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Messaggi - maral

#601
Citazione di: Sariputra il 28 Settembre 2016, 23:37:48 PM
E poi...perchè il "Sari che va a dormire cessa di essere"? Mi sento fluire in perfetta continuità...non percepisco alcun "spazio" di interruzione nel mio fluire. Sento il cuore pulsare, il sangue fluire, il respiro procedere...non si notano interruzioni tra un ente Sari e un altro. Dove finisce un ente e ne inizia un altro? Solo nel pensiero? Troppo poco per evitare la bastonata del solito , famoso monaco zen... ;D ;D.
Siamo proprio nella metafisica...
Appunto "sento", adesso lo senti, nell'istante presente, perché tutto è solo nel presente che accade: quel Sari che andò a dormire è nel fotogramma attuale del Sari che si sveglia e Sari che si sveglia sente (ossia interpreta) e se la racconta come una storia in cui il protagonista è sempre lo stesso Sari che fa nel tempo cose diverse secondo una logica, magari di causa effetto e tutto secondo norma e regola, c'è un prima un adesso e un poi nel racconto della storia che solo adesso ci facciamo (la potenza delle parole sta appunto nel fare apparire delle storie da raccontare e soprattutto raccontarci a noi stessi).
#602
Citazione di: Phil il 28 Settembre 2016, 23:26:12 PM
Tuttavia, se l'oggetto si mostra nella parola, o meglio, la parola nomina l'assenza dell'oggetto, questa parola può essere "per tutti" perché è convenzione astratta, altrimenti sarebbe parola dotata di senso solo per il soggetto che la pronuncia.
Certo che la parola è astratta se è pubblica, ma non per questo è convenzionale. Sini lo spiega molto chiaramente con la sua descrizione della fenomenologia della percezione uditiva e lo dice anche esplicitamente nel testo che la parola non è un segno convenzionale, anche se così ci siamo abituati a pensarla alla luce di una vecchia metafisica.
E' astratta in quanto trascende sia chi la pronuncia che chi la ascolta e pone sia l'oggetto che il soggetto, ma non è un segno convenzionale tra parlanti che si sono messi d'accordo come fanno i giocatori di briscola (la metafora è di Sini). Ovviamente ognuno può pensarla come crede, ma qualunque oggetto si presenta nel suo stesso presentarsi con parole che lo nominano incarnandone il significato, se non ha ciò che lo dice non ha significato e se non ha significato quell'oggetto non si presenta nella sua oggettualità (né tanto meno può venire detto pre esistente al suo significare, dato che il suo essere pre esistente sta tutto nel suo significare), qualsiasi cosa esso sia. L'essere astratto non implica l'essere convenzionale.

CitazioneNon ho ben colto la differenza a cui alludi fra
Citazione di: Phil il 28 Settembre 2016, 21:06:48 PMfinché qualcosa non ha una sua parola [...] resta non dicibile, non predicabile e non "ragionabile"
e
Citazione di: maral il 28 Settembre 2016, 22:32:21 PMsolo se l'esperienza è resa dicibile da una parola può presentarsi davanti a noi come una cosa
Non sono forse due affermazioni complementari? Entrambe affermano che ciò che non è dicibile con una parola non ha un'identità linguistica e quindi non è una cosa (predicabile), e non essendo una cosa (per qualcuno o per tutti) non ci si può ragionare...
C'è qualche identità non linguistica secondo te? Io penso di no, se anche tu la pensi così, allora le due affermazioni si equivalgono.

CitazioneO anche, rispettando la differenza fra ontologia e semiologia, potremo dire con Wittgenstein "I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo".
Io toglierei quel "mio" e direi che i limiti del linguaggio sono i limiti del mondo. Il linguaggio non è mio, proprio come il mondo, né c'è un mondo mio come non c'è un linguaggio mio.
Citazione
Questa logica sequenziale e contestuale mi pare davvero simile al cosiddetto "divenire", anche se riguarda enti postulati come eterni (giacché l'eternità può essere solo una congettura) che appaiono e scompaiono... secondo me, proprio come nel caso di Zenone citato settimane fa, anche qui si rischia di perdere di vista la realtà per incartarsi in falsi problemi meta-fisici  :)
l'eternità dell'ente non è una congettura, per quanto possa apparire strampalata (e infatti poi Sari mi chiede "ma ci credi veramente?", pensando che effettivamente solo un matto completo può arrivare a credere sul serio una simile strampaleria, e Sari non ha tutti i torti) non lo è. La filosofia di Severino per quanto complessa e ardua risulti, è di base semplicissima, afferma semplicemente il principio di identità in modo assoluto e incontrovertibile e il principio di identità è una banalissima tautologia (l'ho provata a spiegare a Sgiombo ma non ci sono riuscito, lui continua a pensare che l'identità tautologica è rispettata nel divenire e che se dico che ora questo A è A, domani può tranquillamente, questo stesso e medesimo A di oggi, essere B, senza vederci nessuna contraddizione). Comunque mi sembra chiaro che l'apparire non è il divenire se il divenire significa venire a essere altro rimanendo tuttavia lo stesso. Dire che è la stessa cosa sarebbe come dire che il coniglio che sbuca apparendo dal cappello del prestigiatore è un coniglio che si crea (diviene) dal nulla, e quando nel cappello vi scompare di nuovo dentro che quel coniglio è finito nel nulla. Mi pare che la differenza sia facile da capire.
