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Messaggi - Phil

#601
Leggendo qui viene confermata non solo l'assenza di verbo essere al presente, ma anche (come in russo, confermo) una perifrasi per esprimere il verbo avere (usando una sorta di dativo alla latina, se non ricordo male):

#602
Per farmi un po' di chiarezza, ho provato ad indagare fugacemente sui tempi verbali in ebraico (senza iscrivermi ad un corso di lingua): stando a quel che si dice qui l'ambiguo «אֶהְיֶה» è l'imperfetto del verbo essere; imperfetto che non va inteso tuttavia come quello italiano, poiché (come spiegato qui, p.29) nell'ebraico, per quanto l'imperfetto sia usato tendenzialmente al futuro, la distinzione principale dei verbi non è nei tempi ma negli «aspetti» (perfetto vs imperfetto), con l'imperfetto atto ad indicare azioni non ancora totalmente compiute (in ciò allusivo al futuro) e nondimeno spesso usato nella Bibbia per riferirsi alla narrazione del passato (ad indicare la durata della vicenda, suppongo). Come anche spiegato qui, l'imperfetto può inoltre riferirsi a qualcosa del passato che dura ancora, non ancora terminato (quindi tendente al futuro) ed in questo si potrebbe ben riallacciare al porsi come eterno di Dio, il classico «colui che era, è e sarà». Ciò rende ben diverse, per tonalità semantica, l'autopresentazione di Dio nell'Esodo, dove si "qualifica" con la sua eternità, da quella del Deuteronomio, dove l'affermazione è più diretta e "al presente" ed è quindi stato usato il più "riduttivo" «אני».
#603
@Eutidemo

Ti confermo che in quel passo del Deuteronomio non compare infatti la forma al futuro come in Esodo («אֶהְיֶה», sarò), ma quella al presente («אני», io, con il verbo essere al presente sottointeso).
#604
@Eutidemo

Non ho ritrovato il traduttore che aveva tradotto «Сущий» con «unico» (mea culpa, non ho salvato il link), ma un altro che lo traduce con «eterno»

«Eterno», raccogliendo in sé tutta la temporalità, forse è una traduzione tanto sintetica quanto potente, anche se non troppo diffusa, almeno credo (alla fine è solo una questione di quale dei sensi di «Сущий» utilizzare, essendo la frase grammaticalmente minimale).


@bobmax

Non vorrei essere troppo tranchant, considerando la sezione in cui siamo, ma credo concorderai che l'unico motivo per cui si crede e si parla di Dio è perché sono giunti sino a noi alcuni testi che ce ne parlano. Senza tali testi, non ci sarebbe nessuna "luna" (e se non si fa ben attenzione al dito, si rischia di prendere per luna un lampione, artificiale, fatto dagli uomini per gli uomini, seppur indubbiamente utile...). Concordo comunque sul fatto di essere andato sontuosamente e colpevolmente off topic.
#605
Come non detto (è stato più forte di me):
https://www.transcripture.com/italiano-russo-esodo-3.html
«Я есмь Сущий» è traducibile con «io sono l'unico1» (da notare che «есмь» è letteralmente l'infinto del verbo essere, non «sono» alla prima persona presente) e la versione pone tra parentesi quadre «Иегова», ossia «Geova».
Se diamo in pasto al traduttore il testo ebraico da tradurre letteralmente in russo, otteniamo la prima parte «я буду тем, чем буду» («sarò ciò che sarò»); seguita da «я, я послан к вам» senza verbo essere («я» significa «io»), il che, semmai ce ne fosse bisogno, dimostra quanto la traduzione del senso (più che della lettera) sia un'arte (nel bene e nel male...) squisitamente umana e poco "automatizzabile".

