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Messaggi - maral

#676
Tematiche Filosofiche / Re:Che cos'è la verità?
14 Giugno 2016, 22:41:17 PM
Citazione di: sgiombo il 13 Giugno 2016, 10:45:40 AM

Ribadisco la mia rassegnazione a constatare che non cogli la differenza fra fatti e pensieri, realtà e verità (o meno), eventi non simbolici (=senza significato) e simboli .

Riprendo dopo una breve pausa da questa contestazione di Sgiombo, che ringrazio comunque per le sue obiezioni che mi permettono di riflettere meglio sulle mie posizioni.
Penso di cogliere bene la differenza tra fatti (ciò che per esempio adesso sento accadere attorno a me) e il  pensare all'accadere di quei fatti, ma lo colgo in qualità di osservatore e, come osservatore, non solo posso, ma devo mettere in dubbio la verità di questo mio pensare rapportandola alla realtà di quei fatti che vivo (e chissà mai se vivrei senza pensarli, dato che ciò che vivo sempre mi appare significando). Quello che qui vengo affermando però è che quello che giudica non è l'unico modo di pensare la verità (che a sua volta è un fatto che accade) e, ho tentato di spiegare, che in questo caso (nel caso in cui non mi ponga come osservatore esterno di quello che accade), la verità non sta in un rapporto tra ciò che  soggettivamente percepisco e quello che oggettivamente accade in oggetto indipendentemente da me e fuori di me, ma proprio in quello che appare per come appare e che precede ogni soggetto osservatore/oggetto osservato.
Sono due prospettive diverse di considerare la verità delle cose in cui, nel secondo, non c'è alcun pensare, poiché non c'è né un soggetto che pensa né un oggetto pensato, c'è solo lo svelarsi della realtà e questo svelarsi è verità. E dunque, anche in questo caso, la verità resta diversa dalla realtà, essendone essa lo svelamento, ma ciò che si svela non esaurisce il reale, pur essendo quanto non si svela compreso nella verità dello svelarsi del nascosto come nascosto (quello che nel suo linguaggio, l'osservatore magari chiama noumeno). In questa dimensione, che è quella di un puro accadere, non c'è tempo né durata, perché il tempo è la dimensione in cui esiste un soggetto (e i suoi oggetti), dunque non ci sono né durate infinitamente piccole, né infinitamente grandi, è solo l'osservatore che vede le cose iniziare e finire e quindi può raccontarle e raccontarsele secondo un iniziare e un finire, un finire subito e anche un sembrare non finire mai.
Non c'è differenza tra accadere e significare, perché ogni accadere accade significando proprio ciò che accade. Solo la mente dell'osservatore vede che tra questi termini una differenza, pur potendo sentirne l'implicazione senza isolarli nella pretesa che da una parte ci sta quello che penso, dall'altra la realtà oggettiva, fuori da mio pensarla, come se entrambi, soggetto e oggetto, fossero del tutto auto sussistenti: io e il mondo presi in sé. L'apparire appare in immagini dirompenti di significato che richiamano altre immagini, ogni immagine è simbolo, quindi nulla quando appare è solo "simbolo". Non si immagina un inesistente per dirne l'inesistenza (fossero pure chimere, minotauri e ippogrifi), poiché ciò che appare è in quanto appare che è presente nel suo significare che comprende terrore, meraviglia, dolore, fino alla più pura angoscia e gioia ove ogni immagine si dissolve. Ma non c'è alcuna onnipotenza di un soggetto al quale basta immaginare per creare, proprio perché non c'è alcun soggetto, semplicemente l'apparire sperimenta se stesso e si sperimenta immediatamente vero.
So bene che è una dimensione questa che risulta assurda all'osservatore che giudica del vero e del falso, è estremamente rischiosa e il soggetto (e di conseguenza l'oggetto) nasce e vuole durare proprio per non incontrare questo rischio, lo esorcizza con descrizioni che istituzionalizzano giudizi di vero e di falso secondo metodo e regola, con definizioni di parole da credere solo convenzionali e arbitrarie, come mezzi a disposizione per maneggiare il mondo previa verifica, parole sottratte alla verità del loro accadere che precedette qualsiasi definizione concordata sul grido di un pianto, o su un riso di gioia.   
L'osservatore nasce solo perché qualcun altro lo osserva (il volto di un altro che lo guarda gli appare) e gli restituisce ciò che si svela come un oggetto che egli potrà osservare e utilizzare per sopravvivere come io, potrà giudicare buono o cattivo, bello o brutto, vero o falso, vivendo in un mondo che ha durata e confini entro i quali potrà sentirsi, per un po', al sicuro.
Ma questa verità, che è lo svelamento del reale, sotto sotto resta sempre e ogni tanto riappare, magari per dileguarsi subito. Perché l'io dell'osservatore, una volta che c'è, c'è in qualche misura sempre, anche se a volte si immagina come se non ci fosse, fa finta di non esserci.
I significati non sono a disposizione arbitraria di chi li pensa o li immagina, ma sono duri come pietre e taglienti come lame acuminate, scavano e lasciano segni profondi, solo ciò che non ha significato non lascia alcun segno e quindi non si manifesta.
E tutto questo lo dico da osservatore, da uno che giudica del vero e del falso, ma in qualche modo sa, o forse ha solo un vago sentire del fatto, che non è tutto lì e cerca di recuperare il resto pur sapendone bene il pericolo.
   
 
#677
Tematiche Filosofiche / Re:Che cos'è la verità?
13 Giugno 2016, 13:50:06 PM
Citazione di: CVCL'episteme di è spostata dall'essere alla metodologia. La   conoscenza non è più rivolta alla ricerca di una realtà assoluta che spieghi il tutto, ma si pone degli obbiettivi particolari, e ciò che conta è la verità nelle metodologie che portano al raggiungimento di tali obiettivi.
Ma questo non fa che spostare il problema senza risolverlo. Se ormai siamo giunti a pensare che non c'è più la pretesa di una realtà assolutamente vera, c'è pur sempre la pretesa di un metodo assolutamente vero. E su che cosa si basa tale pretesa? Sul fatto che l'applicazione tecnica a cui quel metodo dà luogo funziona. Dunque la verità assoluta è il funzionare della tecnica. Ma davvero funziona o è lecito dubitarne?
#678
Scienza e Tecnologia / Re:Introduzione alla sezione
12 Giugno 2016, 23:08:19 PM
Diciamo che comunque la letteratura fantascientifica prepara il terreno per la scienza e a volte pure la ispira. Inoltre pone delle aspettative popolari verso il progresso scientifico. 
#679
Tematiche Filosofiche / Re:Che cos'è la verità?
12 Giugno 2016, 22:51:04 PM
Citazione di: sgiombo il 12 Giugno 2016, 15:57:35 PM
Ovviamente ogni accadimento c'è [tempo presente] solo nel presente finché c'è; ma se si prolunga nel tempo (se ha una durata, fatto possibilissimo), allora c' era [tempo passato] anche prima e ci sarà [tempo futuro] anche poi.
E ogni dolore se dura delle ore è sempre presente finché c'è, quindi ha una durata di alcune ore (se invece fosse costantemente presente, allora avrebbe una durata infinita, cioè sarebbe eterno).
E di nuovo, il dolore ha una durata nel momento in cui lo descrivi come un soggetto vede un oggetto, non nel momento in cui accade. Nella durata c'è un soggetto e un oggetto e per questo il soggetto concepisce il durare dell'oggetto, rispetto al diverso durare di se stesso (diversità di durata che non esiste nel momento in cui il dolore direttamente appare).

