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Messaggi - maral

#616
Citazione di: Phil il 24 Settembre 2016, 17:12:43 PM
Cercando di restare sul piano ontologico (anche se il mio era perlopiù linguistico), non confonderei gli enti con i concetti: gli enti non si inventano, i concetti direi di si (non ex nihilo, ovviamente...), altrimenti il concetto di "inflazione" sarebbe dovuto esistere prima dell'invenzione del denaro... e ciò è ammissibile solo con una fantasiosa teoria neo-platonica, o mistica, in cui tutto il pensabile c'è già, da qualche parte (metaforicamente parlando, ma non troppo...) e noi ci limitiamo, epoca dopo epoca, ad attingere da questo "serbatoio concettuale eterno e completo" (è questa per me la congettura ardua da sostenere, se non per "fede"... ma non voglio impantanare il discorso con speculazioni ontologiche).
In termini ontologici è ente tutto ciò che è essente come unità, non alcuni elementi degli essenti, dunque anche i concetti sono essenti solo in virtù del loro esserci. E, dal punto di vista della sola essenza tutti gli enti sono perfettamente equivalenti, non ve ne sono alcuni che precedono altri in essenza.
Il concetto di inflazione peraltro non necessariamente è riferibile al denaro: si accompagna anche al concetto di denaro per descrivere certe situazioni, ma non solo mi pare.

Citazione di: maral il 24 Settembre 2016, 13:30:58 PMdove stanno allora i numeri e i colori prima del loro apparire alla nostra coscienza?
Citazione di: PhilIn questa domanda affiora il preconcetto che la (pre)orienta, ovvero che i numeri debbano essere sempre stati da qualche parte, per cui non resta che chiederci "dove?"; e se invece, fossero uno dei tanti concetti inventati?
Scusa, ma la mia domanda introduceva un dubbio a quello che venivo dicendo io stesso, non tu, e, per risolvere il dubbio concludevo che la domanda non ha senso: non può apparire un luogo dove stanno gli essenti prima di apparire, se questo luogo apparisse sarebbero già apparsi.
CitazioneProviamo a fare una dimostrazione per assurdo: se credere che i numeri non sono innati, comporta una contraddizione o va contro esperienze attendibili, allora i numeri sono innati...
La contraddizione è che non si può contare senza avere i numeri dunque non è contando che si arriva a inventare il numero, deve già esserci e non in un modo generico e impreciso da raffinare (un "tanti" o "pochi"), ma proprio per quello che è (dal "tanti" o "pochi", proprio come è già stato detto, non si arriva a nessun numero).
Citazionela contraddizione in questo caso sarebbe l'ammissione di un'esistenza-non-manifesta (vedi sotto) che quindi va contro ogni esperienza attendibile (e anche se si è d'accordo con questa prospettiva, non sono pochi i punti interrogativi metafisici e epistemologici che ne conseguono...).
Bè mi pare che di esistenze non manifeste ce ne siano sempre state tante nella storia dell'umanità (e sicuramente ce ne sono tuttora che forse si manifesteranno in futuro), senza che questo pregiudichi alcuna esperienza attendibile. Tanto più che i numeri sono esistenze manifeste che ora hanno luogo, dunque esistenze si sono manifestati senza che, mi pare, questo implichi che a un certo punto siano sorti per pura invenzione da altro (da un non numero), ossia siano nati dal loro essere niente come numero.
Non è fede ciò che asserisce che ogni essente è, ma non ogni essente solo a un dato momento appare, lo constatiamo continuamente.

CitazioneChiaramente le lingue, e le rispettive convenzioni, si sono modificate con i secoli, nessuna lingua è nata dalla sera alla mattina o ad opera di un solo uomo... per "convenzione" va inteso un "inventare artificiale" che diventa poi un "affermarsi socialmente"; se le lingue non fossero convenzioni, a cosa servirebbero i dizionari, le grammatiche, etc.?
I dizionari e le grammatiche fissano le lingue esistenti temporaneamente a mezzo di convenzioni, ma non è certo dai dizionari e dalle grammatiche che nascono le lingue. Ossia le lingue possono portare a convenzioni sull'uso dei termini, ma non viceversa. Non mi pare risulti a nessun antropologo che per cominciare a parlare una lingua si sia iniziato con il convenirne un dizionario, scritto o orale che fosse.

CitazioneLa prospettiva diacronica delle lingue sembra indicare il contrario: non c'è necessita del nominare qualcosa con un determinato segno o suono, semplicemente una comunità ha deciso di usare quella combinazione, altre una combinazione differente, ma non c'è nessuna "intrinseca necessità"(cit.) fra l'oggetto e la parola (salvo per le onomatopeiche), solo arbitrarietà convenzionale...
Pensa anche ai neologismi, che abbondano con il fiorire di nuove dimensioni (come quella attuale dell'informatica), che necessità c'è di chiamare alcune novità tecnologiche proprio con quel nome? Nessuna, semplicemente qualcuno le battezza così e gli altri "condividono" (in tutti i sensi  ;D ) quella parola...
Certo a posteriori posso dire che se chiamo quel colore con la parola rosso o red è sempre lo stesso colore e sicuramente è così, ma nessuna comunità fa questa scelta, cioè nessuna comunità si è mai trovata davanti a qualcosa di rosso e ha cominciato a discutere se chiamare quel colore rosso o red, mettendosi d'accordo magari per alzata di mano a maggioranza come suonava meglio. Anche perché se ci fosse mai stata questa discussione le parole avrebbero ben dovuto già esserci e dunque, di nuovo, come per i numeri, per avere le parole, ci vogliono delle parole!  

CitazioneCredo vada distinta la "scrittura" dal "gesto" (e penso lo faccia anche Derrida quando, vado a memoria, distingue il "segno" dal "fare-segno"...), altrimenti "scrivere" e "gesticolare" diventano sinonimi! Non ricordo bene, ma non scommetterei che il concetto di "archiscrittura" di Derrida, al netto di metafore e giochi linguistici, neghi che ci sia stato, come sottolineavo, un momento in cui l'uomo non scriveva ma comunicava solo oralmente...
Premesso che non conosco direttamente Derrida e quindi mi riferisco solo alla lezione di Sini che, per quanto ne so, potrebbe anche averlo interpretato male. Premesso che mi pare che lo scrivere nasce comunque come un gesto (anche se non direttamente rivolto all'interlocutore, ma rivolto all'interlocutore attraverso un mezzo che rende possibile una dilatazione del tempo tra espressione e ricevimento e forse questo è quello che distingue il gesto dello scrivere dal gesto del gesticolare). Non è di una scrittura umana che qui si parla, ma di una scrittura più originaria che nell'uomo si traduce in una ricerca di significati e quindi in suoni vocali, poi questa parola si può tradurre per l'uomo in una scrittura fonetica, come è accaduto in Occidente, ma non necessariamente in Oriente, ove la scrittura intende ancora richiamare direttamente proprio quella scrittura- segno originario e silente. Per questo, in Oriente, la scrittura viene prima della oralità e non è la semplice traduzione grafica di un suono. Questo mi pare si dica nella lezione di Sini.