#603
La differenza sta nel fatto che se il "Sari che va a dormire" diventa il "Sari che si risveglia" il "Sari che va a dormire" cessa di essere, non è più), mentre per Severino solo cessa di apparire, ma continua eternamente ad esserci e questo significa che potrà anche tornare ad apparire proprio come tale.
#604
Infatti Severino considera assurdo il concetto dell'essere in potenza, lo considera contraddizione assoluta.
Per questo Sari che va a dormire, non è lo stesso Sari che scrive, altrimenti non si potrebbero distinguere. Benvenuto dunque al nuovo ente Sari e buon riposo, in attesa del prossimo Sari che si sveglia  :)
(la logica della sequenza dell'apparire c'è, è data dal contesto che richiama questi diversi eterni necessariamente ad apparire in questo ordine, e non in un qualsiasi altro).
#605
La cosa "Monte Bianco" non è una cosa, ma è una parola, perché "Monte bianco" è una parola che non indica una cosa, ma un'esperienza in cui non c'è cosa, ma l'assenza della cosa. l'assenza dell'oggetto che viene a starci davanti (ossia a stare davanti al soggetto che l'espressione vocale crea per "rimbalzo", come dice Sini) proprio in virtù della parola.
Sini non si limita allora a dire che  "finché qualcosa non ha una sua parola, una sua nominazione, resta non dicibile, non predicabile e non ragionabile" che sarebbe effettivamente una banalità, come nota Sgiombo, ma dice che solo se l'esperienza è resa dicibile da una parola può presentarsi davanti a noi come una cosa, solo se è dicibile il Monte Bianco è la cosa Monte Bianco.
Qui vale il verso di Holderling, citato da Heidegger: "nessuna cosa è ove la parola manca"
#606
Ma Phil, se si dice:  "la cosa empirica può stare lì davanti solo perchè la parola ha nominato l'assenza, il per tutti" come fa la cosa empirica a starci davanti lì per tutti senza che la parola ne nomini l'assenza? Certo che la cosa empirica (intesa come esperienza) c'è? ma cos'è quella cosa empirica? Un monte? un cavallo? Carlo Sini? un fungo? Solo nella parola la cosa empirica che è esperita come relazione ci si mostra davanti oggettualmente (come oggetto per tutti) e non certo per mera e arbitraria convenzione.
Sini è molto chiaro quando descrive l'esperienza di un bambino di un anno che ha fame, noi diciamo che "ha fame", perché abbiamo la parola per dire e intendere "fame" e quindi per dire e intendere un bambino come un soggetto che ha fame, la fame esiste per noi oggettivamente nella nostra parola, per quel bambino la fame è lui stesso, lui è la fame perché non sa dirla, lui è la pappa, perché non ha parola per dirla. E certo che ha fame, ma quello che noi intendiamo per fame non è l'esperienza che lui vive prima della parola, non è per nulla la stessa cosa. Ed è la stessa cosa che dicono Maturana e Varela quando scrivono della necessità di distinguere il mondo descritto dall'osservatore e quello che vive l'unità vivente come tale. Poi anche loro per distinguere tra questi mondi devono usare le parole, non possono fare altrimenti. La parola in tal senso crea il mondo dell'osservatore che è essenzialmente il nostro mondo, il mondo ove abitiamo in cui le cose possiamo intenderle solo come significati, pur non essendo i significati delle cose.
#607
Citazione di: sgiombo il 28 Settembre 2016, 18:46:44 PM
Dunque -se ben capisco- secondo Sini quando nessun uomo in grado di parlare era ancora comparso sulla terra, e dunque non esisteva la parola (o meglio la locuzione costituita da due parole) "monte Bianco" il monte Bianco non esisteva (come insieme di sensazioni fenomeniche nell' ambito delle esperienze coscienti di altri animali già esistenti (per esempio aquile, stambecchi, lupi, ecc.).

Non sono d' accordo.