1«Сущий» avrebbe molteplici significati "pertinenti" (https://www.multitran.com/m.exe?s=%D1%81%D1%83%D1%89%D0%B8%D0%B9&l1=2&l2=23 )
#606
@Eutidemo

Consapevole che l'uso diacronico cambia la lingua e che le manipolazioni testuali, soprattutto da una lingua all'altra (in mancanza di adeguato contraddittorio e con qualche interesse in gioco) sono eventi non impossibili nella storia, non vorrei comunque tu pensassi io abbia qualche intenzione recondita nel sostenere che quella frase sia al futuro o che quel testo sia incompatibile con alcune visioni del mondo; non è così, mi interessa solo curiosare filologicamente (anche se ciò portasse, ma non mi pare questo il caso, a contraddire ciò che allora sarebbe, a suo modo, solo una "post-verità").
Ti segnalo che la spiegazione del verbo ebraico che mi attribuisci (quella su presente, passato e futuro), non è mai stata farina del mio sacco: l'ho citata nel mio messaggio all'interno della citazione dalla pagina di wikipedia che hai segnalato (è infatti all'interno delle virgolette basse « ... » seppur il copia e incolla abbia spezzato la citazione con una riga vuota presente nel testo originale).
Riguardo all'assenza del presente del verbo essere, mi pare di ricordare che (anche) in russo non ci sia, nel senso che «io sono stanco» si dice «io stanco» (per quanto forse esistono espressioni apposite per tradurre in russo solo «io sono»; ma preferisco non avventurarmi nel controllare come i russi abbiano tradotto quel passo della Genesi).
#607
@Eutidemo

Non conosco affatto l'ebraico, ma ho controllato la traduzione impostando ebraico (non yeddish) e il traduttore è ancora convinto che il tempo sia al futuro (come confermato anche dai link di reverso.net):



Per quanto riguarda
Citazione di: Eutidemo il 31 Gennaio 2023, 06:27:19 AM
Quello strano simbolo che il traduttore ha messo all'inizio della citazione (per il resto non mi pare di notare altre discrepanze) sembra essere presente in altre citazioni dello stesso versetto:
https://biblehub.com/texts/exodus/3-14.htm
https://www.bibbiaedu.it/EBRAICO/at/Gen/3/
la sua traduzione dovrebbe essere la lettera "v" (forse seguita da segno di interpunzione per un discorso diretto?) ed è molto frequente all'inizio dei versetti biblici del terzo capitolo della genesi (non ho controllato altrove).
#608
Citazione di: Eutidemo il 30 Gennaio 2023, 17:53:32 PM
Ciao Phil. :)
Io sapevo che אֲשֶׁר e poi, sempre in ebraico אֶהְיֶה  אֶהְיֶה‎, ‎ significa "Io sono colui che sono", e non "Io sarò colui che sarò".

Il traduttore di Google che ho usato mantiene i segni diacritici


(apri l'immagine in una nuova scheda per vederla più grande)

Non a caso, nulla pagina di Wikipedia che hai linkato, al paragrafo «Significato della frase», puoi infatti leggere: «Hayah significa "esistito/esistette" o "era/fu" in ebraico; "ehyeh" è la prima persona singolare dell'imperfetto e viene usualmente tradotta nelle Bibbie italiane con "Io sono" (o "Io sarò" o "Io mostrerò d'essere").[2] Ehyeh asher ehyeh letteralmente si traduce con "Io sarò ciò che sarò", con le conseguenti implicazioni teologiche e mistiche della tradizione ebraica.

Stando alle regole della grammatica ebraica, la forma verbale utilizzata in ebraico è traducibile col tempo passato, presente e futuro, indicando una verità atemporale, che non nasce, non muta e non muore. Tale è Dio. È quindi stata proposta la traduzione «io sono colui che c'era, che c'è e che ci sarà», cioè «io sono colui che è sempre presente», «io ci sono». Dio si rivela come un Dio personale, (Dio di Abramo, Isacco, Giacobbe), continuamente presente nella storia accanto all'uomo[3]».

