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Messaggi - maral

#631
Citazione di: SariputraUn simile "Essere" non è concepibile né dalla ragione, né dal sentimento, né dall'intuizione. La domanda allora diventa: Cosa ce ne facciamo?
Nulla, l'ente non può fare alcuna cosa dell'Essere, non può utilizzarlo in alcun modo. L'Essere in quanto tale non è qualcosa a disposizione dell'ente.
CitazioneLeviamo il calice e godiamo di quella poca gioia che la vita ci riserva?...
Non sarebbe una cattiva idea, come diceva Socrate sapere di non sapere è il massimo sapere che ci è concesso, cerchiamo solo di vivere come meglio possiamo, per quello che siamo e non possiamo non essere: l'altrettanto famoso "conosci te stesso" scritto sul tempio di Apollo (e Dioniso) a Delfi.

Citazione di: PhilSecondo me, l'Essere non necessita di maiuscola, ma è semplicemente la forma sostantivata del verbo "essere", ovvero è come "l'amare" o "l'udire" o "l'imparare"... l'essere è principalmente la predicazione dell'esistenza, sia essa empirica, concettuale o soltanto (inevitabilmente) linguistica; lo dimostra il fatto che ogni "essere" deve essere logicamente riferito a un soggetto: "x è", per dire che "x" esiste; oppure "x è y" per dire qualcosa ("y") riguardo "x".
Anche dire che l'Essere è solo la forma sostantivata del verbo essere significa ridurlo a un ente (come tanti altri enti: l'amare, l'udire, l'imparare ecc., che comunque sono aspetti dell'Essere esistenzialmente inteso). Certo, l'essere implica l'esistenza, ma implicandola ne implica anche la negazione. Dicendo che x è (l'ente è) non dico altro che x è x (che non equivale a dire che x esiste, se per esistere intendiamo si manifesta, appare a qualcuno), ossia con x è si afferma la perfetta tautologia di x che genera un non x e quindi già lo pone come ente anche se di x non sto predicando nulla. Dicendo invece che x è y affermo che c'è qualcosa di x che trovo anche in y, ma per vedere questa somiglianza devo comunque in qualche modo avere (a priori) x e y come generalità. Non posso cioè predicare che questa mela è rossa, senza già sapere cosa in generale è la mela e cosa in generale è il rosso (per quanto sia mela che rosso si possano a loro volta dire nella loro particolare universalità di significato in molti modi linguisticamente diversi, basta intendersi).
In merito alla diversità dei linguaggi che tuttavia pare far riferimento a una fonetica espressiva originaria non arbitraria mi sembra interessante il richiamo a questa ricerca: http://www.repubblica.it/scienze/2016/09/13/news/studio_con_lo_stesso_suono_gli_umani_esprimono_la_stessa_idea_anche_in_lingue_diverse-147714389/?ref=HRLV-22

@Paul, sei d'accordo che dell'Essere nulla si può dire? Se sei d'accordo come puoi dire (o come può dire Hegel) che l'Essere è lo Spirito da cui discende tutto il resto. Certo, dell'Essere si può dire anche qualsiasi cosa, si può dire che è Spirito, Materia, basta non pretendere che sia solo questo o quest'altro, perché pure quest'altro è, nel modo in cui viene a essere. Dire che l'Essere è lo Spirito è equivalente a dire che l'Essere è la Materia, dato che nell'Essere ci stanno entrambe le cose.
Mi dispiace deluderti nelle tue speranze, ma a mio avviso non può esistere una filosofia che "comprenda interamente il processo fra l'essere e le contraddizioni del conoscere nell'esistenza", giacché questo implicherebbe poter comprendere l'essere in cui invece ci troviamo sempre compresi come enti esistenti (e dunque contraddittori), ma non per questo la filosofia è morta, perché non è morta e non morirà mai la tentazione di fare di un modo di concepire e vedere il mondo un assoluto (ossia di fare di una filosofia una superstizione) e la filosofia può continuare a vivere proprio combattendo contro questa tentazione. Può quindi vivere di un compito continuamente decostruttivo per consentire una dimensione vivibile anziché assoluta e dunque invivibile come la follia. E questo, per quanto l'assoluto resti sempre sommamente desiderabile, non è a mio avviso per nulla uno scopo secondario, perché se le vecchie metafisiche sono decedute, ce ne sono sempre di nuove, ben più potenti e suggestive che vogliono prenderne il posto per costruirsi come assoluto.
#632
Se "l'Essere tace nel suo semplice è" come si può dire che è lo spirito? Dicendo che è lo spirito, anche se poi si afferma che dello spirito nulla di può dire, si è già reso l'essere un ente, se ne è presentato un predicato a cui si contrappone la sua negazione, il non spirito, forse quella materia che però ugualmente è e dunque rientra nell'Essere. E perché mai, dato che qualcosa si è detto dell'Essere non si potrebbe predicare ancora dello spirito come di un qualsiasi ente, e predicare all'infinito, come di un qualsiasi ente. Dicendo che l'Essere è lo spirito si è già posta una dualità e ogni dualità continua all'infinito a scindersi negli enti, possiamo cominciare a contare!