CitazioneP:s. La convenzione, non la intenderei solo in modo accademico: ad esempio, come accennavo prima, molti neologismi nascono ed entrano nel vocabolario senza che ci sia un convegno di esperti, ma soltanto perché si innesca un "passaparola" fortuito e molto esteso: l'espressione "figlio dei fiori" (con tutti i riferimenti concettuali annessi) è ormai comprensibile a tutti, eppure non è sempre esistita, ma il suo successo sociale ne ha decretato la legittima appartenenza alla comunicazione (pur non sapendo, almeno io, chi sia stato il primo a coniare questa espressione).
Magari mi dirai che anche questa espressione esisteva da sempre, ma attendeva solo di manifestarsi, che "era ma non appariva", ma mi concederai che con questo presupposto di innatismo radicale, perdiamo ogni presa epistemologica sull'argomento, abbandoniamo la ricerca per "accomodarci" in una "fede metafisica" di cui tutto il '900 (con buona pace di Severino?) ci ha insegnato a dubitare...
Figurati, Severino è colui che vuole proprio mettere in dubbio le radici stesse della metafisica dell'Occidente che ritiene basata sulla pretesa assurda di un'assoluta e incontestabile evidenza del divenire. Ma tornando al tema, l'espressione "figlio dei fiori", certamente è apparsa a un certo punto come un composito fatto da espressioni che avevano già significato, è una combinazione di termini che si rivela nell'apparire di una certa figura umana che la richiama, per via metaforica. Tutti i linguaggi non sono altro fondamentalmente che metafore, ossia accoppiamenti tra enti diversi che si richiamano (si fanno segno) l'un l'altro, indipendentemente da qualsiasi scelta. I linguaggi sono sistemi di metafore non scelte, non eterne e tanto meno convenzionate.  
#617
Scienza e Tecnologia / Re:navigare in facebook
24 Settembre 2016, 14:06:00 PM
Le tecnologie rendono tutto più facile, per questo fanno scorrere troppo veloci le cose e tutto diventa insipido allo stesso modo. non c'è il tempo necessario per trattenere e capire il significato di nulla, perché tutto quello che si presenta è già andato senza lasciare traccia. La tecnologia ci muta senza che ce ne accorgiamo, ma in cosa? Il rischio è grosso.
#618
Citazione di: Phil il 23 Settembre 2016, 16:15:55 PM
Quindi i numeri sarebbero innati e inconsci? Praticamente si parla di un "platonismo 2.0" in cui l'iperuranio è sostituito dall'inconscio... congettura avvincente, ma mi pare piuttosto ardua (e non dico "indimostrabile"...).
Per quanto mi riguarda non mi rifaccio a un pensiero neo platonizzante, quanto piuttosto a una considerazione severiniana: non si inventa nulla se per inventare si intende creare qualcosa (qualsiasi cosa, compreso numeri, colori) facendo essere qualcosa che prima non era. Nella loro qualità di numeri e colori, questi enti in quanto essenti, sono da sempre e per sempre e quindi non sono il risultato dell'esperienza, mentre il loro apparire e quindi i significati di questo apparire è il risultato dell'esperienza. E questa esperienza che li fa apparire rendendocene coscienti a sua volta non nasce dal nulla, non è arbitraria e quindi definibile per convenzione, ma il frutto necessario di un contesto inter relazionale tra gli enti.
Ma se questi numeri e colori pre esistono al loro apparire, altrimenti dovremmo dire che questo numero o questo colore come tali sono fondamentalmente niente, dove stanno allora i numeri e i colori prima del loro apparire alla nostra coscienza? Non stanno in un altro mondo, in un iperuranio, semplicemente sono, ma non appaiono. In questi termini parlo di inconscio. Ci sono inconsci e quindi non hanno per la nostra esperienza un luogo "scoperto", perché se lo avessero ci apparirebbero, ma non avere un luogo scoperto alla nostra esperienza non vuole dire che sono niente.
Beninteso, anche dire che prima del loro attuale apparire essi non hanno luogo scoperto è dovuto al loro attuale apparire, è proprio il loro apparirci che, mantenendo fermo che numeri e colori sono e non possono non essere, implica il loro poter non manifestarsi.  
In tal senso non solo non inventiamo nulla (se inventare significa fare essere cose che non sono), ma anche non scopriamo nulla (se scoprire lo si intende come un atto del soggetto), ma viviamo esperienze che in determinati contesti relazionali tra gli enti, ci rendono alcuni enti come manifesti.


CitazioneNon confonderei "lingua" e "linguaggio": il linguaggio è l'attuazione di una predisposizione innata (e neurologica) alla comunicazione; la lingua è un insieme convenzionale di segni e suoni finalizzato alla comunicazione; essendo convenzionale come può non essere stata inventata?
Non trovo nessuna lingua naturale frutto di una convenzione. Non si è mai stipulata alcuna originaria convenzione per stabilire che un segno indicasse questa cosa e non un'altra per mostrarcela. Certo, impariamo questi segni da chi ci ha preceduto, che a sua volta li ha imparati da chi lo ha preceduto e così via e a ogni passaggio i segni che indicano questa cosa variano nei tempi e nei luoghi e variano pure le cose nel modo di apparirci, ma non c'è mai stato un momento originario in cui si è stabilito che il colore rosso dovesse chiamarsi "rosso" potendolo anche dire in modo diverso, il colore e la combinazione fonetica che lo mostra sono tra loro sempre legati secondo un'intrinseca necessità, non è una scelta convenzionalmente stabilita, anche se certamente varia. A ben vedere la cosa e il suo nome sono sì enti diversi, ma strettamente collegati l'uno all'altro da un'esperienza che non è soggettiva e quindi non può essere convenzionata tra soggetti. Nessuno ha mai stabilito o si è mai messo d'accordo con altri di chiamare il rosso rosso, o red, o rojo e via dicendo, comunque lo si dica c'è una necessità che lo fa dire così in quel luogo e in quel tempo consentendone la precisa identificazione e comunicazione.

Citazionel'osservazione che "non può esserci nulla al di fuori della nostra esperienza", non la sento affatto mia (se non altro perché fuori dall'esperienza ci sono tutte le predisposizioni e le "impalcature concettuali" del soggetto...).
Predisposizioni e impalcature che peraltro ci appaiono anch'esse in ragione dell'esperienza che ne facciamo, ma dove la mancanza di questa esperienza non determina il loro esserci o meno.

