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Messaggi - maral

#646
Citazione di: Phil il 01 Settembre 2016, 21:49:04 PM
Dal mio punto di vista, il ruolo del linguaggio e della sua acquisizione viene spesso sottovalutato: se è vero che è il linguaggio a strutturare l'orizzonte di senso in cui ciascuno vive, le idee-ops!-astrazioni concettuali vengono prima apprese dalla cultura in cui si cresce (o costruite per "induzione linguistica" come suggerisce Sgiombo con l'esempio della bellezza), poi, esperendo e riflettendo, possono essere personalizzate... se riconosco e definisco qualcosa come "bello" o "duplice" o "astratto" è perché mi è stato precedentemente insegnato e spiegato cosa significa "bello" e "duplice" e "astratto", e come individuare queste caratteristiche nell'esperienza (oppure, in alternativa, creerò dei neologismi...).
E chi lo ha insegnato cosa significano "bello" e "duplice" e "astratto" a chi te lo ha insegnato? Dove sono stati trovati originariamente quei termini? Certamente questi significati, come ogni significato, è dato dalla cultura in cui si cresce, ma ogni cultura come lo ottiene? Dove lo trova?

CitazioneL'astrazione per eccellenza è quella del linguaggio, e proprio il linguaggio (con la sua logica) è l'unico paradigma imprescindibile per il ragionamento (idealista o materialista che sia), ma già nel riconoscerne il funzionamento si ha qualche indizio per risolvere le sue apparenti aporie: se non mi fosse stato insegnato che esiste "il bello", o meglio, che si può parlare di un'esperienza/percezione come "bella", non mi si potrebbe porre la dialettica viziosa fra percezione-del-bello/criterio-della-bellezza.
Quindi, per me, tutto parte dal linguaggio, dall'acquisizione "eteronoma" delle sue parole-definizioni-concetti, per poi proseguire il laborioso tentativo di "calibrazione" del proprio vocabolario basandosi sull'esperienza.

P.s. In questa constatazione dell'egemonia della linguisticità, non scorgo traccia nè della metafisica, nè di paradossi...
Io non penso che, pur essendo fondamentale per l'essere umano l'esperienza del linguaggio e che solo in questa dimensione linguistica comunicativa (intesa nel senso più ampio possibile) la questione può avere significato, ma nessuno insegna che esiste il bello o che una certa esperienza delle cose è bella come una diversa esperienza. Al massimo si insegna un vocabolo con cui poter comunicare il proprio sentire e non il sentire né il modo di sentire in esso la qualità. Questa mi pare piuttosto una disposizione originaria che potrà anche essere rimossa, ma che non si apprende e non si ricava per semplice induzione, ma semmai rende possibile ogni induzione.
#647
Citazione di: sgiombo il 01 Settembre 2016, 21:22:06 PM
Per definizione si conoscono con certezza le sensazioni fenomeniche (esteriori-materiali ed interiori-mentali), se esse si avvertono (accadono) e (si avvertono le sensazioni interiori o mentali costituenti il fatto che) si predica che accadono (definizione di conoscenza = predicazione conforme alla realtà, ovvero predicazione che accade realmente qualcosa accadendo realmente tale qualcosa, o che non accade realmente qualcosa non accadendo realmente tale qualcosa).

Che cosa significa conoscere? Io penso che conoscere sia semplicemente vivere e che non si possa né vivere né conoscere "per definizioni", le definizioni a volte aiutano, ma sempre ingannano. Noi siamo sempre conformi alla realtà e tutto quello che accade comunque realmente accade, esterno e interno insieme. Esterno e interno sono solo definizioni per una catalogazione comoda ai nostri discorsi.
Noi, in quanto umani, sbagliamo (e tutti sbagliamo) non perché i nostri discorsi, i nostri pensieri, immaginazioni e prassi non sono conformi a una esterna realtà in sé, dato che la realtà solo in questi discorsi, pensieri, immagini e prassi si manifesta comunque si presentino, ma perché non riusciamo a intenderli nel loro contesto, non vogliamo vederli in rapporto a quello sfondo specifico, da noi stessi determinato per come ne veniamo determinati (ciascuno o collettivamente), in cui risiede la validità del loro significato.
Tutto ciò che appare in qualche modo realmente accade e accade significando qualcosa in rapporto a qualcos'altro che è un altro significato di immagini che continuamente si presentano esigendo che un senso possa venire trovato. E questo senso in qualche misura è sempre arbitrario e in qualche misura no e distinguerlo in questi termini non è un atto assoluto ed eterno, ma dipende dai contesti (fisici, biologici, cognitivi e sociali) in cui si manifesta.    


CitazioneLa cosa in sé o noumeno (se c' è) per definizione non è accessibile alla sensazione, che per definizione è (e non può essere che) apparenza, fenomeno.

E' invece accessibile all' intelletto, che la, può pensare, ne può parlare (come di fatto qui si sta facendo), che essa esista realmente o meno)

Qui non stiamo parlando di cose in sé (anche se si può avere la pretesa di farlo), perché ciò che si può concepire e parlare non è mai la cosa in sé semplicemente per il fatto che nulla si può dire dell' "in sé" del quale si può propriamente solo tacere, anche se continuamente di esso si vuole dire qualcosa facendolo apparire.


