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Messaggi - Koba

#61
Tematiche Filosofiche / Alla ricerca della gaia scienza
16 Settembre 2025, 11:26:49 AM
Nella parte conclusiva della prefazione alla "Gaia scienza" Nietzsche scrive: "No, questo cattivo gusto, questo volere la verità, la verità a ogni costo, questa farneticazione da adolescenti nell'amore della verità – ci sono venuti in uggia: per questo siamo troppo esperti, troppo rigorosi, [...] troppo profondi...".
Per poi concludere: "Oh questi Greci! Loro sì sapevano vivere; per vivere occorre arrestarsi animosamente alla superficie, all'increspatura, alla pelle, adorare la parvenza, credere a forme, suoni, parole, all'intero Olimpo della parvenza! Questi Greci erano superficiali – per profondità!"

Ma allora questa gaia scienza, questa conoscenza gioiosa del mondo, che cosa sarebbe? Un fermarsi all'apparenza scegliendo di non indagare i meccanismi profondi della natura? Un atto estetico?
No, niente di più sbagliato!

Sappiamo che Nietzsche era a conoscenza del lavoro di Ernst Mach e nel periodo tra la prima e la seconda edizione della Gaia scienza (1882-1887) leggerà con attenzione il testo di Mach sulle sensazioni.
Per Mach la scienza è un processo biologico. Esprime l'adattamento dell'organismo alle condizioni esterne. Non c'è salto qualitativo tra istinto e intelligenza. In entrambe i casi l'organismo si calibra sui fenomeni esterni. Questo significa che la conoscenza non è una rappresentazione degli oggetti, ma costruzione di modelli per orientarsi nel mondo.
Quindi non c'è alcun fondamento del reale. Le leggi scientifiche rivelano relazioni di fenomeni. La causalità è un pregiudizio. Noi osserviamo soltanto che al variare di un fenomeno segue la variazione di un altro fenomeno. Questo non significa affatto che uno sia causa dell'altro.
L'affinità con certe idee di Nietzsche è evidente. Mach però oltre ad essere filosofo era anche scienziato. La sua conoscenza diretta dell'impresa scientifica garantisce alle intuizioni di Nietzsche una validità epistemologica. Così appare chiaro come l'operazione di riduzione di Nietzsche a esteta sia superficiale.

Prendiamo ora §1 "I teorici del fine dell'esistenza".
Sinossi.
Tesi di partenza. Guardati da vicino o da lontano, gli uomini sembrano tutti impegnati — consapevoli o no — a favorire la conservazione della specie. Non per "amore dell'umanità", ma per un istinto antichissimo, che è l'essenza della nostra specie.
Rivalutazione di utile/dannoso. A conti fatti non è semplice separare chi giova e chi nuoce: anche il "più dannoso" può risultare utile alla specie perché preserva energie/istinti (odio, crudeltà, dominio, rapina) che, pur costosi e "malvagi", hanno impedito l'infiacchimento dell'umanità.
Di una vita del genere, della propria vita, allora non rimarrebbe che riderne. La vita non si è ancora del tutto rivelata come commedia.
Ora domina un altro tempo: il tempo della tragedia, delle morali e delle religioni.
Chi sono i "teorici del fine". In questo tempo tragico compaiono ciclicamente fondatori di morali e religioni (e il loro seguito: poeti, "macchinisti", confidenti, ecc.). Essi mettono in scena grandi drammi morali, accendono contese sui valori, predicano rimorsi e guerre sante. Ma, così facendo, promuovono la fede nella vita e quindi, di nuovo, la vita della specie.
Come operano. L'istinto di conservazione si traveste da ragione e passione: erige un ricco apparato di motivi e "perché", comanda che la vita sia amata e che l'uomo promuova lo sviluppo di sé e del prossimo. Sono invenzioni (anche azzardate o "contro natura"), ma hanno avuto effetto: senza questi eroi e le loro costruzioni l'umanità sarebbe crollata più volte.
Doppio movimento. Alla lunga il riso, la ragione e la natura "correggono" quelle grandi tragedie, come onde che le spazzano via. E tuttavia proprio quelle comparse tragiche hanno trasformato l'umanità: la specie ora ha bisogno, periodicamente, di una fiducia nella vita e di credere che nella vita ci sia "ragione".
C'è una legge di flusso e riflusso: tempi del riso e tempi della tragedia si alternano — entrambi servono la vita.
Fine della sinossi.