CitazioneConcorderai che i segni non esistono dall'"inizio dei tempi"... la scrittura è stata inventa, giusto? Dall'inizio dei tempi esiste semmai la voce (direbbe Derrida...).
Veramente Derrida parla di una scrittura che precede l'oralità della comunicazione (e ovviamente non è una scrittura che appartiene al soggetto umano; è segno muto e di per sé insignificante che dà significato a ogni cosa)

Non abbiamo mai conosciuto alcuna cosa senza un segno che ce la connotasse, fosse questo segno anche solo un gesto, e quel gesto, quell'espressione fonetica di un altro soggetto che ci ha mostrato quella cosa nessuno lo ha mai scelto né quindi convenzionato per quella cosa.
#619
Attualità / Re:Voglio una pistola
22 Settembre 2016, 23:37:29 PM
Non so, a me viene da chiedermi se qualcuno qui ha mai assistito a un pestaggio. Perché un conto è parlarne con tanto sacrosanta indignazione, un conto è vivere queste situazioni. Certo fanno schifo quelle persone che si voltano dall'altra parte, che vanno per gli affari loro, ma la violenza è questo che fa, fa paura e la paura fa fare le cose che pi, seduti tranquilli a casa propria  tanto si deprecano. Riconosciamolo una buona volta che gli eroi sono pochi e sono sempre stati molto ma molto pochi, oggi come ieri, E per questo ci fu il nazismo e continua a esserci sempre in idioti ancora più malati, e per questo c'è stata e c'è la mafia e tutto il resto, la più schifosa e ributtante vigliaccheria organizzata in branco. La vera differenza è che la paura (che è la prima inevitabile reazione per la gente comune, per i non psicopatici) la si supera tanto più facilmente quanto più si conosce la vittima e questo che oggi è ancora più difficile superarla: non ci si riconosce più l'un l'altro e allora a allora ognuno resta solo la sua paura, tanta da rendere difficile anche guardare, anche chiamare con un telefonino, altro che sparare! Tira diritto, non sono affari tuoi, dice la paura, chi lo conosce quello, chi lo ha mai visto!
Solo la madre è intervenuta con il suo corpo a difendere il figlio mentre quelle due bestie dementi strafatte di cocaina lo pestavano, almeno sua madre ancora lo conosceva perdiana!
#620
Citazione di: Phil il 21 Settembre 2016, 21:28:07 PM
Quindi i numeri c'erano anche prima, ma non erano stati ancora usati? Domanda: come è possibile avere il concetto di numero ma non usarlo?
Basta non esserne consci. Ma non sto parlando del concetto di numero, sto parlando dei numeri che si traducono in concetti solo se ne diventiamo coscienti.

CitazioneMi pare sia come negare l'invenzione di una lingua affermando che "nessuno può avere inventato una lingua parlando, con cosa parlava?". La risposta sta nel precedente esempio di cui parlavo con davintro (passaggio dal "molto/poco" ai numeri) ovvero: passando da espressioni vocali inarticolate (primitive come la quantificazione "poco/tanto"), a forme più strutturate, come le parole (ed i numeri).
Almeno credo che la storia della lingua sia questa, salvo sostenere che le lingue siano "innate" e attendono solo di essere scoperte  ;)
Infatti nessuna lingua (naturale) è mai stata inventata. Non è che prima c'erano dei grugniti e dopo questi grugniti per progressiva convenzione sono diventati parole; l'uomo, anche se si esprime a segni o con balbettii, quei segni o balbettii sono già parole significanti. Ciò che si apprende non è il linguaggio (che nelle sue strutture grammaticali fondamentali è già dato a priori, come insegna Noam Chomsky) ma un'espressione significante tra le tante possibili che non è semplicemente inventata, ma culturalmente trasmessa (e trasmettendola i contesti culturali la modificano in continuazione nei rapporti con i significati).


CitazionePer esprimere quel numero percepito senza contare dovranno comunque usare un linguaggio (che rimanda a concetti), e in questo linguaggio, che qualcuno gli ha insegnato, saranno compresi anche i numeri... può essere un virtuosismo cognitivo, ma presuppone sempre che qualcuno gli abbia fornito la definizione di "uno", "due", "tre", etc. altrimenti questi soggetti (eccezione e non regola) cosa dicono per stupirci?
Non è del tutto vero che sono l'eccezione, pare che fino a quattro tutti siano in grado di cogliere immediatamente il numero senza contare, e non solo gli umani, pure i corvi. Forse è una capacità latente che. imparando a contare si assopisce. Certo, qualcuno ci ha insegnato che quella quaternalità si dice 4 e contando scopriamo gli altri numeri, ma questo non significa che l'idea del numero si crei dal nulla contando a partire da un "tanto".

CitazioneQuesto qualcosa di numerabile è la realtà, o meglio, l'esperienza, ma diventa "numerabile" inevitabilmente solo dopo l'invenzione del numero, prima è solo vagamente quantificabile, come dicevo anche nell'esempio della musica, rispondendo a davintro (ti invito a leggerlo per non ripetermi, non perché sia nulla di eccezionale).
Phil, tu parti dal presupposto che i numeri si inventano e si inventano poiché a monte ci sta il presupposto che non può esserci nulla al di fuori della nostra esperienza, ma questo non esclude il presupposto opposto, ossia che i numeri solo si scoprono. Il punto per cui non riuscirai mai a convincere chi la pensa in modo opposto, né chi considera il numero come una trascendenza originaria potrà mai convincere te, è che entrambi avete ragione ed entrambi torto e ognuno coglie solo l'aspetto positivo della sua idea e negativo di quella altrui. Entrambi non vi rendete conto invece della irriducibile complementarietà che c'è sempre tra segno e significato, che non ci sono significati puri originari e senza segni da cui nascono i segni o viceversa, ma che sono sempre in rapporto, fin dall'inizio dei tempi. Solo se ci sono i numeri possiamo contare e solo se possiamo contare i numeri per noi ci sono e quindi possiamo usarli per contare.
Non si inventa il colore delle cose colorate, proprio come non si creano i colori delle cose colorate dal colore, Perché è quel colore che ci permette di vedere le cose colorate, esattamente come è il vederle colorate che ci permette di esperire (e certamente non di inventare) quel colore. Il concetto con cui poi veniamo a definire quel colore (definito ad esempio nel suo corrispondere a una certa lunghezza d'onda della luce) ha la sua origine nell'a priori del colore e diventa quel concetto a posteriori, attraverso l'esperienza che facciamo del colore originario nelle cose.
All'inizio c'è qualcosa (kantianamente sintesi a priori) che si rivela sensibilmente e immediatamente nelle cose che esperiamo e che, da questa esperienza, attraverso l'analisi di essa, poi concettualizziamo (sintesi a posteriori) e a sua volta il concetto richiama quella sintesi a priori e così via ciclicamente all'infinito.
#621
Citazione di: Phil il 20 Settembre 2016, 15:50:16 PM
Sostenere che i numeri non sono stati inventati comporta o ritenere che l'uomo li conosca da sempre (ma non so se l'antropologia e l'archeologia siano d'accordo), oppure sostenere che esistono da sempre come idee platoniche e che qualche fortunato è riuscito ad attingerle e comunicarle al mondo...
Forse significa solo che a un certo punto qualcuno a imparato a usare i numeri per contare e non che contando ha inventato i numeri: con cosa contava? I numeri (le quantità numericamente espresse), come ho detto, c'è chi riesce a coglierli immediatamente con esattezza anche senza contare: come sarebbe possibile la cosa senza una percezione proprio del numero come tale secondo te?
Ai bambini si insegna a contare, ossia a usare i numeri per contare, come si può insegnare a usare i colori, ma questo non mi pare voglia dire che usando i colori si inventano i colori, ma che usandoli li si scopre. il riflesso di luce rossa non è il rosso, ma una luce che si percepisce rossa perché c'è già il significato di rosso che peraltro non si potrebbe mai scoprire (e non inventare) se non ci fosse qualcosa rosso, esattamente come non si potrebbe mai scoprire (e non inventare) i numeri se non ci fosse qualcosa numerabile.