Per ulteriori fonti:
https://context.reverso.net/traduzione/ebraico-italiano/%D7%90%D6%B6%D7%94%D6%B0%D7%99%D6%B6%D7%94
e
https://context.reverso.net/traduzione/ebraico-italiano/%D7%90%D7%9E%D6%B6%D7%A8+%D7%90%D6%B1%D7%9C%D6%B9%D7%94%D6%B4%D7%99%D7%9D+%D7%90%D6%B6%D7%9C-%D7%9E%D6%B9%D7%A9%D6%B6%D7%81%D7%94%2C+%D7%90%D6%B6%D7%94%D6%B0%D7%99%D6%B6%D7%94+%D7%90%D6%B2%D7%A9%D6%B6%D7%81%D7%A8+%D7%90%D6%B6%D7%94%D6%B0%D7%99%D6%B6%D7%94
#609
Citazione di: Eutidemo il 30 Gennaio 2023, 11:23:31 AM
Ed allora DIO rispose a Mosè: «IO SONO COLUI CHE SONO». Poi disse: «Dirai così ai figli d'Israele: "<<L'IO SONO>> (cioè DIO) mi ha mandato da voi"» (Esodo 3,11-15);ֹּאמֶר אֱלֹהִים אֶל-מֹשֶׁה, אֶהְיֶה אֲשֶׁר אֶהְיֶה; וַיֹּאמֶר, כֹּה תֹאמַר לִבְנֵי יִשְׂרָאֵל, אֶהְיֶה, שְׁלָחַנִי אֲלֵיכֶם»
Per cui, quando Gesù dice "prima che Abramo fosse, <<Io Sono>>" (Gv 8,51-59), non rispettando i "tempi" del verbo essere, e ripetendo il nome autoattribuitosi da DIO davanti a Mosè (<<Io Sono>>), in sostanza, almeno secondo me, è come se avesse ammesso di essere <<DIO>>.
Alcune osservazioni amatoriali sull'«io sono» di Esodo 3,11-15: la frase citata in ebraico viene tradotta (dal traduttore online, per quel che vale) con «Dio disse a Mosè, sarò (אֶהְיֶה) quello che sarò (אֶהְיֶה); Ed egli disse: Così direte ai figli d'Israele: sarò (אֶהְיֶה,), mi ha mandato da voi»; l'«io sono» che conosciamo nella traduzione italiana in ebraico è al futuro; ciò detto, con quel «sarò» Dio profetizza la "sua" discesa in terra, che si attualizzerà con Cristo?

Esodo 3,14 nella bibbia in greco risulta «ὤν καὶ εἶπεν οὕτως ἐρεῖς τοῖς υἱοῖς Ισραηλ ὁ ὢν ἀπέσταλκέν με πρὸς ὑμᾶς» (letteralmente: «E Dio disse a Mosè: "Sono io" e disse ai figli d'Israele: "Sono stato mandato da voi"») e Gv 8,58 «εἶπεν ⸀αὐτοῖς Ἰησοῦς· Ἀμὴν ἀμὴν λέγω ὑμῖν, πρὶν Ἀβραὰμ γενέσθαι ἐγὼ εἰμί» (traduzione identica alla versione italiana) con l'«io sono» («ἐγὼ εἰμί») conclusivo che non trova riscontro, almeno letterale, nel versetto dell'Esodo.

Nella bibbia latina c'è invece scritto: «"Ego sum qui sum". Ait: "Sic dices filiis Israel: Qui sum misit me ad vos"»; traducibile (sempre con Google) con «"Sono chi sono ". Disse: "Così direte ai figli d'Israele: Sono colui che mi ha mandato da voi"». Da notare che, nel versetto Gv 8,58 Cristo afferma «ego sum» non «qui sum» (quindi è debole il richiamo al «Qui sum misit me ad vos» dell'Esodo).
#610
@niko