CitazioneInnanzitutto faccio una domanda a mia volta: in che modo ci sarebbe già presente nella mente l' idea di una bellezza e di una bontà, prima di esperire cose belle e buone? C' é da qualche parte qualcuno (sano di mente) che ricorda di aver da sempre saputo cosa sia la bellezza anche prima di vedere qualcosa di concreto che gli ha fatto l' impressione della bellezza (che gli é parso bello)?

Certo, lo avevo già detto, è impossibile un'idea di bellezza senza che vi siano cose belle, ma è ugualmente impossibile che vi sia alcuno che sappia vedere cose belle senza che non senta prima in sé la bellezza. La bellezza non è, come vorrebbe un certo realismo ingenuo,  un "a posteriori" rispetto all'esperienza delle cose.

Citazione...Dopo un bel po' di tutte queste esperienze stabilisce di chiamare "esperienza della bellezza" quel certo carattere comune a tutti i sentimenti di cui sopra, e che potrebbe riproporsi indefinitamente di fronte ad altre donne, ad altre opere d' arte, ad altre musiche, ad altri paesaggi, ecc. (e non di fronte alla visione della giornalista Lucia Annunziata, a un opera di Renzo Piano, a un rap, a una discarica di rifiuti, ecc.).
E come fai a sentire quel certo carattere comune senza che ti sia dato come carattere comune? Tu stai dicendo che la bellezza è un tratto comune (che così si "stabilisce di chiamare", come se il suo significato fosse solo una questione arbitraria di nomi!) che si ripete nelle diverse esperienze di cose in diverso modo belle senza accorgerti della "petitio principii": come si possono sentire diverse modalità di bellezza, senza che vi sia il sentimento di quella stessa bellezza che si vorrebbe spiegare a partire da esse?
Pensare che vi siano prima cose belle senza la bellezza che le rende in modo diverso tali è tanto assurdo quanto pensare che vi sia prima una bellezza ideale astratta senza le cose diversamente e concretamente belle.  






#648
Tematiche Filosofiche / Re:Perché fare filosofia?
01 Settembre 2016, 22:38:05 PM
E' una conclusione a cui sono pervenuto dopo una serie di incontri con Carlo Sini: credo che per molti versi rifletta il suo pensiero. Ma non solo il suo, anche, penso, quello del secondo Wittgenstein.
#649
Mi viene da considerare quanto alla fine ci si ritrovi sempre qui, a ruotare intorno al vecchio problema irrisolvibile degli universali, ognuno con il suo punto di vista che riflette il suo modo di sentire e considerare le cose. Ed evidentemente il problema pone una questione linguistica, dato che ogni parola in ciò che tenta di definire non è che un segno sempre in qualche misura errato rispetto a ciò che intende indicare, rispetto alle cose in sé... eppure se non ci fossero quelle astrazioni generalizzanti che sono date dai nomi che designano erroneamente le cose che cosa mai potremmo cogliere di esse? La sensazione stessa in fondo non è che un'immagine impropria, a dispetto di qualsiasi empirismo con pretese assolute e non per niente l'empirismo filosofico coerentemente condotto non può che giungere a negare l'assoluto di se stesso, ritrovandosi così al punto di partenza nella questione sulla conoscenza (che cosa davvero si conosce?). La cosa in sé è inaccessibile non solo all'intelletto umano, ma pure alla sensazione che la trasforma in un'immagine (visiva, uditiva, tattile...), la cosa in sé è solo la relazione (sempre diversa e contingente) con chi la osserva e che talvolta più o meno si ripete, quindi non è mai in sé, né si può dire (pensare, sentire) cosa di per se stessa sia e delle cose che non si può dire è saggio tacere. Il linguaggio modella non solo il pensiero, ma anche il modo di sentire e intendere le cose e il linguaggio naturale, quello a cui facciamo sempre riferimento, non è che un tropo, una designazione impropria, una metafora, mentre quelli artificiali sono ancor peggio in merito alla verità, anche quando creano l'illusione di saper funzionare.
In fondo il noumeno kantiano mi pare che non faccia che riprendere la massima socratica: quello che si può giungere a sapere, il vertice della conoscenza, è solo sapere di non sapere e almeno così si evita la superstizione dell'oggetto senza correre il rischio di cadere in quella del soggetto che non ne è che l'immagine speculare. Non per nulla, con una simile idea in testa,  Socrate fu condannato a morte dai governanti di Atene con l'accusa di traviare la gioventù.
A chi ritiene che la realtà sia data dall'esperienza dei particolari sensibili da cui l'intelletto astrae  concetti generali di portata metafisica ideale (il bello dalle cose belle, il buono dalle cose buone, il due dall'una cosa e un'altra cosa) verrebbe da chiedere ma in che modo si può sentire che quelle cose nella loro diversità sono tutte belle o buone se non è già presente l'idea (o solo il sentimento) di una bellezza e di una bontà, in che modo si può concepire che uno e uno sia due, se già non c'è da qualche parte l'idea di una dualità? I giudizi sintetici a priori non sono forse questo? Come si possono mai negare affermando che tutti i giudizi sintetici non possono altro che essere a posteriori se non a mezzo di un giudizio sintetico che è ancora a priori?
Ma al contrario come potrebbe esistere l'idea del bello, del buono o della dualità se non vi fossero le cose ciascuna diversamente bella e buona, se non vi fosse una cosa e un'altra cosa, comunque sensibilmente diverse nel loro stare insieme nel segno del due?
Forse non è vero che il problema non ha soluzione, la mancanza di soluzione c'è solo nel ritenere che il modo di pensare concettualmente il generale sia causa o effetto del modo di pensare empirico i particolari tangibili, che uno venga prima dell'altro, mentre costantemente si implicano e si contraddicono reciprocamente nell'essere umano per quello che umanamente sogna di essere: simile agli dei spirituali o a quel mondo animale tangibile e materiale che parimenti immagina e, senz'altro poter sapere, sempre ugualmente antropomorfizza, soprattutto quando crede di descrivere le "cose in sé".
 