#622
Citazione di: Phil il 19 Settembre 2016, 22:57:46 PM
Nel caso specifico dei numeri (e quindi della matematica), il circolo vizioso fra "l'esperienza produce numeri per astrazione" e "i numeri consentono di contare nell'esperienza", circolo dal quale ci sembra non poter uscire, può dissolversi chiedendoci come ci siamo entrati... i numeri non sono innati, sono un'invenzione (non una scoperta), per cui mi pare legittimo che qualcuno, o alcuni, in un epoca pre-matematica, abbiano un giorno convenzionalmente definito i numeri, rendendo possibile il contare. Basandosi su un'esperienza non-numerica, codesti "fondatori della matematica" hanno stabilito la definizione dei numeri, che quindi sono nati da un'astrazione convenzionalizzata di esperienze vaghe (del tipo "tanto"/"poco").
La genealogia del numero dimostra che il rapporto tra calcolo astratto e calcolo empirico non è paradossale: è l'empirico (quantità vaga) che ha fondato l'astratto (numero esatto). Non a caso, talvolta l'astrazione ha dato origine a molteplici sistemi di misurazione (basti pensare alle diverse unità di misurazione per la lunghezza: centimetri vs pollici, entrambe basate sui numeri ma applicati con quantità differenti).

P.s. La considerazione di un atto fondativo, dell'irruzione del nuovo, è ciò che spesso risolve molti circoli viziosi...
Non è affatto un circolo vizioso, al contrario, è l'unica ipotesi ("Abelardica") che può risolvere la questione, giacché il tuo discorso, esattamente come quello di chi sostiene l'opinione opposta, non ha da solo fondamento e quindi la diatriba si presenterà eternamente irrisolvibile come tra gusti contrapposti. Non ha fondamento (pur essendo giusto nella sua affermazione) perché non è comunque possibile numerare le cose senza che ci sia l'idea di numero e questo vale in generale anche per il linguaggio (in fondo anche quello matematico è un linguaggio) in cui non è possibile avere significanti senza significati o viceversa, sono gli uni significanti e significati degli altri, sempre uniti nel loro intreccio originariamente connotativo e non denotativo.
Quando qualcuno definisce un numero (ad esempio come ha fatto Russell in "Principi della matematica") non inventa il numero partendo da qualcosa che non esiste se non nella sua testa o che è altro dal numero, ma appunto semplicemente definisce qualcosa che già c'è e che non è la pura numerazione empirica, se non ci fosse non si sarebbe mai arrivati a numerare empiricamente nulla (come se non ci fosse il rosso non vedremmo mai cose rosse). Dunque il numero non è semplicemente l'effetto dell'esperienza numerante, perché per poter numerare deve già esserci il numero e l'esperienza della numerazione è invece la descrizione del numero, per cui nella numerazione il numero può apparire e quindi essere definito.
Tra l'altro, come ho scritto sopra, il numero come totalità definita di una pluralità è pure percepibile, senza bisogno di contare: il genio autistico che immediatamente ti sa dire quante sono le carte di un mazzo sparpagliato a terra, coglie immediatamente ed esattamente l'entità numerica totale di quelle carte senza contarle, dunque percepisce immediatamente e concretamente il numero come tale, mentre se gli chiedi di fare un'addizione anche semplice può non esserne capace.

CitazioneSe l'idea gli fosse venuta mentre cucinava parleremmo forse di rapporto fra relatività e arte culinaria? O, se stava giocando a calcio, fra relatività e sport?
Se così fosse stato non troverei per nulla sconveniente parlarne, magari ci aiuterebbe pure a capire meglio la relatività. Di sicuro Einstein ne avrebbe parlato.


Citazione
Direi che la "bellezza" della relatività non è affatto estetica, nel vero senso serio del termine... la filosofia di Nietzsche, ad esempio, non è "bella", ma può esser bello lo stile figurato e ardente con cui è stata scritta; così una teoria scientifica può avere "belle" conseguenze o "belle" formule, ma non si parla del "bello" estetico (un po' come quando, nel linguaggio parlato, si dice una "bella sorpresa", non si allude all'estetica...).
Penso invece che possa essere "bella" anche una filosofia, e non in relazione allo stile usato per esprimerla, ma ad esempio alla pregnanza dei suoi significati interconnessi. Certo, la bellezza di una teoria scientifica è diversa da quella di un quadro o di un brano musicale, eppure è sempre legata al significato, alla possibilità di arrivare ad esempio a una formula semplice in cui si trovano condensati in modo appropriato, non banale e  sorprendente un gran numero di aspetti fisici. Ma forse è soprattutto la matematica che può mostrare, a chi sa coglierlo, un valore estetico che va ben al di là della sua utilità. 
#623
Citazione di: paul11 il 19 Settembre 2016, 00:13:39 AM
Maral,
quindi riconosci che c'è qualcosa di ontologico nella matematica?
Mi stupisce questa domanda, dato che fin dai miei primi interventi in questa discussione ho riconosciuto il carattere ontologico degli universali, insieme al carattere fondante dell'esperienza sulla loro ontologia. Quello che nego è che vi sia una primarietà di uno di questi aspetti sull'altro, vengono sempre insieme rendendosi reciprocamente possibili. E' curioso anche che questa mia lettura che riconosce un valore equivalente a entrambe le posizioni (e che quindi potrebbe mettere tutti d'accordo) venga intesa da ciascuno in contrapposizione alla propria concezione, collocandomi come Abelardo quando entrò nella diatriba scolastica sugli universali. Lo trovo molto significativo in termini di fenomenologia della percezione.  
Per quanto riguarda la questione sulla soggettività e relativismo della conoscenza, riporto il mio riassunto di un passo di H. Maturana («Biologia della cognizione», 1970, in «Autopoiesi e cognizione», Marsilio Editori, Venezia, 2012) che ritengo molto chiaro e significativo nel merito:

"Dato che la logica della descrizione è la stessa logica del sistema descrivente, possiamo asserire il bisogno epistemologico di un substrato perché avvengano le interazioni, ma non possiamo caratterizzare questo substrato in termini di proprietà indipendenti dall'osservatore. Ne segue che la realtà come un universo di entità indipendenti delle quali possiamo parlare è necessariamente una finzione del dominio puramente descrittivo, e che noi dovremmo infatti applicare la nozione di realtà proprio a questo dominio di descrizioni col quale noi, il sistema descrivente, interagiamo con le nostre descrizioni come se fossero entità indipendenti, dunque la domanda su cosa sia l'oggetto della conoscenza" perde di ogni significato: non vi è alcun oggetto di conoscenza, fondamentalmente conoscere è essere capace di operare adeguatamente in una situazione individuale o cooperativa (p.104).
Il riconoscere che noi, come sistemi pensanti, viviamo in un dominio di descrizioni  che ci consentono di aumentare indefinitamente la complessità del nostro dominio cognitivo tuttavia  non contraddice determinismo e predicibilità dei diversi domini di interazioni, al contrario, dà loro fondamento mostrando che sono una conseguenza necessaria dell'isomorfismo tra la logica della descrizione e la logica del sistema descrivente. Determinismo e predicibilità sono validi solo entro il campo di questo isomorfismo; cioè sono validi solo per le interazioni che definiscono un dominio (p.105)."