Detto fra noi, ossia fra atei, il fatto che sotto-sotto, scava-scava, le religioni siano fatte di soli uomini (dagli uomini, con gli uomini e per gli uomini) non è un mistero della fede, ma una constatazione da cui partire (in attesa di voci dal cielo o incontri post-mortem). Tuttavia se proviamo a leggere la questione con gli occhi di un credente è altrettanto chiaro che, in quanto credente, vorrà vederci dell'altro, del divino, e non si accontenterà di leggercelo solo "allegoricamente" (v. sopra).
Sugli «assolutismi del "senso della vita"» è inevitabile che il credente abbia i suoi punti fermi, anch'essi per nulla allegorici, mentre il non credente possa attingere agli scenari e riflessioni dei testi sacri con un atteggiamento più letterario che veritativo, di spunto riflessivo più che di "rivelazione dall'alto".
Riguardo la convivenza pacifica «presso un'umanità fatta dagli uomini»(cit.) è anch'essa un'ideale dell'«uomo con tutti i suoi  limiti e con le sue violenze»(cit.), partendo dal quale alcuni, armati di fede, sperano che, se non in terra, tale convivenza pacifica (oltre)umana possa esserci "altrove" (e possibilmente non allegoricamente). Agli altri, dopo aver scavato sotto la crosta delle religioni, non resta che scavare sotto la crosta dell'uomo (magari senza lasciarsi incantare dalle stesse "sirene interiori" che hanno dato credibilità alle religioni e ai "sensi della vita").
#611
Citazione di: niko il 29 Gennaio 2023, 17:22:23 PMLa buona allegoria, quindi anche la buona allegoria RELIGIOSA, dovrebbe risolversi nel suo tornare a te come allegoria che parla di te, e con te.

Il rilegando, (quindi, sempre per polisemia, l'ordine stesso del libro, il testo, e la persona, da ri-legare) e' colui che manca, al proggetto della religione.

Se non lo fa, certo, che e' una sapienza alienata per una vita alienata.
L'offerta religiosa, in generale, propone un "libro" rilegato sulla sacralità, sul sovra-umano (meta-fisico) che tiene assieme le pagine che spiegano, o meglio, propongono dogmi, valori e verità. Se tali verità sono evidenti o sperimentabili, non richiedono fede; se invece richiedono fede, non si può infrangere il tabù che distingue il divino dall'umano, altrimenti la fede non funziona più e il credente (colui che ha fede) diventa interrogante: chiede perché, e non si accontenta più, come risposta, di un dogmatico «perché così sta scritto». Se a tale perché risponde prontamente la voce di un Dio oppure se invece risponde la voce, mediata testualmente, di un "dio allegoricamente parlando" (quindi da interpretare e decifrare), per l'interrogante fa un'abissale differenza.
La persona che si lascia "rilegare" da una religione con un dio, magari anche rivelato ed incarnato, non sempre si lascerebbe "rilegare" da un'ideologia con un dio allegorico (spesso, non a caso, si deifica inconsciamente ciò in cui si crede); questo è ancor più plausibile soprattutto quando questa persona, oltre a feedback su consone modalità del quieto vivere (non uccidere, non rubare, etc.), interroga la religione sul suo futuro, ossia sulla morte, etc. o su questioni più dettagliate interne a quel quieto vivere.
#612
Citazione di: niko il 29 Gennaio 2023, 14:04:00 PMperche', poi, voi stessi, penso quasi tutti, non riconoscete la stessa identica sfumatura nell'allegorico e nel simbolico nella storia di un uomo -Gesu'- che fa miracoli, moltiplica i pani e i pesci, muore e poi risorge.