L'Essere non è né spirito né materia, poiché è entrambe le cose, esso non ha nome perché ha ogni nome e quando diciamo Essere, diciamo qualcosa che non ha significato perché ha ogni significato, è l'uno e il molteplice, è tutto e niente, è contraddizione che non presenta alcuna contraddizione. E' e quindi appare, ma è e pertanto non appare: appare nel continuo infinito sorgere e tramontare degli enti e si nasconde nel medesimo sorgere e tramontare. E anche questo continuo apparire e scomparire deve apparire e scomparire nell'Essere, perché anch'esso come ogni cosa è.
Ogni dire appropriato dell'essere è inappropriato, ogni senso è insensato, proprio come queste parole. Avvicinarsi all'Essere è entrare nella follia più profonda e originaria degli enti ove tutto e nulla accade.
#633
Citazione di: paul11Allora  il problema diventa: è coerente la jihad ,intesa come guerra santa ,da parte di un islamico rispetto al loro testo sacro?
Chi può dircelo? Un jihaddista non avrà dubbi circa la coerenza, un sufi invece dirà che  tradisce completamente lo spirito islamico, dettato dall'amore, un altro ulema musulmano magari spiegherà che la Jihad è una sorta di lotta interiore contro il potenziale infedele che c'è in ogni credente e in tal senso va intesa leggendo i versetti coranici. Purtroppo tutti i testi sacri sono terribilmente ambigui, Bibbia compresa: è in nome della Bibbia che i Cristiani si sono prodigati per secoli nello sterminio del prossimo, è in nome della Bibbia che è stato perpetrato da parte dell'Occidente lo sterminio culturale e fisico (le due cose sono collegate) di intere popolazioni considerate selvaggi da civilizzare o senzadio, seguaci del demonio da sgozzare in massa e a volte, sempre in nome della Bibbia e di Vangeli, quelle popolazioni sono state anche tutelate, soccorse e difese, dipendeva da come si leggevano quei sacri testi e da chi li leggeva. Chissà, forse non è un caso che la parola di Dio, qualsiasi Dio la pronunci, resti sempre un mistero di cui però tutti pensano di avere la sola chiave. D'altra parte non si fa mai così male come quando si è convinti  senza ombra di dubbio, di essere dalla parte del bene
In ogni caso chi, da non islamico, può giudicare del riferimento religioso degli islamici (e di quali islamici poi: i jihaddisti del califfato? i Wahabbiti? i sunniti? gli sciti? i sufi? i curdi? gli ismaeliti? Gli afghani? Boko Haram? l'Aga Khan? Tutta gente che si massacra in nome della corretta lettura del Corano, così volentieri a vicenda, ben più volentieri di quanto non attacchino gli Occidentali - Queste cose anche noi le sappiamo bene: lo abbiamo fatto per secoli con grande gusto, proprio in Europa).

A me non pare per nulla calzante il paragone istituito da Gibran tra il valore di una religione e il giudizio sul valore artistico delle fotografie (anche se pure su quello si potrebbe discutere, al di là delle considerazioni tecniche: una fotografia, come un quadro può essere tecnicamente perfetta senza esprimere assolutamente nulla e quindi non avere alcun valore). Chi è il valutatore del valore di una religione? su quale interpretazione lo applica? Con quale metodologia o competenza? C'è in questo forum un minimo di competenza in merito? Ci sono islamisti competenti qui? e anche se ci fossero cosa darebbe al loro giudizio una qualsiasi validità oggettiva come per la corretta esposizione di una foto? Da quali altari pronunciamo i nostri giudizi perché siano qualcosa di più che banalissime e personalissime opinioni dettate da pregiudizi più o meno giustificabili?
La religione di per sé non è semplicemente un'etica, non trovo lecito valutarla nemmeno dal punto di vista morale, ma anche se così facessimo a quale comandamento morale assoluto potremmo fare riferimento? Forse possiamo, da un punto di vista laico spassionato, considerare le religioni nel loro aspetto di fenomeni sociali, valutarle pragmaticamente in base a come socialmente funzionano, ma allora l'Islam, nel suo complesso, non solo è una religione, ma è una grande religione, un enorme fenomeno culturale e sociale e tale si conserva ormai ben di più dello stesso cristianesimo, sempre più soppiantato, nei paesi in cui si è originariamente sviluppato, suddiviso e moltiplicato, dalla visione tecnico economica dell'esistenza. L'Islam coniuga ancora il mondo all'assoluto, proprio come vorrebbe Gilbran, solo che quell'assoluto non è il suo assoluto (come sempre succede quando si pretendono assoluti riferimenti, si incontra quello che non li ha e ne ha di diversi).