Nietzsche lascia però in sospeso l'essenziale. O meglio, preferisce non parlarne in modo diretto: se con i flussi e riflussi, oggi, nel nostro tempo, possiamo dire di poter ridere delle ambizioni delle religioni e delle morali, non possiamo dire la stessa cosa della vita in generale. In altre parole il ciclo di moralisti e tragedia ci ha lasciati con il bisogno di prendere sul serio la vita, di cercarne un senso, un fine, una stabilità.
Ma che ruolo gioca in questo la gaia scienza? Una conoscenza profonda, spregiudicata, ma nello stesso tempo purificata dal bisogno di un fondamento, di un'origine, di un senso. Verso dove ci potrebbe condurre?
#62
Interessante. La pittura come ricerca ontologica i cui risultati sono però mai definitivi, che dà luogo così ad un'opera aperta: secondo me è una cosa che si può vedere anche nella scienza. In fondo una teoria scientifica è anche un atto estetico con cui si cerca di rivelare l'ordine là dove regna l'informe.
Naturalmente la scienza ricerca l'efficacia, il controllo, così come la pittura la bellezza della forma, ma in entrambe, se c'è consapevolezza dell'assenza del Fondamento, dell'assenza di una Realtà ultima da rivelare, allora l'atto creativo, il gioco con i rispettivi strumenti, può essere visto come se si fermasse l'immagine di una danza là dove sembrava esserci solo caos.
#63
Metto in evidenza alcuni elementi che nella discussione sono trattati in modo, secondo me, confuso o sbagliato.
1) la forza o la pura resistenza nel lavoro è sempre stato, almeno da un certo punto in poi dello sviluppo tecnologico, un fattore secondario. Basta pensare agli artigiani del Rinascimento, alla complessità e raffinatezza delle loro tecniche. Ma anche all'agricoltura, che al di là di singole lavorazione stagionali "massacranti" e ripetitive, comporta poi tutta una serie di attività che presuppongono grande abilità (quindi intelligenza).
2) che un colletto bianco svolga un lavoro più intelligente di quello di un operaio specializzato, per esempio un muratore esperto, beh, è tutto da vedere – anzi, io avendo sperimentato sia il lavoro di ufficio che quello dei cantieri edili posso dire senz'altro che occorrono più qualità di "problem solving" in questo secondo campo che nel primo (e allora avremmo dovuto gridare "attacco all'intelligenza" anche nel momento in cui nell'edilizia sono stati introdotti sempre più elementi prefabbricati e lavorazioni semplificate).
3) in generale il lavoro è essenzialmente basato sulla ripetizione di procedura e modelli. Un'attività teoricamente creativa come quella di un architetto se viene analizzata a fondo mostra che nel 99% delle opere si tratta di riproposizione di tipologie riconosciute e acquisite.
4) tutto questo per dire che l'intelligenza umana, nei contesti lavorativi complessi, già ben prima dell'avvento della AI, tende a passare in secondo piano: a dominare è l'adeguamento alle procedure. Quindi l'intelligenza sta soprattutto nell'apprendimento di esse. Poi la qualità dominante è la disciplina. Esempio: il medico di ospedale che nella diagnosi e poi nella cura non fa altro (in barba al dottor House) che seguire protocolli specifici.
5) conclusione: il fatto che la AI metta in crisi delle professioni, come decenni fa aveva fatto la robotica nell'industria, non deve essere visto come attacco all'intelligenza, ma semplicemente come attacco a quelle professioni. Come sostituzione di quelle attività.