CitazioneSe è vero, come è vero, che (in generale, "di regola", le definizioni dei concetti significati dalle parole sono sempre in qualche misura inadeguate e quindi sempre suscettibili di ridefinizione (secondo me possibile, non sempre e comunque necessaria, altrimenti si cadrebbe inevitabilmente in una Babele tale da impedire qualunque comunicazione), tuttavia ogni ridefinizione è comunque stabilita arbitrariamente, per convenzione: bisogna cercare di mettersi d' accordo (e cercare di stabilire se le lingue preesistono ai significati o viceversa mi sembra un po' come cercare di stabilire se sia nato prima l' uovo o la gallina).
Non ho detto che è sempre necessario, è necessario quando si intende esaminare filosoficamente la questione, non ci si può arrestare davanti alla definizione, ma occorre metterla in discussione per capirne il senso che ha portato al significato che essa fa vedere nascondendone altri per far vedere solo quello. La definizione non è né un dato di natura, né un dato arbitrariamente convenuto, ma un aspetto particolare messo in luce del significare delle cose. Mettere in discussione le definizioni non significa cadere in una babele dove non ci si capisce più, ma al contrario esplorare la realtà delle cose per coglierne la verità che la dispiega. Si è in cammino e ogni passo consiste nel ribaltare ogni definizione per vedere cosa nasconde e cosa svela.
Poi se invece di voler esplorare le definizioni vogliamo fare logica matematica va bene, ma mi sa che non ne saremmo per nulla in grado (almeno non io: non ne possiedo il rigoroso linguaggio formale specialistico che necessita)

CitazioneIl "non piovere adesso" è un significato (di un predicato, un pensiero) che esprime esattamente (= veracemente), il (fatto) reale e positivo (del) non piovere adesso (nota l' assenza delle virgolette), è l'accadere di un predicato negativo (= una negazione nel predicare, nel pensare): per lo meno in linea di principio le stesse cose si possono dire, pensare, predicare tanto in forma positiva, quanto in forma negativa (mentre le "cose", gli enti ed eventi reali possono realmente o accadere oppure non accadere: fra il dire o pensare in forma positiva o negativa sussiste una differenza puramente formale, mentre fra l' accadere e il non accadere realmente sussiste una ben diversa differenza reale, ontologica).
E "Nulla accade" è un significato (di un predicato, un pensiero) che esprime esattamente (ma falsamente) questo evento che nulla accade (nota l' assenza delle virgolette) nel suo significato (del predicato! E non della realtà!) evidente (in lingua italiana); e che è falso ma non contraddittorio (sarebbe contraddittorio casomai "nulla accade e contemporaneamente accade qualcosa").
Il "non piovere adesso" è la verità del non piovere adesso, la verità dell'evento che sta nel suo significato, ossia nel suo stesso accadere. Accade che adesso non piove, accade che nulla accade, e queste cose accadono come evidenti significati. Se dico che "accade che non piove", mentre accade che piove dico il falso non perché mi riferisco in modo errato a ciò che realmente accade, ma perché mi riferisco in modo giusto a ciò che realmente accade nascondendolo, ove ciò che realmente accade è che accade che adesso piove, ma non voglio che  si sappia. La falsità sta nel voler mantenere nascosto lo svelarsi di ciò che effettivamente accade (il referente di Phil) come significato inscindibile da esso. Ciò che si dice non è mai disgiunto da ciò che accade, nemmeno nella predicazione e la contraddizione non c'è in ultima analisi né nella realtà né nel dire, poiché se ci fosse nel dire, quel dire la contraddizione sarebbe non dire nulla.

CitazioneIl fatto del dolore (di qualsiasi dolore, come di qualsiasi gioia; e non il significato della parola "dolore") viene ben prima di qualsiasi definizione stipulata per convenzione; ma con le parole possiamo benissimo parlare anche di enti ed eventi inesistenti, irreali (come per esempio minotauri, chimere, imprese di Ercole ecc.), attribuendo alle (stipulando per le) parole anche significati che non denotano alcunché di venuto prima, né che mai verrà (presumibilmente) dopo di esse.
Non si parla mai di enti non esistenti, ma di enti il cui significato si vuole tenere nascosto. magari con un riferimento letterale. I minotauri, le chimere e via dicendo non sono enti non essenti (e dunque contraddizioni), ma esistono (accadono) proprio per quello che propriamente significano.
Non c'è un mondo che si dice o si pensa in contrapposizione a un mondo reale che si può direttamente sentire e in cui il primo gode di illimitati gradi di libertà rispetto al secondo. Il mondo semantico è espressione diretta del mondo sentito accadere e il mondo sentito è espressione di quello che si pensa e hanno esattamente la stessa necessità che risiede nel loro manifestarsi come un unico mondo avente il significato di unico mondo.

CitazioneChe un dolore (che è un fatto! E infatti si può discutere della sua realtà o meno, non della sua verità) è presente mentre è presente è una tautologia.
Non è il predicato di un'esperienza: è quell' esperienza (sempre in lingua italiana, come in qualsiasi altra lingua).
Ma il fatto è nient'altro che una tautologia che si è compiuta nel suo significare. E proprio per questo non se ne può discutere (almeno finché non appare che forse non si era compiuta, che era rimasto nascosto il suo compimento e, a quel punto, il fatto non è più un fatto e lo si può rimettere in discussione).
#680
Tematiche Filosofiche / Re:Che cos'è la verità?
12 Giugno 2016, 20:50:14 PM
Citazione di: Phil il 12 Giugno 2016, 16:10:03 PM
Se il presentarsi-svelandosi del reale è vero, cosa distingue il "vero" dal "reale"? Vero e reale non diventano sinonimi?
Mi pare sia implicito: vero è lo svelarsi del reale, quindi solo al reale (e non al vero) appartiene ciò che ora non accade svelandosi.