L'Islam soprattutto, che lo si voglia o meno, è oggi il fenomeno culturale dei paesi più poveri del mondo (e lo sta diventando anche nelle periferie delle città più ricche dell'Occidente, tra gli immigrati di seconda o terza generazione, i giovani che si speravano assimilati tra la delinquenza giovanile occidentale, quelli che manco si sognavano di andare più in moschea e conducevano una vita tutt'altro che islamico conforme), è la bandiera delle masse più povere del pianeta da quando quella rossa resta ammainata. A noi gli islamici disturbano e danno fastidio tutti quanti forse proprio per questo spiega il perché, ma non ha nulla a che vedere con la validità religiosa della loro multiforme religione.
#634
Attualità / Re:Burkina
11 Settembre 2016, 21:35:15 PM
In qualità di moderatore ho cancellato gli ultimi tre interventi per  gli insulti e le degenerazioni ad personam. Invito formalmente gli autori e in particolar modo verdeidea a moderarsi nelle espressioni.
#635
Attualità / Re:Migranti
11 Settembre 2016, 20:12:21 PM
Sarà pure interessante discutere su quale posto occupi la carità nel cristianesimo in rapporto alla giustizia, pur tuttavia, non essendo teologo, non mi arrischio, ma mi limito solo a notare che tutti i vangeli fanno perno sulla carità che resta il modo fondamentale e imprescindibile di esercitare l'amore per il prossimo secondo il divino comandamento (poi chi sia questo prossimo è spiegato nella parabola del buon Sammaritano). Non so nemmeno se possa esistere, da un punto di vista cristiano, un conflitto tra vera carità e vera giustizia e se un cristiano che abbia la fede (la prima delle virtù teologali, come giustamente precisa donquixote) possa definirsi cristiano anche se gli manca la carità (solo terza nella lista).
Ma lascio perdere l'argomento e torno al tema centrale della domanda che è un tema assai complesso, impossibile da risolvere a breve, anche se qualcuno (e sono tanti) crede che basti costruire delle barriere dimenticandosi che non vi è barriera che non sia aggirabile e che tutte le barriere sono punti permeabili in cui quello che si vorrebbe escludere per timore di contaminazioni proprio lì, sulla barriera ci mette in discussione incontrandoci. E' sempre stato così, ma la storia si dimentica. le culture, tutte, si mischiano che lo si voglia o meno e muoiono, il problema è come regolare e se è ancora possibile regolare il mescolamento con tutti i travagli che comporta. Le migrazioni non si fermano, da qualsiasi ragione dettate e davvero non ha alcun senso separare i profughi di guerra o i profughi politici dai migranti economici, come se morire di fame fosse qualcosa a cui fosse doveroso rassegnarsi ben di più che morire sotto una bomba. E detta da un popolo che ha nutrito per decenni la migrazione economica in tutto il mondo, incontrando accoglienza, ma anche molto disprezzo e prevenzione razzista, la cosa suona quanto mai strampalata.
Dal punto di vista del peso economico della migrazione credo che questo articolo aiuti a capire con dei numeri http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/07/11/i-migranti-pagano-la-pensione-a-620mila-pensionati-italiani/2896774/: economicamente questo paese ha bisogno di immigrati, del loro lavoro e dei loro consumi che, bene o male, rimpinzano le casse dello stato italiano con un netto di 4 miliardi che pagano le pensioni e i servizi di una popolazione indigena (ma anch'essa risultato etnico di millenni di immigrazioni) sempre più vecchia e, vogliamo dirlo, sempre più senza speranza che vada oltre il proprio immediato piccolissimo egoismo. E ancor più dei migranti ne hanno bisogno tutti quelli che campano su di essi mandandoli a raccogliere frutta e pomodori per pochi spiccioli, o per affittare tuguri, o per fare da bandanti ai propri vecchi. Dopotutto anche questa economia spicciola rientra nelle leggi del capitalismo: quella sacrosanta della domanda e dell'offerta, ma forse non tutti i migranti sono come il Ghanese di cui ci dice Verdeidea, proprio come forse nemmeno tutti gli Italiani sono indefessi e onesti lavoratori. Il problema economico che ci attanaglia non è dovuto a chi sta sotto, ma a chi sta sopra e come un'idrovora assorbe per sé ogni risorsa e trattiene ogni briciola, ma chissà perché questo non appare alla coscienza di chi sta sotto sul quale si riversa il debito come senso di colpa.
Certo, le migrazioni sono un grande problema, perché mettono in discussioni le nostre sicurezze, i nostri ripari, ci espongono alle minacce del diverso, alle reciproche incomprensioni con tutte le tragiche conseguenze che ne derivano, ma questo è un prezzo che comunque finiremo per pagare. E il prezzo discende dal fatto (economico) che i nostri fortunati paesi (il 20% della popolazione del pianeta), consumano e sperperano l'80% delle risorse e dove le prendiamo tutte queste risorse? Non in casa nostra. Non possiamo dimenticarci che non ci sarebbe stato alcuno sviluppo industriale senza milioni di schiavi importati da tutte le parti del mondo e in primo luogo dall'Africa. Non possiamo dimenticarci che questo nostro benessere che non possiamo perdere è il risultato di secoli e secoli di sfruttamento e schiavismo che l'Europa prima e gli USA poi hanno compiuto in tutto il mondo, a danno di tutto il mondo e che continua, anzi aumenta, tutt'oggi. Non possiamo dimenticarci che le guerre senza fine che affliggono quei paesi, direttamente o indirettamente, dal colonialismo commerciale a oggi, le portiamo noi, giacché comunque ci conviene.
