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Messaggi - PhyroSphera

#646
Citazione di: Phil il 05 Dicembre 2022, 14:54:48 PMOltre alla precisa osservazione di iano sulla differenza fra identità (onto)logica ed appartenenza insiemistica, aggiungerei che l'esistenza non può essere contraddizione, poiché la contra-ddizione presuppone la "dizione", un discorso il cui significato negherebbe se stesso; tuttavia l'esistenza non è discorso, non è logos. Le categorie del logos, che mirano a descrivere l'esistenza, vengono proiettate sull'esistenza ma non sono l'esistenza in generale. Se, di fronte ad un fiore giallo, affermo «quel fiore è rosso», l'esistenza di quel fiore non è scalfita dalle mie parole, tanto quanto le mie parole non perdono di significato per la mancanza di corrispondenza con la realtà; la falsità non è infatti assenza di significato/senso (semmai è assenza di referente).
L'esistenza stessa della contraddizione logica non è contraddittoria: se scrivo «oggi è e non è giovedì», l'esistenza di questa contraddizione non è contraddittoria, poiché tale affermazione, nello scriverla, esiste palesemente senza contraddizione (si avrebbe contraddizione di esistenza se tale scritta esistesse e non esistesse allo stesso tempo). Ciò che è contraddittorio è il significato dell'affermazione, ma ciò non ne contraddice l'esistenza. L'esistenza e il discorso sull'esistenza non si confondono in una logica attenta e, fino a prova contraria, non esistono contraddizioni ontologiche fuori dal linguaggio, nel "mondo extra-linguistico".
Eppure anche la sola esistenza della frutta implica una contraddizione del reale, come ho mostrato. Tu inoltre pensi alla contraddizione come a una contrarietà assoluta... Non ho scritto che mela e pera sono contrarie una all'altra.

Mauro Pastore 
#647
Citazione di: iano il 04 Dicembre 2022, 22:52:57 PMNon-mela sta per l'insieme di ogni cosa che non è mela e l'insieme di ogni cosa che non è mela non è uguale a una pera, perchè equivale all'universo intero privato della mela.
Dunque dire che la pera è frutta , A=C è una premessa errata.
Al posto del segno di uguale và il segno di appartenenza,
A (appartiene a) C, che può leggersi come ''la pera è UNA frutta''.
Ma quando tu mangi una pera, non mangi la frutta? Per te ha senso affermare che la mela non è frutta ma appartiene alla frutta? Sei in manifesto errore.

Mauro Pastore 
#648
Citazione di: Jacopus il 04 Dicembre 2022, 09:23:19 AMSe posso Mario, direi che emozioni non è sinonimo di irrazionale. Tutt'altro. Le emozioni sono un modulatore delle nostre azioni e servono alla sopravvivenza della specie. Visto il successo della specie Homo, direi che le emozioni sono state utili.
Sicuramente intelletto ed emozioni vanno integrate in modo bilanciato. Solo un intelletto che sperimenta emozioni può dare il meglio di sè. La stessa ricerca intellettuale, quando fa una scoperta o produce un pensiero originale, è emozionante. Di sicuro si dovrebbe abbandonare ogni visione gerarchica, sia intelletto > emozioni (Cartesio e poi Kant, Marx), sia emozioni > intelletto (mi verrebbe voglia di scrivere Nietzsche, ma non sarebbe corretto). Di sicuro il sistema emotivo è antecedente (biologicamente) a quello più strettamente razionale, se con razionale intendiamo la capacità riflessiva del cervello e non solo l'abilità a risolvere problemi. Ma il nostro cervello funziona attraverso messaggi top/down e bottom/up , dal livello corporeo a quello gestito dalla neocorteccia e viceversa. I latini c'erano già arrivati un paio di millenni fa: "mens sana in corpore sano". Ho il sospetto che il monoteismo si perpetui ovunque, facendoci sempre credere che c'è un capo assoluto in quanto facciamo, mentre in realtà, la natura è inevitabilmente politeista.

La tua concezione della razionalità è quella tipica hegeliana che attribuisce una ragione a tutto... Si tratta solo di un gioco intellettuale che si fonda come ho mostrato sull'oblio della componente (dominante) irrazionale dell'Assoluto. Invece che pensare che le emozioni hanno una propria ragione d'essere bisognerebbe pensare che esse hanno una propria funzione e senza proiettare su di esse alcuna virtù razionale. In questo caso, "ragione d'essere" è un'affermazione impropria. La realtà non è una totalità tutta ordinata. L'ordinamento del mondo non offre vera ragione del perché le cose stiano in un modo anziché in un altro. Questo mondo potrebbe avere anche un ordinamento diverso da quello che ha e questo non dipende dalla logica... È un controsenso psicologico, in ogni caso, attribuire virtù razionale alle emozioni. La ragione è nel pensiero non nelle emozioni e se esiste un pensiero assoluto esiste anche una emozione assoluta. La sorgente del pensiero è irrazionale... E poi...: tu critichi il monoteismo ma ne fai uso perché fai riferimento a un Logos — e lo sopravvaluti.