Ma temo che qui pochi abbiano fatto esperimenti concreti con la AI. Quell'uso non banale di cui parlavo. È come se avessimo a disposizione delle intelaiature robotiche capaci di farci muovere meglio, con più efficacia, e invece noi ce ne restiamo fermi a chiedere a questi arti meccanici di correre da soli per vedere se battono il record dei 100 metri...
#64
Ho letto "adattamento funzionale": ma la AI usa il linguaggio naturale, dunque l'utente non deve acquisire particolari competenze, oltre a saper leggere e scrivere. Con la AI, forse per la prima volta nella storia della tecnologia, è lo strumento ad adattarsi all'utente, non il contrario (è lei che si sforza di capire e interpretare le mie richieste magari sgrammaticate).
Il punto è l'uso non banale di essa.
Uso banale: farla partecipare ad una competizione pensata per gli umani (olimpiadi di matematica); chiederle di scrivere un brano al posto mio ecc.
Uso non banale: riprendendo l'esempio del brano, ipotizzando che sia un brano di filosofia, sfruttarla per approfondire il tema trattato, per sviscerare gli aspetti controversi, magari non ancora del tutto chiari nella testa dell'autore, esaminare insieme la fluidità del testo chiedendole di elaborare alternative a qualche frase troppo contorta (se Hegel lo avesse fatto con la Fenomenologia dello spirito quanti lettori avrebbero evitato disperazione ed emicranie...).

"L'intelligenza umana è sotto attacco": mi viene da dire, ma quale intelligenza!
L'intelligenza umana nella vita quotidiana fa apparizioni sporadiche e di solito è soffocata – nel mondo del lavoro – da interessi personali e meschinità varie.
#65
Non sono d'accordo.
Usare la AI in modo "intelligente" vuol dire avere tra le mani un'incredibile strumento di potenziamento delle capacità cognitive.
Di solito parlando di AI ci si concentra solo su due aspetti: la sostituibilità dell'uomo (in certe attività, come la scrittura di codice di programmazione), e la simulazione (in generale la creazione di falsi: false teorie, falsi eventi, falsi immagini ecc).
Ma la singola persona se vuole veramente capirci qualcosa la deve testare su ciò che ha sempre rappresentato per sé un limite, un ostacolo invalicabile. Che so, per un dilettante appassionato di matematica può essere uno specifico argomento su cui si è sempre arenato nonostante la consultazione di vari testi.
Se riesce (e io sono convinto di sì) a superare quel limite grazie all'assistenza della AI (una specie di precettore personale digitale, molto competente e infinitamente paziente) vuol dire che non è affatto finita l'era dell'intelligenza umana, ma che anzi il bello arriva adesso.
#66
Tematiche Spirituali / Re: Inventare una nuova religione
09 Settembre 2025, 13:51:25 PM
Va tenuto presente che nei testi di spiritualità cristiana viene detto esplicitamente che la fede non è adesione intellettuale a idee religiose o teologiche.
La si può intendere piuttosto come fiducia in un percorso, in un modo di vivere, come la scelta a perseverare in una certa forma di vita.
Allora cosa distingue il cristiano da colui che esercita una spiritualità prettamente filosofica?
Il fatto di leggere ciò che gli accade, i cambiamenti, le gioie della conversione etc., come presenza di Dio.
Se ha ragione Alexander a dire che non è esattamente corretto sostenere che si fa esperienza di Dio, nello stesso tempo si può arrivare a interpretare la propria nuova vita come presenza di Dio solo perché qualcosa di concreto, di legato all'esperienza è accaduto.
Infatti chi si dimentica di rinnovare questo livello legato ai sensi, al corpo ecc., finisce presto per diventare tiepido e, se rimane nei "ranghi", si rifugia nella teologia (come succede a me secondo cicli quinquennali: conversione – entusiasmo – progetti impossibili – raffreddamento – teologia – scetticismo – ateismo – melanconia – conversione – e via dicendo...).
#67
Citazione di: Phil il 08 Settembre 2025, 15:05:09 PM[...] Oppure anche loro sono del partito, tipicamente terrestre, che si adopera per portare la pace (anche a costo di fare 450 anni di viaggio galattico) e poi trattenersi un po' sui nuovi territori conquistati-pardon!-pacificati per vedere quel che c'è e come ci si sta?


