica farebbe coincidere la fisica con la storia della fisica...
#594
Citazione di: maral il 23 Aprile 2016, 12:17:16 PM
Citazione di: davintro il 22 Aprile 2016, 17:53:45 PMIl discorso che sto facendo presuppone però di base la risposta a una domanda fondamentale: la filosofia è scoperta della verità (realismo) o creazione della verità (idealismo)? Nella prima ipotesi (quella su cui io convengo ma questo non è importante) la filosofia è autonoma dalla storia della filosofia, in quanto i suoi concetti hanno un valore oggettivo poichè corrispondenti, husserlianamente parlando, alle "cose stesse", aspetti del mondo reale che danno a quei concetti un senso perennemente attuale, indipendentemente dal riferimento alle opinioni dei pensatori che ci hanno preceduto. Le "cose stesse" in ogni momento possono essere scoperte ed osservate nell'esperienza attuale di ognuno che sia interessato a rifletterci su. Nella seconda ipotesi invece filosofia e storia della filosofia coincidono in quanto la comprensione dei concetti implica il risalire a ciò che li ha creati, vale a dire l'attività pensante che si dà nella storia. La filosofia coinciderebbe con il suo sviluppo storico, ogni singolo pensatore non farebbe altro che aggiungere un mattone a un edificio perennemente in costruzione che però è unico in quanto assorbe sinteticamente in sè tutte le posizioni succedutesi, solo apparentemente contrastanti tra loro, ma in realtà inglobate in un pensiero unico in continua progressione. Una visione tipicamente idealista che mi lascia fortemente perplesso (ma non ne voglio parlare ora, sono già stato troppo lungo). Non a caso, l'impianto storicistico dell'insegnamento della filosofia in Italia può essere visto come il portato di un dominio nella nostra cultura per larga parte del '900 del neoidealismo di Gentile e Croce...
Ciao davintro, mi soffermo su questa domanda della questione molto interessante da te qui introdotta. Come è noto la filosofia nasce nel pensiero greco come esigenza di stabilire come stanno veramente le cose, ossia la verità fondamentale che non può essere che la verità del tutto e nasce realistica: c'è una realtà che va detta, che deve farsi discorso, logos, affinché possa essere detta in modo veritiero, coerente con la realtà stessa che sussiste in sé. Il logos è lo strumento che va affinato affinché ciò che si dice restituisca il significato del reale (parafrasando Aristotele e lo stesso Platone, vero è dire vero di ciò che è vero e non vero di ciò che non è vero). In questo la scienza non si è discostata per nulla dal realismo filosofico originario, essa rappresenta solo un affinamento del logos che ha associato al metodo deduttivo originario che parte dalla definizione del principio primo, della unità originaria necessaria a priori, al metodo induttivo che cerca, a mezzo di un grande rigore procedurale predefinito, di risalire alla sostanza formale dei principi. La scienza, come la filosofia classica, non crea la verità, ma la scopre e la scopre in virtù del potente funzionamento del suo metodo che le consente di dire come sta oggettivamente (quindi di per se stessa) la totalità delle cose, di ogni cosa. Sappiamo anche che questa visione oggettiva è però entrata in crisi proprio con la nascita del razionalismo scientifico: già con Cartesio che fonda il reale sul soggetto pensante, poi con l'empirismo e poi con Kant e la sua critica della ragion pura. A questa crisi l'idealismo hegeliano ha tentato una risposta che ha rappresentato forse l'ultima grande enunciazione metafisica della filosofia. In essa la verità ha perso la sua visione perfettamente statica, per diventare prodotto della storia dialettica dello spirito che la viene continuamente creando verso una totalità di completa sintesi (che per Hegel si trovava nel suo stesso pensiero), in tal modo la verità diventa storia della verità e la filosofia storia della filosofia. Marx si porrà nella stessa direzione, ma immergendo questa dialettica nel reale accadere storico, rappresentandola come lotta di classe determinata dal potere economico finché il pensiero post marxista individuerà nel puro divenire stesso (in ciò che continuamente esso crea e distrugge) il motore di ciò che è reale. Il divenire (come già per Eraclito) prende quindi il posto dell'essere e la storia è la verità-evento che essa viene continuamente creando. La realtà è il mutamento e il