E il conto finiremo con il pagarlo comunque e sarà doloroso, cerchiamo almeno, fin dove possibile di gestirlo se non con senso di carità, almeno di giustizia.
#636
Attualità / Re:Burkina
11 Settembre 2016, 13:03:49 PM
Gibran, per quanto riguarda il concetto di cultura di cui mi chiedi a quale definizione faccio riferimento quando parlo di arrogante ipocrisia culturale dell'Occidente, non ho difficoltà a riconoscere che intendo per cultura il significato complessivo di una civiltà (ossia di un'unità specifica che accomuna un popolo o più popoli sotto uno stesso segno che ne riflette il significato). Questo significato complessivo è certamente analizzabile e suddivisibile nei suoi ambiti particolari (a loro volta ancora più dettagliatamente suddivisibili) a cui ci si può attenere separatamente. Ma qui parlo di cultura in termini generali e il segno che a mio avviso (dunque relativamente a come io sento la questione) contraddistingue la cultura occidentale moderna (questo non esclude il poterne cercare altri che comunque non sopprimono questo) è quello di un'estrema arroganza ipocrita che ha la sua ragion d'essere nella storia dell'Occidente imprescindibile dalla storia del cristianesimo: la cultura occidentale ha la sua ragione di successo nella sua arroganza di cui l'ipocrisia si è dimostrata utilissimo strumento e l'arroganza ha la sua ragion d'essere nel pensare progressivo che il cristianesimo introduce in seguito nel pensiero laico e ateo dell'Occidente (ma, in questi termini, l'Islam non fa differenza, anche se non è ancora maturato nella stessa direzione. Finirà comunque per farlo, salvo le resistenze che noi, con la nostra arroganza estrema continuamente solleviamo).
Se invece ci vogliamo specificatamente soffermare sulla cultura tecnica che comunque rientra nel gioco culturale complessivo introdotto dal modo di pensare cristiano dell'Occidente, è indubbio che essa ha la capacità di scardinare ogni altra cultura che si riveli tecnicamente inadeguata, è indubbio che non solo i riti sciamanici o le preghiere mostrino ben minore efficacia rispetto agli antibiotici (almeno finché gli antibiotici funzioneranno) e soprattutto che le scimitarre non possono nulla contro bombe e carri armati, per cui, che lo si voglia o meno, saranno bombe e carri armati che finiranno tutti per usare, se non verranno prima sterminati fino all'ultimo, chiunque usa scimitarre e chiunque preghi Dio o Allah. Perché la cultura tecnica, che è cultura di ciò che funziona, non conosce alcun limite e confine, si afferma in Occidente, ma si estende ovunque inevitabilmente e non si riconosce come occidentale, ma è per sua natura globale. Non ha alcun senso ipotizzare di poterla rifiutare, nemmeno da un popolo di eremiti, giacché il suo presupposto è che funziona e deve funzionare per tutti, in assoluto, basta saper come fare.
L'aspetto tecnico della cultura, proprio perché appare come l'assoluto del funzionamento, a sua volta finisce per condizionare a sé ogni altro aspetto, senza che sia possibile opporre alcuna resistenza. Ma è proprio nella differenza che gli altri aspetti mantengono nonostante le loro pretese unificatrici e che invece la tecnica sopprime che può mantenersi l'umano, il significato dell'esistenza umana. E qui rientra il discorso sul relativismo, che certamente è debole e contraddittorio, e per questo alla fine il relativismo aspira a porsi come assoluto e alla fine riconosce l'assoluto proprio nella tecnica, ossia nella capacità di potenza che essa dispiega a chiunque: la democrazia dopotutto non è che una tecnica, l'economia pure, l'etica anche, ogni religione finisce con il diventarlo (e i papi alla fine non potranno che esserne i funzionari), come finiscono per diventarlo gli stessi diritti umani e senza bisogno di convertire nessuno alla loro suprema ragione, se funzionano (ma non fuzionano e continuamente lo dimostrano, anche nei paesi in cui sono stati stabiliti) siamo già tutti convertiti ... La domanda a questo punto è: che fine facciamo noi esseri umani in questa inevitabile prospettiva tecnica? Non come possiamo garantire l'omologazione, ma come possiamo garantire la differenza?  Garantire l'indispensabile altro da me, senza il quale io non posso esistere anche se lo odio, lo detesto, lo trovo incomprensibile e tanto minaccioso? Questo è il punto. 