Mauro Pastore
#649
Tutta la nostra logica fa riferimento all'ordinamento cosmico, non è essa che fa valere l'ordine cosmico; è in forza di quest'ultimo che la logica vale... Eppure ci può essere ordine solo dove ha potere la confusione: il cosmo nasce dal caos.
A volte riferire all'assoluto queste osservazioni può farne sembrare la non validità, invece finanche nell'Assoluto la razionalità non costituisce realtà originaria, essendo quest'ultima irrazionale. In termini teisti: attribuendo a Dio il Logos e un Ordine (divino) cui esso si riferisce, si deve ammettere che l'Ordine stesso in Dio dipende da un non-ordine, dall'Abisso della sua Mente. C. G. Jung affermava analizzando la psiche contenuta nella figura di Dio descritta nelle Scritture che essa attesta una mentalità inconscia più remota, profonda di quella umana (non è, codesta affermazione, prova della esistenza di Dio, Jung in tal caso procedeva su un piano che restava (e resta) scientifico, benché tal piano assumesse (e assume) un significato diverso per il credente)... Né si può concedere che il nomos, che difatti è dipendente dal logos, sia dimostrazione della supremazia della sfera razionale su quella irrazionale. È anzi vero l'inverso.
Nella pratica ciò conduce a considerare primariamente le emozioni e secondariamente i pensieri (anche in Dio); e ciò serve pure a considerare i limiti della filosofia rispetto alla poesia, della inventiva rispetto alla creatività, della scelta razionale rispetto alla decisione irrazionale.

Mauro Pastore
#650
Tematiche Filosofiche / SUI RAPPORTI TRA LOGOS E NOMOS
04 Dicembre 2022, 01:42:20 AM
Il principio di non contraddizione regola la forma delle affermazioni logiche non i contenuti affermati.

Esempio:
La pera è frutta. (A = C)
La mela è frutta. (B = C)
La mela non è la pera. A non è [segno di non uguale] B, X non è [segno di non uguale] non-X
La frutta è mela e pera. (C = A e B; C = X e non-X)

Una stessa cosa è qualcosa e non qualcosa.

La forma dei contenuti è regolata non su un principio logico ma dialettico, secondo il quale la realtà indicata contiene sia l'affermazione che la negazione dell'affermazione.

Bisogna intendere la formulazione del principio di non contraddizione con precisione: tale principio riguarda esclusivamente il dire.

La realtà invece è un'antinomia.

In termini più concreti: l'esistenza è contraddizione.

Il logos non è conforme al nomos ma viceversa il nomos è conforme al logos; infatti le espressioni logiche restano per la forma ancorate al principio di non contraddizione, solo che i contenuti di tali espressioni se sufficientemente ampi si configurano come un contraddire senza contraddirsi, senza cioè pregiudicare la razionalità della manifestazione del pensiero.


Mauro Pastore
#651
Citazione di: Socrate78 il 03 Dicembre 2022, 13:36:34 PMSecondo la filosofia etica di Socrate sostanzialmente il virtuoso e il giusto è colui che conosce il bene, mentre il malvagio è un ignorante che non conosce che cosa sia il vero bene e il concetto di giustizia.  Per Socrate insomma l'etica è una questione di sapere, di conoscenza: se si conosce veramente la nozione di bene in tutte le sue implicazioni, non si può non volere il bene, perché il bene è l'oggetto della volontà di ogni uomo (anche del malvagio), e quindi una condotta deviante dal giusto è semplicemente il frutto di un'ignoranza di che cosa sia il vero bene per la persona.
Ma è davvero così, cioè è sufficiente sapere che cosa sia il bene per volerlo? Io non credo, ad esempio io posso benissimo essere consapevole che per una persona sia bene avere amici, ma posso rifiutare la sua amicizia con disprezzo, posso benissimo sapere che per un povero sia bene avere cibo e denaro, eppure posso rifiutare la sua richiesta di beni di prima necessità, gli esempi sono innumerevoli. La conoscenza quindi non sembra bastare per l'azione virtuosa, ma sembra necessaria la presenza di un sentimento di benevolenza (o compassione) che orienta la volontà verso il bene, perché altrimenti la pura razionalità non è garanzia di virtù. Anche Kant secondo me riprende l'intellettualismo etico, perché l'imperativo categorico della coscienza nascerebbe dalla ragione ed orienterebbe automaticamente la volontà all'azione virtuosa, perché com'è noto in Kant l'aspetto emotivo/sentimentale dell'etica è escluso e considerato anzi un elemento che inquinerebbe la purezza dell'azione morale.
Secondo voi è sufficiente conoscere veramente che cosa sia il bene (il bene assoluto intendo) per volerlo? Oppure è necessario un elemento in più che non sia la pura conoscenza per orientare la volontà verso il bene?