suo rivelarsi veritiero è storia (di idee, di popoli, di rapporti economici ecc.), ma la storia, come espressione della pura immanenza diveniente, è ancora un oggetto metafisico, con tutte le pretese metafisiche che le competono su chi solo in essa può esistere come evento. La storia è, come fa intendere Nietzsche, anche quando si rivela volontà di potenza, solo un cumulo sterminato di rovine. Al nostro sguardo, che vede solo il passato, appare solo il morire di ogni evento che riflette continuamente il nostro stesso morire insieme all'universo intero ed è proprio questo che determina la morte di ogni metafisica e il grande rimpianto per la metafisica dell'essere, per quell'oggettività che fissava una stabilità a fronte di un nichilismo ontologico tanto liberatorio, quanto disperato e vano. E si chiede, di nuovo si chiede, come fa Green, che la filosofia sappia ancora dirci qualcosa, dare indirizzi forse in questo sterminato campo di rovine, ma la filosofia non riesce più a dire nulla che risollevi la speranza metafisica, paradossalmente sembra che solo la scienza, e proprio nella sua versione tecnica e a-storica, possa farlo. E qui occorrerebbe scendere nel profondo della tecnica. Non c'è dubbio che l'uomo contemporaneo, abitante del liquido Paese della Cuccagna che la tecnologia allestisce continuamente per lui, è l'uomo antiquato di cui parla Gunther Anders, un residuo bio psichico che paga continuamente il prezzo dell'illusione di funzionalità progettata con grande maestria da apprendisti stregoni anch'essi in corso di trasformazione sempre più inumana, ma è anche vero che solo nell'assunzione del proprio fare l'uomo può trovare il senso di se stesso, è solo lì che trova e ha sempre trovato abitazione e quel senso che lo comprende e che lui può comprendere. Per questo credo che la necessità di una nuova filosofia alla fine non possa che trovare risposta dall'analisi di una storia che ci appartiene, di cui non siamo, ciascuno, per il nostro modo di sentire, di vivere, di pensare, che espressione dialettica di un flusso immane che viene a rappresentare il continuo accadere del mondo in cui tecnicamente, da sempre, siamo chiamati ad abitare, possiamo venire ad abitare.

La tua esposizione storica è ottima e chiara nella sua sinteticità... ma ciò che non condivido è l'idea che il superamento del modello metafisico realista debba essere accettato a partire dalla mera constatazione dello sviluppo della storia della filosofia che ha visto pensatori opporsi a quel modello. Non dobbiamo confondere due piani che sono distinti: il piano della verità e il piano delle opinioni circa la verità: il fatto che dalla modernità in poi il realismo metafisico abbia perso il predominio culturale della scena filosofica riguarda il piano delle opinioni, non necessariamente della verità. La verità filosofica non è la moda del momento, la verità di un pensatore non dipende dal fatto che è vissuto in un certo periodo invece che un altro. Che Marx ed Hegel siano vissuti dopo Platone ed Aristotele non implica che quelli abbiano avuto più ragione di questi. Del resto pensare che la constatazione del divenire storico dei pensieri debba determinare la verità oggettiva di questi pensieri è possibile solo a una condizione: pensare ottimisticamente e finalisticamente la storia come un continuo progresso verso la verità e il bene, e che dunque chi viene dopo ha più ragione di chi viene prima... solo che già questa è una visione evidentemente metafisica che implicherebbe per chi la sostiene una visione della filosofia che andrebbe molto al di là del ruolo che mi pare tu attribuisca alla filosofia, il ruolo di una cito,
 "analisi di una storia che ci appartiene, di cui non siamo, ciascuno, per il nostro modo di sentire, di vivere, di pensare, che espressione dialettica di un flusso immane che viene a rappresentare il continuo accadere del mondo in cui tecnicamente, da sempre, siamo chiamati ad abitare, possiamo venire ad abitare"
