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ASPETTI FILOSOFICI
Sotto il profilo che io qui definisco, genericamente, "filosofico", secondo me, la questione è alquanto più chiara (se non più semplice); ed infatti ritengo che il suicidio sia l'atto più "razionale" che un essere pensante possa compiere (quantomeno in determinate circostanze).
Ed infatti, quello della morte, è un <<dies incertus "quando" et "quomodo"...sed certus "an">>.
Per cui, in effetti, si può scegliere se restare celibi o se sposarsi (una delle peggiori forme di suicidio, forse :-) ), ma non si può certo scegliere "se" vivere "se" o morire; si può solo scegliere, eventualmente, "quando" e "come" morire...oppure lasciar fare al caso!
Rispetto ad altre scelte, peraltro, quella vita/morte offre un notevole vantaggio.
Ed infatti, restando all'esempio del matrimonio, uno può scegliere se sposarsi o restare celibe per tutta la vita; ma, in entrambi i casi, può rimpiangere, in futuro, la scelta fatta.
Nel caso della scelta tra la morte e la vita, invece:
- si può rimpiangere amaramente di non essere morti per tempo (ad esempio, nel caso in cui un genitore sopravviva ai propri figli);
- ma non si può in nessun caso rimpiangere di essere morti, perchè viene a mancare il soggetto del verbo rimpiangere (cioè, chi ancora non è nato o è già morto, non è in grado di dolersi di nulla).
Per cui, "eudaimonisticamente" parlando, IN TEORIA, la scelta di morire è sempre più "logicamente" conveniente della scelta di vivere:
- o perchè la vita è già attualmente fonte di sofferenza;
- oppure perchè, anche quando è attualmente fonte di gioia, la consapevolezza di poter perdere tale felicità da un momento all'altro, è anch'essa una forma di sofferenza.
Essendo morti, invece, non solo non si soffre più...ma non si può essere neanche in ansia per il rischio di soffrire (a volte, anche in modo straziante); sempre ovviamente, che si abbia sufficiente "immaginazione".
Non nego, infatti, che se si è abbastanza in salute, egoisti ed imbecilli, si può anche vivere abbastanza allegramente; però i primi due requisiti sono inutili, se manca il terzo.
:-)
Al riguardo, tanto per fare sfoggio di cultura, farò solo due citazioni:
"Ora dimmi, seguace di Dioniso, qual è la cosa migliore e più desiderabile per l'uomo?", domandò il re Mida al Sileno, e questi, costretto dalla sua insistenza, con voce stridula gli rispose: "Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è – morire presto".(F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi, pp. 31-32)
«Non essere mai nati è la cosa migliore e la seconda, una volta venuti al mondo, tornare lì donde si è giunti.» (Sofocle, Edipo a Colono).
Che allegroni...ma non avevano tutti i torti!
:-)
Ovviamente, qui andrebbe incidentalmente affrontato il tema della sopravvivenza dopo la morte, ma richieremmo di andare "off topics" e di allargare troppo il discorso.
Personalmente, non ho la benchè minima idea di cosa possa esserci dopo la morte (ovviamente), ma sono sicurissimo di quello che non può esserci.
Mi si dirà: "Ma non è la stessa cosa?"
No, per niente!
Ad esempio, io non non ho la benchè minima idea di cosa possa esserci sul terzo pianeta del sistema di Alpha Centauri (ovviamente), ma sono sicurissimo di quello che non può esserci; ad esempio, sono sicurissimo che non ci sia una pizzeria, come quella sotto casa mia (o, almeno, che faccia la pizza così buona).
O meglio, teoricamente potrebbe anche esserci...ma lo ritengo alquanto improbabile (per usare un cauto eufemismo).
Per quanto concerne la cosidetta sopravvivenza dell'anima, invece, pur essendo io convinto (sia pur senza prove), che essa sopravviva, in quanto riassorbita dal SE' universale come un onda nel mare, nego però recisamente che possa sopravvivere "sub specie" di mente e consapevolezza individuale; quest'ultima, infatti, è troppo connessa alla struttura neurale del singolo cervello, per poter sopravvivere alla sua distruzione, così come non è più possibile leggere un libro dopo averlo bruciato.
;-)
Cioè, se mi togliete la mia memoria (conservata nei relativi centri cerebrali), i miei desideri (attivati dall'apparato ormonale), e la mia capacità di ragionare (ubicata nei centri di Broca e Vernicke), mi sembra inevitabile che il mio IO INDIVIDUALE, cessi definitivamente di esistere.
Per esempio:
- sei anni fa mi fratturai una gamba, per cui, per un certo tempo non potei camminare; per inferenza, quindi, mi sembra logico desumere che, se le gambe me le avessero tagliate, non avrei camminato mai più.
- quattro anni fa, subii un'operazione alla testa con anestesia totale, per cui, per un certo tempo non potei nè pensare nè essere consapevole di esistere; per inferenza, quindi, mi sembra logico desumere che, se la testa me l'avessero tagliata del tutto, non avrei pensato mai più, nè più sarei stato consapevole del me stesso (individuale).