Infine mi pare evidente che la conoscenza scientifica risente comunque di una valenza estetica, l'essere umano (l'osservatore) non è suddivisibile in compartimenti stagni a sé stanti e tali da non influenzarsi reciprocamente, pur facendo riferimento a contesti operativi diversi. La bellezza di una teoria scientifica (la bellezza ad esempio che fu riconosciuta alla teoria della relatività di Einstein), non credo sia un termine secondario rispetto alla sua funzionalità e la ricerca va comunque in entrambe le direzioni. E' solo la schizofrenia di un modo di pensare attuale che vorrebbe creare divisioni insormontabili tra i vari modi di considerare le cose, in nome dell'assurda pretesa di dettare le regole per una totale oggettività funzionale da cui ogni elemento estetico è tratto fuori e rigettato nel mondo della pura arbitrarietà soggettiva.
#624
Citazione di: paul11 il 17 Settembre 2016, 03:09:21 AM
Nella riposta a Phil, sollevo una riflessione. Perchè la matematica che è pura ragione non viene riconosciuta come concetto metafisico.Viene invece interpretato come strumento.Ma dove salta fuori?
Davintro a sua volta ritiene che i principi di universale e tempo siano metafisici, e capisco quello che vorrebe dire ,perchè è simile alla mia posizione sulla matematica, anzi forse il suo è più essenziale, presupposto a sua volta per arrivare a formulare un sistema matematico.
Per quanto riguarda la questione sulla matematica mi sembra riguardi lo stabilire se è il numero a rendere le cose di cui si ha esperienza numerabile, o se è l'esperienza della numerazione delle cose a determinare per astrazione il numero. Per me è chiaro che non si può avere alcuna numerazione di cose senza il numero, né alcun numero senza una numerabilità esperita. Sembra un modo per trarsi di impaccio, ma non è semplicemente così. significa che tra il mondo degli universali e quello delle cose esperite c'è sempre una stretta corrispondenza biunivoca, pur essendo tra loro diversi e indipendenti, una sincronia che risulta più o meno evidente a seconda dei campi di osservazione (e lo stesso penso valga anche per "la rossità" e questa mela che è rossa).
Mi è venuto in mente poi che il numero (almeno in certi casi) può anche essere esperito direttamente come tale in tutti quei soggetti che possono esprimere immediatamente quante sono gli oggetti che hanno davanti senza mettersi a contarli (possono anche essere soggetti che non sanno nemmeno contare, come le gazze o le cornacchie se ben ricordo) e questo sembrerebbe indicare che effettivamente il numero ha una consistenza non solo logico concettuale, ma pure ontologica ed esperibile proprio come tale.
#625
Attualità / Re:Migranti
18 Settembre 2016, 17:39:44 PM
Citazione di: verdeidea il 16 Settembre 2016, 15:01:25 PM
Non ho detto che non ci siano mai stati mescolamenti nella storia, ho detto che non c'è mai stato un mescolamento come quello che si vuole attuare oggi. Le civiltà sono morte sempre  in seguito alle massicce invasioni dalle quali non si è riusciti a difendersi;
Tutte le civiltà muoiono sempre, che si pensi di isolarsi o no: muoiono per esaurimento di risorse e deterioramento dell'ambiente, muoiono per corruzione interna, stanchezza e fallimento economico, politico e sociale. Poi può esserci qualcuno che giunge dall'esterno per approfittarne e al crollo segue la fusione e nella fusione chi è arrivato dall'esterno porta nuove forze che fanno sorgere una nuova civiltà, finché anch'essa non decade e muore e qualcun altro arriva. In questi casi l'invasione segue il decadimento, non ne è la causa. Ci sono invece casi in cui le invasioni sono causa di una radicale scomparsa di una civiltà, in genere è accaduto quando noi Occidentali ne siamo stati protagonisti come invasori, ad esempio nelle Americhe, in Australia e in Africa. Accade quando la capacità tecnologica dell'invasore è molto superiore e sorretta da spinte propulsive verso l'espansione. Non mi pare che gli attuali migranti godano di questo vantaggio, ma la civiltà occidentale, pur avendo conquistato tecnicamente l'intero pianeta, è in uno stato di completa decadenza, dunque comunque saremo invasi dai poveri delle periferie del mondo che esigeranno che sia restituito quanto fu e viene loro sottratto, che sia pagato il prezzo della disperazione che continuiamo a causare a casa loro bombardandoli e giocando con il debito e le scommesse finanziarie. E' la disperazione e la povertà che muove quelle masse (esattamente come fu la disperazione e la povertà a muovere le masse dei migranti italiani, a milioni), ma è anche una grande speranza, una grande voglia di poter vivere. E la speranza è dei giovani, per questo sono soprattutto i giovani a muoversi con tutti i pregi e i difetti dei giovani, la loro prepotenza, la loro mancanza di rispetto. Noi siamo vecchi e il nostro mondo, ricchissimo rispetto al loro, ma sempre meno, è un mondo di vecchi, soprattutto di vecchi dentro, vecchi destinati a morire presto senza lasciare giovani al loro posto.
Solo un disperato può pensare di attraversare il deserto e il mare su barche marce e abusi di ogni genere, camminare a piedi per migliaia di chilometri da una frontiera all'altra, guardato con odio e sospetto, ma un disperato che ancora ha una grande speranza e una grande voglia di vivere.
Lo scontro etnico è certamente sempre assai problematico e devastante, la multietnicità non nasce spontanea, ma con il tempo accade: lo ripeto, è accaduta in Europa, è accaduta in Italia, noi siamo il risultato di un incontro di popoli violenti, con vite e tradizioni completamente diverse.
Forse possiamo provare di poter almeno un po' gestire la cosa che comunque accadrà, anche perché noi non sappiamo più vivere senza di loro che fanno i mestieri che noi non vogliamo più fare, compreso combattere sul terreno a casa loro di cui diamo la procura ai vari tiranni locali. La nostra ricchezza e la nostra vecchiaia ci ha reso imbelli, sempre più egoisti e dipendenti. 
Certo, è nato il business dei migranti, ma è un business che conviene anche alla stragrande maggioranza di  chi vive qui, al sicuro nella sua casetta mentre gestisce un'impresa edile o un terreno agricolo o una fabbrica, o semplicemente spera in una pensione o ha i suoi vecchi di cui non vuole e non può prendersi cura.
Cosa sarebbe questo paese senza immigrati? Se tutti gli immigrati sparissero domani? L'idea di isolarsi e barricarsi a casa propria nel mondo attuale poi è assurda quanto non lo è mai stata in tutta la storia umana e in tutta la storia umana ci sono state migrazioni di popoli che si sono comunque mescolati: quella multiculturalità che credi impossibile è già in da tempo in atto e cresce sempre di più.
Vogliamo rallentare i flussi? Smettiamo innanzitutto di sfruttarli a casa loro, di intervenire per sistemare ai posti di comando il tiranno che ci torna comodo, smettiamo di voler esportare la democrazia con tutta l'ipocrisia che l'accompagna, e soprattutto smettiamo di depredarli sistematicamente delle loro risorse. L'Africa fino agli anni 50 del secolo scorso era autosufficiente dal punto di vista alimentare, poi sono venute le grandi carestie grazie all'economia liberista e oggi, l'Africa , nonostante vi si muoia di fame, è costretta a esportare risorse alimentari nel mondo. Smettiamola soprattutto di prestare loro denaro, ce lo chiedono loro stessi, per poi vessarli e incatenarli con i meccanismi di un debito infinito. Sarebbe già qualcosa, ma è molto difficile e poi... ci conviene?   