:D  In effetti non ci avevo pensato. Da un autore cinese sarebbe stata una metafora proprio azzeccata sull'occidente...
Ma nel romanzo gli alieni sono sinceri: devono scappare dal loro mondo caotico formato da tre Soli destinato alla catastrofe. E la Terra potrà essere per loro una nuova casa solo riuscendo, tramite sabotaggio "interstellare", a mantenere intatta la differenza tecnologica tra le due civiltà, per poi risolvere in loco il problema della presenza degli umani...
#68
Tematiche Spirituali / Re: Inventare una nuova religione
08 Settembre 2025, 15:15:03 PM
Citazione di: iano il 08 Settembre 2025, 13:47:32 PMPer tacere del fatto che questo vale per tutte le cose umane, che quando le descrivi le tradisci, ponendo poi in quella descrizione più o meno fede.
La religione nello specifico è quando in questa descrizione poni fede senza remora alcuna.
E' la traslazione dell'idolatria dalle cose alla loro descrizione, che comunque ha qualcosa di spirituale nella misura in cui intendiamo la spiritualità come un sollevarsi dalla materia.
La descrizione infatti levita su ciò che descrive.

Non ci sono le cose da una parte e le descrizioni delle cose dall'altra. Tu ti pone di fronte a una cosa, per esempio un albero, sapendo già che cos'è per noi un albero.
Poi che una civiltà differente avrebbe potuto sviluppare un'ontologia di base completamente diversa  (ma quanto completamente diversa? C'è un limite dettato dalla realtà stessa a queste ontologie alternative? Ma questo sarebbe realismo e finiremmo così di nuovo nelle aporie della verità come rappresentazione adeguata dell'oggetto ecc.), dicevo, sviluppi culturali alternativi non implicano che tu di fronte all'albero, conoscendolo d'istinto per il tuo lungo apprendistato nella nostra civiltà,  debba esercitare una fede nella sua nozione, nell'immagine che abbiamo di esso.
Dunque fin qui non vedo alcun problema di religiosità e di fede. Cioè, nel momento in cui analizziamo le nostre verità e prendiamo consapevolezza dell'arbitrarietà di esse, poi fino ad un certo punto possiamo sentirci, nella vita ordinaria, fuori dallo stanzino del filosofo, liberi da esse. Cioè, spesso continueremo a sentirle come verità. Anche con cose più complesse degli oggetti della nostra ontologia di base, per esempio con certi valori come i diritti fondamentali della persona: l'arbitrarietà di essi, la loro storia concreta ecc., ecco, tutto questo non significa che poi cessiamo di sentirli più veri di altre visioni etiche, che siamo liberi dal pregiudizio di considerarli universalmente veri.
Questi sono i limiti (nella prassi) del relativismo culturale. Ovvero: per quanto sia profondo l'esercizio di smascheramento del nostro etnocentrismo, continueremo a credere alle "verità" di cui è composta la visione del mondo della nostra cultura (che è comunque sempre in trasformazione).
Non è cioè una questione di fede individuale.
Con le religioni storiche invece, con il cristianesimo, o con idee generali quali il progresso, è tutta un'altra faccenda. Qui abbiamo a che fare con visioni del mondo complessive, mai del tutto dimostrabili, ne confutabili (se Dio come Persona lascia perplessi, ecco la versione "Dio è Amore", o Dio come Spirito – che io, per esempio, lo ammetto, prediligo).
Qui sì che la fede entra in gioco. La fede come scelta di perseverare in un certo cammino. Ma far finta (Duc!) che questa scelta si ponga sullo stesso piano di ogni decisione attinente la propria esistenza, come una specifica alimentazione ecc., mi sembra un'operazione intellettualmente poco onesta di cui non vedo nemmeno l'utilità se non quella di smorzare quella sensazione di assurdità che sembra soffocarci quando pensiamo che la nostra fede implica credere per esempio che un uomo sia risorto dalla morte e cose simili...
#69
Prima un paio di note sul testo di Cixin Liu: si tratta di un grande romanzo, di grande qualità anche dal punto di vista prettamente letterario. Purtroppo la traduzione italiana è stata fatta su quella inglese, dunque è inevitabile che molte sfumature linguistiche siano andate perse. Questo doppio passaggio, ahimè, è abbastanza frequente per la letteratura giapponese e cinese. Tuttavia il testo è di qualità letteraria di gran lunga superiore a quella dell'ultimo romanzo di Bret Ellis, uscito qualche mese fa, o ai volumi di Knausgard, così tanto per fare due esempi di opere che hanno avuto una critica favorevole.
È il caso dunque di avvicinare Cixin Liu come se fosse uno Stanislaw Lem più che il fortunato autore di un bestseller di fantascienza.