:-)
Il mio ragionamento, insomma, è molto simile a quello di Simmia riguardo alla lira, nel Fedone di Platone; ragionamento che, invero, venne abilmente controbattutto da Socrate, con argomentazioni che, sinceramente, ho sempre ritenuto del tutto sofistiche e inconsistenti (FEDONE XXXVI).
Per cui, sono più che ragionevolmente sicuro che non potrò mai dire, come Achille nell'ADE: "Sappi che piuttosto che il re dei morti preferirei essere l'ultimo servo dei vivi." (Odisseo agli inferi: 2014).
Ma è naturale che tutti -me compreso- non riescono inconsciamente ad "accettare" l'idea di dover "finire"; mentre, invece, sia a livello fisico che di coscienza individuale, la cosa è inevitabile, perchè TUTTO QUELLO CHE HA UN INIZIO DEVE AVERE NECESSARIAMENTE UNA FINE (non esiste un bastone che possa avere un'unica estremità).
Noi, però, non riusciamo inconsciamente ad "accettare" l'idea di dover "finire", perchè è il nostro stesso "cervello-rettile" (amigdala o sistema limbico in generale, che dir si voglia) che ce lo impedisce; occorre un notevole sforzo razionale per rendersene conto.
Ed anche rendendosene conto, nessuno può suicidarsi smettendo di respirare!
:-)
Con questo non intendo certo sostenere che la cosa migliore sarebbe quella di suicidarci im massa (cosa che, peraltro, senza accorgercene, forse stiamo già facendo); dico solo che, se comunque non si perde NIENTE morendo -perchè non c'è più nessuno a potersi rammaricare di aver perso qualcosa- finchè la vita è degna di essere vissuta, tutto sommato tanto vale viverla ne migliore dei modi.
Sempre ricordando, però, come diceva Seneca, che:
" Non enim vivere bonum est, sed bene vivere" ("Non è un bene il vivere; ma è un bene solo il vivere bene").
Ovvero, come diceva Marziale: "Non est vivere, sed valere vita est" ("Vivere è vivere solo se si è in salute").
Per cui, se la vita diventa soltanto una inutile sofferenza, ritengo estremamente razionale togliersela; sempre che, così facendo, non si venga meno ad obblighi verso terzi (ad esempio, figli piccoli e genitori anziani).
In tal caso la vita, gradevole o meno che sia, secondo me diventa un "obbligo morale", abdicare dal quale sarebbe moralmente disdicevole; anche se occorre sempre giudicare caso per caso.
ASPETTI FILOSOFICI
Sotto il profilo che io qui definisco, genericamente, "filosofico", secondo me, la questione è alquanto più chiara (se non più semplice); ed infatti ritengo che il suicidio sia l'atto più "razionale" che un essere pensante possa compiere (quantomeno in determinate circostanze).
Ed infatti, quello della morte, è un <<dies incertus "quando" et "quomodo"...sed certus "an">>.
Per cui, in effetti, si può scegliere se restare celibi o se sposarsi (una delle peggiori forme di suicidio, forse :-) ), ma non si può certo scegliere "se" vivere "se" o morire; si può solo scegliere, eventualmente, "quando" e "come" morire...oppure lasciar fare al caso!
Rispetto ad altre scelte, peraltro, quella vita/morte offre un notevole vantaggio.
Ed infatti, restando all'esempio del matrimonio, uno può scegliere se sposarsi o restare celibe per tutta la vita; ma, in entrambi i casi, può rimpiangere, in futuro, la scelta fatta.
Nel caso della scelta tra la morte e la vita, invece:
- si può rimpiangere amaramente di non essere morti per tempo (ad esempio, nel caso in cui un genitore sopravviva ai propri figli);
- ma non si può in nessun caso rimpiangere di essere morti, perchè viene a mancare il soggetto del verbo rimpiangere (cioè, chi ancora non è nato o è già morto, non è in grado di dolersi di nulla).
Per cui, "eudaimonisticamente" parlando, IN TEORIA, la scelta di morire è sempre più "logicamente" conveniente della scelta di vivere:
- o perchè la vita è già attualmente fonte di sofferenza;
- oppure perchè, anche quando è attualmente fonte di gioia, la consapevolezza di poter perdere tale felicità da un momento all'altro, è anch'essa una forma di sofferenza.
Essendo morti, invece, non solo non si soffre più...ma non si può essere neanche in ansia per il rischio di soffrire (a volte, anche in modo straziante); sempre ovviamente, che si abbia sufficiente "immaginazione".
Non nego, infatti, che se si è abbastanza in salute, egoisti ed imbecilli, si può anche vivere abbastanza allegramente; però i primi due requisiti sono inutili, se manca il terzo.
:-)
Al riguardo, tanto per fare sfoggio di cultura, farò solo due citazioni:
"Ora dimmi, seguace di Dioniso, qual è la cosa migliore e più desiderabile per l'uomo?", domandò il re Mida al Sileno, e questi, costretto dalla sua insistenza, con voce stridula gli rispose: "Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è – morire presto".(F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi, pp. 31-32)
«Non essere mai nati è la cosa migliore e la seconda, una volta venuti al mondo, tornare lì donde si è giunti.» (Sofocle, Edipo a Colono).