   
#650
Tematiche Filosofiche / Re:IO
31 Agosto 2016, 22:31:06 PM
Con la questione che poni cogli un problema fondamentale sia dal punto di vista psicologico che filosofico: cos'è l'io?
L'io fondamentalmente è una sorta di collage di parti che non gli appartengono, ciò che lo mise insieme originariamente fu lo sguardo con cui l'altro lo accolse. Lacan parla di un originario riconoscimento allo specchio: nello specchio il bambino vede per la prima volta la sua immagine riflessa, ma solo se in quello specchio appare lo sguardo accogliente di sua madre egli può identificarsi in quella immagine. Il collage ha un solo significato e quello sono io e tutte le volte che qualcuno mi guarderà, quell'esperienza originaria inconsciamente si ripeterà: io sono io perché un altro, per la prima volta, mi ha accolto e raccolto in una identità che è diventata la mia identità.
Ci sono però delle fasi della vita in cui questa identità viene mesa particolarmente a rischio per i mutamenti che si verificano e le esperienze e gli sguardi degli altri possono tradire quell'originaria accoglienza che rappresenta il nucleo di noi stessi e allora l'io rischia di andare in frantumi e il mondo diventa una continua minaccia letale. L'io, prima di frantumarsi, può ancora tentare di rifugiarsi in mondi immaginari ove in qualche modo continuare a esistere dimenticando l'angoscia che lo attanaglia, ma questi mondi non bastano mai: non serve fuggire, ma ritrovare, nel profondo di se stessi quel primo sguardo che ci accolse come un'unità in cui riconoscerci, occorre trovare di nuovo l'amore vero di un altro che evochi quella prima volta e che ancora possa raccoglierci.

   
#651
Tematiche Filosofiche / Re:Perché fare filosofia?
31 Agosto 2016, 21:43:19 PM
Citazione di: Gasacchino il 27 Agosto 2016, 15:10:57 PM
In questo topic pongo una questione molto semplice:
    ha senso fare filosofia? Ha un'utilità? Se sì cosa?

Una persona che dedica la sua vita alla filosofia, fa un dono all'umanità o solo o sé stessa? In fin dei conti ho come l'impressione che la filosofia poggi sul nulla e sia fine a sé stessa.
Mi rendo conto che per quanto porsi la domanda sia semplice, la risposta o le risposte, non sia altrettanto facili da dare. Per quanto mi riguarda la pongo qua che credo che potrò avere sicuramente risposte quantomeno interessanti.

