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Messaggi - davintro

#61
Citazione di: baylham il 04 Dicembre 2020, 17:48:21 PM
L'essenza dell'individuo è il corpo, non l'anima. Non c'è nulla di più identificativo, identitario, originale del corpo di un individuo, di cui al massimo può esistere una copia: riconosco, distinguo Alberto da Francesco dal suo corpo, non dalla sua anima.

Non capisco poi come si passi dall'esistenza del pensiero all'esistenza dell'anima.

Pensiero che va distinto dai suoi contenuti. Pensiero che è effetto di una lingua.


Vedere un'alternativa tra corpo e anima riguardo a cosa dei due attribuire l'essere principio individualizzante, vuol dire ancora avere in mente un dualismo tra i due enti come fossero sostanze separate (che è il rischio in cui incorre la posizione cartesiana). Se si riconosce che il corpo non è materia pura ma materia formata sin dal primo istante del suo esistere dall'anima, allora l'alternativa cade, in quanto le stesse differenze fenomeniche in base a cui riconosciamo diversi individui, che attribuiamo al corpo, sarebbero effetti di un modo d'essere del corpo dettato dalla forma, l'anima, che lo costituisce attribuendogli determinate caratteristiche peculiari. Cosa che non sarebbe possibile intendendo il corpo come mera materia estesa. Un abile artigiano riuscirebbe a creare una copia perfettamente identica di un manichino con sembianze umane (ma non autenticamente corpo umano, ne è solo imperfetta imitazione), proprio perché i manichini sono privi di anima, pura superficie estesa in cui i tratti sono potenzialmente riproducibili in modo eguale, senza che ci sia una qualità interiore che contraddistingua il singolo manichino, impossibile da riprodurre con un disegno fisico, perché non visibile dall'esterno. Fermo restando, poi, che l'essenza dell'individuo è di per sé concetto diverso dal complesso dei segni di riconoscimento esteriori. Due manichini perfettamente identici tra loro sarebbero indistinguibili per chi li osserva, ma ciascuno di loro resterebbe comunque un individuo, in quanto perché si dia individualità (non divisibilità, etimologicamente) è sufficiente ci sia un certo livello di unità, cioè una forma che unifica il contenuto materiale "staccandolo" dallo spazio circostante, circoscrivendolo sulla base di un senso peculiare a partire da cui l'ente diventa definibile in un certo modo. Il manichino è individuo in quanto possiede una forma, non ha un'anima in quanto quella forma è solo contorno geometrico ma non forma vivente.
#62
Citazione di: viator il 03 Dicembre 2020, 22:20:43 PM
Citazione di: Alexander il 03 Dicembre 2020, 21:29:20 PM
Un altro esempio che si potrebbe fare è quello del guidatore e dell'auto.Con l'auto in panne il guidatore non può viaggiare, ma questo non significa che è rotto anche il guidatore. Con il cervello "rotto" (per qualche malattia) la coscienza non può più protrarsi all'esterno, ma questo non significa che la coscienza sia "rotta".
Salve Alessandro. Secondo me sia Ipazia che niko dicono molto bene. Se l'anima-coscienza è disgiungibile dal corpo, nulla vieta che essa risulti separabile da esso corpo per venir trapiantata in un altro corpo.Magari il trapianto potrebbe avvenire aggiungendo l'anima trapiantanda all'anima che già insiste e resta ospitata nel nuovo corpo di destinazione. Quindi invece del classico e romanticissimo "due corpi e un'anima".....potremmo avere "due anime e un corpo".......no ?.

Non si capisce come, a fronte dei prodigiosi misteri contenuti nella sfera dello spiritualismo, un banale, meccanico, chirurgico intervento del tipo di quello da me descritto non debba venir ritenuto futuribilmente possibile.

Inoltre, utilizzando maliziosamente questo sistema, qualcuno potrebbe pure trovare il modo non solo di vivere corporalmente per l'eternità (tanto l'ingrediente fondamentale è l'anima-coscienza-guidatore dell'auto, e non il corpo-autovettura, i quali ultimi possono venir sostituiti periodicamente !)................dicevo corporalmente per l'eternità, ma pure di poter vivere spiritualmente per l'eternità su questa terra senza mai doverla abbandonare, limitandosi appunto a saltellare ogni tanto dalla logora carcassa di un corpo-autovettura ad un'altro - possibilmente di ultimo modello (almeno finchè Dio non ti ritiri la patente !). Saluti.


L'idea che l'anima possa essere trasferita da un corpo all'altro, con tutte le assurdità che ne conseguono, vuol dire ancora ragionare in termini materialisti, dunque è un argomento che in nulla intacca la tesi di chi quel modello contesta, anzi, semmai si rivolge contro i fautori del modello come un boomerang. La trasferibilità dell'anima ne implicherebbe la spazializzazione, si passa da un luogo fisico a un altro, ma solo ciò che è materia, estensione, può occupare un luogo fisico, mentre considerando l'anima come entità spirituale, inestesa, è evidente che non si possa trasferire, resta ciò che organizza una realtà materiale vivente, essendo presente in essa fin dal primo istante del suo esistere, non come qualcosa che va a riempire uno spazio preesistente. L'anima, intesa come forma intelligibile, non occupa spazio, è INTERRUZIONE di spazio, è ciò che contraddistingue qualitativamente, dando un senso peculiare, un certo oggetto, distinguendolo dal resto della materia circostante. Per questo, per un certo aspetto, sarebbe più corretto dire che è l'anima a contenere il corpo che non viceversa
#63
Penso che la dimostri, ma non necessariamente nel senso in cui Cartesio la intendeva, come sostanza cogitante separata dalla sostanza estesa corporea, necessitante di un ponte di collegamento come la ghiandola pineale per interagire con esso, ma per il fatto che, stante l'indubitabilità del Cogito come residuo della fallibilità della realtà degli oggetti esterni al pensiero, si riconosce come essenza (elemento necessario per cui una certa cosa è quella cosa e non un'altra) un nucleo spirituale, che determina il pensiero, attributo essenziale dell'uomo che resta tale al di là della possibilità di dubitare e di errare. Ma vedere il cogito come essenza fa sì che l'anima di cui si parla andrebbe più propriamente vista nell'accezione aristotelica che cartesiana, anima dell'uomo come sua essenza, anima razionale che costituisce il quid dell'uomo, ma non sostanza a se stante, ma fattore ontologico che assieme a quello materiale costituisce l'individualità psicofisica, il "sinolo".


Questo modello di rapporto tra anima e corpo rende ragione, per un verso della necessità del supporto materiale perché si dia vita, cioè l'anima esprima le sue facoltà, per l'altro dell'insufficienza di tale supporto che, privato di una forma, resterebbe pura materia, pura estensione indifferenziata senza una propria qualità che lo renda a tutti gli effetti "organismo", organizzazione atta ad attribuirle determinate facoltà. Concordo con le osservazioni di Socrate 78 e Alexander circa la non deducibilità dal fatto del corpo condizione necessaria dell'attività del pensiero (anima razionale) a quella di una presunta sufficienza del corpo a render ragione dell'anima. Se da un lato è ovvio che, intendendo l'anima come "forma corporis", l'anima non potrebbe esistere senza una materia di cui esser la forma (non solo geometrica, ma vivente, principio che forma dall'interno organizzando olisticamente le singole componenti in un organismo), dall'altro, la forma rende ragione di una vita che la pura materia non potrebbe mai determinare. L'insufficienza della materia riguardo la vita, cioè l'anima è verificabile sia da un punto di vista puramente logico (se la materia pura, senza forma, fosse sufficiente a spiegare la vita il concetto di "materia inerte" sarebbe un ossimoro, una definizione autocontraddittoria: dove c'è materia ci sarebbe sempre vita. Dato che così non è, allora l'essere dotata di vita di una realtà materiale necessita di introdurre un nuovo principio, la causa formale, accanto a quella materiale), che anche da uno empirico: se bastasse il corpo, inteso come pura massa materiale, a determinare la vita, al momento della morte, con lo spegnimento del pensiero dovrebbe scomparire anche il corpo: via la causa, via l'effetto. Invece, anche senza vita il corpo continua a esistere come cadavere. Abbiamo dunque due modelli di corporeità, uno vivente, uno inerte, entrambi esistenti, entrambi costituiti da materia, la differenza tra i due necessita di ricondursi a un principio spirituale, presente in uno, assente in un altro. E la stessa decomposizione può esser vista come effetto progressivo della perdita della forma, l'anima, che preservava l'unità individuale: lasciata a se stessa, la materia si abbandona alla pura estensione, alla pura dispersione, indeterminazione, la perdita della vita coincide, guarda caso, con la perdita della forma, della componente intelligibile, che dava alla materia un senso determinato, l'umanità. Principio vitale e principio formale coincidono..
#64
Citazione di: green demetr il 02 Dicembre 2020, 21:49:48 PM