Che allegroni...ma non avevano tutti i torti!
:-)
Ovviamente, qui andrebbe incidentalmente affrontato il tema della sopravvivenza dopo la morte, ma richieremmo di andare "off topics" e di allargare troppo il discorso.
Personalmente, non ho la benchè minima idea di cosa possa esserci dopo la morte (ovviamente), ma sono sicurissimo di quello che non può esserci.
Mi si dirà: "Ma non è la stessa cosa?"
No, per niente!
Ad esempio, io non non ho la benchè minima idea di cosa possa esserci sul terzo pianeta del sistema di Alpha Centauri (ovviamente), ma sono sicurissimo di quello che non può esserci; ad esempio, sono sicurissimo che non ci sia una pizzeria, come quella sotto casa mia (o, almeno, che faccia la pizza così buona).
O meglio, teoricamente potrebbe anche esserci...ma lo ritengo alquanto improbabile (per usare un cauto eufemismo).
Per quanto concerne la cosidetta sopravvivenza dell'anima, invece, pur essendo io convinto (sia pur senza prove), che essa sopravviva, in quanto riassorbita dal SE' universale come un onda nel mare, nego però recisamente che possa sopravvivere "sub specie" di mente e consapevolezza individuale; quest'ultima, infatti, è troppo connessa alla struttura neurale del singolo cervello, per poter sopravvivere alla sua distruzione, così come non è più possibile leggere un libro dopo averlo bruciato.
;-)
Cioè, se mi togliete la mia memoria (conservata nei relativi centri cerebrali), i miei desideri (attivati dall'apparato ormonale), e la mia capacità di ragionare (ubicata nei centri di Broca e Vernicke), mi sembra inevitabile che il mio IO INDIVIDUALE, cessi definitivamente di esistere.
Per esempio:
- sei anni fa mi fratturai una gamba, per cui, per un certo tempo non potei camminare; per inferenza, quindi, mi sembra logico desumere che, se le gambe me le avessero tagliate, non avrei camminato mai più.
- quattro anni fa, subii un'operazione alla testa con anestesia totale, per cui, per un certo tempo non potei nè pensare nè essere consapevole di esistere; per inferenza, quindi, mi sembra logico desumere che, se la testa me l'avessero tagliata del tutto, non avrei pensato mai più, nè più sarei stato consapevole del me stesso (individuale).
:-)
Il mio ragionamento, insomma, è molto simile a quello di Simmia riguardo alla lira, nel Fedone di Platone; ragionamento che, invero, venne abilmente controbattutto da Socrate, con argomentazioni che, sinceramente, ho sempre ritenuto del tutto sofistiche e inconsistenti (FEDONE XXXVI).
Per cui, sono più che ragionevolmente sicuro che non potrò mai dire, come Achille nell'ADE: "Sappi che piuttosto che il re dei morti preferirei essere l'ultimo servo dei vivi." (Odisseo agli inferi: 2014).
Ma è naturale che tutti -me compreso- non riescono inconsciamente ad "accettare" l'idea di dover "finire"; mentre, invece, sia a livello fisico che di coscienza individuale, la cosa è inevitabile, perchè TUTTO QUELLO CHE HA UN INIZIO DEVE AVERE NECESSARIAMENTE UNA FINE (non esiste un bastone che possa avere un'unica estremità).
Noi, però, non riusciamo inconsciamente ad "accettare" l'idea di dover "finire", perchè è il nostro stesso "cervello-rettile" (amigdala o sistema limbico in generale, che dir si voglia) che ce lo impedisce; occorre un notevole sforzo razionale per rendersene conto.
Ed anche rendendosene conto, nessuno può suicidarsi smettendo di respirare!
:-)
Con questo non intendo certo sostenere che la cosa migliore sarebbe quella di suicidarci im massa (cosa che, peraltro, senza accorgercene, forse stiamo già facendo); dico solo che, se comunque non si perde NIENTE morendo -perchè non c'è più nessuno a potersi rammaricare di aver perso qualcosa- finchè la vita è degna di essere vissuta, tutto sommato tanto vale viverla ne migliore dei modi.
Sempre ricordando, però, come diceva Seneca, che:
" Non enim vivere bonum est, sed bene vivere" ("Non è un bene il vivere; ma è un bene solo il vivere bene").
Ovvero, come diceva Marziale: "Non est vivere, sed valere vita est" ("Vivere è vivere solo se si è in salute").
Per cui, se la vita diventa soltanto una inutile sofferenza, ritengo estremamente razionale togliersela; sempre che, così facendo, non si venga meno ad obblighi verso terzi (ad esempio, figli piccoli e genitori anziani).
In tal caso la vita, gradevole o meno che sia, secondo me diventa un "obbligo morale", abdicare dal quale sarebbe moralmente disdicevole; anche se occorre sempre giudicare caso per caso.

( poi non è che tutti gli animali siano 'sta gran bontà, intendiamoci...).