Ringrazio coloro che si cimenteranno nel rispondere a questo mio quesito.
Il senso principale della filosofia è riflettere sul significato delle domande che non hanno risposta, nella misura in cui, nonostante non abbiano risposta, non si riesce a fare a meno di porsele.
Per questo, a chi cerca risposte, la filosofia appare come un girare a vuoto. Chi vuole delle risposte è meglio si dedichi ad altre discipline o si affidi alla fede.
#652
Bentornato dalle ferie lontano da internet, Sgiombo
Citazione di: sgiombo il 29 Agosto 2016, 07:56:49 AM
Costruire una zappa (con un altoforno o con mezzi meno sofisticati) é cosa diversa da costruire un manico di zappa, e i contadini di una volta non sapevano di certo farlo (ma resto convinto che probabilmente non avrebbero potuto costruire nemmeno un buon manico da zappa; salvo nel caso delle pessime zappe dei contadini poco produttivi dei tempi più remoti della preistoria).
Mi sa che la zappa comprenda il manico per venire considerata tale e in genere è proprio il manico che rischia di rompersi per cui la zappa non funziona più (e non sottovaluterei la capacità di chi un tempo l'usava per ripararla, che sospetto incomparabilmente superiore di tantissimi oggi che magari vanno a comprarsene una nuova al centro commerciale più vicino. Io almeno farei così, ma penso di non essere l'unico). Parlando di zappe ovviamente mi riferisco a tempi storici, da quando l'uomo in certe zone del pianeta, circa 10000 anni fa, abbandonò la caccia e raccolta nomade per dedicarsi all'agricoltura e all'allevamento stanziali e, se si vogliono considerare le lame in ferro delle zappe, occorre riferirsi a quando si è passati all'età del ferro con la capacità di estrarre e lavorare quel metallo, più o meno 3 millenni or sono: templi biblici rispetto alle trasformazioni tecnologiche attuali. Certamente ogni passaggio tecnologico ha determinato una specializzazione all'interno delle società e conseguentemente forme di dipendenza con minore autonomia individuale, compensate da maggiore produttività ed efficienza, ma fino alla rivoluzione industriale l'impatto sugli esseri umani e sul mondo che abitano è risultato sufficientemente diluito nel tempo. La rivoluzione industriale fu resa possibile solo a partire da 2 o 3 secoli fa dall'impiego in grandi quantità di energie fossili e dai processi meccanizzati da queste consentite. Con l'enorme incremento di produzione standardizzata (in quanto meccanicizzata) che ha generato, soprattutto nell'ultimo secolo si è reso tecnologicamente necessario un consumo continuo e sempre più massivo, con tutte le conseguenze che ne sono derivate. Il prodotto tecnologico, costruito dalle macchine, non serve oggi a soddisfare il bisogno, ma al contrario deve produrre continuamente nuovi bisogni insieme a illudere della promessa di soddisfare ogni desiderio e questo è il motivo per cui il consumismo dei paesi occidentali ha vinto sul comunismo delle economie pianificate dallo stato, una pura e semplice ragione tecnologica. E questo è il motivo anche per cui lo stesso capitalismo sta oggi tramontando: lo scopo dell'aumento del capitale non garantisce una sufficiente consumabilità del prodotto, dunque tutte le crisi sono crisi di sovra produzione. Questo significa quella frase di Saramago che coglie il punto fondamentale della questione tecnologica- consumistica: il dovere di consumare, di stimolare ai consumi, di inventare sempre nuovi desideri di facilitazioni (che diventano effettivi bisogni una volta che le tecnologie mostrano che sono in grado di soddisfarli rendendo apparentemente più semplice e comoda l'esistenza)  è reso imprescindibile dallo sviluppo delle tecnologie.
La vicenda narrata da Saramago, ha per protagonista una famiglia di vasai che artigianalmente produceva in proprio vasi di terracotta, finché il Centro a cui consegnavano la merce per venderla non rifiuta il loro prodotto: nessuno vuole più quei vasi, sono molto più apprezzati i nuovi vasi di plastica prodotti industrialmente in serie, dunque più economici, funzionali e assai meno fragili (al massimo i vecchi vasi in terracotta possono diventare merce per rarissimi estimatori o collezionisti). Certo, occorrono competenze tecnologiche sia per fare vasi di terracotta che vasi in plastica, ma mentre la produzione dei primi può essere condotta su base artigianale e quindi individuale, quella dei secondi no: le competenze artigianali non sono necessarie in un mondo in cui si possono produrre in serie quantità enormi di vasi in plastica e non è nemmeno più necessario l'uomo artigiano (con il modo di fare, di sentire e di pensare, ossia di essere dell'artigiano). Alla fine sono costretti ad abbandonare la loro casa e a trasferirsi al Centro, ove il genero del protagonista lavora come sorvegliante (il destino dell'uomo tecnologico; da produttore a sorvegliante, finché ovviamente non ci saranno macchine capaci di sorvegliare meglio di lui)
Noi viviamo in un'epoca in cui tutte le macchine che utilizziamo, la cui facilità d'uso e le prestazioni che consentono sono incomparabilmente superiori rispetto al passato, ci sono del tutto estranee nel modo di funzionare anche se ci sono così familiari (le automobili, gli elettrodomestici, i televisori, i computer, i telefonini, qualsiasi apparecchiatura ci stia intorno), è proprio la loro elevata tecnologia che ci rende assolutamente dipendenti da qualcosa che ci sovrasta del tutto, anche se continuamente promette (e pare soddisfare, proprio come una bacchetta magica) ogni esigenza di autonomia. Per questo noi non siamo per nulla più autonomi che nell'epoca pre tecnologica. Il nostro è il miraggio del paese della cuccagna continuamente riproposto nell'immaginario collettivo, finché non si scopre che questa cuccagna è ben poco tale per chiunque (anche per quei pochi che si crede possano usufruirne ben più di noi e con nostro grande dispetto, poiché anche loro rientrano nel medesimo meccanismo a cui sono perfettamente funzionali).

Non sono d'accoro con la frase di Marx che hai citato e men che meno sulla facoltà degli uomini di rendersi indipendenti dai sistemi meccanizzati di produzione, come se potessero rinunciarvi a piacere e per un motivo molto semplice: la tecnologia, che è prodotta dall'uomo, produce l'umano, ossia non produce solo cose e strumenti, ma rapporti sociali (lo sottolinea Pasolini nelle sue "Lettere luterane" in cui proponeva ironicamente l'abolizione della televisione) e certamente anche relazioni economiche, modi di sentirsi individualmente e riconoscersi o non riconoscersi alienandosi. E' così da sempre, perché l'uomo è la tecnologia che usa, valeva  nell'età della pietra, come nell'età del ferro, della chimica e del petrolio, in quella dell'elettronica e in quella che si va prospettando delle biotecnologie: essa determina il significato (o l'insignificanza) dell'umano.
Se l'uomo artigiano non è più possibile, ormai ha sempre meno senso anche parlare di una classe operaia o di una classe borghese, o certamente non nel modo in cui le si concepiva un secolo fa, con quel modello di essere umano. Non c'è niente da fare, non esiste un essere umano definibile indipendentemente dalle tecnologie che usa e da quanto esse producono: esse producono una prospettiva del mondo che ci rispecchia. Il problema è dunque il significato che proiettano sull'uomo le nuove tecnologie, ma soprattutto ciò che esse sempre più massicciamente e urgentemente richiedono al divenire della dimensione umana.