CitazioneNon è dunque possibile che ci siano eventi che accadono senza significare?
Se la risposta è no, non si rischia anche qui di distinguere fra due termini (accadere e significare) che in fondo si denotano come sinonimi?
L'accadere non necessità certo di segnificazione, ma il significare (anche secondo Frege) non è solo un attributo semiologico, non ontologico, dell'accadere?
Sì in questo contesto (che ovviamente non è quello in cui si muove Frege, a cui mi riferivo solo per dire che lui denota il referente con il termine di significato, ma qui è solo una questione linguistica) il significato è proprio ciò che accade e ogni accadere accadendo in qualche modo significa. La distinzione dei due termini appartiene alla necessità predicativa di un contesto diverso. Il riferiento della verità come aletheia non mi pare (ma può essere che mi sbagli) sia nella moderna semiotica, ma va alle origini della filosofia greca e "modernamente" a Husserl e Heidegger che la riprendono in senso fenomenologico (ovviamente è del tutto lecito criticare questa prospettiva).
Citazione"...parlando più in generale, la realtà che il segno segnifica e (rap)presenta è una realtà soltanto semantica, concettuale e convenzionale (e proprio per questo può essere vera o falsa)."
Ma non è solo concettuale e convenzionale nei termini di riferimento sopra indicati, ossia è proprio il segno che nell'accadimento appare. Non c'è una dimensione semantica che va confrontata con una realtà effettiva per verificarla vera, giacché la verità è nello svelarsi che si presenta come segno, è l'evocazione che il segno presenta che non evoca una diversa realtà sottostante a cui va commisurata per stabilire il grado di congruenza, ma evoca solo altri segni a cui fa segno.

CitazioneQuei tre possono coincidere solo in caso di "parola divina" che crea (referenti) pronunciando (significanti)... se ci si crede...
Ecco, qui quella parola divina è la parola che si fa carico del proprio significato/accadere assoluto, quello che Heidegger, nella seconda parte della sua vita cercò nella poesia di Holderlin.

CitazioneNon direi "un io viene per porsi", quasi fosse una sua scelta contingente: soprattutto nel caso del dolore, direi "un io si trova ad essere", volente o nolente, soggetto (non "osservatore") di quel vissuto (il dolore che descrivi sembra avere una connotazione molto trascendentale, priva di ogni impulso nervoso... siamo sicuri che sia dolore?).
Sì, "un io viene per porsi" è una mia espressione infelice, è più giusto dire che un "io si trova a essere", ma si trova a essere perché quel dolore originario è possibile che sia accolto in una sorta di spazio esterno costituito da altri accadimenti/significati. Quello che una certa attuale filosofia (e psicologia) vede come spazio transindividuale. E' grazie a questo spostamento che l'io comincia ad apparire. Per maggiore chiarezza rimando a questo interessante intervento di Felice Cimatti che illustra il lavoro di Bion: http://riviste.unimi.it/index.php/noema/article/viewFile/4683/4883 )

Citazione
[si parla del vissuto]
Qui propongo un esperimento, trovare la/e eventuale/i differenza/e fra:
1-"è vero come reale che si svela"
2-"è reale come verità che si svela"
3-"è reale come realtà che si svela"
4-"è vero come verità che si svela"
sul filo di queste differenze c'è la non-sinonimia di "vero" e "reale".
Certo, potrà essere interessante rifletterci sopra. Per ora mi limito alla posizione 1, che mi pare richiami il modo in cui Heidegger pone la relazione tra essere (coincidente con il Niente) ed ente.  

CitazioneP.s. Linguisticamente, come avrai già capito, vedo "la verità" connessa al verificare (come suo possibile esito) e "la realtà" connessa all'essere, all'accadere, e al realizzare; per questo mi ritrovo a triangolarle a fatica con "lo svelamento"...

Ma anche questo, dopotutto. è una forma di svelamento, potrebbe essere interessante vederne il rapporto, oltre alla contrapposizione.
#681
Tematiche Filosofiche / Re:Che cos'è la verità?
12 Giugno 2016, 13:16:56 PM
Citazione di: Phil il 11 Giugno 2016, 23:07:21 PM
Se per "vera" si intende "reale", per "significare" si intende "accadere" e per "significato" si intende "referente", sostituendo le tre parole, la frase diventa forse più precisa semiologicamente (non voglio "correggere con la penna rossa", solo suggerire di usare un linguaggio meno ambiguo e più standard...).
Ringrazio innanzitutto Phil per le precisazioni semiotiche e parto da qui per alcune considerazioni.
La distinzione tra vero e reale è opportuna, come ho già detto a Sgiombo, ma nel contesto di verità come Aletheia, la verità non può essere assunta come il risultato di un giudizio sul discorso che predica la realtà. Qui a essere vero è il reale che si presenta svelandosi e in quanto semplicemente si svela, dunque non c'è un vero contrapposto a un falso di cui si è tenuti a dare giudizio, ma un vero che, in quanto svelamento, è contrapposto al nascosto che, nel suo svelarsi come nascosto, è parimenti vero. Falsa è quindi solo la negazione dello svelamento di ciò che si svela.
Per significare si intende accadere, non per sostituire un termine più appropriato a un altro, ma perché l'accadere è inseparabile dal significare, ossia le cose accadono sempre significando e significano accadendo, dunque accadere = significare, entrambi sono svelamento.
Per il discorso sul referente, non essendo un semiologo, mi rifaccio a quanto qui spiegato:http://www.ildiogene.it/EncyPages/Ency=significato.html
In cui si dice, tra l'altro, che i termini di significato, significante e referente sono stati indicati in modo diverso e, in fig.3, indica che Frege denomina il referente proprio come "significato". Ma non è su una questione linguistica che intendo soffermarmi, bensì sul fatto che se il referente è "la realtà rappresentata dal segno" nell'ottica dello svelamento, se il segno svela (facendo segno, ossia segnificando), la realtà rappresentata dal segno è la realtà che si svela, dunque è proprio la verità (aletheia), di cui significato e significante sono momenti logici posti a posteriori dall'analisi dell'osservatore, che la valuta oggettivamente nel discorso (ossia estromettendola nel discorso posto in oggetto per l'analisi). Pertanto nell'esperienza della verità come svelamento referente, significato e significante coincidono, mentre vanno doverosamente distinti nella trattazione logica che ne fa l'osservatore allo scopo di chiarire una verità che a questo punto considera le modalità tecniche della sua comunicazione.
Ovviamente, si può sempre accettare o rifiutare la verità come aletheia e analizzarla solo nel suo aspetto   tecnico comunicativo, ma qui era appunto sulla verità come svelamento che intendevo soffermarmi.
(un aspetto che può essere interessante da approfondire in merito e che ora lascio solo accennato come tema può essere ad esempio come gioca la verità nella produzione artistica).