Sgiombo, quello che Sini (e non solo Sini che si riferisce a tutta una corrente fenomenologica pragmatica di pensiero che si rifà a Wittgenstein, Husserl, Whitehead, Pierce, Mead, Derrida e via dicendo) viene dicendo è che per l'essere umano, in quanto essere continuamente parlante, le cose esistono solo nel loro significare e questo significare è parola, le cose sono inseparabili dalle parole con cui le si nomina. Non è che io vedo qualcosa e poi mi invento o convengo con degli altri su una parola per farne segno della cosa evocandola quando quella cosa non mi sta davanti, subito la parola si presenta se c'è la cosa, per il fatto che c'è come un significato, un'espressione vocale che ha un significato che risuona. Che poi questa espressione vocale sia diversa da lingua a lingua dipende dai dai contesi culturali contingenti e locali, ma la parola, qualsiasi essa sia, è necessaria alla cosa, proprio per poterla considerare oggettiva, condivisibile. E' alla luce del significato di questa parola "Monte Bianco" che noi riteniamo che quella cosa sia un monte (altra parola) e che quel monte è una parola che significa che quella cosa deve essere sempre esistita ed esistita per tutti, dove "esistita per tutti" sono ancora parole. E' implicito nella parola umana il significato di qualsiasi pre esistenza, non nella cosa. Per un bambino appena nato, per le aquile, gli stambecchi e i lupi che magari vivono sul monte, il monte non lo esperiscono come ciò che noi consideriamo monte vedendo degli stambecchi che ci si arrampicano sopra e attribuendogli di conseguenza il significato che noi gli diamo, non c'è per loro un soggetto che conosce qualcosa che sta fuori da lui come qualcosa a se stante più o meno permanente. Non è il "monte". perché non c'è né il monte né un me che possa concepirlo tale, con il significato (compreso quello di essere pre esistente a ogni esistenza) che noi, in quanto parlanti gli attribuiamo. Cos'è allora quel monte per essi che non hanno parola per concepirlo? Cos'è il monte prima di nominarlo? è un puro accadere in cui non è presente alcuna specificazione oggettuale, non è presente né soggetto, né oggetto, né monte, né stambecco che sta sul monte e nemmeno alcuna pre esistenza, perché l'accadere accade solo adesso e quando non accade non c'è e precede ogni distinzione tra dentro e fuori. E' solo la parola che lo fa rimanere e la parola costruisce la metafisica che lo pone e la scienza stessa, umana, che lo definisce e lo studia, perché anche la scienza, anche la matematica si esprime a parole.
Come vedi siamo all'opposto del pensiero severiniano e ai suoi enti eterni, ma alla fine si arriva a qualcosa di molto simile, se intendiamo che l'ente è il suo stesso completo significare in un mondo che per l'uomo implica il suo nome non come un'aggiunta arbitraria o semplicemente convenuta a posteriori potendo anche non convenirne: la cosa non è altro che il suo nome che risuona a tutti noi per come risuona.
#608
Citazione di: Sariputra il 28 Settembre 2016, 14:57:52 PM
Nel reale infatti osserviamo che l'entità seme, diventa l'entità germoglio e poi l'entità albero. Dov' è andato l'ente seme quando percepiamo l'ente albero ? Non è "scomparso" nel Nulla , ma si è trasformato nell'ente albero, che diventerà ente humus e così via in eterno...Questo non mi sembra contraddica il principio di identità. Quando il seme esiste come seme è un seme, quando esiste come germoglio è un germoglio, e così via. Quando è albero non sarà certo roccia; quando è seme non sarà ancora albero.
Ma se il seme si è trasformato nell'albero, il seme non c'è più. quindi l'ente seme è diventato nulla e da quel nulla del seme è saltato fuori l'albero. E pur tuttavia per dire che il seme è diventato albero, fa notare Severino, ho bisogno di pensare quel seme presente nell'albero. La contraddizione sta qui e alla luce del principio di identità Severino ha ragione. Il seme in quanto è seme non sarà mai un albero proprio come non sarà mai una roccia; seme, albero e roccia sono tre enti diversi che vengono ad apparire. Nel caso di seme ed albero, essi hanno qualcosa in comune per cui l'apparire del seme richiama quello dell'albero facendoli apparire uno dopo l'altro, ma restano nella loro concreta interezza due enti diversi ed eterni (la sostanza del seme resta sil seme, esattamente come quella dll'albero l'albero per come sono in ogni minimo dettaglio).
Si noti che il mutare è percepito come minaccia (oltre che una grande opportunità di potenza) da tutto il pensiero occidentale che, per porsi al sicuro dal divenire inesorabile in cui fermamente crede, immagina enti privilegiati, eterni, sottratti al mutare (Dio è il classico esempio) che possono salvaguardarci. Severino nega che ci sia alcuna necessità di questi enti privilegiati, poiché tutti gli enti in quanto tali sono eterni.
CitazioneTra l'altro, se non comprendo male, il portare alle estreme conseguenze il concetto di enti ( come fa Severino, mi par di capire) fa rientrare dalla finestra il concetto di Divenire, da lui negato e ritenuto cacciato dalla porta. Infatti, se tutti questi infiniti enti appaiono e devono seguire una logica nell'apparire, in che cosa differiscono dal divenire stesso? Dire che un corso d'acqua fluisce per la somma di infinite, eterne e immutabili, goccioline o dire che infinite goccioline si trasformano in un corso d'acqua fluente non è, di fatto, la stessa cosa?
La differenza è che nell'apparire l'ente non diventa mai nulla, mai altro da ciò che è e continua a mostrarsi in infiniti contesti diversi e questo continuo poter apparire di tutti gli enti nelle relazioni che li richiamano è quella che Severino chiama Gioia della Gloria contrapposta alla Terra Isolata in cui il continuo apparire degli eterni è concepito come divenire dei morenti che sono solo per un istante infinitesimo, tra il nulla originario e il nulla che li attende. In tal senso il feto, il bimbo, l'adolescente che pensi di essere stato e il vecchio che pensi sarai non sono l'ente che sei essendo diversi e questa storia appartiene solo all'ente che ora sei e che, in quanto è, è sempre.