#637
Attualità / Re:Burkina
11 Settembre 2016, 11:42:18 AM
@Gibran, il problema sta proprio nella Carta dei diritti dell'uomo prodotta dal mondo occidentale (guarda caso come il burkini, ideato in Australia da una donna nata in Libano ed emigrata lì all'età di due anni: bisognerebbe riflettere anche su questo fatto per capire cos'è questo burkini di cui tanto si è detto), ma che l'Occidente non ha tuttora alcuna difficoltà a tradire nei suoi principi, se conviene (e spesso conviene, magari senza darlo troppo a vedere mentre si ribadisce con grande impeto formale l'esatto contrario). La carta dei diritti dell'uomo non l'hanno scritta i membri della casa reale dell'Arabia Saudita, che meritano certamente ogni disprezzo culturale, non fosse per il petrolio, il flusso di cassa del commercio di armi e l'alleanza con gli USA, e nemmeno gli emiri degli Emirati Arabi (sulle cui spiagge gettonatissime peraltro dal ricco turismo occidentale, non credo sia un problema indossare il bikini, proprio come non credo sarebbe un problema il burkini sulla Costa Azzurra, se a metterselo fossero ricchissime spose e figlie di emiri, per qualsiasi motivo lo mettessero).
Certo, il divieto imposto da alcuni comuni della Costa Azzurra rispondeva a una reazione emotiva, e questa è comprensibile (anche se non giustificabile a un minimo di riflessione), e le reazioni emotive sono sempre cavalcate da chi sa trarne profitto (come la storia del nazismo dovrebbe insegnare, ma si sa che la storia non insegna proprio nulla ed è subito dimenticata).
Forse l'unico aspetto positivo della faccenda è che dovrebbe portarci a riflettere (da Occidentali la cui cultura ha formulato con ben scarsi effetti i diritti umani) che se gli atti terroristici in Francia hanno portato alla caccia al burkini (indumento di ideazione femminile che paradossalmente tenta una sintesi di assorbimento culturale alla nostra cultura della balneazione e del mercato) a cosa porteranno i massacri quotidiani di popolazioni civili in quelle regioni? Forse questa domanda potrebbe aiutarci a capire le ragioni di odi e di speranzose farneticazioni, degli appoggi che queste raggiungono nelle masse: poiché se tutti i musulmani in quanto tali, per ragioni emotive, appaiono cattivi dopo gli attentati a casa nostra, come dovranno apparire a quei musulmani tutti gli Occidentali e i segni dell'Occidente che essi portano , per le stesse ragioni emotive, dopo le nostre bombe a casa loro, per di più accompagnate dalla propaganda della nostra indiscutibile superiorità culturale che ci chiede di ammaestrare il mondo intero volente o nolente? Magari alla fine, si potrebbe capire, come dal punto di vista emotivo, tutti gli esseri umani, al di là dei loro costumi, religioni e più o meno riprovevoli usanze di riferimento, sono in linea di massima emotivamente uguali e culture, religioni ed enunciati non bastano certo a renderli migliori, ma solo a giustificarli del peggio che fanno gli uni agli altri e alla fine tutti contro se stessi.
#638
Se non vi è scampo alla nostra fallibilità poiché nulla si potrà mai dire con assoluta certezza, è la nostra fallibilità a riproporsi come assoluta certezza e dunque parimenti non vi è scampo alla certezza; se le teoresi prima o poi tutte naufragano nel gioco dei significati che istituiscono per cui pare non restare altro che rifugiarsi sul terreno solido di prassi verificate e tecnicamente omologate, non può sfuggirci che in tal modo è una nuova teoresi a venire stabilita con la sua corte di significati che la porterà ugualmente prima o poi al naufragio.
Ogni essere umano ormai può apparirci solo come un doppio che si contraddice e non è una questione di scelta dettata da volontà perverse: la fine dell'ente metafisico non dipende da noi, ma la fine dell'ente metafisico non è nemmeno una fine, solo una diversa proposta che istituisce la metafisica della prassi.
Ogni uomo in quanto tale (in quanto cosciente) è un po' dentro e un po' fuori al suo mondo e a se stesso, delocalizzato tra il significante e il significato, tra il segno e la cosa che quel segno solo indica desiderando che si riveli finché quel segno finisce con il prendere il posto di ciò che indica tramutando il segno in cosa e la cosa in segno, senza nemmeno che ci se ne accorga, magari come in matematica. Quando poi il segno indica il desiderio, accade pure che quel segno diventi un dio sul quale sarà necessario costruire teogonie e teologie.
Noi abbiamo bisogno di terreni solidi, ma abbiamo ugualmente bisogno dei sogni che li ricoprono, queste sono le nostre certezze che non potranno mai essere certe di alcunché, ma che ci consentiranno di poter scalare il Monte Bianco o di mandare satelliti su Giove e anche più in là. I sogni costruiscono le mappe e le mappe producono sogni così come fanno le cose.
I greci avevano ragione: a contare si comincia dal due (uno e un altro, non uno solo che non è altro che se stesso), ma il due implica l'uno che è il suo altro e ne sta a fondamento, cosicché quel 2 possa a sua volta suddividersi all'infinito inseguendo eternamente l'unità di se stesso. Dopotutto questa è la dialettica, una dialettica che, a differenza di quella hegeliana, non potrà mai concludersi in totalità, finché esiste l'uomo.