L'Imperativo di cui diceva Kant è in quanto tale non una necessità impellente ma un'esigenza a cui l'uomo può sottrarsi, per scelta. Nulla di automatico. Quanto al sentimento, Kant in realtà lo aveva rivalutato nella Critica del giudizio. Per Kant dipende dal sentimento l'accordo tra sfera intellettuale e sfera pratica.

Mauro Pastore 
#652
Citazione di: niko il 01 Dicembre 2022, 19:29:20 PMIn realta', quello che divise i cristiani dal platonismo fu non tanto il disprezzo per il corpo (ci hai colto), che non era pieno e reale gia' in Platone, e non era pieno e reale tanto meno nel cristianesimo delle origini (ancora di piu', ci hai colto) ma il fatto che il platonismo valorizza la reminiscenza e la conoscenza, dunque il passato, il cristianesimo, figlio dell'ebraismo, valorizza la fede e la profezia, dunque il futuro.

Molto piu' delle possibili divergenze riguardo allo psicosoma, queste due visioni del mondo NON hanno lo stesso sentimento del tempo, la stessa valorizzazione etica delle dimensioni temporali.

Pesiero dell'eskaton da una parte, e pensiero della decadenza, dall'altra.

Il giudizio sul tempo e' necessariamente anche un giudizio sull'irreversibile: chi ama il passato (e con esso la conoscenza), stante la realta' innegabile del male, sostanzialmente pensa che il male, la caduta nel male, sia irreversibile; chi ama il futuro (e con esso la profezia e la fede) pensa alla redenzione e all'emandazione del male, alla trasformazione del male in bene, e quindi apre lentamente le porte a quell'immenso cambiamento storico e culturale che portera' da un mondo egemonizzato dal paganesimo e dalla filosofia a un mondo dominato dalle religioni del libro, religioni in un modo o nell'altro della conversione e della redenzione.

E' per questo che i cristiani gnostici, rimasti nell'orizzonte della conoscenza salvifica e della conversione retrospettiva al passato inteso come stato increato, e quindi ideale, del mondo, sono rimasti sostanzialmente platonici.

Gli gnostici sono rimasti nel giorno eterno, sono rimasti in Platone, mentre i portatori della (nuova) ortodossia hanno imposto una sorta di supremazia etica del perenne (ex nunc), sull'eterno (ex tunc), dunque un pensiero della reversibilita' del male e della fede in un futuro indeterminato, che e' assolutamente inesistente in Platone.

Detto questo, ci sono delle affermazioni innegabili di svalutazione del corpo in Platone, e di preferenza della morte sulla vita difficile da giustificare da un punto di vista vitalistico (il canto del cigno nel Fedone, ad esempio, oltreche' il corpo vome prigione dell'anima e tante altre).

La questione e' complessa, e piu' che un odio del corpo, si tenta di delineare un sospetto verso l'io e l'ego, che nel corpo risiedono, per guadagnare una migliore oggettivita' e imparzialita' nell'episteme, nello stesso quadro in cui si tenta di confutare la sofistica, ed esaltare come sommo bene la giustizia, giustizia in cui nessun "io" prevale su un "tu".

Il corpo e' messo sotto accusa in quanto sede di una molteplicita' meno perfetta dell'Uno originario.

Unita' che deve essere ricostruita con il dialogo reale tra persone, e, secondariamente, con il pensiero, in quanto dialogo interiore.

E' sempre chiamata in causa l'inesauribile questione di stabilire quanto è se il personaggio letterario  di Socrate sia portatore unico e preferenziale del punto di vista di Platone, perche' e' sempre il persobaggio di Socrate, che pronuncia le frasi di svalutazione del corpo.

E di fatto poi apprezza in senso inequivocabilmento -omo-sessuale molti ragazzini e uomini, dimostrando di apprezzare gli amori carnali.

La questione e' che tutta la filosofia in Platone vuole presentarsi come un ingentilimento e una sublimazione del rapporto pederastico, che idealmente dovrebbe sfociare nel rapporto maestro-alievo, lasciando nel mistero quanto della componente sessuale originaria rimanga/permanga.

La maggior parte degli interpreti considera le celeberrime ultime parole di Socrate:

 "dobbiamo un gallo ad Asclepio"

Una forte ed ennesima affermazione antivitalistica, di svalutazione del corpo e amoreggiamento con la morte: Asclepio e' il dio della medicina, e Socrate sta bevendo non una medicona, ma un veleno (o meglio un pharmakon, che significa sia medicina, che veleno!) .

Quindi con cio' si vorrebbe definire la morte come medicina e cura della vita: Asclepio ci fa la grazia di farci morire, andando verso una vita extracorpirea migliore, o comunque, quantomeno, verso la fine di tutte le sofferenze, e noi lo ringraziamo, offrendogli in sacrificio un gallo.

Questa e' l'interpretazione ufficiale, quella che va per la maggiore.