CitazioneIl dolore (della martellata) che percepisco è il mio dolore (altrimenti non potrei percepirlo sul mio pollice) e proprio nel percepirlo lo sento durare nel presente, e proprio nel sentirlo come mio dolore duraturo posso descriverlo al medico ("non mi passa!", oppure "adesso sta diminuendo..."). Ogni avvenimento è reale (non direi "vero") per chi lo vive: la coscienza, prima della mia memoria, esperisce i miei vissuti secondo le sue modalità; io non sono il mio dolore, io sono quella coscienza che sente quel dolore (la distinzione fra percipiente e percepito è ineliminabile, altrimenti smetterei per un attimo di avere autocoscienza e sarei solo un'impossibile "sensazione impersonale", "un vissuto di nessuno"...)
Certamente, ma l'emergere di un soggetto e di un oggetto è a posteriori (frutto di considerazioni logiche a posteriori che ne impongono una necessità a priori), ma non nel momento dell'apparire del dolore, del suo immediato originario svelarsi. Ovviamente nella possibilità o meno dell'apparire logico di un soggetto (io) a cui quel dolore appartiene come oggetto sta tutta la possibilità linguistica di descrivere quel dolore al medico o a chiunque altro, ma sempre su un piano logico descrittivo in cui un io viene per porsi come osservatore oggettivo del proprio dolore che non è più semplicemente sentito ed espresso, ma può essere spiegato e quindi interpretato. E' il piano di verità di un dolore spiegabile che necessita di un soggetto e di un oggetto che nella sensazione non ci sono ancora, perché c'è solo il dolore che si rende manifesto.
CitazionePer alcuni linguisti (con cui possiamo anche non concordare), se non erro, "significato" e "definizione" sono sinonimi, per cui la lingua crea significati e pensarli pre-esistenti alla lingua è contraddittorio... oppure per "significati" intendevi "referenti" (quelli si, pre-esistenti ed autonomi rispetto ad ogni lingua)?
Certo, nell'accezione che ne hai dato, intendo referenti (che peraltro abbiamo visto che Frege chiama significati), comunque basta intendersi.

Citazione...a farla breve, direi che tutto ciò che vivo-esperisco è per me "reale", non "vero"... ma forse è solo una questione di vocabolario personale.
D'accordo, ma in termini di aletheia, mi pare si possa dire che è vero come reale che si svela, cioè che si rende manifesto e in questo rendersi manifesto potrà determinarsi come oggetto di un soggetto.
Riprendendo il tuo esempio iniziale, se dico "sta piovendo e mi bagno" credo che siamo di fronte a uno svelamento che può costituire una descrizione (rivolta a qualcun altro per il quale magari non sta piovendo e non si bagna) oppure la semplice espressione di qualcosa che direttamente si manifesta. Nel primo caso la verità si pone nel triangolo che può darci il criterio alla base di una valutazione del discorso in termini di coerenza o non coerenza al reale, nel secondo è nel manifestarsi dell'evento stesso, ossia nell'apparire del reale nell'aspetto in cui appare.

Mi scuso per il mio discorso in qualche misura sempre ambiguo e oscuro, ma qui sto tentando di dire ciò che è essenzialmente indicibile, cosa che è certo una contraddizione, ma che non possiamo non voler tentare.
#682
In generale, per quanto ne so, l'invenzione di nuovi prodotti o di nuovi metodi di produzione risolvono le crisi mettendo in crisi definitiva quelli vecchi o consegnandoli a settori di nicchia per collezionisti. E' stato così per l'automobile, per i sistemi produttivi automatizzati nelle catene di montaggio, è sempre più così per internet rispetto ad altri sistemi di diffusione informativa e sarà così per le nuove biotecnologie rispetto al modo di curare. Ovviamente la novità risolve quella crisi, ma introduce una nuova situazione che prima o poi finirà con il manifestarsi critica.
Anche la progressiva finanziarizzazione dell'economia (soprattutto a partire dagli anni 80) ha rappresentato un tentativo (che pareva in un primo tempo assai promettente) di cambiare il modo di fare profitto (che minacciava di entrare in crisi per motivi di sovrapproduzione, dopo il boom del dopoguerra fino a tutti gli anni sessanta). Ma i risultati non hanno tardato a mostrarsi a breve ancora estremamente critici.
#683
Citazione di: sgiombo il 11 Giugno 2016, 11:08:27 AM
Secondo me non si tratta della stessa cosa detta con parole diverse ma di due diverse cose, reciprocamente altre, anche se non può esistere/accedere l' una se non esiste/accade l' altra e viceversa (sono reciprocamente conditiones sine qua non l' una adell' altra).
Ma questo pensarle come 2 cose distinte ripropone quel dualismo cartesiano che Damasio vuole superare in quanto irrisolvibile nella concezione unitaria della realtà (che è una). Se sono due cose diverse non è sufficiente dire che sono diverse ma si implicano, occorre dire in quali termini si implicano, dove e come vengono a implicarsi e in questo, la scienza, come la filosofia trova irrisolvibili difficoltà. Il mito (cristiano) risolve la cosa rappresentandole in una sorta di rapporto tra contenitore e contenuto, ma questa rappresentazione mostra tutta la sua debolezza quando si va a cercare scientificamente il contenuto che non si mostra, poiché tutto ciò che si mostra nel soggetto oggettivamente preso è sempre e solo il contenitore, un contenitore che si può dunque ritenere senza altro contenuto che se stesso, ovvero i propri oggettivi processi neurofisiologici.
Quando però dici che sono in un certo senso la stessa cosa viste da due prospettive diverse, ripristini quell'unità, ponendo il "certo senso" in una soggettività diversa che comunque partecipa di un'unità che va oltre le nostre prospettive di osservazione (un "noumeno" trascendentale non altrimenti definibile che corrisponde all'unità sovrastante che determina la molteplicità esperita).
Però non capisco a questo punto la differenza che poni con il rapporto tra la liquidità dell'acqua come comunemente descrivibile sulla base della percezione e la sua rappresentazione in termini fisico chimici. Qui ritieni che l'unità sarebbe garantita dalla natura fisica dell'acqua, quella che c'è sempre anche in assenza di qualsiasi osservatore, ma quella quale? Il problema è che, esattamente come per la coscienza, anche l'acqua è sempre una descrizione data dall'osservatore, sia che la descriva nei termini in cui la percezione ne dà conto, sia che la descriva nei termini in cui la chimica ne dà conto, ossia nei termini in cui colloca la sua prospettiva il noumeno "acqua". Questo non significa assolutamente che l'acqua è solo ciò che vede l'osservatore, ma che, al pari della coscienza, i modi in cui si manifesta (come appare) dipendono dalla prospettiva in cui si colloca l'osservatore e quindi dai linguaggi che a queste prospettive risultano appropriati per darne conto, l'uno che considera primario l'aspetto sensibile diretto e soggettivo, l'altro che considera primario ciò che la strumentazione e il metodo scientifico consentono a tutti oggettivamente di vedere nel momento in cui li si è imparati a usare. Il primo è diretto e immediato, l'altro è indiretto e mediato. La stessa tecnica di imaging che Damasio presenta è questa mediazione, ne più né meno che se usassi uno spettrofotometro per riconoscere la presenza di molecole di acqua.
   