x DAVINTRO e chi volesse appofondire


No non hai deviato dal topic.
E' proprio a partire da questi assetti iniziali che poi si dipana la discussione critica, mi fa sempre piacere parlarne.
Te lo dico per come ragiono io.
Queste tematiche sono affrontate nel corso di filosofia teoretica alla statale tenuti da Spinicci.
Nel mio anno sabbatico lo frequentai, mio vicino di banco, era un giovane brillante, apertamente kantiano.
Abbiamo spesso parlato della cosa.
La disputa che più ci interessava era la questione delle sintesi, che per Kant come hai scritto molto bene tu, sono chiamate attive, mentre Husserl a quelle aggiunge le passive.
Il discorso del corso di quell'anno ragionava sopratutto della genesi di quelle che Husserl chiamerà sintesi passive, ossia in modo principale di Berkley, filosofo che influenzerà non solo Husserl ma le cui intuizioni adirittura lo sorpassano sino ad arrivare ad alcuni analitici americani, di cui leggendo la bibliografia di Spinicci, egli stesso si occupa.
Dunque l'obiettivo della polemica era esattamente Kant.
Il mio giovane amico ci teneva ad avere l'opinione del professore, e rimase molto deluso, nel non ricevere risposta e stima, del suo essere kantiano.
Egli muoveva dal fatto che le cosidette sintesi passive, sono già in fin dei conti, un contenuto, della libera scelta dell'individuo. Se è vero che Kant sembra disinteressato ai vari principi di indeterminazione del sapere, è anche vero, che fa del suo metodo analitico, l'unico che lo possa determinare.
In fin dei conti Husserl integra Kant, non lo sorpassa affatto.
Ma in Husserl le due sintesi sono ineludibilmente le due facce della stessa medaglia. Certamente hai ragione a richiamare l'attenzione sul fatto che l'intenzionalità dell'oggetto, è qui da intendere proprio come parte di un movimento ben superiore a quello del soggetto. Purtroppo necessiterei di maggiori informazioni su questa mappatura superiore che Husserl sembra poter avere. Purtroppo nel corso non se ne è parlato. (Come non si è parlato della mappatura del male Berkleiano, mappatura superiore alla genesi delle sintesi passive).
Ormai ci conosciamo da un pò di tempo Davintro, so che effettivamente anche tu preferisci una mappatura più precisa, più analitica, alla Spinicci appunto. Quindi tralascio completamente la questione superiore che è la metafisica. Ma non per questo un analitica ben strutturata, e sopratutto pensata, non va rigettata, anzi direi approfondita, questo per ribadire che sei nel topic, e anzi come al solito ne hai fatto una disanima sufficiente e intellegibile.
Il punto di Husserl della moneta intera, ossia sintesi della sintesi attive/passive, sarebbe probabilmente l'intenzionalità tout court, un passo avanti e qualitativamente superiore alla visione umanista di Brentano.
Ecco Spinicci è invece analiticamente improntato ad un superamento della distinzione fra sintesi attive e passive, e per una mediazione fra esse. Non so dirti se l'analitica americana che segue lui, fa questa operazione, a rigor di logica, dovrebbe essere di sì la risposta.
Io rispetto al mio giovane amico, ho una visione più radicale.
E' vero che la sintesi passiva può essere vista come l'eterno darsi dell'altro lato del cubo (berkley), oppure della stazione che abita la fine della linee ferroviarie, che paiono infinite se guardate con una prospettiva soggettiva (sempre berkley).
Ma è altrettanto vero, che sarà sempre il soggetto a vedere quella stazione, e quel lato del cubo.
Se in ballo è la questione temporale, la temporalità è proprio il soggetto.
Mentre sia Berkley che Husserl, la spazio e il tempo sono relativi.
Come dici tu, apriori, vuoti in attesa di essere occupati.
In questo senso studiammo anche Locke.
Dunque il soggetto è tale solo in quanto occupante uno spazio tempo indeterminato.
Che nel suo valore assoluto, Husserl riconosce come epochè, sospensionde di qualsiasi giudizio, come condizione sine qua non di qualsiasi gnoseologia (altro termine che so tu ami,e sposi incondizionatamente).
Solo a contatto con altri oggetti dunque il soggetto può riconoscersi come tale. E all'infinito, dunque essere egli stesso frutto della sintesi passiva, perennemente emendata dall'intelletto attivo, nel presente darsi, qui ed ora.
Io invece credo che il soggetto sia un frutto, e non una monade.
E' il punto di vista che è l'eterno emendatore, del soggetto qui ed ora. Ossia vi è una separazione tra io e soggetto.
L'introduzione alla critica della ragion pura, evidentemente, come già spiegato da Zhok, altro professore che ho seguito brevemente, è sottovalutata dalla critica ognitempo.
Kant ben lungi parte da un soggetto, egli invece (parte) proprio dalle categorie apriori dello spazio, e quindi per estensione del tempo.
Io inverto la questione è lo spazio che risulta una estensione del tempo, dell'infinito eveniente.
In Kant non esiste un eveniente, e dunque la sua fenomenologia è una metafisica speciale.
E' Hegel che scoprirà finalmente il soggetto come evento della Storia. Sebbene finisca anche lui in un titanismo della storia, che lo fa incorrere in errori banalissimi a livello politico, come un suo successore poco tempo dopo.
Il concetto di evento, su cui si inerpica la filosofia ad edera di Heidegger, è anch'esso mal compreso.
Lo spazio non può essere una categoria a sè.
Egli (spazio) è inequivocabilmente frutto del pensiero soggettivo.
Certamente lo spazio che è una intuizione in Kant, fa già parte di quella consecutio temporum, di cui tanto parla Berkley, e su cui Husserl imposta la sua personalissima metafisica.
Se io dico spazio, intendo il mio spazio.
Non intendo lo spazio delle sintesi passive.
Infatti come potrebbe un cubo disvelarsi come cubo, se non fosse nel mio spazio. Se fosse nello spazio degli infiniti auto da sè, come si comprenderebbe? Quale ruolo gnoseologico Davintro attribuiresti a questa intenzionalità delle sintesi passive?
In fin dei conti mi risulta più onesta una distinzione, cartesiana senza ombra di dubbio, fra sintesi passiva e sintesi attiva, come dualità, che un meticciato come quello proposto da Spinicci.
Che comunque negava qualsiasi dialogo. Ma questo non sorprende.
Effettivamente loro stessi, Spinicci e tanti altri prof. dicevano a mezza voce, che la filosofia si fa fuori dall'accademia.
Quello che con piacere spero Davintro continuiamo a fare qui.


Ad ulteriori approfondimenti. E grazie del contributo fondamentale.


ps.
Io so che è un uomo e non un pupuzzo solo quando decido di andare verso quell'uomo, vicino quell'uomo. E infatti amico mio! Oggi chi va più vicino all'altro? E parlo bene prima che la nevrosi si trasformasse in qualcos'altro.
Ah ah esempio perfetto. ;)


Intanto ti ringrazio dell'attenzione e per gli stimoli.