#639
Attualità / Re:Burkina
10 Settembre 2016, 22:55:34 PM
A parte l'assoluta insulsaggine della questione burkini, a cui l'alto commissariato per i diritti umani ha dato l'unica risposta sensata (occidentalmente e laicamente sensata) che si poteva dare, in essa si rivela ancora una volta l'assoluta ipocrisia arrogante che contraddistingue la cultura occidentale che si considera al di sopra di ogni altra, tanto da poter insegnare a tutti cosa è il rispetto. La cosa più penosa della vicenda è ritratta in quella foto che mostra due gendarmi in divisa (e come mai non si sono messi anche loro in costume, magari con il distintivo appeso allo slip?) intenti a multare una donna in burkini intimandoglielo di toglierselo, probabilmente volevano dimostrare come sa ancora essere solerte ed efficiente la polizia francese, nonostante le pessime figure rimediate.
Bene hanno fatto ad accostare l'immagine a quella di una suora, anch'essa ritratta in spiaggia... irrispettosamente vestita da suora. Chissà perché in questo caso nessun gendarme è andato a intimarle di togliersi subito la tonaca e mettersi doverosamente in costume, naturalmente contro l'asservimento delle donne!

PS se proprio vogliamo prendere spunti per il problema dell'asservimento delle donne, perché non si comincia a farlo da un certo tipo di pubblicità, magari quelle che vendono una colla di uso idraulico con la prosperosa immagine di una procace modella mentre si fa la doccia (e naturalmente non certo in burkini!)
#640
Citazione di: paul11 il 08 Settembre 2016, 23:32:27 PM
Maral,
l'impasse è sempre un errore della forma. la forma è una costruzione logica e metaforicamene è una casa,Costruisci piani dalle fondamenta e la capacità di sostenersi è  nei rapporti delle forze che devono essere regolati, ovvero nel sistema di relazione.
La correttezza formale è indispensabile affinchè il pensiero non sfugga alla forma e diventi fantasia o si disperda nel mondo fisico.
Non infrangerti nel disfattismo filosofico attuale che lecca le sue ferite quasi autocompiaciuto.
Ci si meraviglia se la scienza spedisce un satellite Juno su Giove? E altri compiangono se stessi nel fallimento formale? E chi mai è riuscito senza andare fisicamente su Giove, da milioni di chilometri di distanza a spedirlo senza errore? Se l'uomo evolve nella conoscenza è perchè va oltre la propria esperienza estendendo le regole formali e applicandole.Le altre culture umane non conoscono la capacità di sistematizzare e categorizzare il pensiero.
Non vorrei essere adesso frainteso.So benissimo di aporie, antinomie e paradossi.
Sto forzando il pensiero perchè vedo scoramento nelle proprie possibliità.
Non si vuol capire che la forza dei linguaggi formali è alla fondamenta di tutte le forme di applicazioni fisiche,metafisiche persino religiose.L'uomo fattosi storia e cultura decide nei cicli dei tempi di spostare i focus: prima la religione, poi la metafisica e infine la fisica e chissà mai domani.
Perchè la conoscenza ha prima ancora un' autocoscienza e viene indirizzata da una volontà.
L'impasse è un problema che si rivela sempre a posteriori di relazioni inappropriate tra forme e ciò di cui con queste forme si intende trattare. E questo comprende pure la logica, che non costituisce per nulla un modo di trattamento assoluto che spiega ogni cosa per come è, a meno di non ridursi a fare di ogni cosa una tautologia del tutto insignificante. Non vi è nulla da compiangere, ma semplicemente vi è da prendere atto del fatto che l'accesso alla realtà prima ci è precluso dalla nostra stessa esistenza cosciente (il vero peccato originale in fondo): comunque si pensi di poterla trattare noi vediamo sempre e solo gli effetti finali e parziali di catene rappresentative che stanno al di là di ogni possibilità di rendercene conto per tradurle in descrizioni che non siano a loro volta altre rappresentazioni a posteriori. Poi, in questi contesti, si può ovviamente arrivare a spedire con grande precisione una sonda su Giove, ma questo non ci dice nulla sulla effettiva conoscenza delle cose, né la aumenta, solo aumenta il senso della nostra potenza in un ambito prettamente tecnologico, ma la potenza non implica nessuna verità (e questa è una semplice constatazione logica).
#641
Citazione di: sgiomboBeh, a me personalmente la verità o falsià di ciò che si dice o si pensa interessa tantissimo.
E a chi non interessa la verità? Da sempre ogni essere umano ci corre dietro tentando di stabilirla con miti, parole o ispirazioni che giungono dall'alto, filosofie costruite razionalmente, esperienze e verifiche, teorie scientifiche. Dove sta la verità nelle infinite mappe che l'uomo costruisce per localizzarla? Dipende dalla mappa, ossia dipende dalle corrispondenze che di volta in volta si trovano con quello che vivendo sentiamo ci possa appartenere o meno. La verità è sempre in funzione del linguaggio usato per cercarla, di metafore e tropi linguistici. Vale anche per il Monte Cervino. E' solo questione di mappe, ma sotto le mappe non c'è mai solo una convenzione, ma la realtà che ogni mappa tenta di esprimere e non ci riesce mai fino in fondo, a meno di non volerlo credere per sentirsi tranquilli e al sicuro, come a casa propria o nella propria tana, finché non ci cade addosso (e allora, non sia mai, può accadere di scoprire che tutto quello che si credeva vero era falso e viceversa e che gli ippogrifi non li vedevamo solo perché quando alzavamo lo sguardo al cielo, si camuffavano dietro le nuvole).