Citazione di: Loris BagnaraSupponiamo così che io-maral si trasferisca in corpo-hollyfabius, e io-hollyfabius in corpo-maral: ciascuno di voi due sentirà di essere sempre se stesso, soggettivamente, ma si troverà in una condizione differente da prima, oggettivamente. Non so dirlo altrimenti. Cercate di cogliere il fatto che il vostro io-sono avrebbe potuto manifestarsi entro condizioni differenti da quelle attuali, pur voi restando voi stessi. E attenzione alla parola "manifestarsi", perché ci tornerò sopra in seguito.
Ma questo è diverso rispetto alla questione posta da Hollyfabius. Qui l'io-maral (ossia la mente di Maral per come si era venuta determinando dalle tracce lasciate nel cervello dal corpo senziente di Maral) e l'io-hollyfabius pre esistevano prima dello scambio e per questo il problema identitario ha senso, poiché un pre esistente si trova improvvisamente in un corpo che determina tracce diverse e in cui le precedenti mappe non funzionano più. E' probabile una crisi di rigetto. Il discorso invece non ha più senso se riferito a una coscienza pensata come qualcosa che può nascere in un corpo anziché in un altro, perché è chiaro che è quel corpo in cui essa nasce che a determinarla come tale, non un io già esistente che gli viene trapiantato da fuori.
CitazioneNon c'è bisogno di descrivere la coscienza universale, che ovviamente resta inaccessibile ad ogni coscienza limitata come siamo noi esseri umani. Ma è sufficiente sapere che esiste, che essa è la sorgente di ogni coscienza particolare, perché se non postulassi una coscienza universale ed eterna non vi sarebbe alcuna possibile spiegazione per la mia (vostra) presenza qui, ora.
E' già una grandissima differenza, rispetto al non-senso che deriva dal non postularla.
E' la differenza che vi è fra sapere che la risposta non esiste, oppure sapere che la risposta invece esiste, anche se non la conosciamo.
Però questa posizione corrisponde a una soluzione ad hoc: ossia mi serve una coscienza universale per risolvere il problema dell'esistenza delle coscienze particolari che altrimenti resterebbe irrisolvibile, quindi la postulo. Da un punto di vista logico le soluzioni ad hoc (che postulano ciò che risolve il problema) sono una fallacia, per quanto comode e largamente impiegate (spesso anche nel discorso scientifico, mantenute in attesa di verificarle).

Per quanto riguarda il discorso di una coscienza che non può nascere dal nulla né tramontare nel nulla sono perfettamente d'accordo (è del tutto illogico pensare che qualcosa esca dal nulla e vi ritorni, ossia torni a essere quel nulla che era prima di essere ciò che è, ed è illogico in quanto nessuna cosa può mai essere il nulla di quella cosa, né prima né dopo). Ma è anche illogico che la coscienza individuale entra ed esca in una coscienza universale, perché per farlo sarebbe la sua individualità a dover sorgere dal nulla e finire nel nulla, dunque il paradosso resta lo stesso: se si conviene che nulla può nascere dal nulla e finire nel nulla (ossia se solo il nulla può farlo) nemmeno l'individualità della coscienza può sorgere dal nulla e tramontare nel nulla. Ma qui il discorso (di sapore severiniano) si fa troppo filosofico per l'ambito di questa sezione.
#684
Tematiche Filosofiche / Re:Che cos'è la verità?
11 Giugno 2016, 19:56:18 PM
Citazione di: sgiombo il 11 Giugno 2016, 16:07:45 PM
sapere qualcosa (per esempio di sentire il dolore) non è (come invece è in lingua italiana) descriverlo a mezzo di predicati che ne affermano l' accadere conformemente alla realtà;[/font]
Non farne una questione linguistica, Sgiombo, non sto parlando in nessun marallese oscuro: sapere una cosa non implica né in lingua italiana, né in qualsiasi altra lingua saperla descrivere a mezzo dei predicati di quella lingua o di una qualsiasi altra. I predicati servono all'osservatore per inquadrare quell'esperienza (di cui so senza saperla descrivere e la so subito vera poiché accade) in una descrizione che la estromette, ossia la colloca in oggetto. E l'esperienza è vera nel suo immediato significare, si presenta subito come un significato, di qualsiasi esperienza si tratti.
Il dolore che c'è mentre lo descrivo in oggetto non è (e non può essere in nessuna lingua) il dolore che veramente si sente significare mentre accade ed è questo che pone il problema della verità che si riferisce alla mimesi della descrizione, non certo al dolore che sento.


Citazioneche non c'è alcuna durata nel dolore [magari! Sarebbe una pacchia!, N.d.R.] ma solo nella descrizione del dolore, poiché esso (il dolore), quando c'è, è solo presente, anche nel caso in cui -per esempio- il mal di testa o di schiena duri ore e ore;
Il dolore c'è nel momento in cui lo sento, e questo momento è proprio il suo presente accadere, come ogni accadimento c'è solo nel presente finché c'è. E' la descrizione che ha bisogno di un tempo e nella descrizione quel dolore sentito è messo fuori da me che lo sento (in quello spazio in cui mi aspetto che qualcuno possa accoglierlo nel suo significare per assumerlo e prendersene cura). Il dolore di cui posso dire che che dura delle ore è sempre presente finché c'è, quindi non ha alcuna durata, proprio in quanto è costantemente presente: è adesso (o più semplicemente "è" al presente del verbo essere della lingua italiana). E' la descrizione del dolore che necessita di tradurlo in riferimento a una durata e questa traduzione è possibile solo se quel dolore mi si presenta come in qualche misura già estromesso da me in modo che lo possa descrivere. (non so se noti, ma sto parlando in lingua italiana stretta, giacché non è la lingua che con le sue definizioni convenute crea i significati, ma l'esatto contrario, per quanto queste definizioni siano sempre in qualche misura inadeguate e quindi sempre suscettibili di necessaria ridefinizione per tentare continuamente di dare conto dei significati a ogni lingua pre esistenti, anche se da ogni lingua mutati)   

Citazioneche (ulteriori autocontraddizioni) vi possano essere eventi [/font][/size][/color]il cui significato è proprio quello di essere paradossalmente degli eventi privi di significato e che  Anche il nulla (quando nulla accade) significa [che cosa? A chi?, N.d.R];
Il "non piovere adesso" è un significato che esprime esattamente l'accadere reale, vero e positivo del "non piovere adesso", è l'accadere di una negazione.
"Nulla accade" esprime esattamente questo evento "nulla accade" nel suo significato evidente (in lingua italiana) e "nulla" (nulla è) ha significato per quanto contraddittorio: esprime l'accadere del non accadere, l'accadere della contraddizione di questo accadere (dato che anche la contraddizione del nulla accade positivamente e accade significando esattamente ciò che significa per chiunque la senta, in qualsiasi lingua la senta espressa).
I significati non si stipulano, non c'è né mai stato un luogo dove si stipulano significati, ciò che si stipulano possono essere (a livello di linguaggi formali) delle definizioni, ossia dei segni che per convenzione più o meno evocano un accadere già significante (finché lo evocano, cosa che non dipende per nulla da ciò che è scritto nei vocabolari) per renderli descrivibili, ma il loro significare non sta nella definizione ed è di questo significare che si va in cerca facendo filosofia, magari anche interrogandosi sul senso delle definizioni con cui sono stati via via espressi, ma non prendendo le definizioni come base originaria dei significati.
Il significato del dolore (di qualsiasi dolore, come di qualsiasi gioia) viene ben prima di qualsiasi definizione stipulata per convenzione ed è per questo che ne possiamo parlare tentando di riflettere su come le definizioni traducono questo significato (cosa davvero mettono in luce e cosa nascondono della verità che accade)