Citazione di: Phil il 28 Settembre 2016, 16:41:22 PM
Concordo; inoltre mi sembra problematico proprio il definire l'identità dell'ente eterno; va bene astrarre logicamente in "A" e "B", ma concretamente (onticamente): se io che adesso scrivo, sono un ente diverso dal me che 15 minuti fa stendeva i panni, non diventa puro arbitrio (e quasi capriccio) distinguermi e scandirmi in enti potenzialmente infiniti?
Per Severino, al contrario è proprio il pensare astrattamente che conduce al divenire, mentre pensare concretamente l'ente per come è fa emergere la sua necessaria (quindi mai contingente) eterna specifica identità che gli è propria (differente da quella di qualsiasi altro ente). E' la peculiarità differente di ogni ente a essere eterna e insopprimibile. Detto questo noi non possiamo immaginarci che come una storia, ma questa storia è sempre in un eterno presente, è il presente di ciò che siamo che si presenta (appare) sempre come memoria di un passato e aspettativa di un futuro.
Non aggiungerò altro qui su Severino, altrimenti il discorso si farebbe troppo esteso, ben oltre il tema trattato.
#609
Per meglio chiarire ancora la questione mi rifaccio a un testo di Sini che è su posizioni pragmatiche ben diverse da quelle severiniane.  Nell'opinione comune, osserva Sini, si pensa che le parole siano dei segni convenzionali per indicare o evocare (nominare) l'assente. Se dico ad esempio "cavallo" io evoco quel particolare ente che è un cavallo quando ad esempio non abbiamo un cavallo sotto gli occhi. La parola sta al posto della cosa che non c'è. Ma, fa ancora notare Sini, per potersi accordare che la vocalizzazione (il segno vocale) "cavallo" significa l'animale in questione, dobbiamo già avere un linguaggio e delle parole e delle parole. Ma, aggiunge, "il fatto fondamentale è che la cosa della parola è assente anche quando, per ipotesi, la cosa stessa sia presente. La presenza davanti a noi di un cavallo non renderebbe meno assente l'oggetto della parola "cavallo". E inoltre noi non potremmo avere alcuna "cosa" nella presenza, alcun "cavallo", se già prima non si fosse per noi aperto lo spazio della parola, della nominazione... le cose si manifestano nelle parole e non prima di esse, così che noi possiamo stabilire dei segni che vi rimandino." (da C.Sini "Il silenzio e la parola")
Questo significa, che anche chi pensa in modo esperenziale e strettamente fenomenologico, senza alcuna implicazione metafisica ontologica, che nessuna cosa può essere prima della parola che la nomina, cosa e parola sono sempre insieme, sono il frutto di una rete di relazioni assai complessa che sola ce ne dà presenza reale e significato, sempre indissolubilmente e originariamente insieme.
#610
Citazione di: Phil
Se posti il link dell'articolo, lo leggo volentieri (se non è troppo "tecnico"!).
Purtroppo non lo ritrovo, ma comunque non era un articolo, solo si annunciava che alcuni studiosi ritenevano, sulla base della analisi linguistica condotta su diverse lingue, che fosse possibile ravvisare una radice comune dei termini, mentre altri contestavano questo argomento sull'analisi di altri termini. In ogni caso la questione se sia o meno esistito un originario linguaggio universale (prima della mitica Babele), non credo sia determinante per stabilire se le parole esistono di per sé o meno.

Per quanto riguarda la questione sul divenire e come la intende Severino se ne è molto discusso a suo tempo nel vecchio forum. Comunque in breve Severino parte dalla tautologia di ogni ente che si basa sul principio di identità (A è A) su cui non si può dubitare. Se A è A non potrà mai essere qualcosa di diverso da A nella sua concreta presenza (ove concreta significa completamente definita) da quello che è, quindi non solo Phil che adesso legge questo messaggio è mai stato un oocita, né un embrione, né un feto, tutti enti diversi da quello che Phil che legge questo messaggio è, ma non è nemmeno il Phil che qualche ora fa scriveva un altro messaggio, anche costui è un ente diverso ed eterno, non potendo mai essere altro da quello che è. Severino considera la fede nel divenire la follia e la violenza estrema dell'Occidente (che si esercita ogni volta che si vuole far diventare una cosa un'altra cosa), appunto perché con essa si crede che le cose possano essere ciò che non sono, pur restando ciò che sono (se dico che A è diventato B, dico che pur non essendo A B a un certo momento A è davvero B, e per diventare B A si è annullato pur rimanendo A).

CitazioneMa come si risolve che il percettore percepisce il mutamento e non questi enti eterni?