Non so quanto abbia correttamente inteso i tuoi punti, provo a dire qualcosa. Sull'idea dello spazio come categoria a priori concorderei con Kant, concorderei che l'idea di spazio non sia empirica bensì trascendentale, e che sia il presupposto di ogni esperienza di oggetti fisici. In questo senso applicare l'idea dello spazio rientra nell'ambito dell'intenzionalità egologica, dal soggetto all'oggetto, quella attiva. Pensare che l'idea di spazio venga recepita a posteriori, sulla base delle esperienze dei singoli oggetti, vorrebbe andare nella direzione opposta a quella per il quale trovo che la fenomenologia, a mio avviso correttamente, supera Kant, vorrebbe dire andare nella direzione di un empirismo ancora più forte, mentre la fenomenologia mirerebbe a superare la Critica proprio in ottica antiempirista, anche se apparentemente non sembrerebbe così, quando parla di sintesi passiva. Non contesto l'intuizione intellettiva dello Spazio in Sé, come categoria trascendentale, ma che, nel momento in cui si ha una concezione della conoscenza scientifica dove il materiale conoscitivo è appreso solo dall'intuizione sensibile, qualunque discorso sullo spazio e in generale sulla componente trascendentale della conoscenza non è scientifico, cioè la critica giunge a una conclusione che delegittimerebbe anche se stessa, in quanto non è tramite la sensibilità, che dovrebbe essere il limite di ciò che è oggetto di scienza, che pensiamo le categorie a priori, queste ultime restano fuori dal recinto della scienza, insomma la critica kantiana si rende impossibilitata a render ragione di sé. L'esito è lo stesso in cui cade qualunque empirismo, annullamento della conoscenza, ridotta a conoscenza di fenomeni, di apparenze, chiusa nel solipsismo di un soggetto, senza che una realtà oggettiva possa intervenire su questo "circuito chiuso" e correggerlo, rendendo la visione del reale più attinente al reale. Perché si dia davvero oggettività del conoscere (e anche della critica del conoscere) è necessario il recupero dell'idea di sostanza dalla metafisica classica, cioè l'idea di un substrato che pur manifestandosi in modo sensibile nell'impatto dell'oggetto sui nostri campi percettivi corporei, sappia andare al di là del sensibile riconducendolo a una forma comprendente anche i lati nascosti. Fintanto che mi limito a osservare l'albero di fronte a me, ad ascoltare il fruscìo del vento tra le foglie, ancora non posso dire di conoscere l'albero oggettivamente, l'oggettività arriva nel momento in cui ciò che osservo o ascolto lo riferisco a un substrato, una sostanza che esiste al di là di tali manifestazioni sensibili, comprendente anche parti attualmente in ombra, cioè nel momento in cui riferisco il sensibile a una forma intelligibile che costituisce l'idea, l'essenza dell'albero, che resterebbe tale anche se nessuno ne facesse esperienza. Kant inverte i termini corretti della questione, pensando di guadagnare l'oggettività tramite il sensibile, e relegando l'intelligibile al livello di una soggettività trascendentale di per sé vuota, formalistica, in un'accezione di "formale" schiacciata empiristicamente ad un'astrazione vuota e di fatto insensata. Husserl cerca, a mio avviso, di raddrizzare i termini (per quanto non esplicitamente nel modo in cui sto provando a spiegarmi, forse perché, non avendo avuto, da matematico, una specifica formazione storico-filosofica, era a disagio nel maneggiare troppo apertamente certe categorie tradizionali come quelle di sostanza...) recuperando il concetto di intenzionalità attiva, la facoltà per l'Io di percepire l'oggetto al di là dei lati attualmente appresi sensibilmente, che però presuppone la disposizione ad attendere conferme o smentite sulla base della scoperta degli altri lati. Ed ecco che le due diverse intenzionalità, pur distinte, in quanto quella che va dal soggetto all'oggetto rende ragione della coscienza come condizione necessaria dell'attribuzione di senso alla realtà, emancipandola dalla connotazione positivista di mero "fatto" amorfo, quella che va dall'oggetto al soggetto rende ragione della non totale arbitrarietà di tale attribuzione, sono reciprocamente implicate: l'intenzionalità attiva, trascendendo il livello immediato di ricezione immediata della sensibilità, attribuisce alla cosa un senso intelligibile che la caratterizza come oggettività, e come oggettività, alterità rispetto al soggetto, la cosa interviene sulle aspettative e schemi di quest' ultimo.
#65
Tematiche Filosofiche / Re:Oltre Cartesio
03 Dicembre 2020, 16:17:05 PM
Citazione di: green demetr il 02 Dicembre 2020, 22:46:23 PM
Citazione di: davintro il 02 Dicembre 2020, 22:24:17 PM
Citazione di: Ipazia il 01 Dicembre 2020, 22:34:23 PM
Citazione di: Jacopus il 22 Novembre 2020, 23:02:00 PM
Impossibile sottovalutare Cartesio. È definito il filosofo che ha fondato la modernità. Forse le sue opere sono il vero passaggio tra Medio Evo ed Evo Moderno, piuttosto che un anomalo viaggio verso le Indie o la fine della guerra dei 100 anni.
Dobbiamo a lui, ad esempio, la definitiva emancipazione della filosofia dalla teologia...

E' veramente un passaggio epocale che cancella oltre mille anni di metafisica cristiana e riporta la filosofia ai sentieri interrotti della filosofia classica, riponendo l'ontologia (l'essere) pienamente nella misura umana immanente.

Il cogito è autosufficiente, a prova di dubbio, cosa che neppure un millennio di indottrinamento religioso cristiano e millenni di teismo avevano conseguito.

Neppure il contemporaneo, biscomunicato, Spinoza arriva a tanto dovendosi comunque fondare su un'entità trascendente per compiere la sua traversata verso l'immanenza del Deus sive Natura, non completamente liberata dal cordone ombelicale con la divinità che si realizzerà solo invertendo i termini del postulato in Natura sive Deus. Completando alfine, col cogito cartesiano, il viaggio verso la modernità liberata dai numi.


il procedimento tramite cui Cartesio perviene alla certezza del "Cogito ergo sum" ricalca quello agostiniano in cui, in polemica con gli scettici, portando il dubbio alla sua massima radicalità, vengono meno le certezze legate alla conoscenza del mondo esterno ma non la certezza circa il proprio esistere, che per quanto erri, esiste come soggetto errante, "Si fallor, sum". Probabilmente, il significato di soggettività agostiniano si distingue per essere più ampio di quello cartesiano, che si limita all'essere pensante, ma al di là delle differenze, resta comune il principio per cui quanto più lo sguardo si fa "introverso", si rivolge all'interiorità spirituale distogliendosi dall'esperienza sensibile dell'esteriorità, tanto più si avvicina a un livello di verità certe e fondative di quelle empiriche, condizionate alla fallibilità dei sensi (ipotesi dell'allucinazione). Il principio per cui l'idea il sapere di Dio, puro spirito, è il criterio di verità su cui poggiano tutte quelle parziali e limitate della scienza umana è lo stesso per cui, come nella tradizione platonica-agostiniana le verità della matematica hanno un grado di necessità e certezza superiore a quella delle scienze dell'esperienza sensibile, proprio alla luce dell'intelligibilità, immaterialità dei termini che i giudizi matematici mettono in relazione, quella matematica che proprio Cartesio ha in mente come modello a cui la filosofia dovrebbe ispirarsi il più possibile. Quindi andrebbe fatta una distinzione fondamentale: se si parla di puro fideismo e dogmatismo, certamente il metodo cartesiano è di fronte a esso puramente alternativo, ma se si intende una metafisica di ispirazione cristiana che sceglie di mettere da parte la fede (non per negarla beninteso, ma di non tenerne conto in una epochè metodologica) per affidarsi alla pura ragione filosofica, allora a me pare che in Cartesio gli elementi di continuità sian molto più importanti di quelli di rottura.


Interessante questo paragone con Agostino, che sottoscrivo, anche secondo me Cartesio è mal compreso.


D'altronde quando parliamo di modernità lo facciamo in quanto problematica, in quanto solleva problemi. (atomizzazione e possibilità di riduzionismi vari. res cogitans come res extensa, ossia come res, e non credo, ma forse sbaglio che Agostino così pensasse.)


Tu vedi nella modernità una rottura o una una continuazione del canone occidentale, e sopratutto rispetto a questo canone come pensi che la post-modernità si ponga?




Non so cosa tu intenda precisamente con "canone occidentale", provando a ipotizzare, considerando il contesto della discussione (si parla del rapporto Cartesio-filosofia cristiana), si tratti della tradizione metafisica antica e medievale di stampo trascendentista, si potrebbe intendere Cartesio come momento di snodo della modernità, interpretabile in ottiche tra loro contrapposte. Ci starebbe bene la citazione della lettura di Cartesio fatta da Del Noce (non l'ho ancora letto direttamente, ma è sempre un costante ed esplicito riferimento del mio professore di Filosofia Morale, che è uno dei principali studiosi del suo pensiero), per cui da Cartesio discendono due percorsi opposti. Il primo, germanico, prosegue con Kant, Hegel e gli epigoni di quest'ultimo, compreso Marx, questo filone intende il Cogito, principio fondativo e vincolante ogni realtà e ogni pretesa di verità che lo presuppone, come Cogito umano, vede dunque l'uomo come arbitrio ultimo della verità, ed essendo il mondo il limite entro cui un pensiero e un agire umano, sono possibili, ne discenderà l'assolutizzazione del mondano, un esito immanentista e antireligioso. C'è però un secondo filone della modernità, "latino", che da Cartesio fa derivare istanze spiritualistiche presenti in autori moderni come Pascal, Vico, Rosmini, che vede nel primato epistemologico del Cogito, non l'assolutizzazione dell'uomo, in quanto il Cogito non è propriamente l'uomo nell'insieme delle sue dimensioni, ma la sua componente interiore e spirituale, certamente presente all'uomo, ma distinta dalla componente materiale ed esteriore, che è il riflesso della finitezza umana, e dunque vede il Cogito come indicatore di una realtà responsabile della possibilità per l'uomo di giungere alla certezza della propria esistenza, ma che non si identifica con l'uomo, sintesi di materia e spirito, ma con Dio puro spirito: se la verità di cui l'uomo non può dubitare attiene alla sua componente spirituale, allora la Verità assoluta, fondativa di tutte le altre dovrebbe identificarsi con la verità di un Pensiero, puramente spirituale, cioè divino. Siamo in pieno agostinismo.