Anche quello, potrebbe non essere storicamente e realisticamente vero, ma importante spiritualmente per un lettore.
Lungi da me il voler fare indegnamente le veci dei cristiani del forum, quindi rispondo "da esterno" all'interessante questione che poni. Il grosso limite di ogni interpretazione allegorica, in ambito religioso, è che deve decidere (come?) a che punto smettere di esserlo, per non (auto)distruggere la narrazione stessa che rende tale la religione.
Supponiamo che l'antico testamento sia tutto o quasi un'allegoria; poi che anche il nuovo testamento in fondo lo sia, almeno in gran parte; poi magari supponiamo anche che Cristo non fosse davvero il "figlio di Dio" in senso letterale, non abbia realmente fatto miracoli, etc. ma solo allegoricamente; e così via proseguendo... a questo punto, che resta della religione cristianesimo, al netto dell'allegoria? Una religione? Non più; una visione del mondo? Si, ma senza particolare attendibilità, essendo tutta un'allegoria (di altro-da-sé) e, soprattutto, senza particolare fondamento teologico (essendo anche le manifestazioni di Dio, se non anche Dio stesso, leggibili come un'allegoria, volendo). Ecco che allora tale cristianesimo (o ogni religione, de-allegoricizzata) diventa semplicemente... una politica; un'ideologia social-esistenziale sublimata in narrazione allegorica che ha viaggiato nei secoli, scatenando guerre e influenzando la politica-non-allegorica (quella secolare). Scenario piuttosto difficile da credere per molti cristiani, per quanto aperti all'allegoria (e non è un caso che l'esplicitato valore allegorico delle parabole non sia il medesimo per credenti e non credenti).
Un cristiano che conceda a tutte le pietre angolari del cristianesimo di essere considerate, anche solo potenzialmente, mere allegorie, si ritroverebbe ad essere egli stesso l'allegoria di un credente: quando dice che Dio esiste lo afferma allegoricamente; quando dice di credere in ciò che viene detto e letto a messa, ci crede, ma allegoricamente; quando parla di premi o punizioni post-mortem su cui basa le sue scelte di vita, ne parla allegoricamente; la sua stessa fede sarebbe un'allegoria della sua visione politica (il che non di rado accade già anche in altri casi, ma non divaghiamo); il senso della sua stessa esistenza diverrebbe pura allegoria... non può ammetterlo in quanto cristiano, perché significherebbe vivere in e per un'allegoria (ossia pura alienazione autoconsapevole). Magari può giostrarsi con delle interpretazioni allegoriche "fatte in casa" (ne leggiamo in continuazione anche qui), ma mai così radicali da compromettere ciò che rende tale una religione. Essere cristiani fuori dall'allegoria, o anche solo consapevoli dell'"allegoria religiosa", significherebbe in tal caso essere dei senza-dio che abbracciano una visione politicamente conservatrice, cercando di stiracchiare il significato allegorico di testi antichi (seppur implicitamente desacralizzati) per renderlo minimamente compatibile con la realtà sociale contemporanea. Magari un domani sarà così, magari i religiosi "regrediranno" a persone che sono tenute a spiegare i loro ideali con un minimo di logica, ad affrontare l'incertezza e l'immanenza per quello che sono, etc. ma per ora direi che gli "autorevoli decisori delle allegorie" hanno una loro ragione nel non autodistruggere il cristianesimo, lasciando l'interpretazione allegorica incagliata non troppo oltre l'antico testamento («i tempi non sono ancora maturi» diceva qualcuno, e non è detto che quando lo saranno vivremo tutti meglio).
#613
Grazie per le segnalazioni; il mio interesse era rivolto soprattutto all'autoattribuzione di queste qualità, ossia alla voce di Dio che in prima persona (seppur mediata dagli autori) si dichiara tale. Al volo ho trovato solo alcuni passi sull'onnipotenza (Apocalisse 1:8; Genesi 35:11; Genesi 17:1).
A scanso di equivoci, ribadisco che è solo una personale curiosità filologica; so bene che per un credente le sacre scritture contengono la verità a prescindere dal fatto che il discorso di Dio sia riportato in prima persona o meno.
#614
@Ipazia

Riformulerei, da umile epigono, in «Di ciò di cui non si deve parlare, si può tacere» («Wovon man nicht sprechen darf, darüber kann man schweigen», se il traduttore non m'inganna).
C'è così uno slittamento prescrittivo del motto originale (e sappiamo quanto possano essere ambigue o malinterpretate le prescrizioni), più ammiccante sia al pluricitato "rasoio" sia all'effettivo svolgersi comune del dialogare (forumistico o meno): se non si è costretti a parlare di qualcosa (perché non sono necessari il parlarne e/o il qualcosa), è possibile tacerne. Chi sceglie di non tacerne, di conseguenza, parla di ciò di cui non è necessario parlare, non «si deve» parlare (sempre senza fraintendere tale dovere come prescrizione morale); sia nel senso che si fa allora un discorso contingente (ossia non cogente nel suo fondamento, comunque discutibile), sia nel senso che, richiamando "doverosamente" l'intento originario della citazione originale, si finisce per entrare in un discorso estetico e poco epistemico.