Ottima domanda, infatti fenomenologicamente gli enti eterni non appaiono. Ma per Severino  noi non percepiamo affatto il mutamento, il mutamento che crediamo di percepire è solo il frutto di una volontà di crederlo (noi non percepiamo A che diventa B, ma A e B e poi affermiamo volendolo credere che l'uno è diventato l'altro). Questa fede sostiene che le cose possano cambiare pur rimanendo le stesse (lo stesso uomo che da embrione diventa bambino, poi adulto, poi  vecchio poi cadavere pur rimanendo il medesimo uomo). Questo errore è dato dal pensare astrattamente le cose non nella loro concreta ed effettiva interezza che è eterna e si manifesta nella dimensione di un continuo sopraggiungere e passare oltre degli enti eterni nei vari contesti di significato in cui parzialmente si mostrano. La dimensione in cui appaiono gli eterni è dunque quella di un immenso fluire la cui totalità è infinita.

Comunque anche partendo dall'idea pragmatica opposta che si basa sul principio che tutto è un continuo divenire di relazioni che continuamente si intrecciano, la questione se sia più fondamentale e originario l'oggetto o il suo significato soggettivo perde di senso ed è appunto a questa posizione (sicuramente meno sconvolgente di quella severiniana) a cui mi ero riferito, anche nei riferimenti ai testi tratti da Maturana e Varela.
#611
Tematiche Filosofiche / Re:IL RITORNO DI PROTAGORA!!!
27 Settembre 2016, 22:54:43 PM
Ma perché mai ce l'avete tanto con Protagora sofista e democratico per eccellenza?
#612
Citazione di: Phil il 26 Settembre 2016, 19:44:09 PM
Mi sembra sia invece proprio la distinzione fra tipi o classi di concetti che rende possibile il ragionare e la conoscenza (su cui condivido il "prospettivismo" della citazione): dire "tanto" è molto più impreciso di dire "10", per cui sono concetti gerarchicamente differenti per affidabilità e precisione (a anche la rispettiva "astrazione" è differente per rigore)
E perché mai? 10 ti dice quanti sono, "tanti" ti dice con pari esattezza e astrazione che quei dieci sono tanti che, in quanto tale, quel 10 non te lo dice. Non vedo quale maggiore finezza ci sia in un 10 rispetto a un "tanti", ognuno dei concetti ha la sua specificità e messi insieme si integrano reciprocamente in un significato più complesso.

Citazionecosì come il concetto di "mio padre" e quello di "mio angelo custode" non sono qualitativamente accostabili perché uno dei due è ancorato alla percezione, alla comunicazione diretta, etc. mentre l'altro è una suggestione o una fede (quindi non sperimentata).
Resta il fatto che la maggiore veridicità dell'uno rispetto all'altro è il risultato di un'interazione di significati, non è che i padri sono in sé e per sé e invece gli angeli custodi no. Entrambi sono significati che veniamo scoprendo (non inventando dal nulla) nei contesti di significato da cui la nostra esistenza cognitiva acquista un senso.
In realtà non ci sono pioli di una scala in salita, solo contesti diversi che riflettono possibilità di senso cognitivo diverse. E certamente trovandosi dislocati tra queste possibilità si cade, ma si cade perché non ci si trova in sintonia con quello che il mondo (qualsiasi cosa sia) ai più riflette e ci si può fare molto male, anche se si è sempre sul piano orizzontale che comunque ci si trova.

CitazioneIndubbiamente si inventa sempre partendo da ciò che si ha a disposizione, avevo già premesso che l'invenzione non è ex nihilo...
Infatti parlavo del nulla dell'ente, non del nulla assoluto. Il nulla dell'ente è la fede che quell'ente viene da qualcosa che non è quell'ente, dunque quel qualcosa che non è quell'ente è il suo niente (il niente di quell'ente). E' questa la contraddizione che un ente sia stato e sarò il suo niente (Severino docet  :) ).

CitazioneCredo che (escludendo iperuranio, inconscio, mondi paralleli, volere divino, etc.) resti aperta la domanda:[/size]
Sostenere che "qualcosa è, ma non è da nessuna parte fino a che non accade", non è una machiavellica perifrasi per dire "nasce" o, nel nostro caso, "viene inventato"?

Domanda non risolta dalla congettura
Se nascere vuol dire viene inventato nulla nasce, se vuol dire si lascia scoprire, allora ogni cosa (concetti compresi) possono nascere e quindi morire. Se iperuranio, inconscio, mondi paralleli, volere divino li intendiamo come luoghi ove si trovano gli enti che non appaiono è una contraddizione affermarlo, oiché se lo fossero in qualche modo quegli enti in quei luoghi sarebbero apparsi. Il luogo appare sempre solo insieme all'ente: l'ente è il luogo in cui si manifesta, ma quando non si manifesta nulla di esso appare, men che meno il luogo, ma questo non vuol dire che non è.  
Citazione...Prima di questa manifestazione, fosse anche solo linguistica, se non è "fede metafisica" quella che ci spinge a dire "eppure già esisteva...", in base a cosa possiamo affermarlo? Se qualcosa non ha ancora un nome e non è in un luogo (o meta-luogo "virtuale"), come possiamo, al suo apparire, supporre retroattivamente che esistesse già da prima?
Sull'essere contraddizione il dire che qualcosa che assolutamente non è (che è il suo niente) poi si manifesta come quell'ente che è. A non può diventare B, perché B in quanto B è il niente di A così come A in quanto A è il niente di B.