CitazioneChi non ha sviluppato una propria autocoscienza (animali non umani) può sentire dolore, ma non può sapere di se stesso (ignora se stesso per definizione) che sente dolore (può immediatamente sentire il dolore e forse, nel caso di animali dal cervello abbastanza sviluppato, sapere -pensare non linguisticamente, "attenzionare in positivo"- che "c' é dolore"; ma non in se stesso, che per definizione ignora).
Ed è esattamente la stessa cosa che accade nell'essere umano (come in qualsiasi essere senziente) nel momento in cui sente davvero il dolore: non c'è né soggetto e quindi nemmeno oggetto, c'è il dolore (o anche la gioia di cui si potrebbe ugualmente parlare per tirarsi su in questa discussione) che diventa oggetto del sentire di un soggetto solo quando si sposta fuori di me, ossia quando ormai è solo un fatto (participio passato del verbo fare in italiano, ossia un accaduto, participio passato del verbo accadere, sempre in italiano).


CitazioneSe fosse vero che [/size]Non c'è alcuna durata nel dolore, poiché [omissis] la durata c'è (e non può non esserci) solo nella sua descrizione, è la descrizione (resa possibile dalla separazione nell'evento di un soggetto da un oggetto) che determina il tempo e pure lo spazio in cui sono collocati e quindi descrivibili gli eventi, non viceversa, allora sarebbe proprio una pacchia; uno che per mesi o anni soffrisse di terribili dolori per tutto il corpo potrebbe benissimo descriverli -e dunque determinare la durata e l' estensione- come esistenti anziché per mesi o anni per qualche millesimo di secondo e localizzati anziché a tutto il corpo all' estremità del dito mignolo di un piede.
Nessuna pacchia purtroppo, perché quel dolore è sempre presente nel suo accadere, è al presente, proprio adesso, mentre sta accadendo e quindi non è un fatto, un accaduto oggettivabile e di cui si può discutere della verità, ma qualcosa che sta accadendo e di cui pertanto la verità è assoluta, poiché accade. Non è il predicato di un'esperienza: è adesso quell'esperienza (sempre in lingua italiana, come in qualsiasi altra lingua).


#685
Tematiche Filosofiche / Re:Che cos'è la verità?
11 Giugno 2016, 13:52:23 PM
Citazione di: sgiombo il 09 Giugno 2016, 16:58:36 PM
No, invece è possibilissimo contemporaneamente:
sentire il dolore;
predicare veracemente (sapere) di sentire il dolore;
sapere che il sentire il dolore è un evento fenomenico di coscienza e il pensare (veracemente) di sentire il dolore è un altro, diverso evento fenomenico di coscienza (differenza colta quando il dolore ancora c' è, eccome se c'è!)
Sapere di sentire il dolore non è descriverlo a mezzo di predicati che ne presuppone l'oggettivazione e quindi l'uscita di quel dolore dal soggetto che lo sente e lo tiene di fronte a sé. Sapere di sentire il dolore è sì immediato e coincide con il sentirlo, ma non si attua in nessun discorso descrittivo.
Il dolore che ancora c'è mentre con il linguaggio posso descriverlo in realtà non c'è più (non è più autenticamente presente come dolore), quello che c'è è ciò che di esso è rimasto e che lo evoca, una traccia. E questa rievocazione può risuscitare certamente dolore a posteriori, ma è un dolore che nasce dalla rievocazione, dunque è evento diverso, non è ciò di cui si ritiene di predicare descrivendo.
Nel momento in cui si sente il dolore la coscienza si realizza nell'atto stesso in cui soggetto e oggetto sono la stessa cosa, se così non fosse dovremmo negare che chi non ha sviluppato una propria soggettività cosciente senta alcun dolore. E' l'osservatore che guarda questo accadere dall'esterno (cioè si pone all'esterno di questo accadere) che separa il soggetto dall'oggetto dell'esperienza per poter descrivere l'esperienza (come esperienza di un soggetto, di un io) e controllarla nell'oggetto.
Non c'è alcuna durata nel dolore, poiché esso, quando c'è, è solo presente, la durata c'è (e non può non esserci) solo nella sua descrizione, è la descrizione (resa possibile dalla separazione nell'evento di un soggetto da un oggetto) che determina il tempo e pure lo spazio in cui sono collocati e quindi descrivibili gli eventi, non viceversa ed è su questa descrizione che si attua la distinzione (a opera dell'osservatore) tra vero e falso, non sull'accadere presente del dolore. 

Citazione... un evento in generale, che non sia la pronuncia o la scrittura o comunque l' allestimento di simboli (per esempio simboli verbali, solitamente articolati in una proposizione o in più proposizioni costituenti un discorso) non ha alcun significato, non significa nulla, semplicemente accade.
Accade, ma in questo accadere accade sempre e solo come significato, è il significato che accade, ove significare vuol dire precisamente "fare segno", accade come un segno, il suo accadere è presente come segno che comprende insieme soggetto e oggetto (a loro volta segni). Anche quel puro evento che presupponi anticipi ogni significato già significa, nel momento stesso in cui lo presenti, il suo significato che è proprio quello di essere paradossalmente un evento privo di significato. Anche il nulla (quando nulla accade) significa.

CitazioneDire che un evento non simbolico non ha significato e che un evento non predicativo non può essere vero (o meno) ma casomai solo reale (o meno), poiché la verità sta (o meno) solo nei predicati (ossia in ciò che dell'evento si può benissimo dire tanto quando non c'è più tanto quanto c' è ancora eccome!) è ovviamente del tutto arbitrario[/font][/size][/color], come qualsiasi altro significato attribuito a qualsiasi altro insieme di parole convenzionalmente per definizione.

Non c'è alcun evento privo di significato (nemmeno quel non evento assoluto che è il nulla) e non c'è alcun significato che sia attribuito arbitrariamente per definizione, poiché ogni definizione nasce dal significato che la stabilisce e non è mai la definizione che dà i significati, ma solo l'evento che già si presenta come significato.