Venendo al tema: rispetto al problema dei falsi studi, con i sofoni non si attua un'operazione di svalutazione della scienza. Si tratta di un vero e proprio sabotaggio della ricerca di base, in particolare delle osservazioni sugli esperimenti con gli acceleratori di particelle (è lì infatti, secondo l'autore, che avvengono i salti decisivi della tecnologia).
Al di là del fatto che si tratta di una strategia aliena più o meno inverosimile, la cosa interessante – ed è forse questo il tema centrale del romanzo – è la formazione sulla terra di un gruppo di collaborazionisti. Alcuni, più ingenui e idealisti, pensano che gli alieni saranno in grado finalmente di educare il genere umano e di estirpare la violenza dalla civiltà. Altri, completamente disillusi su homo sapiens, desiderano solo l'annientamento della specie umana.
[Una cosa interessante: viene citato il rapporto RAND. In effetti la RAND (quella strana società americana para-governativa famosa, per esempio, per gli studi sulla guerra nucleare pensata come opzione possibile, come soluzione militare realistica) aveva realizzato negli anni '70 uno studio sugli effetti di un contatto con civiltà aliene. La conclusione era che anche senza un'invasione gli effetti sarebbero stati catastrofici.]
Che cosa fare allora?
La prima flotta di alieni è appena partita. Visto la distanza impiegheranno 450 anni ad arrivare sulla terra. Il loro esplicito progetto è impossessarsi della terra e sterminare la specie umana (dalle informazioni ricevute dai collaborazionisti l'idea che si sono fatti di noi è che siamo violenti, aggressivi, crudeli: hanno torto? Quindi il piano di sterminarci come se fossimo degli insetti dannosi tutto sommato non sembra essere poi così irrazionale...).
L'umanità a questo punto, se vuole sopravvivere, non può più permettersi di cazzeggiare con le cose che di solito fanno girare il mondo (soldi, ricerca di potere, dominio di una nazione sulle altre ecc.). Deve usare i secoli che mancano al contatto alieno per riuscire a compiere un autentico balzo tecnologico ed essere all'altezza della scienza aliena.
Probabilmente questi temi saranno trattati negli altri due volumi della trilogia.
È interessante però ragionare non solo sulle ragioni dei collaborazionisti, ma anche su come la civiltà umana, messa alle strette da una minaccia del genere, possa reagire, cioè se riesca o meno riorganizzare a fondo se stessa, trascendendo certi conflitti ecc.
Per cui se proprio si volesse creare un falso, oggi intendo, nella realtà, questo potrebbe essere un nobile (e disperato) obiettivo per mutare l'inerzia della civiltà.
Il problema ecologico – reale – non è riuscito a modificare granché.
Che serva qualcosa di più assurdo e terribile?