Uno dei punti piu' antivitalistici e di condanna del corpo che si possono trovare in Platone, in piu' in una posizione "topica" di massima evidenza, perche' sono le ultime parole di Socrate.

Ma ci sono almeno altre due interpretazioni: una ironica e una assurdamente vitalistica: quella ironica e' semicemente che un uomo in salute ha accettato di bere un veleno in esecuzione di una legge e di una sentenza, accettando la morte per le sue idee e per la coerenza davanti ai propri discepoli, ma facendo con cio' torto ad Asclepio che e' il Dio della salute e della medicina e mai vorrebbe che qualcuno in salute e nel pieno delle forze si stroncasse da solo bevendo veleno, facendo uso sbagliato, ed , di un farmaco: in questo senso, dobbiamo un gallo ad Asclepio, semplicemente perche' Asclepio e' indignato per ogni vita sana costretta a suicidarsi, e bisogna placarlo con un sacrificio, magari, appunto, di un gallo.

Ma l'interpretazione genuinamente vitalistica, anche se difficilmente sostenibile, praticamente fantasiosa, e' che Socrate, con la frase "dobbiamo un gallo ad Asclepio", come in un lampo di imparzialita' e visione non soggettiva delle cose, si rende conto delle ragioni, pratiche, anche se magari non etiche, che hanno portato i suoi nemici a condannarlo a morte, e, dunque, degli aspetti insostenibili, perche', appunto, antivitali, della sua stessa filosofia. Distruggendo tutte le certezze, si distrugge la possibilita' stessa della vita. E Socrate non aveva il "diritto" di far seprpeggiare il dubbio metodico e radicale su praticamente  ogni aspetto dell'etica e della virtu' nella sua stessa citta'; citta' che ora, "giustamente", lo condanna a morte, per difendere i presupposti pratici (fede nei miti, nei poeti, nella tradizione, nel tragico, nella democrazia, nella sofistica, insomma fede in qualcosa piuttosto che nel nulla), a prescindere da quelli etici, della sua stessa vita di comunita' e di citta'.

In questo, senso dice ai suoi discepoli:  "Dobbiamo un gallo ad Asclepio" perche' il torto contro la vita lo abbiamo fatto noi, non i nostri accusatori.

Ci vuole una espiazione pienamente volontaria, non una conseguente a una sentenza.

Di questa esperienza filosofica  che ha diffuso il dubbio fino a mettere in dubbio la "vita", (cioe' fino a mettere in dubbio i valori tradizionali e attuali della citta') ne e' valsa la pena, ma ne dobbiamo pagare, e soprattutto riconoscere, le conseguenze.

Il contrario esatto di uno spirito di vendetta.




Per me la tua è una teoria tutta sbagliata sulla storia e sulla filosofia e anche sulle biografie. Inoltre noto che non ti confronti col pensiero altrui.

Mauro Pastore 
#653
Citazione di: niko il 01 Dicembre 2022, 20:51:58 PMLa volonta' e' eterna, di una eternita' trascendente, quindi anche immanentemente, nel passatio, nel presente e nel futuro, la puoi immagginare come sempre volente, sempre presente.

Insomma il desiderio si rivolge, come ovvio, ad una mancanza: desideriamo cio' che ci manca.

Quello che e' un po' meno ovvio, e' che per Schpenahuer siamo esseri desiderarti, quindi non solo il desiderio si rivolge ad un qualcosa di mancante, che finche' non e' ottenuto genera sofferenza, ma anche l'eventuale mancanza di desiderio, conseguenza dell'ottenimento e della conquista quando le cose vanno "bene" e un desiderio si realizza e' noia, dunque ulteriore sofferenza.

Il desiderio non solo si rivolge a quello che manca, ma puo' esso stesso, in quanto desiderio, essere desiderato e mancare, essere oggetto mancante.

Mancante a chi si annoia, e vorrebbe nuovi stimoli e desideri.

Quindi se desidero, soffro perche' desidero, se non desidero soffro perche' mi annoio: comunque vada, soffro.

La noia fa segno al fatto che nel mondo non c'e' altro che volonta': la fine della volonta' in un ottenimento di qualcosa genera vuoto, senso di vuoto, cosi' come il desiderio in generale, quando c'e' ed e' attuale, soffre del vuoto del suo oggetto desiderato e mancante.

O ci manca il desiderio, o ci manca l'oggetto del desiderio.

Puo' sembrare crudele, ma e' logico: una volonta' soggiacente a tutto che "porta avanti il mondo" per sempre e da sempre non puo' essere programmara per terminare in ottenimenti ed appagamenti: non avrebbe senso.

E' volonta' di volonta', non volonta' di appagamento. La volonta' di appagamento e' illusoria. Conquistare un oggetto del desiderio getta l'uomo nella noia, cioe' mostra, quando e' ormai troppo tardi, la desiderabita' in se' di un desiderio, desiderabilita' che non si poteva conoscere finche' quel desiderio era -ancora- attualmente desiderato.

