Citazione di: Koba II il 27 Ottobre 2024, 09:54:43 AMMettendo da parte ciò su cui non possiamo dire nulla di definitivo, ovvero Dio, per quanto riguarda il fondamento della morale non rimane che riflettere intorno all'uomo e alla natura.
Dal punto di vista scientifico possiamo dire che ogni creatura cerca la felicità (benessere, maggiore vitalità, prosperità), e nello stesso tempo che ogni creatura è legata all'altra e al proprio ambiente.
Quest'ultima asserzione (già sostenuta in tanta metafisica, in particolare in quella neoplatonica) può essere dimostrata proprio nel senso della fisica moderna: idealizzando un sistema chiuso (così come nella meccanica si idealizza un sistema con un numero limitato di variabili) si può vedere come la conclusione non possa che essere la seguente: è l'interazione tra le singole creature a decidere la prosperità o la fine della vita nel sistema.
Se ad un'interazione virtuosa, anche se non consapevole, succede un approccio esclusivamente conflittuale (semplificabile in "mors tua vita mea"), la prosperità nel sistema avrà probabilmente all'inizio dei picchi locali per poi estinguersi e lasciare il posto al deserto.
Da una parte la competizione sembra essere un elemento indissolubile di tanti aspetti della natura (la vita dei carnivori e dei parassiti, per esempio), dall'altra è constatabile con tutta evidenza questa interazione virtuosa che sembra essere anche più essenziale, quasi fosse una logica superiore ma immanente la natura stessa e che solo ora abbiamo iniziato a comprendere sul piano scientifico.
La sapienza filosofica (fino a Spinoza) ha sempre cercato di sciogliere questa contraddizione con la conoscenza. Conoscenza di ciò che è essenziale (il legame con il Tutto, la necessità della Natura, l'uomo come espressione del divino e quindi capace di accedere alla Sapienza) rispetto a ciò che è puro accidente (la violenza, l'errore, l'isolamento).
Attraverso la conoscenza filosofica arrivo a capire in modo indubitabile che sono legato a tutte le altre creature, il cui accrescimento in vitalità è quindi anche mio specifico e particolare interesse.
Il sapiente si prende cura degli altri perché gli altri sono parte, per quanto piccola, tenue, di se stesso.
Questo modello era comunque accessibile ai soli filosofi.
Ma a che punto siamo arrivati noi, ora?
Qual'è la vera difficoltà nel fare in modo che l'idea dell'interazione virtuosa come espressione dell'essenza stessa della natura e dell'uomo diventi una nozione comune, scontata, come comune e scontata è la cura per il luogo in cui si abita?
I modelli filosofico-sapienziali da che cosa sono stati sostituiti? I discorsi sull'etica della compassione, dell'empatia quale ruolo hanno in questo fallimento? Tutto quel sentimentalismo morale...
Forse dovremmo ricordarci che ogni emozione (quindi anche la compassione) è una reazione istintiva dell'organismo nel suo complesso ad un evento potenzialmente dannoso o benefico.
Nel dolore che si prova per la sciagura dell'altro l'organismo, saggiamente, ci ricorda, non solo che potrei essere io al suo posto, ma che, in un certo senso, quello sono proprio io, anche se solo in parte, alla lontana. Indubitabilmente quella sciagura, ogni sciagura, è una perdita che mi tocca, concreta, oggettiva, quantificabile, per quanto piccola.
Nella compassione forse emerge dalle profondità dell'organismo un sapere antico ma sempre dimenticato, sempre rimosso.
Noi però veniamo subito catturati dalla nostra stessa commozione, prova della nobiltà del nostro animo. Nasce così lo strano spettacolo della sofferenza, terapeutico in quanto muovendoci alla commozione ci rassicura sul fatto di avere un cuore. Ma il vero messaggio, la vera informazione, che è scientifica, oggettiva, non vagamente sentimentale, e che è: "quel corpo straziato sei anche tu, è una parte di te", finisce ineluttabilmente per andare dispersa.
A me sembra fin troppo ottimistico considerare la cooperazione armoniosa la "sostanza" della natura e la competizione, il mors tua vita mea, come un mero "accidente".
Un esempio di mors tua vita mea puo' essere il fatto che il leone e' un predatore, e, per sopravvivere, deve uccidere e mangiare la gazzella.
La gazzella, dal canto suo, deve sempre scappare al meglio delle sue forze , anche se cio' implica far morire di fame il "povero", per modo di dire, leone.
Di solito, l'accidente e' quello che puo' essere rimosso o omesso senza che cambi la sostanza.
Se invece eliminiamo del tutto la competizione e la violenza da un sistema naturale, spesso abbiamo la morte di almeno una delle sue parti.
Se il leone rinumciassa alla sua "violenza" predatoria, cioe' se non inseguisse piu' la gazzella, morirebbe di fame. Non ha un sistema interno in grado di metabolizzare l'erba, o tanto meno di trarre energia dal sole. Se la gazzella diventasse fatalista o apatica, e non fuggisse piu' alla vista del leone, in breve tempo, non ci sarebbero piu' gazzelle.
La realta' e' che le istanze competitive e individualizzanti, e quelle cooperative e tendenti alla riunificazione del tutto, sono alla pari, in natura, e sono entrambi essenziali.
Non c'e' una gerarchia "ottimistica" in natura, che ponga la cooperazione come la sostanza, e la competizione come mero accidente. E' essenziale per il leone ammazzare la gazzella quando ha fame, come e' essenziale per lui che tutto il sistema ecologico della giungla funzioni, certo anche nei suoi aspetti cooperativi e simbiotici, a partire dal suo stesso branco, come branco di leoni.
Del resto perche' la totalita' si ponga come desiderio, desiderio-del-tutto (che giustifica l'altruismo del sapiente come un ponderato e superiore egoismo, perche' l'altro che soffre davanti al sapiente, e' il sapiente stesso) e' necessario che la totalita' sia mancante, come realta', quantomeno nel cuore di chi in un dato attimo la desidera; cioe' che le istanze egoiche ed egoistiche rivelino la loro sostanzialita', non gia' lo loro accidentalita'. Per esserci desiderio, della totalita', deve esserci mancanza, della totalita', e tale mancanza, deve generare, in chi la avverta, sofferenza. Desiderio vero, implica mancanza vera, del desiderato. Se la totalita' fosse gia' perfettamente realizzata, non la desidererebbe, nessuno, anche perche' non ci sarebbe, "nessuno" e intendo nessuno di realmente individuato e individuale, a desiderarla. Per essere in grado di desiderare problematicamente e panicamente il tutto, devi (prima) essere individuo.