Non c'è dubbio che la povere da sparo possa servire a uccidere o a guarire le ferite, ma non è quello il punto, il punto è che si ha un mezzo di incomparabile potenza che cambia il nostro modo di esistere e quindi noi stessi (rapporti economici e di potere compresi).   



#653
A margine dell'interessante riflessione su "Genealogia della morale" condotta da Garbino, ma sempre a proposito della rilevanza che per Nietzsche assume l'aspetto morale vorrei riportare il seguente aneddoto in cui mi sono imbattuto.
In procinto di rompere il suo rapporto con Lou Salomé che gli era un tempo apparsa come un "angelo della speranza e del coraggio", Nietzsche scrive a Ree, che ora vive con lei: "Io non ho morale", gli aveva detto la giovane russa e lui, Nietzsche, aveva "creduto che come me avesse una morale più rigida di chiunque altro!... invece lei mira solo a divertirsi e a passare il tempo, è una vera sciagura e io ne sono la vittima".
Credo che con questo l'immoralità di Nietzsche si presenti in tutta la sua forza morale, oserei dire ... ascetica nel suo modo di esercitarsi, ben diversa comunque dalla libera amoralità di Lou, assai più facilmente comprensibile nella concezione odierna.   
#654
Sgiombo penso proprio che qualsiasi contadino di un tempo sarebbe stato in grado di costruire un buon manico da un ramo d'albero (molto meglio di quanto non lo sappiamo fare io o tu o anche tanti ingegneri), l'arnese era il suo e sapeva come farselo e ripararselo. Non avrebbe certo saputo utilizzare un altoforno, anche perché al tempo del neolitico, ma anche nel medioevo non mi pare esistessero gli altiforni, e non erano necessari per avere una zappa. Il punto fondamentale è che assai meno di oggi era necessaria quella specializzazione che occorre per disporre di strumenti tecnologicamente complessi (e che li rende irrinunciabili per la stessa sopravvivenza basilare) e questa specializzazione ha un effetto positivo, ma anche uno negativo, ossia diminuisce in tutti (poiché tutti specializzati) la padronanza di ciò che serve per campare ove ciò che serve per campare non è specialisticamente definibile. Quindi si diventa tutti, individualmente, di fatto meno autonomi e meno liberi rispetto alla prospettiva che la condizione tecnologica rende necessaria. Basta che ti immagini cosa accadrebbe oggi se si interrompesse l'erogazione di energia elettrica per un periodo di molti giorni e cosa saresti in grado di fare tu individualmente per ripristinarla. Un tempo se un contadino perdeva il suo strumento di lavoro poteva rimediarlo con ben maggiore facilità.
Con questo non sto proponendo una visione arcadica del passato, perché la visione arcadica del passato è una immaginazione nostra, frutto della nostra era tecnologica, è un prodotto dell'era tecnologica e comunque qualsiasi ritorno al passato, è improponibile e impossibile, poiché le tecnologie che usiamo ci fanno essere quello che siamo e ogni modalità di vivere ha i suoi pro e i suoi contro che si bilanciano. Il progresso tecnologico ci rende la vita enormemente più facile a certi livelli, enormemente più complicata ad altri e nel complesso la vita non è né migliore né peggiore di un tempo, semplicemente è diversa , con possibilità e minacce diverse, sia per qualità che per magnitudo. Non è nemmeno per nulla fantascientifica la mia immagine del futuro: è già in atto (i droni telecomandati già esistono, lo sappiamo perfettamente e la robotica è da tempo entrata nella produzione industriale rendendo l'operaio "pastore di macchine" e il contadino operaio agricolo sempre più obsoleto). In essa l'uomo è sempre più inutile dato che i sistemi meccanizzati e automatizzati di produzione vengono a prevalere, e prevarranno sempre più a ogni livello (non solo operativo, ma anche progettuale e gestionale, campi in cui l'intelligenza artificiale riesce a offrire prestazioni sempre più eclatanti). Le nostre autonome potenzialità cognitive e di pensiero individuale risultano in tal modo... sempre più inutili,  tecnicamente inefficaci, patetiche rispetto alle procedure operative a cui è opportuno attenersi.
La tecnologia rende l'essere umano obsoleto mentre gli promette il Paese della Cuccagna. E' inevitabile e l'uomo sarà inevitabilmente sempre più utilizzato solo come fruitore (ossia smaltitore) di prodotti e servizi meccanizzati o informatizzati. Come sta scritto nel romanzo di Saramago "La caverna", per la tecnologia vale il detto: "Possiamo darvi tutto quello che volete, ma preferiamo che voi volete tutto quello che possiamo darvi" e questo concetto si riflette nella continua suggestione che disciplina l'uso tecnicamente funzionale dell'umano (e sempre più lo disciplinerà in futuro).
Aggiungo che possiamo farci ben poco, siamo già prodotti del nostro presente e l'offerta facilitante delle nuove tecnologie non è in alcun modo rifiutabile (né lo è mai stata, nemmeno all'epoca del passaggio dall'età della pietra a quella del ferro), nemmeno da chi cerca di opporvisi (poiché anche l'opposizione è di fatto consentita nell'ambito di questo sviluppo tecnologico e in esso si trova inevitabilmente a rientrare). L'unica possibilità è mantenere ben chiara, per quanto possibile, la consapevolezza della situazione e in questa consapevolezza sperare di essere capaci di conservare il significato umano dell'esistenza (magari come memoria, se non come altro) e lottare per questo a dispetto di ogni funzionalità produttiva e di consumo. Come questo potrà verificarsi non so, ma una cosa mi pare quanto mai evidente: oggi  non siamo più noi a utilizzare la tecnologia, ma esattamente il contrario, dovrebbe essere evidente a tutti.
#655
Citazione di: sgiombo il 19 Luglio 2016, 12:41:12 PM
A parte il fatto che l' esistenza del trattore non impedisce al contadino l' uso (anche) della zappa, come di fatto accade, l' uso del primo richiede e promuove "conoscenze pratiche" non meno che l' uso della seconda, anche se diverse (e infatti occorre una patente; e le caratteristiiche del terreno da arare il contadino le deve conoscere comunque bene, per esempio per scegliere quale "marcia" impiegare nell' aratura col trattore).
Dubito inoltre che un conadino abbia mai saputo costruirsi una zappa; e comunque anche per piccole riparazioni del trattore può arrangiarsi da sé, senza chiamare il meccanico).
Comunque la "conoscenza perfetta" della zappa mi sembra molto banale e non cancellata dall' uso del trattore.
E meno male che il meccanico può comprare frutta e verdura al mercato; quando non c' era divisione del lavoro e tutti dovevano "saper fare di tutto" spessissimo si tirava la chinghia (e infatti si moriva in età molto giovane, per gli standard attuali).