Il mondo esiste, quindi la volonta', esiste.

Il mondo e' sempre esistito, quindi la volonta' e' sempre, esistita.

Se si vuole fare una scommessa facile, si puo' scommettere che sempre, esistera'.

Quanto all'ascesi, essa e' semmai un destino di alcuni, fortunati, fra gli uomini, non qualcosa che davvero salvera' il mondo, non un destino in generale della volonta'




Ho letto i tuoi due ultimi messaggi. Non hai compreso il messaggio filosofico che Schopenhauer ci ha lasciato. Per interpretarlo correttamente dovresti prendere atto che i tuoi presupposti ingenui non sono adatti per approcciarsi al suo pensiero. Si tratta di valutare la differenza tra fenomeno e noumeno. Tu non la pratichi e poi pretendi che nessuno la pratichi. Si tratta di un atteggiamento antifilosofico, difatti ti illudi di ritrarre il pensiero di Schopenhauer e invece fai la descrizione di un'altra cosa. Certo Nietzsche, che tieni per riferimento, non faceva così. Lui ne faceva una questione di valori e di alternative... Che poi la sua alternativa fu causa di disastri, questo è un altro conto.

Mauro Pastore 
#654
La concezione della filosofia quale preparazione alla morte fu per Socrate una contingenza dettata dalla fatalità della pena di morte... Né si deve imputare a Platone di averne ipostatizzato, dato che i dialoghi platonici in quanto tali non possono essere costituiti da affermazioni categoriche e univoche né assolute.
La metafora platonica del corpo carcere dell'anima, oltre ad essere tale cioè metafora, non aveva lo scopo di descrivere i rapporti naturali tra anima e corpo ma soltanto di rendere presente la situazione di chi aspirando alla saggezza deve avere in considerazione la realtà spirituale non materiale e trovando difficoltoso questo còmpito lo vive drammaticamente.
Analogamente, le tre ipostasi neoplatoniche di Uno, Intelletto e Anima non rappresentano di per sé una cosmologia ma solo una descrizione della realtà così come il saggio la incontra nel proprio cammino, per cui l'anima deve volgersi dalle cose materiali a quelle spirituali contemplando le verità dell'intelletto per ritrovare l'unità del reale, senza cui non si darebbe nessuna saggezza...

Da queste precisazioni acquista un senso diverso da quello usualmente tramandato l'aneddoto secondo cui Plotino una volta avrebbe esclamato di vergognarsi del proprio corpo. Che senso dare all'affermazione? Forse Plotino era ridotto così male che pensava di aver vissuto già troppo o forse era tanta l'aspirazione alla saggezza che non aveva amato più il proprio corpo? In questo ultimo caso, l'affermazione comunque sarebbe da collocarsi in un momento di insavia non già di possesso dei risultati della propria filosofia...
E insomma il mondo della cultura dovrebbe abbandonare i 'luoghi comuni' costruiti su Platone, il pensiero platonico, il platonismo, il neoplatonismo; secondo questi luoghi comuni ci sarebbe in tale movimento filosofico, forse il principale nella vicenda della filosofia, una trascuranza o peggio una svalutazione della corporeità, ma evidentemente questo non può riguardare suddetto movimento in quanto tale... E dunque le critiche cristiane mosse ad esso non possono essere con giustezza riferite a ciò in cui consisteva esso stesso; tanto è vero che gli stessi primi critici cristiani nel rivalutare il ruolo della materia assumevano di esso movimento le stesse nozioni per altri versi criticate... Né si trova che i platonici non cristiani del mondo antico rimanessero inerti e impotenti; per esempio la specificazione del valore della materia non è solo da parte di Agostino, ma anche di Proclo.

Vale la pena di trattare l'eredità platonica con rispetto senza cadere nei tranelli tesi da una falsa cultura purtroppo diffusissima anche in mezzo alla vera.


Mauro Pastore
#655
Citazione di: niko il 30 Novembre 2022, 14:57:31 PMIo penso che in Schopenahuer il vero dramma e' che il bene e' negazione del male, non esiste un "bene" dotato di una "esistenza" primaria e autonoma.

L'emancipazione dalla sofferenza e' il non soffrire.

La tradizionale via apofantica e procedente per negazioni, lui la intraprende proprio rispetto al concetto di bene, che e' appunto negazione silente del male, prescindendo completamente da Dio e dell'eventuale dentificazione del bene con -un- dio.

Siamo davanti ad una teodicea rovesciata, in cui il bene e' "privatio mali", e il male invece esiste, e ha esistenza primaria e non ulteriormente da fondare, (il mondo come VOLONTA', eterna, dunque inappagata) per questo, per quanto tu ti arrovelli per argomentare il contrario, il concetto di Dio in Schopenahuer e' irrilevante.