Citazione di: paul11Pensare di non poter pensare, ovvero fermarsi alla sola coniugazione fra forma  e sostanza fisica, significa mortificare la propria essenza e potenzialità umana.
Il problema non credo sia il pensare di non pensare, ma il pensare di pensare da cui non si esce, nemmeno per non pensare. Si può certo pensare in molti modi: analitico (come Zenone che si smarrisce nella sua analisi infinita del cammino per andare da A a B e per quanto riduca la distanza non fa mai un solo passo avanti, o come fa l'attuale conoscenza specialistica che così spera di tenere tutto sotto controllo), oppure sintetico, magari dando la preminenza a un originaria vaga intuizione a priori su cui è però sempre doveroso mantenere il dubbio, anche quando l'esperienza sembra confermarla, ché l'esperienza inganna sempre tutti i suoi verificatori. Oppure induttivo: all'inizio c'erano le cose da cui astraendo si arriva alla cosa, al concetto generale di ogni cosa, al monte che sta sotto ogni singola montagna e alla regola che definisce ogni regola, some se qualcosa potesse esistere senza quella cosa che già tutte le comprende. Oppure deduttivo: all'inizio c'è la cosa generalissima, l'uno che tutto comprende e via via per sottrazione infinita, si arriva poi a ogni cosa, a vederle una per una, come a sorgere nella forma chiara che a ciascuna spetta dalla nebbia profonda che tutte le forme tiene insieme confondendole continuamente.
Non possiamo non pensare, e pensando parlare a noi stessi per poterci in qualche modo sempre un po' trovare, finché c'è la coscienza che ci mantiene in bilico tra immagini continuamente sfuggenti e disperatamente, avidamente trattenute oppure rigettate lontano con odio e disgusto, compresa l'immagine di noi stessi tra le infinite altre, finché morte non ci separi unendo e confondendo ancora ogni forma in una sola e ogni segno nell'insignificanza di tutti i segni. Come in principio: un'agitata e nebbiosa turbolenza che nulla sa di sé, nemmeno il suo nome (che altro è infatti il suo nome se non il nome di tutte le infinite forme a ognuna di esse raccontato?).
#642
Citazione di: sgiomboPensare che vi siano prima cose belle senza la bellezza che le rende in modo diverso tali é una contraddizione  che non ho mai affermato.
Sostengo invece tutt' altro: che possono esistere cose belle anche senza che nessuno ne conosca l' esistenza e che prima di vedere cose belle (a meno che non ci venga insegnato da qualcuno che più o meno indirettamente l' ha imparato vedendo cose belle) non si conosce il concetto di "bellezza": lo si conosce a posteriori e non a priori!
Ovvero che non vi é prima una conoscenza della bellezza ideale astratta senza l' esperienza delle cose diversamente e concretamente belle (che mi sembra invece proprio quanto affermassi tu)
Bene, sono contento di questa tua precisazione, se per concetto di bellezza intendiamo la sua definizione (o il tentativo a posteriori di definirla astrattamente, ad esempio definendo dei rapporti formali che la stabiliscono come regole estetiche che sono certamente a posteriori). Le definizioni (e le astrazioni a cui conducono) sono estremamente utili e sono utili per manipolare  i significati delle cose di comune accordo pensando di manipolare le cose stesse. Le definizioni si possono insegnare, ma non l'universale in quanto tale (che non è semplicemente una percezione di qualcosa di esterno, noi non percepiamo nulla di esterno), esso è già presente in ogni esperienza, ed è presente come assolutamente indefinibile e assolutamente indicibile. Ma attenzione, non vi è alcun significato universale che non si riveli proprio nelle particolari esperienze e infatti non ho mai detto che debba esservi prima una conoscenza ideale, men che meno di concetti, ma che il significato viene sempre con il segno significante e viceversa, ogni percezione con il senso che la sottende e viceversa. La cosa è sempre con la parola che la manifesta, pur essendo il mondo delle cose e delle parole indipendenti e diversi, sono due mondi legati, sempre connessi, l'uno permette l'altro senza che nessuno preceda l'altro. Noi viviamo sempre e comunque la realtà del mondo fenomenico e lo viviamo sempre soggettivamente: il linguaggio (non solo vocale) non è originariamente uno strumento inventato arbitrariamente da qualcuno per comunicare con gli altri che convengono con lui sugli stessi termini (anche se a posteriori può sembrare tale), nessuno può inventare linguaggi se non per usi molto particolari, ma è un puro strumento di espressione dell'esistenza stessa, è l'umano modo di esistere nella dimensione umana: noi parliamo come gli uccelli volano e i pesci nuotano, nessun uccello e nessun pesce ha mai convenuto con gli altri uccelli o pesci quali movimenti fare per volare o parlare, esattamente come nessun umano ha mai convenuto (se non in linguaggi formali, artificiali e dunque a posteriori) quale significato o significati dovesse indicare un segno o tanti segni anziché un altro o degli altri e in ogni caso, come gli uccelli nell'aria e i pesci nell'acqua, noi siamo sempre nel mondo del linguaggio, sia che si parli del monte Cervino che dell'ippogrifo e ciò che importa è solo il senso contestuale (e non la verità/falsità assoluta) dell'uno o dell'altro.