Questa idea della storia come progresso implicherebbe l'idea della storia come svolgimento di una logica, di un ordine che la governa, orienta il suo divenire ma che di per sè si afferma come logica e ordine immutabile, un'immutabilità che governa il mutabile verso il progresso, verso un fine... e la filosofia che riconosce tale logica è un sapere dell'immutabile. La visione della storia come progresso non è una visione, dal punto di vista formale, storica, ma sovratemporale, teologica, escatologica o altrimenti il divenire, lasciato a se stesso, assolutizzato, sarebbe solo caos, non progresso..., secondo me. Facciamo un breve raffronto con la storia di un singolo individuo: certamente io so di essere cambiato da quando ero un bambino e so che invecchiando cambierò ancora, continuamente... ma proprio questa percezione del mutamento è resa possibile dal riconoscimento di qualcosa sottostante che permane stabile ... perchè per sapere di cambiare ho bisogno che le varie fasi del cambiamento si riferiscano allo stesso individuo, il mio "io", che riconosce di essere sempre se stesso in base a qualcosa che permane come immutabile intorno a cui il divenire ruota intorno ma che non può cancellare. Il bambino che ero e il trentenne che sono ora sono diversi ma appartengono al mio stesso "me stesso" e la coscienza di questo "me stesso" (autocoscienza) presuppone un qualcosa di me che resta identico a sè, l'identità personale. Senza di essa non avrei memoria della continuità tra il mio passato e il mio presente e dunque neanche del cambiamento. Il cambiamento implica la memoria, questa la durata e la durata il riconoscimento di qualcosa che dura, che non cambia. Ecco perchè la distinzione aristotelica tra sostanza, ciò che permane necessariamente, e gli accidenti, ciò che è contingente, può cambiare, resta una verità fondamentale. Ed ecco perchè, pensando la storia non come caos ma come organismo, va distinto il ruolo della filosofia come individuazione della sostanza, la logica sovrastorica che fonda il flusso degli eventi e l'accidentalità, il divenire stesso degli eventi il cui sapere sarebbe meglio delegare agli storici di professione, agli "empirici"
Che si intenda la storia come progresso o meno dunque la ricerca della verità delle cose resta autonoma dalla verità riguardo il succedersi delle opinioni, delle mode di pensiero, degli orientamenti via via contingentemente dominanti. L'effettivo accadere degli sviluppi storici non mi impedisce di poter recuperare ad esempio proprio ciò che tu giustamente poni come culla della filosofia moderna, il cogito cartesiano, come punto di partenza non dell'idealismo storicista moderno, ma, ad esempio della fenomenologia husserliana, che recupera a suo modo questa idea della coscienza come indubitabile punto di partenza della filosofia (grazie all'epoche) ma che mi sembra abbia poco a che fare con Hegel o col marxismo.... Sta qui l'autonomia di un'analisi logico-teoretica dei concetti (filosofia) da loro fattualizzarsi storico (storia della filosofia)
Sono così perfettamente d'accordo con Sariputra quando scrive che
 "è assurdo parlare di morte della metafisica , o di morte di Dio. Se la metafisica esisteva prima, esiste anche ora. Se Dio esisteva prima, esiste anche ora. Che l'uomo ritenga che l'idea della metafisica o di Dio sia superata, non può avere alcun significato per la loro esistenza o inesistenza effettiva. A meno che non riduciamo il reale solamente al pensabile dall'uomo"

Per quanto riguarda il rapporto tra senso e prassi sarebbe interessante chiarire meglio il punto... per ora mi limito a dire che non penso che la prassi debba essere il fondamento del senso, ma trovo più convincente l'opposto: le azioni che noi compiamo nella storia assumono un significato a partire da criteri di giudizio, valori e principi che trovano in loro stessi la loro ragion d'essere, e che quindi assumiamo come "assoluti", mentre se fossero storici, contingenti, richiederebbero di essere fondati a partire da altri criteri e così via all'infinito, un'infinita catena aporetica di richiesta di fondamenti che lascierebbe nel relativistico, e dunque nell'insensatezza, ogni giudizio, ogni critica, ogni valutazione della storia. Ancora, il senso della storia, del divenire presuppone la presenza del sovrastorico. Non credo che la prassi considerata in sè stessa dia senso alla vita... non è l' "agire per l'agire" ciò in cui trova un senso la vita, ma un agire coerente ed adeguato con dei valori e delle verità in base alla quale scegliamo di vivere la nostra vita. L'agire concretizza nella storia i valori che riconosciamo come universali, ma sono questi ultimi che danno senso un senso alla prassi, altrimenti mancheremmo delle categorie per giudicare in modo differente le differenti forme storiche della prassi.