CitazioneCome suggerivo: le note hanno senso solo nello spartito, ma lo spartito ha senso solo se contiene note... si scrive musica da sempre oppure partendo dal "modulare la voce" qualcuno ha inventato note e spartito?
Ma si può modulare la voce in un canto senza che vi siano note con cui modularla? Ci sono le note e c'è la voce, solo se sono messe insieme abbiamo un canto. Se poi il canto vogliamo anche riprodurlo, allora magari lo scriviamo pure e lo spartito allora ci garantisce nella sua scrittura il poter tornare ad apparire di quel canto quando la memoria fa difetto. Na il né il canto né le note diventano spartito.
CitazioneCuriosando su Chomsky, ho trovato questo articolo divulgativo che parla di innatismo, tanto/poco, e numeri
E' il bello della scienza, si possono sempre trovare prove che confutano una teoria (soprattutto in questo campo), figurati che io ho trovato pure un articolo che affermava che probabilmente non solo la sintassi fosse innata, ma pure la terminologia fosse riconducibile a un'unica fonte originaria. Comunque non ho problemi a dichiararmi d'accordo con Everett: grammatica e numeri si scoprono (e non si inventano) grazie alle interazioni sociali, esprimono relazioni non cose.
#613
Citazione di: sgiombo il 26 Settembre 2016, 19:18:06 PM
Maturana e Varela dovrebbero però, prima di affermare che la conoscenza è indipendente dall' osservatore, dimostrare che oltre alla realtà di quanto percepito fenomenicamente esiste anche un' osservatore (evidentemente dai fenomeni percepiti diverso, trattandosi di un' ulteriore ente reale oltre ad essi). Ma poiché sostengono che non vi è alcun oggetto di conoscenza, non vedo come possano poi (immediatamente di seguito, a mo di conseguenza!) affermare che fondamentalmente conoscere è essere capace di operare adeguatamente in una situazione individuale o cooperativa: di quale "situazione individuale o cooperativa" e di quale "capacità di operare adeguatamente" parlano, se non vi è alcun oggetto di conoscenza (dunque nemmeno è conoscibile –oggetto di conoscenza- alcuna situazione individuale o cooperativa" né alcun "operatore più o meno adeguato ad essa")?
Se invece intendessero dire (non li ho letti, e trovo oscura la tua citazione, che forse potrebbe essere intesa in questo senso) che ciò che può essere conosciuto è unicamente costituito da sensazioni o insiemi di sensazioni, fenomeni e non "realtà in sé o noumeno sarei perfettamente d' accordo.
Il discorso di Maturana e Varela parte dal tentativo di individuare il vivente a prescindere dalla descrizione che ne dà l'osservatore con la sua concettualità astratta che stabilisce astrattamente un mondo esterno che fornisce degli input e un mondo interno che li riceve e risponde con degli output. L'unità vivente funziona come una macchina autopoietica che varia di struttura conservando la propria organizzazione che la mantiene unitaria per cui non conosce nulla di ciò che sta fuori di essa (questo non significa che non vi è nulla fuori di essa, solo che non si può conoscere se non nelle sue rappresentazioni interne), ma continuamente funziona in situazioni individuali e cooperative, ossia interagendo. L'osservatore è solo una macchina autopoietica in grado di sviluppare un dominio linguistico che aumenta le sue possibilità di autopoiesi. In altre parole il processo cognitivo non conosce alcun "oggetto reale fuori di noi", ma è solo un continuo modo di relazionarsi per mantenersi.
Ovviamente, come osservi, anche questo è detto da un osservatore che sceglie un contesto pragmatico (fondato sulle relazioni anziché sulle cose) in cui quello che dice risulta valido nel momento in cui riesce a superare le contraddizioni e i problemi di una metafisica tradizionale (compreso anche quello tra significato della cosa e cosa) che presuppone un mondo oggettuale esterno e uno interno, senza avvedersi che tutti gli enti che considera nella loro realtà oggettiva appartengono solo al discorso astratto dell'osservatore. 
Anche che tre mele o sette colle esitevano prima che qualcuno ne avesse esperienza rientra nel discorso astratto dell'osservatore: come può dirlo? E' solo la sua esperienza attuale che glielo rivela (e , sia ben chiaro, non è che rivelandoglielo glielo fa inventare, come se fosse lui con il suo pensiero a creare i sette colli dal nulla), è solo in virtù della relazione attuale che ha con il mondo per come si riflette a lui come significato che può dire che "i sette colli su cui è sorta Roma esistevano anche quando nessun uomo li aveva visti e men che meno contati", ma nemmeno questo significato dei colli è sorto per progressive trasformazioni dentro la testa di qualcuno da un suo originario essere nulla, nemmeno esso si è creato.