ps.: ma io, riflettevo, da che parte mi schiererei? Dalla parte dei collaborazionisti, dei traditori dell'umanità intera? O di chi si affannerebbe per ulteriori sviluppi tecnologici e cercare quindi di salvare la civiltà umana come se questa fosse il valore supremo? Il valore supremo è la sopravvivenza della civiltà umana? O c'è un limite oltre il quale si possa dire esausti: non vale la pena continuare...
#70
Se si parla dei ragazzi di oggi, a me sembra più probabile, generalizzando, che la sostanza serva sì a regredire ma non verso il trauma, piuttosto verso una condizione di pienezza (quindi a evitarlo il trauma, non a ripeterlo). Diciamo che ci sarebbe una specie di insofferenza del tempo presente sempre parzialmente vuoto, stupido, noioso, frustrante. Da qui la "strategia" dell'uso di droga.
D'altra parte ci può essere anche una condizione di dolore nel presente a motivare il consumo di sostanze. Ma osservando questi ragazzi, a dire la verità, mi sembrano più de-sensibilizzati che melanconici. Ma questo potrebbe anche essere un mio pregiudizio senza il benché minimo dato reale a supporto.
Tutti questi modelli però non sanno spiegare perché su un campione di due persone con dinamiche familiari e psicologiche del tutto simili, una faccia uso di sostanze e l'altra no. È soltanto una questione di opportunità? Di ambienti frequentati? O non c'è piuttosto una causa biologica e genetica che rende un soggetto più sensibile di un altro, di fronte alla stessa condizione traumatica o di vuoto?
#71
Tematiche Spirituali / Re: Inventare una nuova religione
03 Settembre 2025, 17:46:23 PM
Citazione di: Mel Fed il 03 Settembre 2025, 16:25:19 PMSarò rivoluzionario, ma a me la logica non dà nessuna delusione. Intendo quella derivante dal semplice linguaggio, comprensibile anche all'uomo della strada, in quanto le religioni sono indirizzate a tutti, con buona pace di questo Godel, che non so e non mi interessa sapere chi sia. Le affermazioni o i pensieri che semplicemente hanno senso, contro quelle che non ce l'hanno, l'incoerenza.

Non si tratta di essere rivoluzionari ma solo di ignorare la problematicità dei fondamenti su cui si basa la tua dottrina.
I teoremi di Godel riguardano i sistemi logici sufficientemente potenti da includere l'aritmetica.
Ma sono stati presi come il segno dell'impossibilità di costruire sistemi completi e coerenti nello stesso tempo. Cioè se il sistema non porta a contraddizioni (cioè è coerente) allora è incompleto (cioè alcune delle sue proposizioni non possono essere dimostrate vere o false all'interno del sistema). Se invece è completo (cioè tutte le sue proposizioni sono o vere o false) allora non è possibile dimostrare che sia coerente rimanendo all'interno del sistema stesso.
Se volessimo (ma non potremmo) applicare i teoremi di Godel al tuo sistema vedremmo che molte delle tue asserzioni sono semplicemente decise da fattori esterni alla tua dottrina. Cioè, all'interno della tua dottrina avremmo alcune definizione (bene, male, ordine, ecc.), ma da queste definizioni arriveremmo a poter dimostrare solo una piccola parte del resto della dottrina. Rimarrebbe una grande quantità di asserzioni semplicemente assunte da te arbitrariamente.
Tu diresti: "ma no, vedi bene che io ho fatto mie solo asserzioni sensate!". Ma questa affermazione implica l'esistenza di una razionalità naturale attraverso cui poter decidere universalmente di volta in volta ciò che è sensato da ciò che non lo è. E questa è un'assunzione che va dimostrata. Intendiamoci, ci si aspetta soltanto che chi assume una posizione teorica del genere risponda alle obiezioni. Niente di più. Ma anche niente di meno: cioè non basta citare un pensatore antico o uno scritto taoista ecc. o peggio ancora appellandosi al buon senso.
#72
Tematiche Spirituali / Re: Inventare una nuova religione
01 Settembre 2025, 18:01:25 PM
Tutto questo parlare di religione, spiritualità, bellezza, armonia della natura (?!), ideologia, capitalismo etc. mi ha fatto venire la nausea...