Propongo a tutti come spunto di riflessione, il link a una splendida lezione di Sini su questo tema, o meglio sul tema della "Differance" di Derrida, che mi pare collegabile anche al discorso sul Noumeno, all'assoluta indefinibilità del Noumeno, come all'assoluta indefinibilità e innominabilità della Differance (che poi è anche un tema profondamente legato al pensiero ebraico alla cui tradizione Derrida, come Husserl, come Levinas, come Freud, appartiene: l'assoluta inconoscibilità del none di Dio). Chiamandola così (Dio, Noumeno, Differance) si è già detto troppo, figuriamoci quanto troppo dice che pretende di parlare in nome di una metafisica definita su concetti religiosi o razionali che siano!
La lezione è piuttosto lunga, ma la complessità della questione rende necessario soffermarcisi sopra, in particolare dal minuto 21 in avanti. Molto pertinente è poi il richiamo a de Saussure sull'inestricabilità senza soluzione del rapporto tra significante e significato, intorno al minuto 40.
https://www.youtube.com/watch?v=LCSzf7Snmmk


   
#643
Anche la lotta di classe, caro Sgiombo, è condizionata nei suoi esiti dalle tecnologie che possono usare i lottatori e per questo il loro sviluppo finisce sempre, che lo si voglia o meno, per imporsi come scopo e non come mezzo.
#644
I rapporti di produzione, i rapporti sociali e il significato che essi determinano sull'individuo (e pertanto il suo modo di vedere il mondo e di vedersi nel mondo) sono comunque determinati dalle tecnologie in uso e si possono sovvertire solo in ragione del loro mutare: ogni rivoluzione è sempre prima una rivoluzione tecnologica che istituisce nuovi rapporti di forza e nuovi significati a giustificarli.
Tu dici che nulla può impedirci di rinunciare al modo capitalistico di produrre e consumare per l'incremento del capitale di pochi e la miseria di tanti e la degradazione del pianeta, certo, ma solo nella misura in cui l'interesse del capitale viene a contrastare con la crescita tecnologica che lo vede come suo strumento e non come suo fine, esattamente come vede come suo strumento qualsiasi altra istanza sociale, ambientale o economica e persino individuale. Ciascuno di noi, in questo orizzonte tecnologico che ormai non vede alternativa ammissibile (al massimo le alternative possono essere ammesse solo se non interferiscono, solo come una sorta di hobby innocuo come nelle discussioni su un forum), vale solo per la funzione che svolge e solo in essa può sentirsi riconosciuto e finire doverosamente con il riconoscersi, non per quello che è o si sente di essere, poiché ognuno deve essere la sua funzione e nient'altro.
Si può certo rinunciare ad applicare certe tecnologie, ma solo in quanto minacciano lo sviluppo tecnologico stesso nel suo complesso; si può rinunciare a usare la bomba atomica o le armi biologiche, ma non a sviluppare senza limite la potenza distruttiva della bomba atomica o delle armi biologiche e con quella sola minaccia imporsi sulla concorrenza, distruggere ogni concorrenza che non regge il passo.
La ragione a cui il modo di pensare tecnologico ci chiede di fare riferimento è sempre e solo la sua ragione, dopo il crollo di ogni altra metafisica questo modo di pensare è l'unica metafisica realisticamente ancora possibile, rafforzata continuamente dalla illimitata potenza che promette semplicemente mostrandosi, ma proprio nella sua pretesa di unicità rivela la sua autocontraddizione in cui si manifesta tutta la nostra attuale angoscia, e soprattutto nei paesi più tecnologicamente avanzati.
#645
Citazione di: paul11 il 01 Settembre 2016, 22:11:55 PM
L'utopia di riuscire a costruire un sistema formale esatto, certo, vero è esploso a cavallo fra fine Ottocento e inizi Novecento grazie alla fisica soprattutto. Il risultato è l'implosione della verità nei sistemi formali,esattamente l'opposto di quello che si voleva ottenere.Aporie, antinomie paradossi logici sono solo la punta dell'iceberg dell'ambiguità nel rapporto relazionale fra forma e sostanza e fra forme stesse.
Certo, poiché l'utopia di un sistema formale esatto e logicamente fondato esige la completa autoreferenzialità non contraddittoria ai presupposti (postulati definiti) di quel sistema, ma è proprio questa assoluta autoreferenzialità  definitoria astratta che, interpretata in modo formalmente corretto, rivela la sua inevitabile autocontraddizione formale.