Capire in che misura i due filoni contrapposti siano legittimati a porsi come prosecutori della lezione cartesiana è collegata all'annosa questione della distinzione interiorità-immanenza. Identificando i due concetti dovremmo dar ragione, da un lato al filone immanentista/idealista che fa coincidere l'idea dell'autocoscienza come punto di partenza metodologico assolutamente valido di ogni conoscenza, con l'idea dell'uomo misura di ogni verità, escludendo ogni verità trascendente i limiti del suo sapere, e di contro, a quella corrente del pensiero cattolico più rigidamente ancorata alla scolastica tomista, che vede pensiero moderno e metafisica classica e cristiana come acerrimi nemici senza possibilità di integrazione. Se invece, come sarebbe corretto dal mio punto di vista, immanenza e interiorità vanno distinte, allora l'interiorizzazione del luogo da assumere come punto di partenza della ricerca della verità non comporta alcuna assolutizzazione della conoscenza umana, nessun immanentismo, perché la verità che abita in interiore homine non coincide col pensiero del soggetto a cui l'interiorità è riferita, dato che è il soggetto stesso, l'uomo, ha essere sempre, in buona parte, "fuori di sé", condizionato dalla materia e dalle distrazioni del mondo esterno. Il Dio agostiniano è più intimo all'uomo di quanto l'uomo sia intimo a se stesso, la sua interiorità è lo spazio che, percorso, porta al riconoscimento di un'Oltre, e non ha nulla a che vedere con l'immanenza dell'idealismo moderno.
#66
Tematiche Filosofiche / Re:Oltre Cartesio
02 Dicembre 2020, 22:24:17 PM
Citazione di: Ipazia il 01 Dicembre 2020, 22:34:23 PM
Citazione di: Jacopus il 22 Novembre 2020, 23:02:00 PM
Impossibile sottovalutare Cartesio. È definito il filosofo che ha fondato la modernità. Forse le sue opere sono il vero passaggio tra Medio Evo ed Evo Moderno, piuttosto che un anomalo viaggio verso le Indie o la fine della guerra dei 100 anni.
Dobbiamo a lui, ad esempio, la definitiva emancipazione della filosofia dalla teologia...

E' veramente un passaggio epocale che cancella oltre mille anni di metafisica cristiana e riporta la filosofia ai sentieri interrotti della filosofia classica, riponendo l'ontologia (l'essere) pienamente nella misura umana immanente.

Il cogito è autosufficiente, a prova di dubbio, cosa che neppure un millennio di indottrinamento religioso cristiano e millenni di teismo avevano conseguito.

Neppure il contemporaneo, biscomunicato, Spinoza arriva a tanto dovendosi comunque fondare su un'entità trascendente per compiere la sua traversata verso l'immanenza del Deus sive Natura, non completamente liberata dal cordone ombelicale con la divinità che si realizzerà solo invertendo i termini del postulato in Natura sive Deus. Completando alfine, col cogito cartesiano, il viaggio verso la modernità liberata dai numi.


il procedimento tramite cui Cartesio perviene alla certezza del "Cogito ergo sum" ricalca quello agostiniano in cui, in polemica con gli scettici, portando il dubbio alla sua massima radicalità, vengono meno le certezze legate alla conoscenza del mondo esterno ma non la certezza circa il proprio esistere, che per quanto erri, esiste come soggetto errante, "Si fallor, sum". Probabilmente, il significato di soggettività agostiniano si distingue per essere più ampio di quello cartesiano, che si limita all'essere pensante, ma al di là delle differenze, resta comune il principio per cui quanto più lo sguardo si fa "introverso", si rivolge all'interiorità spirituale distogliendosi dall'esperienza sensibile dell'esteriorità, tanto più si avvicina a un livello di verità certe e fondative di quelle empiriche, condizionate alla fallibilità dei sensi (ipotesi dell'allucinazione). Il principio per cui l'idea il sapere di Dio, puro spirito, è il criterio di verità su cui poggiano tutte quelle parziali e limitate della scienza umana è lo stesso per cui, come nella tradizione platonica-agostiniana le verità della matematica hanno un grado di necessità e certezza superiore a quella delle scienze dell'esperienza sensibile, proprio alla luce dell'intelligibilità, immaterialità dei termini che i giudizi matematici mettono in relazione, quella matematica che proprio Cartesio ha in mente come modello a cui la filosofia dovrebbe ispirarsi il più possibile. Quindi andrebbe fatta una distinzione fondamentale: se si parla di puro fideismo e dogmatismo, certamente il metodo cartesiano è di fronte a esso puramente alternativo, ma se si intende una metafisica di ispirazione cristiana che sceglie di mettere da parte la fede (non per negarla beninteso, ma di non tenerne conto in una epochè metodologica) per affidarsi alla pura ragione filosofica, allora a me pare che in Cartesio gli elementi di continuità sian molto più importanti di quelli di rottura.
#67
Green demetr scrive


Ma non accetto assolutamente la sua logica formale, in quanto l'intenzione è sempre del soggetto, mentre per Husserl, è anche della porta.[/size]Cioè la porta ha intenzione di sbattere (per rimanere nell'esempio)...O meglio la porta ha intenzione di diventare porta già in quanto legno, ferro etc...Come dire che in potenza l'atto che ne consegue, è un atto intenzionale di ogni forma vivente e non.Il che per me è delirio.






Quando si parla di intenzionalità che proviene dall'oggetto in direzione del soggetto in Husserl non la si dovrebbe intendere come un attribuire all'oggetto una "intenzione" nel senso di come la si intende riferita al soggetto, intenzione personale, volontà, coscienza, come a cadere in una sorta di animismo dove gli oggetti pensano e comunicano con noi come fossero persone (un'operazione del genere è possibile solo nel caso dell'empatia, nel quale ciò che si empatizza, l'
"oggetto" di apprensione empatica, è però colto come, a sua volta, soggetto, alter ego, dotato di una propria vita interiore che nell'empatia si manifesta in espressioni corporee). L'intenzionalità proveniente dall'oggetto, per come l'ho capita, rientra nella questione della sintesi passiva, in ogni momento della percezione di un oggetto, questo può disvelare lati che modificano l'attribuzione di senso a quell'oggetto da parte della coscienza soggettiva, andando a modificare gli schemi entro cui questa coscienza percepisce e da significato ai contenuti della sua esperienza. Se vedo una figura umana da lontano e percepissi inizialmente un essere umano, ma quando mi avvicino scopro che era un pupazzo, è evidente che a me come soggetto resta il monopolio dell'intenzionalità intesa come libera volontà personale di esplorare e conoscere l'oggetto esterno, ma quest'ultimo ha una sua "intenzionalità", nel senso di comprendere dei lati inizialmente nascosti alla coscienza esperiente, che, quando disvelati, incidono sullo schema percepiente, non allargando in senso quantitativo la conoscenza soggettiva, ma modificandola qualitativamente, operando una sostituzione semantica riguardo l'intuizione della natura dell'oggetto. E una volta che la figura apparentemente umana si è rivelata un pupazzo, la coscienza tratterrà nella memoria il ricordo dell'esperienza vissuta, associando quella figura umana come segno rivelativo non solo di un uomo ma anche di un pupazzo, ridefinendo gli schemi percettivi in funzioni di future esperienze, il soggetto si è dunque trasformato sulla base della ricezione dell'influenza che l'oggetto ha prodotto, per quanto non in virtù di un'intenzionalità personale (volontà e ragione). Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, questa concezione della relazione soggetto-oggetto, in cui l'influenza è reciproca e biunivoca, è quella che riesce a render ragione della "creatività" del soggettività cosciente come portatrice di significato del mondo, costantemente responsabile delle conferme e degli errori in cui incappa nella ricerca della verità. Mentre nell'ottica kantiana l'oggetto appare essere mero materiale della sensazione che progressivamente riempie gli schemi vuoti delle categorie formali dell'Io, e la percezione sembra finire (mi corregga pure chi Kant lo conosce molto meglio di me...) a condividere la natura meramente passiva della sensazione, nella sintesi passiva fenomenologica, in ogni momento, fin dal primo istante di esperienza del mondo, la percezione soggettiva dell'oggetto avanza una sua pretesa, un intuizione semantica in cui il lato dell'oggetto attualmente colto dai miei sensi è compreso in un'unità comprendente anche i lati nascosti o in ombra:  c'è sempre un attivo rivolgersi del soggetto verso un'interpretazione dell'oggetto che dice di più di ciò che l'esperienza dell'oggetto nella sua fisicità esteriore sembrerebbe dirmi, non sono una tabula rasa che si forma progressivamente sotto il bombardamento delle affezioni sensibili che subisco (concezione empirista che ancora condiziona in parte Kant), ma soggetto libero che in ogni momento sa andare oltre la visione dell'oggetto per come mi si offre nella sua apprensione immediata, e che attende una risposta di conferma e smentita da parte dell'oggetto nella scoperta dei lati inizialmente nascosti. Non si da mai, se non per astrazione analitica, un momento di pura neutralità percettiva in cui ci si limita a incamerare sensazioni riferite all'oggetto senza che i lati attualmente sentiti siano intesi come parti di una forma reale che li unifica con quelli nascosti, e questa forma è il senso che le esperienze successive possono confermare o smentire. Perché si parli di conferma o smentita è necessaria che sia già in atto una posizione che si confermerebbe o smentirebbe, cioè un'intenzionalità soggettiva, propriamente egologica e coscienziale. La scoperta di aver di fronte un pupazzo anziché un uomo è resa possibile dal fatto che inizialmente avevo associato la figura apparentemente umana a quella di un uomo in carne e ossa. Insomma l'intenzionalità "dall'oggetto al soggetto" è ciò che rende possibile anche quella che procede in direzione opposta e che costituisce l'aspetto di libertà e attività del soggetto, che all'oggetto si rapporta non come il vaso vuoto che si riempie d'acqua ma in una sorta d'interazione "dialogica" (le virgolette sono decisive), in cui una tesi di partenza viene messa alla prova del confronto col reale.