P.s.
@duc
Se come disse Galileo citando il cardinale Cesare Baronio «È l'intenzione dello Spirito Santo d'insegnarci come si vadia al cielo e non come vadia il cielo», figuriamoci se dalla povera filosofia, che si occupa oggi a malapena di come "vadia l'uomo in terra", ci si possa aspettare quella "salvezza" (da un idraulico ci aspettiamo una medaglia olimpica? Da un uomo di fede ci aspettiamo la frase «Forse, Dio Gesù non esiste, quindi non c'è bisogno di ottenere la salvezza»(cit.)?).
#615
Tematiche Filosofiche / Re: Realtà e Verità
27 Gennaio 2023, 11:30:12 AM
@Kobayashi

Green demetr ha ricordato, giustamente direi, che «l'ontologia si dà solo come fenomenologia»(cit.) e, aggiungerei, si corrobora in epistemologia. Se tale fenomenologia è attenta può, anzi secondo me, tende a vagliare (filosofando) la grammatica e la sintassi dell'imprinting culturale ricevuto nell'infanzia. La "sentinella del senso comune" è la prima ad essere bersagliata dal pensiero critico filosofico, non perché sia "sbagliata a priori", ma perché un pensiero, se filosofico, tende ad essere "sentinella di se stesso", ossia vuole essere consapevole del suo rapportarsi al mondo e agli altri, senza demandare la sua fiducia alla sentinella di turno. Senza questa tensione (philein) verso la consapevolezza (sophia) del proprio pensare, dei suoi fondamenti, delle sue modalità di rapporto con le alterità, etc. non sono sicuro si possa fare una solida filo-sofia.

Chiaramente se analizziamo proposizioni come «questa è una mela» o «quello è un albero», c'è poco di teoreticamente filosofico, ma il metodo con cui ne stabiliamo/accettiamo la verità, cogliendo tutti i condizionamenti eteronomi che essa porta con sé, è fondamentale (e senza soluzione di continuità) per il passaggio ad un metodo per affermazioni più impegnative come «questo è giusto» o «quello è bello»: capire come assegno la verità a (il discorso su) l'esistenza dell'albero è il primo passo per capire come, dopo lunga passeggiata per arrivare altrove, posso assegnare la verità a (il discorso su) questioni etiche, politiche, estetiche, etc. Non perché l'assegnazione di verità sia esattamente la medesima (la gnoseologia non è l'etica, ovviamente), ma perché, ad esempio, se assegno alle "verità etiche" uno statuto differente da quelle empiriche, posso chiedermi cosa rende una tipologia di verità differente dall'altra, perché (fenomenologicamente) affermo che «questo è giusto e quello no», etc. e così, per differenziazione, viene squadernato tutto il ruolo dell'imprinting culturale, dei presupposti ideologici, dei pre-giudizi, etc. che mi porta a pensare «questo è giusto» (proprio come accade, mutatis mutandis, con l'affermare «questo è un albero»: tensione alla consapevolezza del proprio pensare).
Prima ancora di interrogarsi sulla verità, se non si è consapevoli del perché si afferma «questo è un albero», difficilmente si potrà essere consapevoli del perché si afferma «questo è giusto».

P.s.
Impopolare opinione personale: nel momento in cui si perde il "contatto" con «questo è un albero» e con la riflessione sulla fenomenologia implicita in questa affermazione, la filosofia sfuma in poesia; affascinante, ma tutto un altro "gioco".