#595
Intanto ringrazio anche Sariputra, Sgiombo e Maral per il loro interesse e per gli stimoli alla riflessione

Sgiombo scrive:
 "Invece non credo che sarebbe realizzabile proficuamente un insegnamento scolastico della filosofia sistematica, se non altro perché inevitabilmente ciascun insegnante seguirebbe una certa corrente e sarebbe dificilmente in grado di esporre al meglio le altre (ovviamente ciò vale, ma in misura per me molto minore, anche per l' insegnamento della storia della filosofia; che inoltre lascia molto più spazio all' iniziativa personale nell' approfondimento degli autori che ciascuno reputa più interessanti)"

Vero, la possibilità di lasciar troppa mano libera al docente che sarebbe portato solo ad esporre solo le correnti filosofiche con cui è d'accordo finendo di fatto con l'indottrinare gli studenti verso una certa direzione di pensiero esiste, ma io credo che questo non sia un aspetto necessariamente inerente un insegnamento di tipo tematico, ma rimanda all'onestà o disonestà intellettuale del professore, variabile che agisce indipendetemente dal modello di insegnamento. Hai ragione quando dici che lo studio degli autori è un aiuto potente per risolvere problemi filosofici, finchè si parla di "aiuto" posso tranquillamente convenire.... ma, il punto è che nel mio post di apertura c'èra anche un sottofondo polemico verso un certo modo di discutere di filosofia, dominato dal citazionismo: cioè pensare che la verità di una tesi filosofica dipenda dal consenso degli autori del passato invece che dal corrispondere alla realtà oggettiva delle cose, capita, nei contesti accademici, di assistere a discussioni filosofiche che finiscono solo con l'essere con un'esposizione di citazioni di autori "Nietzsche ha detto che..." "Sì, ma Hegel ha detto che..." senza  argomentare in modo logico le proprie posizioni. Questo è dogmatismo. Invece che portare argomenti che possano razionalmente convicere l'interlocutore si cerca di "intimidirlo" (ed è un atteggiamento molto spiacevole che purtoppo il più delle volte mi sono trovato a subire e che fa soffrire...) citando autori che si presume lui non abbia mai letto dando per scontato che la verità di un discorso sia data quantitativamente dla numero di libri o autori che appoggiano quel discorso. La discussione filosofica finisce col diventare una gara a chi riesce a portare più esempi di autori che sostengono il proprio punto di vista. Questo io contesto. Il riferimento agli autori non deve scomparire ma penso dovrebbe, in sede di discussione teoretica, essere messo in secondo piano rispetto all'analisi logico-deduttiva e dialettica tra i concetti. Gli strumenti fondamentali del filosofare sono l'esperienza diretta delle cose stesse e l'argomentazione logica. Il modello di insegnamento della filosofia che provavo a sostenere è quello tipicamente socratico che emerge in alcuni dialoghi platonici. Socrate non citava autorità per giustificare le sue tesi, non imponeva ex-cathedra le sue idee, ma dialogava con loro in modo paritario stimolando dubbi che spingevano gli interlocutori a ripensare, rimettere in discussione le loro illusorie certezze approfondendo il discorso fino a raggiungere una visione dell cose più razionale rispetto a quella di partenza. Il docente di filosofia dovrebbe essere, socraticamente, una guida per gli studenti che attraverso il dialogo presenta loro diverse possibilità di modelli interpretativi di risoluzione dei problemi fondamentali aiutandoli attraverso la logica a comprendere le implicazioni conseguenti ad ogni singola assunzione di un certo modello: esempi "in cosa consiste la distinzione tra idealismo e realismo" "quali sono le implicazioni conseguenti all'assunzione di un'etica teista", " e le implicazioni teoretiche di