Ovviamente tutto questo lo posso dire solo in qualità di osservatore che tiene a distanza da sé l'evento per tentare di cogliere il significare come autentico, mentre vive il proprio evento descrittivo nel suo significare.
#686
Tematiche Filosofiche / Re:L'altruismo
11 Giugno 2016, 10:30:41 AM
Il punto è (e credo se ne possa convenire) che altruismo ed egoismo come tali sono pure inesistenti astrazioni, dunque valutare se in termini del tutto generali che li considerano astrattamente, è meglio l'uno o l'altro non ha senso, né l'uno né l'altro sono reciprocamente escludenti, ma sono modalità sempre coesistenti e interdipendenti della relazione tra enti coscienti di se stessi e pertanto coscienti degli altri in rapporto simmetrico. Quando questa simmetria dinamica si rompe il risultato è comunque la catastrofe.
Quello che si potrebbe vedere come egoismo di una particolare forma sociale non è la somma mediata degli egoismi individuali (l'esempio a cui fai riferimento di un gruppo fanatico come l'Isis ne è l'esempio), ma rappresenta una sorta di potenziamento delle istanze individuali che altruisticamente si mettono a disposizione per venire drasticamente ridotte al fine trovare una misura comune che se ne faccia carico per realizzarle in nome della sua potenza trascendentale (che non è più la mia potenza, ma la potenza del mio gruppo in cui la mia potenza si realizza davvero). Anche qui la dinamica altruismo-egoismo è rispettata, solo che viene scissa, poiché l'altruismo con cui mi rendo individualmente un mezzo a totale disposizione per lo scopo comune, sublimato da questo doveroso rendersi totalmente disponibili, è compensato dalla prospettiva della realizzazione trascendentale del mio particolare egoismo proprio in questo scopo comune a cui lo sacrifico. 

#687
Tematiche Filosofiche / Re:L'altruismo
10 Giugno 2016, 23:52:22 PM
CitazioneL'altruista non èuna posizione individuale come se fosse atomismo non socale, perchè entra in contraddizione, e giustamente HollyFabius poni il concetto di altruismo intra gruppo che si comporta egoisticamente .
Qui, a mio avviso, occorrerebbe chiarire . Per parlare di egoismo di gruppo occorre immaginare un ego di gruppo. Ma esiste davvero un ego di gruppo? Per quanto ne so tutti gli ego sono faccenda individuale, semmai nel gruppo ci sono pulsioni condivise che si rafforzano e c'è il senso di appartenenza a una comunanza, a un noi. Ora, si può certo vedere quel noi come solo contrapposto a un voi e sentire quel senso di appartenenza come ciò che rinsalda, rassicura e sorregge il mio io permettendo quindi al mio egoismo (l'unico autenticamente possibile) di esprimersi e rafforzarsi (se io agisco in nome di un noi moltiplico  indiscutibilmente la mia forza), ma affinché quel noi si formi, in ogni caso dovrà essere disponibile in me una dose di altruismo: nessun noi (con tutti i vantaggi che ne conseguono) potrà mai esistere se l'egoismo è assoluto e tale da determinare solo competizione (che quanto più è elevata, tanto più di solito si rivela catastrofica, con buona pace dei competitivi). L'egoismo calcolante del mi sottometto al gruppo per poterne godere della forza, comunque implica una certa dose di altruismo da poter mettere in gioco.
#688
Citazione di: Loris Bagnara il 09 Giugno 2016, 12:22:20 PM
Si certo, la prima domanda è perché "io esisto". Ma la seconda è, posto che esisto, "perché esisto in questo modo". Infatti, non c'è solo un modo in cui posso esistere. Se intendo l'io-sono come puro soggetto auto-senziente, senza alcuno specifico contenuto, è chiaro che io potrei esistere in infinite altre forme concrete diverse da quella presente.
Ma questa seconda domanda non ha senso, non ha senso in quanto se io non fossi questo che sono, non sarei questo io che sono, sarei qualcos'altro. A meno appunto di ammettere che io ci sia prima di essere io e questo è assurdo. Io sono io perché sono questa forma, se fossi ad esempio un cane, non sarei io, ma quel cane.
CitazioneMa a parte questo, non sono d'accordo sul fatto che a queste domande non sia possibile rispondere, e che sia legittimo sentirsi esentati dal rispondervi.
Non è che possiamo sentirci esentati dal rispondere, ma che pur cercando in tutti i modi di rispondere alla domanda "perché io", non è possibile avere risposta, perché io lo siamo sempre. Come dice anche Searle nel video, nella coscienza ci siamo sempre, dunque non possiamo in alcun modo uscirne per guardarla da fuori e dire cos'è, non possiamo accedervi, perché ci siamo sempre dentro e qualsiasi spiegazione ne diamo, anche la più profonda e obiettiva possibile non può rendere la coscienza per come è. Non posso spiegare il mio esserci, proprio perché ci sono.
Mi ricordo una metafora che lessi tempo fa che mostra bene la faccenda: è come se un pittore fosse incaricato di rappresentare una stanza dipingendola da dentro la stanza. Per quanto esattamente la volesse riprodurre, mancherebbe poi nel quadro il pittore (lui stesso) mentre disegna la stanza, e se anche si raffigurasse nella stanza mentre la disegna, nel quadro mancherebbe ancora lui nella stanza che rappresenta se stesso mentre la disegna e così via all'infinito. Per rappresentare com'è veramente la stanza al suo interno il pittore dovrebbe uscire e guardarla da fuori, ma per la coscienza, come per la nostra esistenza, questo non è possibile: se usciamo per vedere com'è la cosa che ci comprende sempre, non ci siamo più e nulla possiamo rappresentare. Il "perché ci sono" rientra in quel tipo di domande della cui risposta Wittgenstein diceva che è necessario tacere, anche se comunque non possiamo non volerla cercare (come sempre Wittgenstein riconosceva). Cerchiamo sempre la risposta definitiva e sicura senza poterla mai trovare per cui forse, si potrebbe pensare, che la risposta è appunto nel cercare questa risposta passando da una risposta inadeguata a un'altra ancora inadeguata. E per questo, nonostante l'impossibilità di una risposta definitiva (o forse proprio per questa impossibilità), non finiremo mai di fare scienza o filosofia: non possono essere concluse, proprio in quanto la risposta che le terminerebbe è impossibile.
Per dire in concreto (e non come una postulazione astratta da prendere in termini generalissimi) che esiste una coscienza universale che ci comprende bisognerebbe uscire da questa coscienza, ma se essa ci dà la coscienza in quanto ne siamo parti, non potremo mai effettivamente trovarla. Tutto ciò che possiamo dire è che è il nostro significato individuale che sempre ci accompagna in ogni nostro sentire e descrivere (anche quando descriviamo uno stato di non coscienza) siamo sempre, eternamente, irriducibilmente presenti.