Il desiderio di sussistenza dell'individuo nel tempo, e quindi anche il desiderio cieco di riproduzione insito nella vita, deriva dal piu' generale desiderio di sussistenza della volonta' nel tempo, e quindi da una cesura cosmica di ogni volonta' con il suo oggetto; insomma da un desiderio del desiderio, da una volonta' che in fondo sa di volere sempre il negativo di un oggetto, un oggetto si', ma in quanto assente e marchiato dalla condizione specifica della sua assenza, e dunque se stessa, e non un presentificabile oggetto, e dunque un vero Altro.

La negazione che separa il bene dal male in questo sistema, come tipo di negazione, e' logica, non storica o naturale. E, come ogni negazione logica, e' potenzialmente anche duplicante. E' solo un operatore logico di "non" , o un segno matematico di "meno" a separare il bene dal male. Ma per il resto, potrebbero essere la stessa cosa.

In generale (e suddivido in tre punti, che vogliono indicare molto per sommi capi tre tendenze importanti del pensiero occidentale contemporanee o prossime a Scopenahuer, per essere piu' chiaro)

* un certo fiorire di vie moderne e laiche di riscoperta dell'ascesi, come appunto in Schopenahuer (lo scopo della vita e' imparare a non volerla, quindi la vita ha uno scopo, dischiuso dalla pratica dell'ascesi, negativa della vita stessa),

* come pure, ogni estetismo decadente e sterilmente anti-ascetico che si protenda a valorizzare l'effimero e l'attimo con l'argomento, e con l'incombenza, della morte (insomma valorizzare il mondo a partire dalla realta' della morte, come coincidenza, appunto, tra l'effimero e l'unico)

* cosi' come, anche, ogni leopardianesimo e foscolismo della morte come grande consolatrice e del trovare conforto nella limitatezza, e finitudine, mortale appunto, della sofferenza umana per quanto essa sia vista come insensata e inevitabile,

dimostrano proprio e soltanto che non e' bastato liberarsi da Dio, dal Dio cristiano intendo, per liberarsi completamente e contemporaneamente anche da un presunto valore salvifico del nulla/niente nella cultura occidentale, dimostrano che il valore salvifico del nulla/niente e' in qualche modo persistito nelle menti e nella cultura oltre Dio, insomma che era necessario un Nietzsche, profeta che, incatenandoci all'infinita' identica e insensata della vita (eterno ritorno) ha saputo guardare oltre ogni presunto valore salvifico del nulla e della morte: in senso ascetico, in senso edonistico, in senso consolatorio, in tutti i sensi che ho provato ad elencare sopra, egli ha fatto piazza pulita, di questa ultima illusione possibile oltre Dio, consistente nel fare del nulla, un Dio.

Bisogna responsabilizzarsi davanti alla vita proprio perche' la vita non termina, non ha termine, nel nulla (ma neanche in un radicalmente altro cosi' diverso e inconcepibile dal presente da avere valore di nulla, e di nullificazione del presente).

Egli ha ri-detto -contro il suo maestro Schopenahuer- che il limite e il contrario della sofferenza umana e' un piacere memorico e reale, declinabile anche storicamente e naturalisticamente, e non una negazione logica di un soffrire totalizzante che fa mondo, non una mera non-sofferenza che si contrapponga, duplicandola, alla sofferenza.

Non una vita che si conclude nella morte e' il tema di Nietzsche ma parti e sussulti della vita, che si concludono in altre parti e in altri sussulti, della vita.

Non il problema della salvezza come qualcosa da conseguire, ma la salvezza in se' che fa problema, perche' il bene e' inestricabile dal male, la salvezza implica il ritorno, del bene e insieme del male, insomma la salvezza, una volta correttamente compresa, non puo' essere desiderata superficialmente.

Kant e Schopenahuer rispetto a tutto cio' sono ancora dei cercatori di salvezza, ma hanno avuto il merito di criticare il concetto di individuo e individuazione fino a far affiorare il dubbio che la -agognata- salvezza stessa possa non essere, una salvezza individuale.

Salvezza dell'anima non implica salvezza dell'io, anche grazie a loro comincia a incrinarsi qualcosa nell'edificio teologico del cristianesimo, siamo piu', appunto in senso gnostico, nell'ordine di idee di una salvezza dello spirito, di un quanto di non-individuale presente negli individui.









Bisogna capire invece la distinzione tra mondo falso e mondo vero: Schopenhauer descrive un mondo dominato dal male ma lo addita per falso. Le tue osservazioni sulla positività del male non tengono conto che nel sistema di Schopenhauer questa positività è solo illusoria... Per questo non si tratta di negare Dio ma, daccapo, di scoprire che c'è un vero Dio oltre il falso Dio. Senza aderirvi, Schopenhauer stimava e indicava il pensiero teologico di Eckhart pur indicando che era immerso in una mitologia cristiana (non significa che non fosse teologico).

Quanto dici sulla volontà non è l'affermazione di Schopenhauer. Questi indicava la volontà di vita non semplicemente la volontà di sé stessa. Una volontà che volendo la vita vuole anche se stessa e che però ha davanti a sé il destino di volere non più se stessa, perché la vita in atto è già vita e non ha senso rivolere la volontà di vita.