un'ontologia materialista e di una visione della natura meccanicista". E queste implicazioni non devono necessariamente identificarsi con gli effettivi sviluppi storici che si sono realizzati nel passato a partire da quelle premesse, ma aperte anche a conclusioni originali che nascono in seno alle discussioni. Non si dovrebbe tanto trasmettere un sapere ma aiutare attraverso una palestra dialettica di continui ragionamenti e discussioni a sviluppare una forma mentis utilizzabile poi da ciascuno, se vorrà,  a risolvere autonomamente i vari problemi filosofici. Potrebbe essere tutto questo una possibilità costruttiva?


"Credo ci sia un certo malinteso fra te e Green Demetr su scienza e filosofia.
Per quel che pare di capire a me tu per "filosofia scientifica" intendi sostanzialmente non "superamento della filosofia da parte delle scienze empirche naturali" (il vecchio positivismo spesso "riverniciato a nuovo"), ma una ricerca filosofica razionalistica.
Se é così concordo in pieno!"

Sì, è proprio così! La nozione di scienza non la intendo nel senso comune del termine, scienze naturali di tipo empirico, ma ho in mente il senso più ampio, pregalileiano, per cui "scienza" indica ogni tipo di sapere che sia razionalmente fondato, un sapere che non si limita all'arbitrarietà dell'opinione, ma ricerca dei fondamenti attraverso i quali l'opinione mostra la sua razionalità, la sua aderenza col reale, un sapere comprovato, dimostrato dialetticamente. E in questo senso la filosofia è sicuramente "scienza", nella misura in cui si pone come sapere dei principi primi, delle evidenze originarie a partire dai quali dedurre correttamente un discorso. Nulla di più lontano da me che la mentalità positivista che schiaccia la scientificità sul metodo induttivo delle scienze sperimentali. Se non si è capito ho pochissima simpatia per l'induzione... (se ne riparlerà meglio magari in seguito...) per me un'autentica razionalità e dunque un'autentica scientificità è costituita dalla deduzione
#596
Ringrazio Green demetr per l'attenzione per le mie  4 righe...
Ho 30 anni, oltre la fascia 14-25 comunque nessun problema, anzi è comunque possibile che io appaia più giovane di quello che sono magari per una certa ingenuità nell'argomentare, lo ammetto...

Non so se sono riuscito a comprendere bene in profondità le tue osservazioni, comunque provo a fare qualche considerazione che potrebbe benissimo lasciare il tempo che trova.
La questione idealismo-realismo non la considero come "la questione di unire la scienza alla filosofia". La considero come il problema di stabilire l'indipendenza o la dipendenza dell'essere dal pensiero, la questione se la pensabilità sia condizione necessaria o meno dell'esistenza delle cose (sono ovviamente consapevole che il discorso è ipercomplesso, che c'è una vasta gamma di posizioni intermedie, ma devo forzatamente sintetizzare). Vero che tutto questa c'entra tantissimo con il nesso filosofia-scienza ma non nel senso che il realismo sostenga l'unità o l'identità tra filosofia e scienza, ma nel senso che nel realismo, per il quale la verità è corrispondenza tra discorso e realtà, la filosofia diventa una scienza e non un'arte, una conoscenza nella quale il pensiero mira a scoprire una realtà che è tale indipendentemente dalle opinioni dei singoli, mentre se idealisticamente la verità non è scoperta ma creazione da parte della soggettività pensante, la filosofia, i concetti filosofici diverrebbero di fatto creazioni soggettive, convenzionali, slegate dal rapporto con la realtà oggettiva. Ciò è la ragione per cui al di là degli effettivi sviluppi storici che sembrebbero contraddire ciò, un idealismo coerente con se stesso dovrebbe concludere nel relativismo che sradica qualunque criterio oggettivo di verità.