Ma forse ho deviato troppo dal topic...
#68
Mi verrebbe da pensare soprattutto, anche perché sarebbe il mio principale "campo" di studi e riflessione, ai protagonisti del dibattito circa le possibilità di armonizzazione tra la centralità moderna della soggettività e dell'autocoscienza (in Italia recepita particolarmente per il tramite del neoidealismo gentiliano) e il recupero di una metafisica di ispirazione agostiniana, dibattito che si è, prima e dopo la Seconda Guerra Mondiale, articolato nelle posizioni di chi, in forme tra loro differenti e contrastanti, ha provato a percorrere la strada di questa armonizzazione nel passaggio interiorità-trascendenza, penso ad Armando Carlini, Michele Federico Sciacca, Luigi Stefanini, e di chi in nome di un approccio più vicino al tomismo, ha assunto posizioni più critiche rispetto a questi tentativi, come mons. Olgiati o Cornelio Fabro (evito di citare Bontadini perché più noto, e dunque, almeno per il momento, meno a rischio di oblio).
#69
Tematiche Filosofiche / Re:Pensiero e Parola
24 Novembre 2020, 00:50:23 AM
Concordo con la tesi di un'anteriorità e di una trascendenza del pensiero rispetto al linguaggio, almeno stando a una concezione del linguaggio come complesso di segni oggetto dell'esperienza sensibile tramite cui i contenuti intellettuali del pensiero possono essere comunicati intersoggettivamente. La convenzionalità e la mutevolezza del linguaggio rendono i suoi contenuti distinti dalle idee, i contenuti del pensiero, che invece si riferiscono a qualcosa di non convenzionale come l'essenza, il quid qualitativo degli oggetti di cui abbiamo un'esperienza intuitiva. Immaginando che tra un centinaio d'anni la parola "albero" cada in disuso, non per questo cesseremmo di avere un'intuizione degli elementi comuni ai singoli alberi reali, il cui insieme costituirebbe l'idea di albero, che, pur sparendo dai radar dell'attenzione e della riflessione quotidiana, resterebbe nel fondo della nostra coscienza, pronta a riemergere nel momento in cui qualcuno ci facesse notare la presenza di tali elementi comuni, o nel momento in cui, ancor più nel futuro, si stabilisse (ovviamente su tempi lunghi e in sede di collettività culturale) di rispristinare l'uso del termine. Il fatto che ci appia difficile, se non impossibile, immaginare di pensare a idee prive di associazione con parole, non implica una coincidenza tra i limiti del pensabile e quelli del dicibile, ma che siamo condizionati dall'abitudine di focalizzare riflessione e attenzione esplicita su quelle idee che valutiamo come rilevanti nella vita quotidiana al punto di aver già creato delle parole funzionali a comunicarle, pensare a idee non verbali vuol dire operare uno sforzo innaturale perché vorrebbe dire andare alle ricerca di idee che ci apparirebbero insensate e irrilevanti in relazione al contesto culturale/linguistico attuale in cui sin dalla nascita siamo immersi. Eppure la mutevolezza del lessico nella storia mostra che queste idee non verbali non sono del tutto assenti nella nostra coscienza, la possibilità di creare nuove parole presuppone questo fondo oscuro e latente del pensiero in cui si intuiscono idee al momento non verbali: come potremmo creare nuove parole associandoli a significati, riconosciuti come rilevanti al punto da avvertire la necessita di comunicarli, se già prima della creazione della parola non riconoscessimo l'importanza di quel significato, cioè non ne avessimo in partenza un'intuizione, un pensiero, per quanto non ancora una riflessione? La coincidenza tra pensiero e parola, a mio avviso, c'è a livello superficiale della soggettività, quella per cui le idee oggetto di attenzione e riflessione sono le stesse a cui attribuiamo nella nostra cultura un'importanza pragmatica, legate alle azioni e dunque alle necessità di condividerle tramite un tramite simbolico linguistico, le parole, mentre nel profondo inconscio resta presente un "materiale" di riserva intellettuale di idee non verbali il cui senso  è già intuibile in modo oscuro e latente, non riflesso, pronto a riaffiorare in superficie nel momento in cui mutino le condizioni culturali, i sistemi di attribuzione di valore, al punto da cominciare ad avvertire il bisogno di comunicarle e di associarle a parole ad hoc.

Un altro argomento in favore dell'anteriorità e trascendenza del pensiero sul linguaggio è il fatto che, senza tale anteriorità e trascendenza, imparare una lingua straniera sarebbe impossibile: imparare una lingua straniera vuol dire fondamentalmente avvertire la distinzione fra un certo significato, espressione di un dato reale o fenomenico che sia esperienza comune fra la cultura della lingua madre e quella della lingua che deve essere appresa (cioè un dato sovraculturale), che resta identico al di là dei diversi codici linguistici, e le parole che lo raffigurano, che invece possono essere diverse in base ai codici. Quando impariamo l'inglese, riconosciamo che l'identica cosa  "rosso", inteso come reale vissuto coscienziale, comune all'inglese e all'italiano, viene comunicato dagli inglesi con un termine diverso da quello della lingua madre, "red" anziché "rosso", cioè riconosciamo una distinzione tra l'idea di rosso, intuizione prelinguistica, oggetto di esperienza vissuta interiore, identica tra me e l'inglese, e le parole atte a comunicarla, che invece differiscono. Se ci fosse piena coincidenza parola-idea, l'apprensione della lingua straniera sarebbe impossibile, perché le parole di quella lingua sarebbero in tutto e per tutto vincolate a significati a loro volta diversi da quelli attinenti alla mia lingua madre, sarebbero dunque incomprensibili, in quanto divergenti (dunque inadeguate) dalle strutture semantiche di partenza di chi cerca di apprendere la lingua: ogni comprensione implica sempre l'assumere un qualcosa di universale, di comune tra il contesto soggettivo in cui è immerso il soggetto della comprensione e quello oggettivo da comprendere, e questa universalità consiste proprio in quel fondo di intuizioni prelinguistiche in cui abbiamo acceso diretto alle "cose in sé", al "rosso in sé", livello fondativo del rapporto Io-mondo, di cui il linguaggio verbale è solo uno dei tanti livelli che su di esso poggia (per quanto importantissimo, soprattutto dal punto di vista pragmatico). Tutto ciò implica però uscire da un'accezione empirista di "comprendere", per cui il comprendere non necessiterebbe, per il soggetto della comprensione, di strutture cognitive possedute a priori, ma solo un recepire passivo e meccanico dell'oggetto da comprendere: in realtà, se l'idea di rosso inerente al "red" inglese fosse diversa dall'idea di rosso legata alla parola italiana "rosso", l'insegnamento esteriore di un docente "gli inglesi per dire "rosso" dicono "red" " per me non avrebbe alcun senso, dato che non avrei alcuna idea del significato del concetto di "rosso". Per comprendere che il rosso che l'inglese chiama "red" è riferito alla stessa cosa che io chiamo "rosso", necessito di aver già in me presente interiormente l'intuizione, preverbale, di rosso come esperienza vissuta di reali oggetti rossi.