Non hai preso in esame il vero sistema di Schopenhauer...

Quanto al riferimento che hai fatto, a Nietzsche, si tratta di una critica radicale che sta a monte e non può entrare nel merito delle mie osservazioni perché ne nega le premesse. A mio avviso, la critica di Nietzsche è stata un fallimento... Non si può mettere da parte la distinzione tra mondo vero e mondo non vero senza cadere in una disastrosa ingenuità... Platone, Kant e Schopenhauer, indicano ognuno l'unica via possibile per evitare di farsi vittima degli eventi del mondo. In mezzo alle sue intuizioni, Nietzsche rifiutando la tradizione metafisica e le precisazioni kantiane rimase vittima della storia.

Quel che dici su Kant, Schopenhauer e il superamento dell'individualismo non lo trovo esatto. Politicamente sia Kant che Schopenhauer non erano collettivisti, l'andare oltre il principio di individuazione era per Schopenhauer solo la definizione di un nuovo principio intuitivo dell'identità. Sia Kant che Schopenhauer non sacrificavano l'individuo per la collettività anzi ne erano avversi; l'identificazione della realtà da parte di Schopenhauer condusse alla critica dell'ottimismo progressista che individuava nei collettivi la risposta ai principali problemi dell'umanità.

Le conclusioni che trai sulla salvezza e non salvezza sono tue osservazioni inficiate da ingenuo eccesso di ottimismo.

Nel vero pensiero di Kant e Schopenhauer non c'è alcun no alla vita.


Mauro Pastore
#656
Citazione di: Alberto Knox il 30 Novembre 2022, 12:17:05 PMFigurati se aderisco a ciò che è mera speculazione filosofica su Dio . Ho più volte detto che Dio non è  soggetto su cui Parlare per il semplice gusto del dibattito .
Mi attribuisci cose che non ho messo in campo. Mi riferivo alla ragion pratica quindi tutt'altro che a "mere speculazioni filosofiche". Non ho fatto le mie affermazioni per "il semplice gusto del dibattito". Mi attribuisci intenzioni non mie.
Ti invito a considerare seriamente i miei messaggi.

Mauro Pastore 
#657
Citazione di: Phil il 30 Novembre 2022, 20:32:12 PM@viator

Quando parlo con un interlocutore che usa un determinato vocabolario, cerco nel mio piccolo di usare il suo stesso vocabolario nella convinzione che ciò agevoli la comprensione reciproca. Più che forzarlo ad usare il mio vocabolario, se mi interessa comprendere la sua posizione, preferisco sforzarmi di capire prima di tutto il suo vocabolario (altrimenti più che parlare delle sue idee si finisce con il dissertare sul suo vocabolario e delle differenze con il mio, che non è quello che solitamente mi interessa).
Se non ho frainteso il vocabolario di Mauro quando parla di «evento» scrivendo «Se uno studente fa assenza a scuola, si tratta pur sempre di un evento non di un nulla»(cit.) e poi «Ma lo studente che resta a casa e non va a scuola è pur sempre un evento» (cit.) credo che lui abbia poi capito il senso delle mie osservazioni (in cui ho cercato di parlare la sua lingua) sull'evento della presenza a casa dello studente.
Altri, con altri vocabolari o con il vocabolario "giusto", possono anche restare spaesati, tuttavia se il focus del discorso è sui contenuti, credo che l'importante sia anzitutto assicurarsi un vocabolario condiviso per capirsi, ad esempio dando ad «evento» lo stesso significato.
Al posto di «evento» possiamo usare «fatto», «condizione» o altro, oppure soffermarci sulle differenze di significato fra ciascuno di tali termini, tuttavia se li sostituisci, impropriamente, alle frasi di Mauro che ho citato, nondimeno il "succo" della conversazione e delle mie osservazioni, non a caso, non cambia poi di molto.
Non è questione di vocabolario. L'evento riguarda casa e scuola e ovviamente l'assenza è una lontananza quindi non è un nulla.