 


#626
Paul, concludo con alcune ultime precisazioni in merito alla risposta che mi hai indirizzato:
Confermo, non mai letto Hegel, ma solo la lezione che di lui ne dà Severino (più ovviamente lontani ricordi scolastici), più un utilissimo libricini di Berto sulla dialettica hegeliana che è poi fondamentalmente la stessa tecnica che utilizza Severino (sia pure seguendo un indirizzo opposto). Sulla base di queste mie conoscenze (limitatissime e indirette) penso comunque di poter sostenere (con Severino) che Hegel esprime l'apoteosi finale della metafisica classica e che la filosfia hegeliana è l'ultimo grande tentativo di costruire un pensiero assoluto in termini appunto di metafisica classica pur riletta in chiave dialettica, l'ultimo tentativo (a parte Severino, che comunque si muove in un senso radicalmente diverso, giacché nega l'impianto originario del pensiero metafisico dell'Occidente per rifondarlo radicalmente) di pervenire all'assoluto ontologico e di credere di poterlo raggiungere, se non di averlo comunque raggiunto. Hegel costruisce il suo sistema come totalità assoluta che non lascia nulla fuori di sé. Ma dopo Hegel c'è stato Schopenhauer, c'è stato Marx, con le loro critiche al sistemone idealista e c'è stato soprattutto Nietzsche e la profonda crisi del Novecento che è sfociata nel mondo dominato dal pensiero tecnico e non perché si è sbagliato strada, ma perché quella era la strada che non si poteva non percorrere partendo da quella metafisica. Dopo Nietzsche comunque il mondo hegeliano, l'assoluto onnicomprensivo è definitivamente crollato.
Per quanto riguarda Severino, penso che riformuli completamente la questione metafisica, lo fa, è vero, partendo da una considerazione formale, che, per quanto complessa e ardua sia la sua filosofia, estremamente semplice: l'assoluto espresso dalla tautologia. Ma questo fondamento logico non rende per nulla Severino un pensatore freddo che analizza solo i formalismi logico linguistici godendo della sua abilità tecnica, ciò che lo anima (e lo si sente in ogni suo lavoro e in questo sono d'accordo con Cacciari), è una necessità profondamente umana: il suo pensiero palpita di una sorta di mistica che si rispecchia pienamente nella suggestiva complessità di un linguaggio per nulla autoreferente. Eppure Severino non è un mistico, ma un filosofo estremamente razionale, ma la sua ragione va ben oltre i freddi giochi formali dell'analisi linguistica e la sua filosofia esige che ogni ente nella sua differenza sia concretamente quello che è per l'eternità, nulla può venire sottratto dall'astrazione, nemmeno da quella astrazione che è l'umano preso in termini generali. E questo è qualcosa che trovo assolutamente dirompente in ogni senso: sociale, politico, economico (e non per niente Severino scrive ampiamente di temi sociali, politici, economici, non scrive solo testi teoretici).
Infine tu, paul11. Non credo di non aver capito quanto senti che ti appartiene (certo, in qualche misura non ti avrò capito, come sempre succede, figuriamoci!), condivido anzi in buona parte la tua idiosincrasia per i formalismi analitici di una filosofia che si riduce a mera tecnica del linguaggio continuando peraltro a non cavare un ragno dal buco, capisco anche che, sulla spinta della  dialettica, non intendi perseguire un dominio cognitivo assoluto (come fa invece Hegel no?), ma pur tuttavia non posso fare a men di chiedermi allora perché dici che l'Essere è lo Spirito? Come ti collochi rispetto a chi dice che non stanno così le cose? Dello Spirito dici che non si può dire, ma dell'Essere sì? si può dire che è Spirito e non Materia? Spirito e Materia sono entrambi degli universali, entrambi delle astrazioni e quindi proprio per questo entrambi dei relativi, sono degli enti che nascono in relazione l'uno all'altro, l'uno in apparente opposizione all'altro. Un assoluto originario dello Spirito che ha di più o di meno di un assoluto originario della materia?