Forse c'è un equivoco sui miei riferimenti all' "attualità". Non intendevo attualità nel senso dell'attualità contingente, la notizia del giorno, lo scoop giornalistico... la intendevo nel contesto del rapporto filosofia-storia della filosofia, e volevo sottolineare come la realtà che la filosofia cerca di indagare sia un nucleo di verità valide indipendentemente dalla contingenza spaziotemporale, mentre l'identificazione filosofia-storia della filosofia produrebbe in chi studia l'idea che ogni pensiero filosofico sia comprensibile solo all'interno della limitatezza del contesto storico in cui è sorto cosicchè un'idea prodotta nell'ottocento non sarebbe più valida nel novecento cadendo nel relativismo e portando nell'insensatezza ogni tentativo di soluzione dei problemi esistenziali. Quindi l'attualità nel mio discorso andava intesa come qualcosa di "perennemente attuale", attualità come realtà concretamente presente nella nostra vita, oggettiva. Tu scrivi che la storia della filosofia renderebbe "scandaloso come l'attualità funzioni a giorni nostri". Hai ragione, ma forse il compito di investigare i mutamenti storici culturali, politici, economici, di costume andrebbe più demandato alle scienze umane sperimentali come la sociologia piuttosto che alla filosofia, la cui razionalità a mio avviso è di tipo aprioristico, un sapere "delle essenze" secondo l'ottica fenomenologica, mirante a evidenziare la dimensione dei principi, dei fondamenti, non qualcosa di empirico

Questo ci porta al discorso della metafisica, se io sostengo che la filosofia vada distinta dalla storia della filosofia allora la filosofia recupera un oggetto di indagine come livello di una realtà distinta dal divenire temporale, un livello metafisico. Tu parli di "morte della metafisica", che è un'espressione retorica di un certo effetto, che parafrasa il celebre "Dio è morto" nietzschiano. Ma è chiaro se per metafisica si intende una dimensione dell'essere che pretende di essere reale allora non ha senso parlare, neanche in senso metaforico, di una "nascita" o di una "morte", la metafisica, una realtà che va oltre la fisica, o c'è sempre stata o mai! Non va confusa  la metafisica con l'interesse che il clima culturale odierno può nutrire per le questioni ad essa legate, il fatto che il clima culturale sia più orientato alle attuali "prassi", l'alienazione dell'uomo verso degli oggetti del mondo della tecnica che conquistano il predominio della sua attenzione e dei suoi interessi mentre si perde di vista un'orizzonte ideale-finalistico (provo maldestramente a intepretare il tuo discorso) verso il quale rivolgere la direzione del nostro agire, non vuol dire morte della metafisica, vuol dire semplicemente che viene disconosciuta o confusa con fenomeni mediatici che si propongono come improbabili surrogati (la tua citazione dei cappellini dei papa boys). In un mondo in cui nessuno si pone più il problema di Dio e dell'anima Dio e l'anima continuerebbero a esistere (o a non esistere) e con essi la metafisica non morirebbe (o comunque non sarebbe mai nata). Tu stesso parli di un "dimenticare" la questione della vita dopo la morte e dell'origine del male che però riguarderebbe le questioni ma non le eventuali risposte. Bene, questo è il punto, è sufficiente che le risposte non cadano nell'oblio perchè non si debba annunciare la morte della metafisica

Non credo che la mia posizione vada considerata "vincente" nella società che tu leggi come costituita nel predominio della tecnica e della riduzione della filosofia a "prassi scientifica". Sì, per me la filosofia è scienza, ma non nel senso di "verificazione",  di quel verificazionismo induttivista abilmente attaccato da Popper La scientificità della filosofia consiste in una razionalità aprioristica prevalentemente deduttiva,  dialettica, questo la differenzia dalle altre scienze, dalle scienze di tipo sperimentale. E dalla differenza dei metodi discende la differenza dell'oggetto di indagine, l'oggetto della scientificità filosofica (e metafisica) non è l'oggetto della fisica e della chimica. Cosicchè non ha molto senso sostenere che il mio rivendicare la filosofia come scienza, in nome del realismo e dell'autonomia della filosofia dalla storia della filosofia, si adagi nella giustificazione dell'attuale mentalità sociale utilitarista,  che al contrario può crescere e svilupparsi proprio in virtu di un relativismo per cui in assenza di una razionalità capace di comprendere le verità fondamentali ci si limita a porre l'ambito del contingente, dell'utilizzabile, come l'unico possibile per la ragione. E lo storicismo che riduce la filosofia a storia della filosofia è la sorgente che alimenta questo relativismo
Ciao!