Mauro Pastore 
#658
Citazione di: Phil il 29 Novembre 2022, 15:11:21 PMConsiderando la differenza ontologica fra ente ed evento (l'affiorare all'esistenza dell'ente è un evento, ma l'evento non è in sé un ente), il mancato evento che esistenza ha? Cosa esiste nel mancato evento che lo differenzia dal nulla, se non l'evento (avvenuto) che qualcuno (ente) lo abbia pensato e, in un certo senso, atteso?
Se uno studente non va a scuola, ciò è davvero in sé un evento? Se lo è, in cosa si differenzia (se è il caso) dal non indossare certi orecchini da parte della maestra, dal non inciampare del bidello, dal non crollare della scuola e da altri letteralmente infiniti possibili mancati eventi? La maestra (ente) segna (evento) l'assenza dello studente solo perché c'era aspettativa al riguardo; non perché l'assenza in quanto tale sia un evento (come non lo è anche per gli altri casi suddetti), ma perché l'evento atteso della presenza non accade (entro tempi e luoghi prestabiliti). Non siamo quindi sul piano ontologico, ma sul piano psicologico dell'attesa di un evento, il cui non realizzarsi non è evento ontologico (non accade "nulla"), bensì evento psicologico in chi realizza (in entrambi i sensi) la non corrispondenza fra la sua attesa (aspettativa, o simile) e gli eventi reali.
La differenza ontologica fra eventi che accadono ed eventi che non accadono si risolve tutta nel gioco retorico che pensa l'assenza come "presenza menomata" ma pur sempre "(pseudo)presenza" della possibilità mancata? Davvero l'esistere nel mondo (ente e/o evento) è affiancabile ontologicamente all'esistere in potenza (né ente né evento mondano, ma solo evento "mentale")? Quanto senso ha un'"ontologia dell'assenza", del evento mancato, della realtà non realizzata, o ciò non è forse più una psicologia che un'ontologia?

Che sciocca elucubrazione la tua! Pensa l'intero evento dell'esempio che ti ho fatto, quel che accade non solo a scuola ma anche a casa: il restare a casa va pensato assieme al non esser presente a scuola, l'assenza è una lontananza, non è il nulla. Limitando il pensiero a un solo luogo dell'evento e non prendendo atto della limitazione attuata, si pensa l'assenza come nulla e si tratta evidentemente di un clamoroso errore logico. Ma a che pro ragionare tanto allora, per sbagliare sulle cose più immediate? L'assenza ha un valore ontologico, invito te piuttosto a farti un esame psicologico, per renderti conto che usi il ragionamento contro la spontaneità psicologica. Se uno dice "non è andato a scuola" si deve pensare all'intero evento, anche al luogo dove si è rimasti. Il resto continualo tu.

Mauro Pastore
#659
Citazione di: viator il 29 Novembre 2022, 17:03:26 PMSalve Phil. Fortunatamente ci sei tu che, con parole più prolisse di quelle che avrei potuto usare io, hai la pazienza di rettificare gli ortaggi che nascono curvi e che, GRAZIE ALLA LORO ELASTICITA' TISSUTALE MA NON MENTALE, torneranno a disporsi secondo la loro naturale tensione curvilinea.

Personalmente io sono stufo di intervenire in un orto che produce ormai assai più zucchine che (assai più saporite) zucche.

L'aspetto patetico è che occorrerebbe confrontarsi con chi, pur sfoggiando mastodontiche letture filosofiche (la solita storia : non basta leggere tutto per crearsi una grande mente).............si mostra incapace di discernere la differenza tra un concetto (l'assenza oppure il nulla) ed un non-ente (una assenza oppurre il nulla). Saluti.
La realtà non è fatta solo di enti anche di entità. Esistono anche i fatti. Sei tu patetico con la tua superbia.

Mauro Pastore 
#660
Citazione di: Phil il 29 Novembre 2022, 15:11:21 PMConsiderando la differenza ontologica fra ente ed evento (l'affiorare all'esistenza dell'ente è un evento, ma l'evento non è in sé un ente), il mancato evento che esistenza ha? Cosa esiste nel mancato evento che lo differenzia dal nulla, se non l'evento (avvenuto) che qualcuno (ente) lo abbia pensato e, in un certo senso, atteso?
Se uno studente non va a scuola, ciò è davvero in sé un evento? Se lo è, in cosa si differenzia (se è il caso) dal non indossare certi orecchini da parte della maestra, dal non inciampare del bidello, dal non crollare della scuola e da altri letteralmente infiniti possibili mancati eventi? La maestra (ente) segna (evento) l'assenza dello studente solo perché c'era aspettativa al riguardo; non perché l'assenza in quanto tale sia un evento (come non lo è anche per gli altri casi suddetti), ma perché l'evento atteso della presenza non accade (entro tempi e luoghi prestabiliti). Non siamo quindi sul piano ontologico, ma sul piano psicologico dell'attesa di un evento, il cui non realizzarsi non è evento ontologico (non accade "nulla"), bensì evento psicologico in chi realizza (in entrambi i sensi) la non corrispondenza fra la sua attesa (aspettativa, o simile) e gli eventi reali.
La differenza ontologica fra eventi che accadono ed eventi che non accadono si risolve tutta nel gioco retorico che pensa l'assenza come "presenza menomata" ma pur sempre "(pseudo)presenza" della possibilità mancata? Davvero l'esistere nel mondo (ente e/o evento) è affiancabile ontologicamente all'esistere in potenza (né ente né evento mondano, ma solo evento "mentale")? Quanto senso ha un'"ontologia dell'assenza", del evento mancato, della realtà non realizzata, o ciò non è forse più una psicologia che un'ontologia?

Ma lo studente che resta a casa e non va a scuola è pur sempre un evento.

Mauro Pastore