CitazioneSo bene che Chomsky sostiene essere il linguaggio innato, ma amicus Chomsky, sed magis amica veritas (detto meno pomposamente: la sua autorità non basta a convincermi)
Ni stupisce questa tua affermazione, dato che Chomsky basa la sua asserzione sullo studio della costanza delle strutture sintattiche nelle diverse lingue, è un innatismo, il suo, fondato su una verifica oggettuale, nella quale mi pareva che anche tu credessi. Ma forse, come poi è un po' di tutti, lo accetti solo nella misura in cui non contrasta con i tuoi presupposti metafisici oggettuali a cui quella "veritas" pare alludere  ;)
#614
Tematiche Filosofiche / Re:IL RITORNO DI PROTAGORA!!!
27 Settembre 2016, 10:41:14 AM
Interessante il richiamo a Protagora in relazione al quesito costituzionale.
Come si sa di Protagora c'è arrivato un solo frammento (il famoso "l'uomo è misura di tutte le cose") e il mito che, nel dialogo che porta il suo nome, Platone dice che raccontasse in giro. In quel mito sta la ragione della democrazia (non per nulla nella Atene democratica di Pericle i sofisti erano i protagonisti, i fondatori del pensiero democratico).
Protagora fu certamente un grande pensatore e nel mito presenta a Socrate le cose in questo modo: quando il mondo fu creato Epimeteo, il titano incaricato di dare agli esseri viventi i doni naturali dimenticò l'uomo che rimase il più debole e incapace, per rimediare alla dimenticanza intervenne allora suo fratello Prometeo che donò all'uomo negletto la capacità tecnica con la quale poteva asservire il mondo intero, ma questa capacità si rivelò catastrofica, perché gli uomini cominciarono a usarla gli uni contro gli altri, massacrandosi a vicenda. Di nuovo ci voleva un rimedio e questa volta ci pensò Zeus che, dall'alto dell'Olimpo, regalò agli esseri umani la capacità politica, ossia quella capacità di mettere a confronto le proprie opinioni e trovare le migliori soluzioni per la polis, la comunità umana. Ma la cosa più importante è che questa capacità, Zeus sommamente giusto, la consegnò in pari misura a ogni essere umano, tutti divennero così capaci di esercitarla.
Come è noto la visione democratica di Protagora non era molto condivisa dall'aristocratico Platone la cui utopia è la Repubblica retta dai filosofi, i migliori e i soli che sanno gestire la comunità (oggi una cosa simile non oserebbe certamente proporla nessuno) e infatti il suo Socrate obietta a Protagora che il rischio a cui espone quella visione democratica è che alla fine prevalgano i turlupinatori (i Renzi e i Berlusconi dell'epoca, che quando li senti parlare ricordano tanto i piazzisti ambulanti di un tempo), quelli che fanno credere di lavorare per il bene di tutti, mentre in realtà lavorano (e questo è un lavoro che reca grande diletto, perché non tutti i lavori sono uguali) a proprio vantaggio, sfruttando le proprie capacità di convincimento retorico di cui i sofisti erano tecnici e maestri. Nonostante sia chiaro come la pensasse l'antidemocratico Platone, lui onestamente non conclude il dialogo: Socrate e Protagora non arrivano ad alcuna conclusione, ma  rimandano a un successivo incontro, anche se Platone poi non scrisse mai la seconda puntata. Forse la conclusione spetta a noi cercarla e forse consiste appunto nel tentare di informarsi al meglio e capire qual è il punto di vista da cui parlano gli informatori, tenendo presente che il rischio di venire turlupinati c'è comunque sempre, è inevitabile, è una nostra predisposizione e fa parte del gioco, che pur tuttavia è sempre un gioco migliore rispetto a quando uno o pochi, fossero pure grandi sapienti e filosofi, decidono per tutti. Eh già, la democrazia richiede un gran lavoro a ognuno, altrimenti non sta in piedi, non basta vederla solo nell'andare a votare (che benché sia cosa minima, pur tuttavia è un dovere democratico sempre più trascurato), il dono di Zeus è molto impegnativo e faticoso e, si sa, il lavoro stanca, meglio far lavorare gli altri credendo che lavorino per noi come ci assicurano di fare, mentre loro, certamente grandi lavoratori, lavorano di sicuro e felicemente per se stessi, come sempre, mentre ci illustrano le meraviglie del paese della cuccagna che vanno alacremente allestendo.
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Citazione di: sgiombo il 25 Settembre 2016, 10:10:21 AM
Ma se usiamo quelli a me comprensibili di "cosa reale" (indipendentemente dall' eventuale essere anche pensato, dall' essere inoltre oggetto di pensiero, eventualmente di conoscenza vera) e "concetto pensato" (reale unicamente in quanto pensato; anche se può esistere -o meno- pure una "cosa reale" da esso denotata), allora non mi sembra che non abbia obiettato efficacemente a Phil: gli enti reali esistono anche indipendentemente dall' esistenza degli eventuali concetti che li denotassero, come dimostra l' esempio di "inflazione" intesa come concetto economico (che sul vocabolario ha una definizione diversa, pur sotto lo stesso lemma, di "inflazione" in senso fisico: per lo meno il primo concetto (l' aumento del denaro in circolazione e dei prezzi) con tutta evidenza non è innato, sempre esistito "inconsciamente" nella mente degli uomini in attesa che qualcuno lo conoscesse a priori: è stato "confezionato" dopo che qualcuno ha studiato l' economia capitalistica, e la parola che lo simboleggia é stata adottata da tutti i parlanti convenzionalmente. Se l' umanità si fosse estinta all' età della pietra nessuno avrebbe mai saputo a priori che cosa significa "inflazione" in senso economico.