"Crediamo di aver vissuto e in realtà siamo morti a poco a poco. Crediamo che tutto sia stato un insegnamento e invece non è stata che una baggianata. [...] Noi tutti passiamo l'esistenza in un'atmosfera di catastrofe. Tutto dentro di noi desta continuamente sospetto. Dove c'è la stupidità, dove essa non c'è, dappertutto la vita è intollerabile. Il mondo, da qualsiasi punto lo consideriamo, è fatto in fin dei conti di cose intollerabili. Sempre più intollerabile ci diventa il mondo. Se sopportiamo l'intollerabile è per l'attitudine di ciascuno di noi a tormentarsi e a soffrire per tutta la vita, solo un paio di elementi ironici dentro di noi, un idiotismo irrazionale, tutto il resto è calunnia".
[T. Bernhard, "Ungenach"]
#73
Il male, al di fuori delle spiegazioni mediche, sociologiche o demonologiche, non può che avere il  volto incomprensibile e terribile di Chigurg.
Allora le riflessioni dello sceriffo Bell vanno lette come il sintomo del fallimento della cultura religiosa e della ragione illuministica.
La "nuova violenza" ci appare tale solo perché sprovvisti ormai di qualsiasi pensiero che possa ricondurre il male – il singolo episodio violento – nel mondo umano e renderlo leggibile. Così appare come una forza aliena. Da cui solo la fortuna può salvarci.
Non vedo però come in questa visione, che esprime un nichilismo di fatto, si possa sperare di ritrovare un rimedio attraverso la cura quotidiana contro l'avidità e l'invidia.
Semmai, liberandosi il più possibile da esse, si può solo sperare di avere un po' di fortuna e di non incontrare troppo da vicino i Chigurg.
Ma i Chigurg comunque esistono. I due killer di Fargo comunque esistono, per lavoro "producono" vittime. Curare la propria idiozia e la propria avidità non libererà il mondo dalla loro presenza, ma al massimo farà in modo che non passino a causa nostra per la città in cui viviamo, in modo che le probabilità nel lancio della monetina siano almeno un po' a nostro vantaggio.
#74
Una precisazione. Il protagonista di "Arancia meccanica", sia nel romanzo di Anthony Burgess che nel film di Kubrick, si chiama Alex. "Drughi" sono invece i compagni di avventura di Alex, un nome scelto dai traduttori italiani per il termine inventato da Burgess, nella lingua da lui creata, uno strano inglese antico con risonanze russe.
"Drugo" invece è purtroppo il nome che è stato scelto in modo totalmente scellerato da chi ha fatto il doppiaggio de "Il grande Lebowski". Il nome del protagonista, in originale "The Dude", tradotto quindi con "Drugo" anziché con "Coso". Impossibile capire il perché.

Riguardo a "Non è un paese per vecchi" aggiungo qualcosa. Dominante è il tema della violenza, del suo espandersi, del suo diventare sempre più grande, incomprensibile.
Nel libro di McCarthy le parti migliori sono proprio le riflessioni dello sceriffo, inserite nel testo come sezioni indipendenti a interrompere la cronaca nuda della vicenda. E in esse lo sceriffo pensa, a suo modo, alla trasformazione della società americana. Prima, una violenza comprensibile, "maneggiabile", ora non più. Una violenza talmente aliena che lui preferisce non scendere in campo contro di essa, non perché abbia paura di morire (cosa, dice, che chiunque sceglie il mestiere dello sceriffo deve accettare) ma perché ciò vorrebbe dire "contaminarsi", perdere l'anima (mi pare dica esattamente così). Infatti per contrastare ciò che in quella vicenda è incarnato da Chigurg si deve acquisire la stessa estraneità a qualsiasi regola d'ingaggio. Un gioco che non si può fare senza perdere qualcosa di fondamentale di se stessi (tema ripreso da un altro film sulla nuova violenza, "Il sicario", in cui il personaggio interpretato da Benicio Del Toro mostra proprio questo: chi vuole affrontare quella violenza cieca, deve diventare a sua volta un assassino, un sicario appunto).