Ciao!
#597
Premesso che sono un pò emozionato nell'esordire in questo forum aprendo un nuovo topic e che spero di non apparire troppo presuntuoso, volevo approfondire il tema del rapporto tra filosofia e storia della filosofia introducendo l'argomento e provando ad esprimere le mie idee in modo più chiaro possibile...

Tra filosofia e storia della filosofia c'è identità o distinzione? La motivazione iniziale che spinge ad avvicinarsi all'interesse per tematiche filosofiche non è secondo me principalmente di carattere storiografico: gli eventi, le esperienze della vita ci portano a fare domande del tipo "c'è vita dopo la morte?" "quali sono i fondamenti della nostra conoscenza", "siamo veramente responsabili delle nostre azioni?" "da dove proviene il male", "quali sono i valori a cui dovrebbe ispirarsi la politica?" ecc. Ora, le risposte che cerchiamo non riguardano il sapere le risposte che i filosofi del passato hanno dato, ma riguardano la verità oggettiva, reale circa questi  temi, non interessa principalmente sapere "cosa ne pensava Platone" "cosa ne pensava Hegel", ma "qual è la verità dal punto di vista della realtà, indipendetemente da ciò che ne pensava Tizio o Caio?".  Quando poi, si tratta di entrare nel sistema scolastico (parlo della scuola superiore italiana, negli altri paesi non so bene), lo studio della filosofia viene strutturato come una successione storica, una carrellata di autori. Invece di scandire l'insegnamento in modo tematico "la coscienza, la libertà, la natura, la tecnica, la religione ecc." lo si fà in modo diacronico per autori (Talete, Anassimandro, Anassimene e così via). Di fatto la filosofia finisce con il coincidere con la storia della filosofia. Ora, io sono critico verso questa impostazione. Perchè credo conduca di fatto a scavare una larga distanza tra le aspettative di chi si appassiona alla filosofia in quanto interessato a comprendere il reale nella sua attualità oggettiva e ciò che concretamente viene appreso all'interno dell'istituzione culturale che si incarica di fornire un sapere adeguato a rispondere a tali istanze intellettuali. Perchè se a me la filosofia interessa come approccio mentale per comprendere aspetti fondamentali del mondo attuale in cui vivo, il ruolo del maestro di filosofia sarà quello di fornire, attraverso il dialogo, gli strumenti critici e un metodo di pensiero adeguato, con i quali potrò poi autonomamente formare un mio personale punto di vista razionale, non arbitrario, sulla realtà attuale, piuttosto che trasmettere un mero sapere nozionistico legato al passato. Trattando la filosofia come una "storia" si rischia di spezzare il legame tra essa e l'attualità. Ecco perchè per me la filosofia, se vuole essere interrogazione della realtà, deve essere distinta dalla storia della filosofia e il filosofo deve essere colui che usando la propria testa giunge ad elaborare delle proprie idee e non un erudito che si limita ad apprendere informazioni sui filosofi greci o medioevali senza passare per il momento critico che lo porta a discernere i torti e le ragioni all'interno di quei complessi di posizioni così differenziate. Attenzione! Non sto ovviamente sostenendo che conoscere gli autori del passato sia tempo buttato... conoscere il pensiero di chi nel passato si è posto i nostri stessi problemi e ha provato a dare risposte è un utile e importante fonte di ispirazione e stimolo per la formazione delle nostre tesi, solo sto dicendo che il valore veritativo di