#70
Attualità / Re:Integralismo Islamico
04 Novembre 2020, 20:47:55 PM
Citazione di: InVerno il 04 Novembre 2020, 14:53:20 PM
I discorsi più pericolosi sono quelli più seri, mal capiterà chi vorrà trovare un atto di violenza nella storia perpetrato con una commedia in mano, peggio ancora capiterà chi cercherà uno stato liberale dove la satira è proibita. Discorsi seri sono invece quelli che con lessici arzigogolati e precauzioni lessicali, gira e ti rigira vuol lambire e far passare che tutto sommato "occhio per occhio", che altro ti puoi aspettare? E son tradizionalisti, dicono alcuni, ma fino ad Hammurabi bisogna arrivare? Ingiusto che sia, se dalle vaporose nuvole lessicali questi scendessero a dar pane al pane, non al satiro ma a loro spetterebbe l'ingiusta punizione, per apologia di reato, non di meno. Notoriamente non militano satiri tra le fila dei conservatori, impossibile sarà trovare un comico credente, cabarettisti in caserma militare, commedie di successo nelle teocrazie, satiri sul primo canale delle dittature. Ovunque qualcuno crede che la morale derivi dall'autorità di un santo in cielo o un beniamino terreno, chi si è sottomesso allo schema perfetto delle cose che ha sentito raccontare, sentirà mancarsi la terra sotto i piedi quando un giullare metterà alla berlina la contraddizione, il terrore che l'autorità o l'ideologia così perfettamente sentiti, non siano così coerenti come egli prima pensava desterà in lui solamente repulsione, l'idea di esser niente più che una scimmia che ogni tanto deve cagare, che s'ammala e incespica, che ha fame e deve patire, mal si addice all'idea così alta che ha di sé stesso, che della sua esistenza ha fatto il baricentro universale. Di tutto sanno e niente omettono, hanno la chiave Vera delle cose, incapaci anche solo di considerare, che il Cristo fatto uomo, fece del cul trombetta più di quanto gli piacerebbe immaginare. E pensare che la Divina Commedia fù scritta proprio sul solco della Bibbia, dell'allegoria e della finzione, e pensare che Maometto e nel corano elogiò la risata insieme al pianto, come forme massime dell'umano. Ma a loro che interessa?Sindacalisti dello spirito, hanno solo cose serie a cui pensare, difendono i diritti della categoria degli "offesi" qualunque sia la religione, chissà mai che a difendere gli altri, qualcosa capiti anche a loro. Eppure nonostante i terroristi si arroghino di rappresentare il popolo intero di una religione, ogni giorno un islamico davanti all'edicola passa, sbircia un Hebdo appeso e una risata gli scappa malandrina, di nascosto al suo signore. Perdono! Perdono! Se tanto ho osato! Sottomettimi, frustami, puniscimi, o lo farò da solo! No! Per Dio! Frusterò l'infedele che al peccato mi ha portato!


Come più volte detto, l'idea per cui contestare il senso e l'opportunità di una certa azione, come può essere la pubblicazione di contenuti satirici determina necessariamente il giustificare reazioni violente a tale azione, è un passaggio logico del tutto arbitrario e forzato. Ho l'impressione che si voglia come sostenere una visione dualista manichea per cui da un lato ci sarebbero gli spiriti illuminati, pronti a ridere di qualunque cosa, a trovare intelligente, divertente, e magari anche culturalmente formativa una vignetta in cui si rappresentano le Persone della Trinità come partecipanti a un'orgia, e dall'altra giustificatori e fiancheggiatori del terrorismo e del fondamentalismo religioso. Rivendico la libertà di sentirmi ben lontano da entrambe le posizioni. Il senso dell'umorismo è dato dal carattere delle persone, non è qualcosa che si possiede più o meno a seconda delle convinzioni religiose/ideologiche: il meccanismo per il quale, quanto più un certo valore, spirituale o materiale, è rivestito di una certa importanza dal soggetto, tanto più si è portati a indignarsi nel momento in cui lo si trova irriso, vilipeso, e dunque sminuito dagli altri (l'offendersi ha a che fare con l'estetica, percepiamo il bello e il brutto come affinità o dissonanza tra una certa preferenza soggettiva interna e il modo in cui nel mondo esterno il valore espresso dalla preferenza si presenta come esaltato o disprezzato, un certo colore mi appare "brutto" perché simbolicamente legato a qualcosa che per me è un disvalore), è un meccanismo umanamente universale, indipendente dal contenuto con cui gli individui riempiono le loro personali scale di valore. Un ateo, non meno di un credente, possiede un suo sistema di priorità valoriali, e nella misura in cui lo possiede maturerà una disposizione a offendersi, in relazione ai suoi valori, come la matura il credente: cambiano i contenuti, i tasti sensibili in relazione a cui essere sensibili e ad offendersi, ma non la disposizione all'offesa in senso formale e generico. E in ciò non c'è nulla di male, anzi. L'offendersi non è, entro i limiti in cui la si riesca a controllare, evitando che porti a commettere atti violenti ispirati alla vendetta verso chi ci ha offeso, di per sè una disposizione viziosa, è l'altra faccia della medaglia della sensibilità, dell'avere una coscienza morale: il giorno in cui smetteremo completamente di offenderci sarà il giorno in cui cesseremo di avere una sensibilità, cioè di vivere, proprio perché sarà il giorno in cui non avremmo più nulla di importante, di esistenzialmente motivante di cui dispiacersi nel trovarlo irriso e ridicolizzato. Tanto più voglio bene a una persona tanto più mi arrabbierò nel vederla umiliata, e, dal punto di vista del credente in una religione come il Cristianesimo, Dio è persona come e più di un amico, di un genitore, di una persona cara, e se al non credente tutto ciò appare ridicolo, nulla gli impedisce di continuare a trovarlo tale, senza che il continuare a trovarlo tale necessità di esteriorizzare la sua posizione in termini irrispettosi.
#71
Attualità / Re:Integralismo Islamico
03 Novembre 2020, 23:21:33 PM
Citazione di: Jacopus il 03 Novembre 2020, 22:04:14 PM
Secondo me Davintro, è proprio la satira l'antidoto alla violenza. La satira è un modo umile per dire la stessa cosa che scrisse Shakespeare "siamo fatti della stessa materia dei sogni". Insomma "non prendiamoci troppo sul serio". Penso che se Dio/Allah/Geova esistesse, non sarebbe poi così scontento che qualche sua creatura si possa fare qualche risata sul suo conto. Se fosse così mi risulterebbe quasi simpatico.
Anche in questo noto la superiorità della religione pagana, laddove era possibile truffare la divinità, almeno momentaneamente.
Ma lasciamo perdere questo aspetto, perché rischio di diventare a mia volta satirico e non ne ho alcuna intenzione, visto che non c'è niente da ridere nei tanti cadaveri che tutte le religioni dell'Uno si sono lasciati dietro, spesso affermando di aver così solo fatto del bene ( la beffa qui è tutta dalla parte delle religioni ma è intrisa di sangue).
Fai anche una distinzione fra satira e libertà di opinione. La prima no, la seconda sì. A mio parere la satira è ancora più importante della libertà di opinione. È libertà allo stato puro. Prova a vedere qualche spettacolo di Dario Fo e respirerai la libertà.
Distinzione relativistici/assolutistici.  In sostanza affermi che i relativistici avendo superato lo stadio del soggetto centrato solo su di sé, devono essere empatici. Chissà perché l'empatia nell'altro senso non funziona. C'è qualcosa che mi sfugge.
Gli assolutistici in effetti non si divertono a ironizzare. Preferiscono da che mondo è mondo, un nemico. Eventualmente, se non c'è un impero del male a portata di mano, va bene anche il relativismo.
L'Uno ha bisogno di codici binari: bene-male, buono-cattivo, amico-nemico, familiare-barbaro, angelo-demone, ricco-povero. La satira toglie questa certezza, al punto da prendere in giro anche sé stessa ed infatti la sublimazione della satira è l'autoironia. Ma l'Uno non ammette deroghe  mentre l'uomo satirico può concepirsi "relativisticamente" come contemporaneamente derisorio ed anche comprensivo.
Parli giustamente di empatia. Direi che la vera empatia dovremmo mostrarla quando deprediamo molti paesi arabi. Non mi sembra un messaggio evangelico rispettare qualche dio esotico, non deridendolo, ma schiacciare con pugno di ferro tante comunità arabe.
Sul punto che cerchi di scindere: violenza (non ammessa) e censura della satira (ammessa), credo che il punto sia proprio nel meccanismo demistificatore della satira, che spunta in partenza ogni delirio ( eventuale) di potenza dell'Uno. La satira ha lo stesso ruolo del bambino nella favola "i vestiti nuovi dell'imperatore". Si tratta di conquistare un occhio divergente, rispetto all'Uno e a un certo concetto di soggettività che si è instaurato saldamente nel mondo moderno. Ma questo è (forse) un altro discorso.


brevi precisazioni su alcuni punti della mia posizione che temo non siano stati compresi, probabilmente per mia colpa.
Non faccio un distinguo tra satira (che non andrebbe bene) e libertà di opinione (invece ammessa), bensì fra piano giuridico in cui ogni espressione della libertà di opinione dovrebbe essere garantita, e piano morale dell'opportunità a non violare certi limiti di buon gusto e rispetto, considerando però pienamente all'interno della libertà di opinione anche la satira. Satira peraltro che personalmente apprezzo e mi diverte in molte sue forme, semplicemente rivendicando il diritto di riservarmi la possibilità di trovarla a volte non divertente o, per l'appunto irrispettosa.