Per quanto riguarda la questione linguistica, non so se sei giunto al termine di quella lezione di Sini o se hai trovato troppo formali e inconcludenti quei discorsi, eppure quel tuo ultimo richiamo alla scrittura sta proprio nel tema centrale di quella lezione su Derrida: si parla di un'archeoscrittura che viene prima di ogni parola pronunciata, di ogni fonema vocale che occupa, a dire di Derrida, una posizione primaria nel discorso in Occidente. E certo, è un tema quello dell'originaria scrittura, che sta profondamente nel mondo medio orientale e orientale, ove il grafema non è il segno di un'espressione vocale: il segno scritto viene prima e  si esprime nel silenzio, come lo spazio tra due parole: l'archeoscrittura è fatta di sospensioni mute. E' una cosa su cui varrebbe la pena riflettere, poiché sono forse solo queste sospensioni che rivelano il mondo.
Noi siamo sempre solo nel presente, il presente è l'Essere che è, ma la nostra esistenza ha senso solo tra un passato e un futuro che non sono (non più, non ancora), esistiamo solo in questa irrimediabile duplicità virtuale del tempo, allora forse quell'impercettibile segno è proprio il presente in cui sempre veramente siamo, l'assolutamente indicibile differenza che si colloca una in mezzo ai due e fa apparire qualcosa che dal futuro va al passato per riflettersi nel nostro cammino dal passato verso il futuro. Se l'Essere è questo presente non è più semplicemente l'universale assolutamente astratto (l'astrazione suprema di tutte le astrazioni, l'universale di tutti gli universali) come in genere lo consideriamo, ma un segno impercettibile che tace cosicché il senso appaia nell'esistenza e appaia un ieri e un domani, un significante e un significato, un vero e un falso, un empirico e un metafisico, un irrazionale e un razionale, un immanente e un trascendente, una teoresi e una prassi, un sogno e un mondo tangibile e reale, un sì e un no e tutte le dicotomie con cui ci esprimiamo per ritrovarci sicuri nel nostro significare. L'Essere sembra essere allora l'originaria singolare differenza da cui tutto l'universo appare in una storia che continua a ripeterla moltiplicandola all'infinito in infiniti significati tra loro sempre diversi e tra loro sempre in relazione.
#627
Attualità / Re:Migranti
15 Settembre 2016, 00:15:54 AM
Verdeidea, resto convinto che un cristiano che non nutra un sentimento di carità non è un cristiano, la carità è una condizione necessaria per esserlo (anche se, direbbe donquixote, non sufficiente), ma in una società (quella Occidentale) che appare sempre più decristianizzata (e quindi sempre meno caritatevole nel suo complesso e anche sempre più ingiusta) questo è un discorso che può lasciare il tempo che trova.
Il punto fondamentale è invece un altro e il punto fondamentale è che noi, la fetta di gran lunga più ricca e minoritaria del mondo, utilizziamo consumandole le risorse dell'80% del pianeta e lo utilizziamo depredando gli altri, la maggioranza, di queste risorse che sono nei loro territori. C'è una lunga storia che lo spiega, di cui tu, io non siamo colpevoli, non è questione di sensi di colpa che sarebbe anche ipocrita oltre che del tutto inutile, se non controproducente, sollevare, ma è un dato di fatto e di fronte a questo dato di fatto storico e attuale, quello che accadrà è inevitabile: comunque saremo sommersi dai poveri e dagli sfruttati del mondo, non ci sono né destra o sinistra che tengano e chi illude di poter fermare la cosa con delle barriere o con le armi lo fa solo perché spera di trarne personale tornaconto, lo fa solo per menare il can per l'aia. Nessuna barriera né naturale né artificiale ha mai fermato o impedito le grandi migrazioni degli esseri umani, sempre spinte dalla fame e dalla necessità, sarà un caso, eppure siamo arrivati tutti dall'Africa, che prima e chi dopo.
Ora pagheremo il conto di secoli di depredazione, che lo vogliamo o meno, colpevoli o no che siamo.
Tu dici che nessun mescolamento ha prodotto una civiltà, è vero l'esatto opposto: tutte le civiltà nascono  dal mescolamento delle etnie, altrimenti avvizziscono e muoiono. E' quello che è successo proprio con la nostra civiltà occidentale, nata dal mescolamento tra i popoli latini, nordafricani e germanici e ti assicuro, se rileggi la storia, che i Germani di un tempo non erano per nulla migranti tranquilli, rispettosi e pacifici e ben poco compatibili con la civiltà greco romana: dove arrivavano depredavano, sgozzavano, violentavano e sterminavano (la bestia bionda, è così che Nietzsche li chiama). I Germani a loro volta erano spinti dai Mongoli che premevano da est e che per secoli avevano premuto sui Cinesi mescolandosi con loro nonostante la Grande Muraglia con cui l'impero cinese si era illuso inutilmente di tenerli fuori (quanto pensi possa durare un muro? qualsiasi muro? Guarda il muro di Berlino, costruito al contrario per tenere la gente per sempre dentro) e pure i Mongoli e i Turchi sono arrivati in Europa e si sono mescolati. Nell'alto medioevo la civiltà occidentale, quella fondata sulla cultura greca, si preservò solo nei paesi europei in cui dominava l'Islam, sì proprio all'Islam trapiantatosi in Europa dobbiamo la conservazione e il successivo sviluppo della nostra civiltà, il fatto che ancora sappiamo chi sia Aristotele, il fatto che ci sia stata una teologia scolastica su cui si basa ancora la dottrina cristiana.
Nella popolazione italiana si trovano i geni di tutte le diverse etnie del mondo, con l'eccezione degli indigeni americani e degli aborigeni australiani (gli unici che a quanto pare non siano in passato arrivati fin qua a mescolarsi): noi, italiani per quello che oggi siamo, nel bene e nel male, con i pregi e i difetti che ci contraddistinguono, siamo il risultato di una grande mescolanza biologica e culturale e siamo andati sempre ovunque nel mondo a "contaminare" gli altri, spinti come sempre dalla fame e dalla necessità a portare cose buone e cose cattive.
Probabilmente tutto questo non ti farà cambiare idea, ma che la cambi o no resta il fatto che ci sono almeno una settantina di milioni di persone nell'Africa subsahariana che, lo si voglia o meno, prima o poi muoveranno verso di noi spinti dalla miseria e, buoni o cattivi che siano, lavoratori o nullafacenti, onesti o delinquenti, arriveranno qui, perché qui sperano di poter vivere, come tutti gli esseri umani (noi Italiani compresi) hanno sempre fatto e non ci sarà né deserto, né polizie o eserciti di dittatori corrotti e pagati da noi, né mari, né marina, né muri che riusciranno a fermarli. Non abbiamo colpe, ma pagheremo il conto per colpe di altri e il mescolamento ci sarà e con esso più povertà per noi (e forse non sarà nemmeno un male) e certamente lo scontro di modi di sentire e pensare, il dolore, i massacri e le rapine come sempre è stato in tutta la storia umani, quando arrivano i barbari, predatori predati, mossi dalla loro fame. Può essere che da questo incontro/scontro restino solo rovine, può essere che da queste rovine rinasca tra qualche secolo una nuova civiltà come accadde in Europa quasi 2 millenni fa. Il resto sono solo chiacchiere di cialtroni interessati al loro tornaconto, come quel pagliaccio tinto di biondo americano (ma ce ne sono pure tanti di Europei e pure a casa nostra), per illudere e rendere ancora più tragica la cosa, perché l'umanità non può reggere con questa distribuzione ingiusta e iniqua di ricchezza: non è discorso di carità, ma proprio di giustizia.