Il film dei Coen lo metterei accanto a quello di Cronenberg, "A history of violence". All'inizio si vedono due spietati assassini che attraversano gli Usa lasciando una scia di sangue. La loro avventura finisce con la morte quando incontrano il proprietario di una piccola tavola calda di provincia che inaspettatamente mostra di conoscere molto bene la loro stessa violenza e per difendere clienti e dipendenti, reagisce e li uccide. La sua antica familiarità con la violenza, rimossa, emerge d'istinto. Il protagonista anni prima era stato nel deserto per cambiare vita, era tornato con un nome nuovo. Una nuova vita nella cittadina di Millbrook, Indiana. Negato il passato, che ora però ritorna. Quando sua moglie si rende conto con orrore di non avere idea di chi sia veramente il marito, il personaggio interpretato da Viggo Mortensen, dice sincero: ma io sono un'altra persona, non sono più Joey, sono Tom!
Tom dovrà tornare a essere Joey per un'ultima volta per risolvere la questione rimasta aperta da decenni con il fratello, pezzo grosso della mafia di Philadelphia.
Tornato a Millbrook, dalla sua famiglia, in una scena memorabile per intensità, arriva all'ora di cena, si siede a tavola in silenzio. Non si capisce se potranno essere ancora una famiglia, ma la figlia più piccola, di sei anni, porta piatto e posate anche per lui. Finale aperto.
#75
Proviamo a fare qualche distinzione.
Che cos'è la spiritualità? Ogni religione contiene anche una sua specifica spiritualità?
Prendo come esempio una delle religioni più recenti: Scientology.
Come ogni chiesa, anche Scientology esprime dei valori e contiene una sua teologia (per quanto sembri un racconto di fantascienza, ma del resto le stesse perplessità devono averle provate i filosofi greci di fronte ai racconti di Paolo).
Come tutti sanno all'inizio Scientology  si è presentata come una scuola psicologica alternativa. Ma da subito, contenendo elementi gnostici (l'ascesa alla perfezione, la gerarchia, la segretezza), si capiva bene dove si sarebbe finiti: in una comunità chiusa (nel senso di non disposta al confronto scientifico), o in una setta, o in una religione.
Ora Scientology esprime dei valori. Quali? Essenzialmente il valore del successo individuale, qualunque sia il campo in cui il soggetto ricerca tale successo (soprattutto la carriera, ma anche il matrimonio etc.).
Il valore dell'individuo, il fatto che ognuno di noi abbia delle straordinarie potenzialità, spesso offuscate dai fallimenti, dagli errori.
Insomma un'etica imperniata sulla costellazione dell'individualismo.
Ma contiene anche una spiritualità? Io penso di sì. È il pathos del cammino verso la purificazione (per diventare "Clear", per ripulirsi dai traumi, da quelle zone oscure che condannano le persone a compiere sempre gli stessi errori, a non sviluppare realmente i propri talenti etc.).
La spiritualità cioè tratta sempre del cambiamento, del passaggio dall'uomo antico a quello nuovo, dal peccatore al santo, dal soggetto confuso al Clear.
È anche possibile concepire una religione fondamentalista senza spiritualità: infatti si può pensare ad una religione che esprima una concezione forte della verità e dei valori etici indiscutibili che ogni devoto deve accettare una volta per tutte, senza alcun tentennamento, in modo che non ci sia alcuna dialettica tra vecchio e nuovo, tra errore e verità, ma solo un'adesione definitiva.
Ma si può pensare ad una spiritualità senza religione? Forse sì, a patto però di non essere bloccati da altre concezioni forti, come il materialismo. Cioè il cambiamento deve avere come meta un sogno, una speranza. Deve esprimere lo spirito utopistico, deve dar voce alla ricchezza interiore dell'uomo, al di là dei bisogni dell'animale. In questo ci deve essere la capacità di concedere tutta la libertà necessaria all'immaginazione.