#689
Citazione di: sgiombo il 08 Giugno 2016, 18:36:46 PM
Forse ho capito male Damasio attribuendogli la tesi che la coscienza si identificerebbe con i valori dei parametri fisico-chimici vitali che l' omeostasi organica regolata (anche) dal tronco dell' encefalo tende a preservare (e che sono gli stessi in tutti gli uomini e animali simili vivi); forse intende invece determinati eventi neurofisiologici coinvolgenti tronco dell' encefalo e corteccia dipendentemente dall' oscillare dei valori di tali parametri fisico-chimici nell' intervallo compatibile con la sopravvivenza dell' organismo (eventi neurofisiologici che invece variano fra i diversi individui e nel corso delle esperienze coscienti dei singoli individui).[/font][/color]
MI convincono comunque di più quei neurologi che la identificano unicamente con eventi neurofisiologici corticali o al massimo coinvolgenti corteccia e nuclei della base e talamici (che l' imaging neurologico dimostra essere necessariamente correlati con gli eventi di coscienza, mentre i nuclei bulbari regolanti l' omeostasi, la respirazione e l' attività cardiocircolatoria possono funzionare regolarmente anche in stato di incoscienza -coma- se la corteccia non funziona regolarmente; il regolare funzionamento del tronco encefalico è condizione necessaria e sufficiente dell' omeostasi e dunque della vita ma non è condizione sufficiente, contrariamente al regolare funzionamento della corteccia e probabilmente dei nuclei della base e talamici, della coscienza).
Anche Damasio intende la coscienza come eventi neurofisiologici corticali evidenziabili da tecniche di imaging, il discorso del tronco encefalico entra un ballo per spiegare l'autocoscienza (che pertanto Damasio distingue chiaramente nell'ambito del fenomeno coscienza). L'autocoscienza presuppone il "sé": da dove salta fuori questo sé, si chiede Damasio. Ipotizza allora che salti fuori appunto dall'attività del tronco encefalico da dove passano tutte le afferenze nervose del corpo che trasmettono tutte le attività che servono a mantenere l'omeostasi (e non chiaramente i valori di omeostasi, ma le attività, comprese quelle che avvengono in automatico). Questo complesso di attività, preso nella sua unità funzionale, mediato dal cervello limbico ché dà luogo alle reazioni emotive che ne danno la qualità di ente profondamente emozionale, dà luogo a una situazione corticale rappresentativa unitaria che la corteccia rappresenta come "io", più o meno come i pixel danno luogo a un'immagine sul computer. L'io sarebbe quindi l'insieme unitario, rappresentato a livello corticale, dei segnali di tutte le attività corporee finalizzate a mantenere l'omeostasi per come esse si trovano tutte trasmesse nel tronco encefalico.
Quando lessi la prima volta il libro di Damasio "Emozione e coscienza" ricordo che rimasi piuttosto deluso, perché in realtà lui non spiega per nulla perché quell'insieme di attività neurofisiologiche diano luogo ai significati di noi stessi e del mondo che conosciamo, spiega solo da dove si può ipotizzare il senso unitario del sé in termini neurofisiologici. Non solo, ma sembra ignorare il fatto che, come tu rilevi, anche la lettura fisiologica della coscienza è ancora solo una rappresentazione cosciente del fenomeno. Il fatto che alterando in modo chimico o fisico certi parametri fisiologici si verifichino alterazioni di coscienza abbastanza riproducibili, non spiega ancora nulla, semplicemente mostra qualcosa del come e non del perché quel fenomeno accade.
Searle passa oltre al problema, in sostanza ci dice che non c'è alcun perché, solo funziona così e solo questo ha rilevanza (come si dice che l'acqua appare liquida pur non essendoci nulla che restituisca il senso della sua liquidità in una descrizione molecolare dell'acqua): gli eventi della coscienza (e in particolare dell'autocoscienza) e l'attività neurofisiologica sono la stessa cosa vista e descritta con linguaggi diversi, dice Searle. Ma , ad esempio, perché esistono questi due linguaggi diversi che dicono la stessa cosa, in cosa consiste questa stessa cosa e soprattutto il fatto che anche il linguaggio scientifico è frutto di una rappresentazione della coscienza (e dunque perché questa particolare rappresentazione dovrebbe avere di per sé sempre un fondamento maggiore), pare non lo tenga minimamente in considerazione. 
Il punto è che noi possiamo vedere sempre e solo il risultato finale dell'evento coscienza e ci spieghiamo questo evento sempre e solo in ragione del risultato finale che esso produce, ponendo uno di questi risultati finali come causa determinante per l'evento stesso.
Come vedi in questo discorso mi pare di essere perfettamente d'accordo con te.
#690
Tematiche Filosofiche / Re:L'altruismo
09 Giugno 2016, 10:16:43 AM
Citazione di: baylhamNon mi sono posto l'obiettivo di rivalutare l'egoismo o di svalutare l'altruismo. Mi sono chiesto se un altruismo coerente, radicale potesse essere la chiave per realizzare una società più giusta. L'analisi mi ha portato ad una conclusione negativa.
Preso atto che la società non può che essere prevalentemente egoista, un obiettivo ragionevole mi pare quello di stabilire una gerarchia, una priorità tra i bisogni umani verso cui indirizzare l'impulso altruistico.
E' evidente che un altruismo radicale e assoluto non solo non può realizzare una società più giusta, ma è una pura contraddizione (in quanto l'altruismo è comunque posto in atto da un soggetto a cui è richiesta la cura della propria esistenza, di una propria autopoiesi), ma è altrettanto vero che l'egoismo radicale è ugualmente impossibile (in quanto quell'esistenza del soggetto si realizza sempre nel contesto di una fondamentale esistenza di altri che fanno sì che io sia quello che sono: io non sono in virtù di me stesso, ma io sono me stesso a causa, o in virtù degli altri).
Il fatto che l'egoismo appaia socialmente più diffuso rispetto all'altruismo e che da questo si tragga l'idea che l'egoismo risulti più opportuno, la vedo in realtà solo come una prospettiva fondata dal modo in cui l'osservatore è posto nel contesto culturale e sociale in cui vive (e chiaramente lo è anche la mia, poiché ai contesti di significato nessuno può sfuggire, ma tento di tenerlo presente). Quello che possiamo dire è che oggi, il modo di produrre e di vivere produce anche un modo di pensare in cui l'istanza egoistica deve avere la preminenza di significato, per cui ci si costruiscono intorno altari di oggettivistici.
E ribadisco il punto fondamentale che paradossalmente, mentre l'egoismo diventa sinonimo di salute (per l'individuo e il sociale), non siamo mai stati tanto dipendenti gli uni dagli altri e tutti dal contesto tecnico sociale nel corso di tutta la storia umana, come infanti dal seno materno. E qui ci sarebbe certo da chiedersi se è più egoista l'infanti che quel seno vuole sempre pronto e a disposizione per succhiarlo o il seno che di fatto dell'infante gestisce completamente l'esistenza. Sono due egoismi a confronto: il primo è istintuale (come può essere un moto puramente altruistico), il secondo, in termini sociali, calcolante. E il primo viene rinforzato al massimo dal secondo: afferrare quello che ci serve, farsene esclusivi proprietari per consumarlo diventa così il primo non solo dei diritti, ma soprattutto dei doveri.