Perdere la capacità d' uso della cannuccia con pennino (che usavo alla scuola elementare; per esempio il sapere evitare le macchie, sul che peraltro non sono mai stato molto in gamba: quanto ho fatto disperare il mio povero maestro!) é buona cosa ai fini della mia cultura se in cambio imparo l' uso dei programmi di scrittura col computer.
Se devo conoscere meno cose sulla tecnica del mezzo che impiego potrò concetrarmi di più sul contenuto di quello che voglio scrivere o leggere o imparare (che per me é imporatnte, contrariamente alla tecnologia dell' hardware e al software).
Non vedo in che senso la tecnologia mi impedirebbe di imparare e superare la condizione di ignoranza del lattante (anzi, in questo mi giova non poco).


Più in generale si possono fare usi più o meno buoni della tecica moderna, come delle antiche.
E sono necessariamente i rapporti di produzione capitalistici e non necessariamente  le tecniche (men che meno la scienza) moderne che tendono ad avere effetti negativi, e  anche disastrosi, sulla singola persona umana e sull' umanità tutta (e anche la natura tutta intera).
Fermo restando che si possano fare usi più o meno buoni (nel senso di utili) della tecnica, sbagli Sgiombo a ritenere che il contadino di un tempo non sapesse costruirsi la sua zappa (e da chi se la faceva costruire? Nel Medio Evo andava a comprarsela al Brico Center più vicino?), e più in generale, a differenza dell'operaio della produzione massificata attuale, l'artigiano non avesse una grande competenza dell'attrezzatura che usava (come il pittore che un tempo si preparava da sé i colori nel mortaio, anziché andarseli a comprare già pronti e amalgamati con colle ed eccipienti per essere stesi sulla tela). Ma sbagli soprattutto a credere che nulla e nessuno impedirebbe al suddetto contadino di tornare alla zappa, questo ritorno è impossibile perché il trattore ha cambiato il contesto di senso in cui ci si trova a operare (il mondo in cui è possibile la potenza del trattore, rende di fatto inutilizzabile la zappa) e se ci provasse, il suddetto contadino risulterebbe semplicemente patetico (o ben che vada un originale, la cui stramberia sarebbe comunque socialmente consentita da chi usa il trattore e dunque fa le cose seriamente), un po' come sarebbe oggi scrivere con la penna d'oca su pergamena anziché inviarsi sms. Nulla in linea di principio pare vietarlo, ma di fatto non ha alcun senso reale farlo (o quanto meno farlo non per strampalato vezzo antiquario). Tu e io usiamo il computer, forse uno smartphone, certamente, credo, un telefonino, e comunque abbiamo a disposizione una tecnologia che ci consente di fare e conoscere cose impensabili rispetto a un tempo, eppure proprio tecnologicamente non sappiamo nulla (se non in termini del tutto generali), solo premiamo bottoni nel modo più intuitivamente facilitante possibile (ma spesso sbagliando pure a premerli nella giusta sequenza e ci impasticciamo penosamente): solo un lieve sfiorare di dita è ciò che ci compete e ci è richiesto e ci illudiamo di avere tutto sotto controllo, nella facilità che ci è donata. E' come possedere una bacchetta magica, né più né meno, di straordinaria e tanto facile potenza di utilizzo. In questo senso siamo effettivamente proprio come lattanti, del tutto dipendenti dalle mammelle tecnologiche a cui dobbiamo restare attaccati per sopravvivere (che poi questo sia utile al capitale o che il capitalismo sia utile alla tecnologia, o che le due cose si possano separare è altro discorso). quello che conta è che la tecnologia ci rende tutti (anch'io che parlo in questo modo) assolutamente dipendenti da essa, mentre ci fa credere di espandere enormemente e così facilmente, senza resistenza, le nostre autonome potenzialità cognitive e di pensiero. E' per questo che funziona: una volta che si è entrati nell'età delle nuove tecnologie nessuno può seriamente pensare di rimanere indietro, e non dipende da lui, non è scelta sua, perché non ha scelta, se tentasse di resistere sarebbe semplicemente spazzato via dai nuovi contesti tecnico operativi, sociali ed economici instaurati di fatto dalle nuove tecnologie, di cui sempre meno può capire in virtù dello specialismo che richiedono.