Sgiombo se parliamo di "cose reali" filosoficamente complichiamo enormemente la faccenda rispetto al termine elementare di essente. Perché la realtà non è semplicemente data, ma si dà a ciascuno nelle sue rappresentazioni e stabilire un senso universalmente valido di questo darsi è impossibile. Richiamo ancora un passo da "Autopoiesi e cognizione" che, lo si condivida o meno, trovo interessante da proporre alla riflessione:
"Dato che la logica della descrizione è la stessa logica del sistema descrivente, possiamo asserire il bisogno epistemologico di un substrato perché avvengano le interazioni, ma non possiamo caratterizzare questo substrato in termini di proprietà indipendenti dall'osservatore. Ne segue che la realtà come un universo di entità indipendenti delle quali possiamo parlare è necessariamente una finzione del dominio puramente descrittivo, e che noi dovremmo infatti applicare la nozione di realtà proprio a questo dominio di descrizioni col quale noi, il sistema descrivente, interagiamo con le nostre descrizioni come se fossero entità indipendenti, dunque la domanda su cosa sia l'oggetto della conoscenza" perde di ogni significato: non vi è alcun oggetto di conoscenza, fondamentalmente conoscere è essere capace di operare adeguatamente in una situazione individuale o cooperativa (p.104).
A proposito del concetto di inflazione, che mi assicuri si riferisca originariamente al denaro (anche se io ne dubito), faccio notare che anche "denaro" è un concetto ed esiste solo come tale, dunque inflazione sarebbe un concetto applicato a un altro concetto, lo stesso vale per "tanto" e per "poco", anche loro concetti, come lo sono i numeri. "Tanto" e "poco" sono termini che risuonano più imprecisi rispetto ad esempio a "125307" o "2", ma non per questo meno astratti. Tanto e poco, come i numeri, si riferiscono a insiemi di oggetti distinguibili considerati astrattamente insieme, ma pure "insieme" e "distinguibile" sono concetti. Quindi è sempre tra concetti che ci si muove e non trovo che ci siano ragioni per fissarne una tipologia più "realistica" rispetto a un'altra, o, se ci fosse, bisognerebbe spiegare perché... ma per  spiegarlo bisognerebbe ancora ricorrere a concetti, quindi la faccenda non si risolverebbe mai.
Citazione di: Phil il 25 Settembre 2016, 12:22:53 PM
Se un essente è (uso il tuo linguaggio, ma condivido con sgiombo la differenza "ente vs essente"), il suo essere dovrebbe logicamente avere una sua "dimensione" (sia essa meta-fisica, inconscia, iperuranica o altro), poiché ciò che è ma non ha "luogo", è solo il nulla in quanto concetto nominato. E non credo si possa parlare, almeno in occidente, di "innatismo dal nulla"...
Perfettamente d'accordo, nemmeno io sostengo l'innatismo dal nulla (e per questo nego che si inventi alcunché, se inventare è costruire gli enti dal loro nulla originario). Quello che nego è che il luogo dell'ente nascosto appaia, in quanto il luogo dell'ente (e lo stesso luogo in cui andarlo a cercare) è determinato dal suo apparire cosicché scopro l'ente insieme al luogo ove ha luogo, non quindi come essente, ma come esistente, ossia non in sé, ma per me.  Prima l'ente non aveva luogo perché, pure essendo, non era per me (o per noi se lo condividiamo). Ma se l'ente non ha luogo, non sono propriamente nemmeno io a scoprirlo nel luogo, ma è esso a scoprire me che ho un luogo in cui poter essere scoperto e scoprendo me scopre se stesso.   
Citazione di: sgiombo il 25 Settembre 2016, 10:10:21 AMMa i gruppi di cose simili diversamente numerosi  (tre mele o tre pere, sette colli o sette laghi, dieci dita delle mani o dieci dita dei piedi, ecc.), esistevano prima dell' invenzione per astrazione da essi dei numeri naturali e della matematica.
E i rispettivi concetti astratti (i numeri naturali) esistono a posteriori, previa astrazione e non priori, nelle menti di chi li pensa.
Ma il problema è esattamente il medesimo: per dire che tre mele o sette colli esistevano prima di 3 e 7, occorre che 3 e 7 esistano; per contare fino a 3 e fino a 7 occorre che quei concetti esistano prima di contare e quindi non è che contando si arriva a definire il numero, ma contando facciamo esperienza del numero e quindi esso si mostra, ha luogo e ha luogo nel nostro contare.
Esattamente come per convenire sul significato delle parole è necessario che le parole ci siano, ossia è necessario che ci sia già un linguaggio comunicativo che abbia dei segni fonetici o gestuali che di fatto sono già parole.
Mi fermo qui per evitare di estendere troppo il discorso o dargli una vena eccessivamente polemica che nuocerebbe alla comprensione effettiva della questione.