una tesi filosofica, come di qualunque tesi scientifica, non deve dipendere dal fatto di essere stata sostenuto da un autore invece che da un altro, da Platone invece che da Aristotele, pena il cadere nel dogmatismo e nel principio di autorità ("è così perchè lo dice lui"), ma dalla sua corrsipondenza con la realtà oggettiva. Se è così allora il fondamento del valore filosofico di una tesi non sta nel fatto che quella tesi sia stata appoggiata da alcuni autori del passato, ma va trovato nella nostra esperienza personale e diretta delle cose stesse che costuiscono il problema che ci poniamo, e nella razionalità che cerca di trovare una logica e un ordine al complesso inizialmente caotico dei dati della nostra esperienza, in modo da formare una visione del mondo il più possibile ordinata e adeguata ad interpretare il reale. Inevitabilmente, le filosofie del passato sono spesso utili modelli interpretativi del reale a cui tutti noi ci ispiriamo, ma credo che il "grosso" del lavoro teoretico debba consistere nella riflessione personale che porta quei modelli ad essere giudicati raffontandoli con la nostra ragione ed esperienza che compiamo in prima persona. Solo così la filosofia resta sapere critico e non uno scavo archeologico che cade nel citazionismo.

Il discorso che sto facendo presuppone però di base la risposta a una domanda fondamentale: la filosofia è scoperta della verità (realismo) o creazione della verità (idealismo)? Nella prima ipotesi (quella su cui io convengo ma questo non è importante) la filosofia è autonoma dalla storia della filosofia, in quanto i suoi concetti hanno un valore oggettivo poichè corrispondenti, husserlianamente parlando, alle "cose stesse", aspetti del mondo reale che danno a quei concetti un senso perennemente attuale, indipendentemente dal riferimento alle opinioni dei pensatori che ci hanno preceduto. Le "cose stesse" in ogni momento possono essere scoperte ed osservate nell'esperienza attuale di ognuno che sia interessato a rifletterci su. Nella seconda ipotesi invece filosofia e storia della filosofia coincidono in quanto la comprensione dei concetti implica il risalire a ciò che li ha creati, vale a dire l'attività pensante che si dà nella storia. La filosofia coinciderebbe con il suo sviluppo storico, ogni singolo pensatore non farebbe altro che aggiungere un mattone a un edificio perennemente in costruzione che però è unico in quanto assorbe sinteticamente in sè tutte le posizioni succedutesi, solo apparentemente contrastanti tra loro, ma in realtà inglobate in un pensiero unico in continua progressione. Una visione tipicamente idealista che mi lascia fortemente perplesso (ma non ne voglio parlare ora, sono già stato troppo lungo). Non a caso, l'impianto storicistico dell'insegnamento della filosofia in Italia può essere visto come il portato di un dominio nella nostra cultura per larga parte del '900 del neoidealismo di Gentile e Croce...

Spero che il discorso sia risultato interessante per alcuni, o quantomeno sufficientemente chiaro, scusate il mio essere prolisso...
#598
Presentazione nuovi iscritti / Nuovo utente
21 Aprile 2016, 17:00:38 PM
Buongiorno a tutti!
Ho 30 anni, ho studiato filosofia all'università ed in questo momento mi occupo di scrittura di brevi articoli destinati alla pubblicazione, sempre di carattere filosofico.
Sono venuto a conoscenza  da un pò di tempo dell'esistenza di questo forum e spero di passare qua bei momenti piacevoli di discussione/chiacchierata!