Il trattore in realtà è già antiquato, insieme al suo addetto all'uso (che è davvero arduo definire ancora agricoltore), il futuro è un drone telecomandato che fa tutto da solo rendendo del tutto obsoleti sia trattore che addetto all'uso (a meno che non si intestardisca sull'antiquato per futile hobby o personale mania).
#656
Il contadino che usa il trattore non è che non acquista maggiori conoscenze teoriche (che certamente non è questo lo scopo del trattore e nemmeno della zappa), ma, proprio per la maggior potenza che offre il mezzo a vincere la resistenza della materia, perde molte delle conoscenze concrete proprio sul terreno che ha da arare (che invece la zappa, per venire maneggiata con efficacia, richiedeva). Non solo, perde anche conoscenza sull'uso del mezzo stesso: infatti mentre può e deve conoscere perfettamente la propria zappa (tanto che se si rompe sa come riaggiustarla o farsene una nuova), non è tenuto a conoscere perfettamente il funzionamento del trattore, non è di sua competenza e se si rompe chiama il meccanico, ossia lo specialista, che ovviamente a sua volta nulla è tenuto a sapere di agricoltura, giacché non è questione di sua competenza e se vuole frutta e verdura va a comprarsela già pronta e persino lavata al mercato.
Questa perdita di conoscenza concreta la riscontriamo anche con l'uso del computer o dei  mezzi di comunicazione elettronici che indubbiamente ci offrono una possibilità di comunicazione incomparabilmente superiore rispetto al passato, ma ciò che per il loro uso è richiesto sapere è per lo più assai limitato e semplice (infatti la tecnologia è tanto migliore quanto più facilmente ci permette di usare la sua potenza e meno conoscenza richiede all'utilizzatore), eppure il bello è che con questi strumenti di uso quotidiano, che richiedono solo di premere dei tasti o sfiorarli con la punta delle dita per funzionare, riusciamo spesso a incasinarci lo stesso e di nuovo ci serve lo specialista, come al lattante serve il seno della madre per sfamarsi (un lattante a cui la tecnologia consente di rimanere tale, anzi ritiene doveroso che si mantenga tale).
#657
Citazione di: sgiombo il 17 Luglio 2016, 15:14:10 PM
...a me sembra semplicemente che (oltre al resto) lo sviluppo scientifico e tecnico ci consente di conoscere tendenzialmente sempre meglio "il mondo" (più precisamente la sola parte materiale - naturale della realtà); questo sia dotandoci di osservazioni tendenzialmente sempre più estese e profonde, precise, "fedeli", sempre meno "distorte" (o meglio: interpretabili in modo sempre meno "distorto"), sia di mezzi atti ad ottenerle, e inoltre consentendoci di comunicare tendenzialmente sempre più e meglio, e dunque di confrontare sempre più le nostre convinzioni con altre ad esse più o meno alternative e/o complementari.
Ed ovviamente conoscendo tendenzialmente sempre più e meglio almeno una parte della realtà nella quale ci collochiamo tendiamo anche a mutare in qualche misura la complessiva "concezione" che abbiamo di noi stessi (in quanto correlati a una realtà complessiva nella quale veniamo a trovarci e i rapporti e le relazioni con la quale contribuiscono a "plasmarci", a fare di noi quel che siamo).
Non so se davvero ci sia un progresso come conoscenza, non credo che un computer o un I-pod ci renda più sapienti di quando si scriveva sulla pergamena, anche sulla parte materiale della realtà. Quello che è certo è che gli strumenti aumentano la potenza di chi li usa sulla resistenza offerta dalla materia, ma finché non partecipano del significato che sentiamo di noi stessi ci alienano dalla conoscenza di noi stessi, come avviene quando la conoscenza diventa uno specialismo sempre più esasperato. Usare un trattore per dissodare un campo non rende più sapienti su quella terra, anzi, forse facendolo con una zappa se ne sa concretamente ben di più, ma certamente rende quel terreno qualcosa di diverso e diverso è reso anche chi si mette a dissodarlo, in ogni gesto e pensiero che lo strumento che usa gli fa fare per utilizzarlo.