Tra gli Italiani ci sono persone egoiste e razziste come persone generose e disponibili all'accoglienza, ci sono delinquenti e onesti, scansafatiche e operosi proprio come tra ogni altro popolo, nei nostri geni e nelle nostre culture ci sono già i geni e le culture di tutto il mondo. Speriamo che questo ci aiuti a farcela, non per conservare quello che siamo e il nostro orto in cui vogliamo sentirci (come è giusto che sia), un po' al sicuro con il benessere che abbiamo conosciuto e che conosceremo inevitabilmente sempre meno, ma a cambiare per come volenti o nolenti comunque saremo costretti a cambiare incontrando gli altri che comunque arriveranno.
Attraversare il mondo, oggi è incomparabilmente più semplice rispetto al passato e anche inevitabile, pensare di chiudersi oggi può solo essere patetico.
#628
Paul, certo che l'uomo è, nel suo particolare modo di essere, ossia nel suo essere un ente, un ente conoscitivo, anzi si potrebbe dire che ogni vivente essendo senziente è un ente conoscitivo, laddove però nell'uomo questa conoscenza si esprime in modo riflessivo reiterato potenzialmente all'infinito: l'uomo conoscendo conosce se stesso e conoscendo se stesso conosce il mondo in sente di vivere e questo lo fa attraverso il linguaggio con cui sviluppa relazioni reciprocamente influenzanti con altri esseri umani, che condizionano la conoscenza di altri esseri umani. Ma non può entrare in relazione con l'Essere in quanto tale, poiché è nell'Essere; è in esso compreso e non comprendente, ne è parte in ogni modo e in nessun modo può elevarsi su di esso per coglierne il panorama e definirlo (anche se in qualche modo, soprattutto in Occidente, si è sempre pensato di poterlo fare: l'Essere è Dio, l'essere è lo Spirito assoluto, oppure è Materia assoluta sempre in divenire, ma tutti questi non sono che enti, al massimo super enti se proprio li si vuole considerare tali per idolatrarli e come enti in rapporto all'Essere uno vale l'altro. Se ho detto che ogni volta che si pretende una chiara definizione da cui tutto si possa spiegare si cade nella superstizione, intendendo con tale termine una potenza senza conoscenza, è proprio perché dell'Essere non possiamo avere alcuna conoscenza mentre ci si illude di poterne avere dominio. Non mi stupisco che trovi contraddittorio questo mio dire, dell'Essere si può dire solo contraddicendosi, proprio perché è tutto ciò che è, non è due, è uno, ma nell'uno l'uno è due: l'ente e la sua negazione. Hai presente il Tao? Forse il Tao è  la metafora più pertinente dell'Essere, che pur tuttavia è ancora solo metafora, perché solo come le metafore sono i termini dei nostri discorsi.
La parte non è il Tutto, ma ne è parte (e lo sottolinea pure Severino, al contrario di Hegel che pensa che la sua dialettica possa pervenire alla totalità: che grande, ultima illusione della vecchia metafisica quella di Hegel! Un portentoso fuoco d'artificio finale a rischiarare le tenebre, poi le tenebre): l'onda non è l'oceano anche se sotto di essa vi è tutto l'oceano, come sotto ogni altra onda, ma l'oceano è anche qualcosa di infinitamente meno dell'onda, non ha possibilità di definirsi se non come un'onda e un'altra e ancora un'altra: solo nelle infinite onde può trovare la sua vera definizione, ma le onde non finiscono mai e l'Essere non completa mai il suo nome. Ancora una metafora questa, perché non c'è altro modo di esprimersi in merito al rapporto tra essere ed ente e nessuna metafora sarà mai assoluta, tutto il nostro linguaggio è dato da metafore e metafore di metafore, possiamo comprendere solo le nostre metafore  che finiranno prima o poi con il contraddirsi.
L'uomo non può fare a meno di cercare sempre il significato e il significato del significato e il significato dei significanti con cui indica il significato (quindi con continue inversioni tra segno e cosa) sperando di cogliere il significato vero di se stesso: non può non farlo (a differenza di un'ameba) proprio per quello che è nella sua specificità di ente, proprio perché non è un'ameba, l'ameba è molto più vicina all'Essere di qualsiasi uomo e per questo infatti non ci dice nulla oltre a quello che la sua semplice presenza rivela all'uomo che la osserva e a volte la invidia. L'uomo è in questa eterna peregrinazione che si esprime nel suo riflettere, nel suo pensare sentendo insieme ad altri uomini che condividono l'uno con l'altro il proprio destino e reciprocamente lo condizionano. Ma non solo gli uomini che stanno ora intorno a noi, tutti gli esseri umani comparsi sulla terra.
Giungere a sapere di non sapere, non significa rinunciare a sapere tanto non si saprà mai nulla, ma al contrario, significa non poter non continuare a tentare di sapere, di modo che ogni illusione possa essere tolta e ogni superstizione (intesa nel modo che prima dicevo di potenza senza conoscenza) superata, soprattutto  quelle che costruiamo in merito a noi stessi.
Hai detto bene, in qualche modo noi comprendiamo, ma qualsiasi cosa noi comprendiamo sta sempre oltre la nostra comprensione, ogni passo sul cammino della conoscenza colloca il traguardo sempre un passo più avanti e ogni cammino è in realtà un ritorno. In fondo ogni essere umano è sempre in cammino tra i segni e i significati che compongono le metafore (a volte magnifiche metafore) con cui si esprime ed è proprio questo cammino che va garantito e preservato, non le illusioni di essere arrivati alla meta definitiva, in cima all'altare di un pensiero astrattamente metafisico da cui tutto si spiega con certezza per l'eternità.
Pure Severino lo dice: il pensiero astratto può cogliere la Gioia della Gloria, ma concretamente essa non appare, anche se è necessario che concretamente appaia.
#629
In effetti è vero, sono soprattutto i civili e le persone delle classi popolari a essere colpite dal terrorismo, ma non solo islamico, anche Occidentale, se si considera chi sono in primissimo luogo le vittime dei bombardamenti nei paesi islamici. E' strano, perché all'inizio del secolo i terroristi volevano colpire solo i capi di stato, gli esponenti delle case regnanti. Poi da un lato forse la cosa è diventata sempre più difficile, dati i sistemi di sicurezza a questi assicurato, poi ci si è accorti del grande effetto delle bombe sui civili indifesi, molto più facile da assicurare e, in alcuni casi, l'unico modo (per quanto atroce) per farsi sentire quando il divario tecnologico tra i contendenti è enorme.
Non so se Fusaro ha ragione o meno, non credo che ci sia per nulla un disegno del capitale che guidi le organizzazioni terroristiche islamiche a colpire i poveracci, semplicemente è più facile se non l'unica via possibile che hanno per combattere la loro guerra procurando dolori e danni a un nemico di enorme capacità tecnologica rispetto alla loro. 
#630
Veramente nella lingua inglese attuale esiste praticamente solo il voi (you che è sempre  plurale), mentre il tu è una forma arcaica, conservato solo nelle preghiere (thou, con il quale ci si può rivolgere solo a Dio). Questo non esclude ovviamente le forme di rispetto che si ritrovano negli appellativi e che, come in tutte le lingue tendono via via a scomparire.
Gli antichi Romani invece è noto che usavano solo il tu per rivolgersi a chiunque altro, imperatore o schiavo che fosse, ma naturalmente il senso di rispetto era diverso. Poi con il medioevo, venne in uso il "voi" e infine lo spagnoleggiante "lei". In entrambi i casi la forma di rispetto ha il significato di evitare che appaia che ci si rivolge direttamente alla persona con cui si interloquisce. Il voi stempera il singolare in una pluralità indefinita, il lei tratta l'interlocutore come una terza persona a cui non ci si può rivolgere mai direttamente.
Comunque sia un uso generalizzato del tu, come quello del lei fanno perdere al pronome qualsiasi significato differenziante. Paradossalmente ho notato che spesso in certi ambiti lavorativi il tu è sempre usato tra persone che si sentono quanto meno di pari rango, mentre il lei a volte è utilizzato per rimarcare l'inferiorità dell'interlocutore.