Da qui deriva anche che non è vero che sarei favorevole alla censura, al contrario della violenza: sono entrambe sbagliate, considerando la censura come strumento politico di controllo delle idee,  ho parlato di "foro intimo della coscienza" come luogo di discernimento dell'opportunità di pubblicare o meno un certo contenuto.


Infine, l'empatia che auspica è reciproca, non unidirezionale, se mi sono concentrato sul punto di vista della necessità di provare empatia del satirico è perché il contesto in cui stiamo discutendo riguarda le vignette blasfeme, se si parlasse di un vignettista cattolico integralista che rappresenta in modo volgare e offensivo una coppia omosessuale o una qualunque personalità al di fuori della chiesa, la contestazione riguardo l'assenza di empatia sarebbe, da parte mia, la stessa
#72
Attualità / Re:Integralismo Islamico
03 Novembre 2020, 21:23:44 PM
Citazione di: Jacopus il 03 Novembre 2020, 19:24:36 PM
Per Davintro. La metafora del funerale non regge. La satira si esercita in luoghi specifici ad essa dedicati. Se vai su Lercio non ti puoi aspettare un passo teologico serio. E su Lercio ci puoi andare e non andare, per il funerale non hai scelte e chi satireggerebbe in quel contesto meriterebbe come minimo degli insulti.
Ma vediamo la cosa dalla prospettiva opposta. Io potrei benissimo sentirmi infastidito e offeso dal fatto che una setta condiziona la mia vita, occupando posti di lavoro, condizionando norme sociali, dividendo il mondo in "buoni e cattivi", propagando idee fantasiose che distolgono dai veri problemi. Chi decide "chi offende chi" e "come offende chi offende chi"?
In realtà sono le idee granitiche, quelle che richiamano l'Uno, come vengono riassunte in modo esemplare da Adorno, a essere suscettibili e permalose.  Le idee intelligenti sono quasi sempre autoironiche o perlomeno dubitano di sé  stesse. L'Uno di Adorno ha assunto forme molto diverse, Dio, Stalin, Luigi XIV, lo Stato moderno, la Fabbrica, l'Esercito. E tutti alla fine hanno chiesto e richiedono un tributo di sangue. Il sangue è il corrispettivo dell'Uno. Solo se uccidi e non hai paura di morire, vivi nell'Uno.
Molte sono le cose che non apprezzo di questa attuale società ma la libertà di opinione e di satira non ha prezzo e si porta appresso anche il benessere.
Probabilmente abbiamo dimenticato i tempi precedenti a questa libertà. Ricordo che una decina di anni fa, quando imprecavo liberamente contro Berlusconi, mio suocero mi diceva sottovoce di stare attento, di non sparlare così, perché non si sa mai. In ciò rievocava olio di ricino e delitto Matteotti. Non vorrei condurre tutto ad una reductio ad hitlerum, ma il succo della faccenda è sempre quello. Dentro di noi, ognuno di noi c'è un piccolo Hitler, che la vita, gli incontri, il destino, fa crescere oppure  miniaturizza. La libertà di satira fa parte di quegli strumenti che rimpiccioliscono l'Uno, lo rendono umano. Ed infatti quell'Uno fu superato per la prima volta dagli antichi Greci, che adoravano degli dei molto umani. Fummo poi ributtati indietro per un paio di millenni e solo negli ultimi 70 anni godiamo di una libertà degna di questo nome.
Pertanto, viva la reciproca libertà di satira. Satireggiate pure l'uomo laico e agnostico. Ve ne sarà grato e non vi terrà il broncio.


Alcuni appunti in ordine sparso. Per quanto riguarda il dover andarsi a cercare la satira in luoghi predisposti, direi che l'onnipervasità dei mass media nel nostro più intimo quotidiano renda quasi completamento vano l'evitare (volendolo evitare) di imbattersi in contenuti satirici. Basta aprire google per fare una ricerca, entrare in un social per una qualsivoglia ragione, accendere la Tv per trovarsi la condivisione di un link, un avviso di breaking news, un programma tv in cui trovare elementi satirici più o meno offensivi anche senza "andarseli a cercare". La vignetta di Charlie Hebdo sulle tre Persone della Trinità che fanno la orgia non me lo sono certo andata a cercare, me la sono trovata, e ancora sento la rabbia di fronte, non tanto per l'offesa alla fede cristiana (che personalmente non ho), ma per la grossolanità, l'ignoranza teologica e filosofica, di un gruppo di persone che, con tutta probabilità non sanno che alla Trinità hanno creduto figure di un'intelligenza smisurata come S.Agostino o S.Tommaso d'Aquino, relegandola alla stessa stregua di una favoletta per bambini. Considerando tutto ciò, l'analogia col funerale non è poi così campata per aria. Circa il punto centrale della discussione, è proprio una posizione relativista (quantomeno presentata come tale, dato che sussiste sempre l'argomento per cui il principio di tolleranza a cui il relativista si ispira dovrebbe nella sua ottica essere assunto come valore fondativo di tutti gli altri, autocontraddicendosi come tale, ma non vorrei riaprire anche qua il discorso sulle aporie del relativismo, già ampiamente dibattuto in tante altri discussioni più attinenti) quella che rigetta ogni Assoluto di valore, che dovrebbe tener conto del decentrarsi empatico di cui parlavo, cioè del mettersi nei panni di un credente, che esprime una sensibilità e un sistema di valori diverso, prima di mettersi in condizione di offenderli. Altrimenti si cade in una sorta di rispetto della libertà unilaterale: da un lato il relativista, l'ateo, l'agnostico rivendica la libertà di far satira nei modi che individualisticamente ritiene migliori, e al tempo stesso impone al fedele a rassegnarsi a vedere dileggiati i valori in cui crede con il disagio psicologico che ciò comporta, e verso cui al satirico sembra non interessare. Contrariamente alle premesse di partenza a cui il relativista dice di attenersi, apertura alla molteplicità dei diversi punti di vista, in realtà è solo il suo punto di vista unilaterale a tener banco: "dato che per me Dio non ha un significato valoriale posso tranquillamente irriderlo, non importa cosa sentano gli altri". E a nulla vale l'invito "Satireggiate pure l'uomo laico e agnostico": è una concessione sterile, in quanto la grande maggioranza dei credenti non ha, probabilmente, alcun interesse a rispondere con le stesse armi della satira alle offese, magari vuole semplicemente essere lasciata in pace a vivere la propria fede, senza entrare in conflitto con chi la pensa diversamente, non saprebbe che farsene di questa concessione. E ciò si svela nell'ultima frase del messaggio "Ve ne sarà grato e non terrà il broncio": insomma la reciprocità dello sberleffo non viene accettata dal laico/agnostico per porsi, nobilmente, in un'ottica di rispetto egualitario del tipo "come tu puoi sopportare le mie offese, anch'io per correttezza accetto di sopportare le tue eventuali, perché la mia e la tua sensibilità siano riconosciute di egual valore", ma, al contrario, perché si sa già in partenza che offesa non ci sarà e non si rischia nulla! Molto comodo... Di fatto, questo astrarre lo sberleffo da ogni riserva morale, apparentemente posto come reciproco fra le parti in nome della comune tolleranza, diventa uno schema solo apparentemente simmetrico e reciproco, ma in realtà schema in cui il relativista si trova in una posizione di forza, avendo egli rinunciato ad adesioni a valori assoluti in rapporto a cui coltivare una naturale sensibilità alle occasioni in cui li vede vilipesi, mentre al contrario al credente si impone di sopportare l'offesa, sapendo che lui non potrebbe rivalersi, non avendo dall'altra parte alcun valore sensibile da colpire. Uno schema del genere non può che esser visto che come imposizione da subire, dal punto di vista socio-culturale, dal religioso. Come detto, solo un empatico mettersi nei panni dell'altro, provare a immaginare cosa l'altro potrebbe sentire, dall'una e dall'altra parte, è la base di un rapporto realmente egualitario e reciproco di rispetto fra le parti.