Citazione di: paul11Gli strumenti diventano linguaggio, o metalinguaggio, nel  processo fra noi e il mondo.
Non sono separati dal mondo e nemmeno da noi essendo "protesi" percettive o conoscitive , quindi alla fine si confondono con noi e il mondo entrando nel modello culturale.
Allora forse dovremmo indagare con più attenzione gli strumenti che usiamo quotidianamente per scoprire cosa siamo e quale significato di noi stessi ci restituiscono nel determinare il nostro modo di agire.
#658
Non so, a me pare che nell'epoca attuale sussista piuttosto un dovere al soddisfacimento che rende perennemente insoddisfatti. E' questa miseria nell'abbondanza che costruisce il consumatore di massa ideale (figura che non ha più nulla a che vedere con quella del classico borghese che assai più che a consumare tendeva ad accaparrare e conservare gelosamente la sua proprietà, grande o piccola che fosse, e pativa tutta l'angoscia di perderla).
Il diritto alla felicità è il diritto che spetta giustamente a ciascuno di realizzare l'incontro autentico con se stessi, nei modi in cui a ciascuno, per quello che è, è concesso di ritrovarsi e progettarsi nella quotidiana esistenza relazionale tenendo conto dei limiti che vengono via via a definirci e che si trovano a essere definiti da ogni nostra azione della quale dobbiamo prenderci responsabilmente carico per sentirci liberi, senza che nessuno lo faccia per noi, usandoci. Si tratta, in altre parole, di sentirsi responsabili autori della propria esistenza vivendo nel continuo contatto con le esistenze altrui di modo che in ciascuno si possa trovare reciprocamente riconosciuto e rispettato il senso fondamentale della propria essenziale autonomia di soggetto.
Ma se invece la felicità è vista come un disegno il cui scopo ci sovrasta in nome della potenza di cui illude di poter superare quel limite  (sia questa razionale, irrazionale, scientifica, religiosa o mitica e oggi soprattutto tecnica) allora non è più la nostra autopoiesi che viviamo, ma quella del sistema a cui ci consegniamo per divenirne strumenti alienati di realizzazione e lo stesso lavoro che facciamo non è più il lavoro che ci costruisce, ma è il lavoro che ci aliena, fosse pure quello di consumare godendo.     
#659
In realtà tutti gli Dei sono assassini di esseri umani e a questo non fa certo eccezione tanto il Dio biblico quanto quello coranico che è tutto sommato il medesimo. Gli Dei, detta in termini attuali, sono sempre stati la rappresentazione più efficace della psicopatologia umana e per questo servivano, a mezzo dei riti sacrificali loro dedicati (e ogni sacrificio non può che avere vittime innocenti, vittime fanciulli, vittime straniere), a esorcizzare questa psicopatologia. Morto Dio infatti questa psicopatologia non cessa, solo resta senza rappresentazione ed è ancor peggio.
La grande invenzione del cristianesimo (davvero enorme considerandone gli sviluppi storici), fu quella di immaginare un Dio ucciso dagli uomini, ribaltando quindi l'omicidio in deicidio. Se Dio poteva essere ucciso dall'uomo e in nome dell'uomo, grazie al Suo consegnarsi ad esso, l'uomo poteva farsi Dio e ogni sacrificio di uomini poteva essere compiuto non più in nome di un Dio geloso fino alla paranoia da tenere a bada gratificandolo del sangue degli infedeli, ma in nome dell'umanità stessa, della sua stessa follia: la follia di dare la morte per sentirsi al riparo dalla morte.
#660
Faccio presente che il concetto centrale del proprio dovere (e certamente del dovere morale) è la quintessenza della visione borghese della vita, quella ormai tramontata insieme alla borghesia. La classe aristocratica anteponeva al dovere l'onore guerresco (fino a ché non trovarono più conveniente trasformarsi da aristocratici in cortigiani parassiti), quanto al proletariato e alla servitù in genere, il dovere l'ha sempre subito come imposizione più che riconosciuto.
La ricerca della felicità è sempre stato presente, fin dai primordi dell'esistenza umana e la stessa dimensione etica ne è l'espressione in ogni tempo: l'etica (ogni etica, Kant compreso) non è che il mezzo per rendersi veramente e reciprocamente felici. Poi le ricette e i luoghi in cui ritrovarsi felici, i sacrifici da imporre a se stessi e soprattutto agli altri (come i chierici insegnano) per garantire la felicità (soprattutto propria), saranno diversi da epoca a epoca.
Magari il diritto alla felicità per tutti avesse un effettivo e non ipocrita corrispettivo, ma almeno ci preserva da un assurdo dovere all'infelicità. Poi che la felicità non sia da confondere con la pretesa di un godimento immediato delle cose (come Epicuro insegna) è un'altra questione che meriterebbe di essere approfondita per non confondere le cose.