Ho letto tutta la discussione e devo dire di esser d'accordo al 100% con quello che sta affermando Eutidemo sulla certezza e affini.
La filosofia tende a prendere parole perfettamente sensate e a storpiarle, piegandone il significato... tutto questo porta molto spesso a confusione e fraintendimenti.
Sono in camera mia e Tizio mi chiede: "c'è un tavolo in soggiorno?". Io dico: "sì, nel mio soggiorno c'è sempre stato un tavolo". Sono sicuro di questo. L'altro mi dice: "Giorgio mi ha detto che lo avrebbero portato via oggi, per ripararlo". La circostanza è cambiata, quindi non sono più sicuro, ma prima lo ero. Ora vado in soggiorno a controllare e vedo il mio solito tavolo in mezzo alla stanza "Ah, eccolo qui!". Tizio insiste: "ma sei proprio sicuro che ci sia un tavolo qui in soggiorno?". E io: "Ma certo, è proprio qui di fronte a me", e inizio a dubitare della sanità mentale di Tizio, oppure Tizio vuole farmi uno scherzo? Ora io sono nelle circostanze ideali per essere sicuro che vi è un tavolo in mezzo al soggiorno: sono in soggiorno e vedo a pochi centimetri da me il tavolo, non posso chiedere di meglio! Lo tocco pure e lo muovo!
Tizio insiste con il suo scetticismo sul tavolo, secondo lui quell'oggetto in mezzo la soggiorno potrebbe non essere un tavolo... Al ché io rispondo: "Ma davvero non stai scherzando? Che problema avrebbe questo tavolo? Perché non dovrebbe essere un tavolo? Cos'ha che non va per essere un tavolo?". Tizio risponde: "Non ho nessuna ragione particolare, ma è logicamente possibile che tu ti stia sbagliando a riguardo, quindi non puoi essere certo che quello sia davvero un tavolo".
Ecco, secondo me, la storpiatura filosofica di "essere certo", "essere sicuro". Per la pratica linguistica italiana io sono perfettamente legittimato a dire "Ora io so che ho un tavolo in soggiorno, ne sono certo!". Alcuni filosofi (non tutti, ovviamente) vogliono riformare, correggere, l'uso di tali termini. Ma perché mai? Come dicevo sopra, modificare artificiosamente il significato delle parole porta molto spesso problemi di fraintendimento... Per il linguaggio italiano io sono nelle circostanze epistemiche ideali per sapere che esiste un tavolo nel mio soggiorno, quindi ne sono certo... e tale certezza può essere rivista se nuovi elementi vengono resi noti in contrasto con tale mia convinzione. Ma tali elementi devono esistere! Non basta, come fa Tizio, a dire che è logicamente possibile che io sia in errore (e ciò è vero sempre!) per non poter essere più sicuro e dovermi accontentare del dubbio.
Come "Io so che..." e "Io sicuro che...", anche "Io dubito di..." ha bisogno di ragioni e giustificazioni specifiche. Non basta un dubbio generalissimo (e quindi vuoto), bisogna specificare quali sono le ragioni del dubbio. Altrimenti Tizio dovrebbe dubitare anche della sensatezza del suo dubbio: "Tizio, potresti essere in errore nel tuo dubitare, quindi limitati a dubitare di poter dubitare...". E tale procedura può essere applicata un numero arbitrario di volte su se stessa, generando puro nonsense.
Quindi, dal canto mio, non mi limito a dubitare della legittimità del dubbio di Tizio, anzi, nego tale legittimità: "Tizio, tu stia dubitando senza ragioni... ti ho spiegato come so che ho un tavolo nel mio soggiorno, ma tu assurdamente continui a dubitare senza portare ragioni specifiche. Solo quando porterai ragioni specifiche contro tale mia convinzione, potrò valutare se rimanere sicuro o meno".
La filosofia tende a prendere parole perfettamente sensate e a storpiarle, piegandone il significato... tutto questo porta molto spesso a confusione e fraintendimenti.
Sono in camera mia e Tizio mi chiede: "c'è un tavolo in soggiorno?". Io dico: "sì, nel mio soggiorno c'è sempre stato un tavolo". Sono sicuro di questo. L'altro mi dice: "Giorgio mi ha detto che lo avrebbero portato via oggi, per ripararlo". La circostanza è cambiata, quindi non sono più sicuro, ma prima lo ero. Ora vado in soggiorno a controllare e vedo il mio solito tavolo in mezzo alla stanza "Ah, eccolo qui!". Tizio insiste: "ma sei proprio sicuro che ci sia un tavolo qui in soggiorno?". E io: "Ma certo, è proprio qui di fronte a me", e inizio a dubitare della sanità mentale di Tizio, oppure Tizio vuole farmi uno scherzo? Ora io sono nelle circostanze ideali per essere sicuro che vi è un tavolo in mezzo al soggiorno: sono in soggiorno e vedo a pochi centimetri da me il tavolo, non posso chiedere di meglio! Lo tocco pure e lo muovo!
Tizio insiste con il suo scetticismo sul tavolo, secondo lui quell'oggetto in mezzo la soggiorno potrebbe non essere un tavolo... Al ché io rispondo: "Ma davvero non stai scherzando? Che problema avrebbe questo tavolo? Perché non dovrebbe essere un tavolo? Cos'ha che non va per essere un tavolo?". Tizio risponde: "Non ho nessuna ragione particolare, ma è logicamente possibile che tu ti stia sbagliando a riguardo, quindi non puoi essere certo che quello sia davvero un tavolo".
Ecco, secondo me, la storpiatura filosofica di "essere certo", "essere sicuro". Per la pratica linguistica italiana io sono perfettamente legittimato a dire "Ora io so che ho un tavolo in soggiorno, ne sono certo!". Alcuni filosofi (non tutti, ovviamente) vogliono riformare, correggere, l'uso di tali termini. Ma perché mai? Come dicevo sopra, modificare artificiosamente il significato delle parole porta molto spesso problemi di fraintendimento... Per il linguaggio italiano io sono nelle circostanze epistemiche ideali per sapere che esiste un tavolo nel mio soggiorno, quindi ne sono certo... e tale certezza può essere rivista se nuovi elementi vengono resi noti in contrasto con tale mia convinzione. Ma tali elementi devono esistere! Non basta, come fa Tizio, a dire che è logicamente possibile che io sia in errore (e ciò è vero sempre!) per non poter essere più sicuro e dovermi accontentare del dubbio.
Come "Io so che..." e "Io sicuro che...", anche "Io dubito di..." ha bisogno di ragioni e giustificazioni specifiche. Non basta un dubbio generalissimo (e quindi vuoto), bisogna specificare quali sono le ragioni del dubbio. Altrimenti Tizio dovrebbe dubitare anche della sensatezza del suo dubbio: "Tizio, potresti essere in errore nel tuo dubitare, quindi limitati a dubitare di poter dubitare...". E tale procedura può essere applicata un numero arbitrario di volte su se stessa, generando puro nonsense.
Quindi, dal canto mio, non mi limito a dubitare della legittimità del dubbio di Tizio, anzi, nego tale legittimità: "Tizio, tu stia dubitando senza ragioni... ti ho spiegato come so che ho un tavolo nel mio soggiorno, ma tu assurdamente continui a dubitare senza portare ragioni specifiche. Solo quando porterai ragioni specifiche contro tale mia convinzione, potrò valutare se rimanere sicuro o meno".