Tutto questo, lo ribadisco evidenziandolo anche graficamente, staccandolo dal resto del discorso, non ha davvero nulla a che fare nè col rispetto della libertà di espressione dal punto di vista giuridico, che resta fondativo di una società liberale, né tantomeno con il giudizio sulle violenze fisiche che in nome della religione offesa vengono portate, giudizio da parte mia di totale condanna, di assoluta ingiustificabilità, di gravità enormemente maggiore delle offese satiriche. Sarebbe un''ovvietà, ma voglio evidenziarlo al massimo, perché noto come questo argomento ricorra continuamente nei messaggi di molti utenti, quando penso che il senso della discussione aperta non riguardasse ciò, e se questo ricorrere fosse motivato anche dal fatto di non esser stato chiaro su questo punto, sull'ovvia condanna di ogni reazione violenta, mi dispiacerebbe enormemente e mi sentirei mortificato.
#73
Attualità / Re:Integralismo Islamico
03 Novembre 2020, 18:32:32 PM
Citazione di: baylham il 03 Novembre 2020, 18:10:37 PM
Chi ha pubblicato le vignette satiriche ha fatto benissimo, una cartina al tornasole della violenza oppressiva contenuta nella religione e cultura islamica (e non solo ovviamente).

Mi auguro che l'Occidente difenda anche con la forza la libertà di espressione dall'intolleranza religiosa o politica.

Soprattutto auguro che si voglia la libertà di divertirsi, di scherzare, di ridere con l'ironia, la comicità e la satira.


a mio avviso, esiste anche una violenza atea (non di tutti gli atei, beninteso) dovuta a un deficit di empatia, per cui dal fatto di non provare, a livello individuale, un certo sentimento religioso, ci si sente egoisticamente in diritto di irridere un valore che non si avverte in prima persona, proprio perché non si riesce, o non si vuole, decentrarsi dalle proprie convinzioni individuali, e mettersi nei panni del vissuto altrui, considerando che, ciò che per se stessi è solo inganno o astrazione, per gli altri è sommo valore morale (questo è Dio per chi crede nella sua esistenza). Sarebbe come se, andando al funerale di una persona che non conoscevo e verso cui non avevo alcun legame affettivo, mi mettessi durante la cerimonia a far battute di humour nero (tipologia di umorismo che apprezzo moltissimo se goduto privatamente e non sbattuto in faccia di fronte persone che in quel momento possono essere particolarmente ricettive e sensibili all'argomento, giusto per non essere etichettato come moralista) in modo che tutti i presenti ascoltino, in nome della bellezza della satira: magari potrei appellarmi al principio della libertà di espressione a livello legale, ma come riterreste dovrei esser giudicato a livello etico? Questa visione infantilistica della libertà come libertà di far la prima cosa che passa per la mente, urlare bestemmiare, dir parolacce, senza tener conto delle conseguenze sugli altri è qualcosa che non mi convince per nulla: è la libertà delle bestie, dei bruti, nel migliore dei casi dei bambini non cresciuti, non di persone adulte e razionali, consapevoli che ogni azione sociale non riguarda mai individui isolati, ma sempre in relazione, in un "gioco" di sempre reciproca azione-reazione
#74
Attualità / Re:Integralismo Islamico
03 Novembre 2020, 18:17:56 PM
Citazione di: Lou il 03 Novembre 2020, 10:44:01 AM
Citazione di: davintro il 03 Novembre 2020, 09:45:49 AM
In sintesi, nessuno tocchi la libertà di Charlie Hebdo di disegnare, ma al contempo nessuno tocchi il diritto di trovarle volgari e disgustose senza per questo rischiare di venir considerati traditori della libertà e laicità occidentali o complici culturali dei terroristi
Ma infatti il "diritto" di trovare disgustosi e volgari alcuni contenuti satirici non lo nega nessuno, una parte della satira ha anche come obiettivo sortire questo tipo di effetto e destabilizzare nella sua estrema irriverenza, e a fronte di questo esiste pure un diritto di criticare nei modi e nelle libertà previste nelle democrazie contenuti che riteniamo offensivi, che mi pare non prevedono l'uccisione di chi esprime con la penna contenuti che mi possono urtare. A me pare che l'atto che non trova alcuna legittimazione è rispondere a una vignetta satirica uccidendo il disegnatore.


Ovviamente, quello che mi interessava era contestare la necessità di un passaggio fra un giudizio morale negativo riguardo una certa forma di espressione della satira o del pensiero in generale, con una qualunque sorta di giustificazione della violenza contro chiunque eserciti tale diritto. Dovrebbe essere un'ovvietà, ma spesso ascolto pareri di chi ritiene che ogni critica a vignette blasfeme comporti uno sminuire la condanna della violenza integralista religiosa. La trovo una classica posizione "benaltrista": siccome decapitare è infinitamente più grave che disegnare vignette blasfeme, allora non si ci si dovrebbe permettere di criticare queste ultime perché "i problemi sono ben altri", come se occuparsi di un tema implichi il negare l'importanza di tutti gli altri. Al di là della forzatura logica di tale ragionamento, trovo in realtà sensato che, proprio perché la condanna della violenza fisica è, almeno qua in Occidente, scontata e nessuno si sogna di discuterla, ci si senta più stimolati a discutere di un argomento molto più controverso come quello della liceità morale della blasfemia, perché meno ovvie e banali le posizioni da sostenere.




Condivido la sintesi di Mariano sulla distinzione legge-etica che era appunto il senso del mio intervento: nel momento in cui si esalta moralmente come "eroi" che non si possono criticare individui che fruiscono di un diritto pur doverosamente riconosciuto a livello giuridico come la libertà di espressione, si cade di fatto in una sorta di "intolleranza al contrario", per cui i satirici vengono inseriti in una "zona franca" in cui trovarsi a essere immuni da ogni contestazione, mentre dall'altra parte si priva della legittima libertà di indignarsi e di rivendicare rispetto per la loro sensibilità e per le loro credenze. Nata come tutela del principio di uguaglianza di diritti e doveri tra credenti e non credenti, la laicità viene deformata rispetto al suo senso originario, operando una discriminazione, sociale-culturale tra l'esaltazione morale di chi fa satira, e chi la subisce, costretto di fatto a fare buon viso a cattivo gioco onde evitare di passare per "bigotto", fondamentalista, retrogrado ecc.




#75
Attualità / Re:Integralismo Islamico
03 Novembre 2020, 09:45:49 AM
a me pare vadano ben distinti due piani, quello giuridico e quello morale: la libertà di espressione va tutelata in ogni sua forma dal punto di vista giuridico, rigettando ogni censura, ma da tale legittimità giuridica non discende affatto una legittimità morale all'offesa. Garantire il diritto di un vignettista a sbeffeggiare la Trinità o Maometto non esclude l'opportunità di appellarsi al foro intimo della coscienza morale per valutare le possibili conseguenze della manifestazione delle offese, non solo dal punto di vista "utilitarista" di evitare tensioni e violenze, ma anche e soprattutto in nome del rispetto della sensibilità altrui riguardo le credenze. Nel porsi il problema etico di non offendere questa sensibilità non c'è, come molti pensano, alcun cedimento al principio laico liberale della tutela della libertà di espressione in favore dei fondamentalisti, perché un conto è garantire questa libertà in senso giuridico-formale contro ogni censura, un altro il giudizio morale sull'opportunità di abusarne. Cedimento al fondamentalismo e all'intolleranza religiosa sarebbe censurare le vignette blasfeme, non valutare inopportuna la loro pubblicazione dal punto di vista morale. E questa distinzione tra piano giuridico e morale è proprio ciò che costituisce l'idea di una laicità: laicità non implica alcuna adesione etica automatica alla fruizione di un diritto, ma sospensione neutra di ogni valutazione morale riguardo tale fruizione. Sarebbe del tutto fuori luogo una laicità che per essere difesa implicasse il presentare vignettisti bestemmiatori come dei martiri, degli eroi da celebrare, a cui intitolare vie o piazze, a meno di non confondere laicità con antireligiosità, come si rischia nella declinazione del modello francese derivante dal giacobinismo rivoluzionario. La laicità non implica eticizzazione di un principio giuridico come la libertà di espressione, deducendo arbitrariamente dalla legittimità formale a godere di tale diritto anche una legittimità morale verso i contenuti. In sintesi, nessuno tocchi la libertà di Charlie Hebdo di disegnare, ma al contempo nessuno tocchi il diritto di trovarle volgari e disgustose senza per questo rischiare di venir considerati traditori della libertà e laicità occidentali o complici culturali dei terroristi