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Messaggi - maral

#691
Tematiche Filosofiche / Re:Che cos'è la verità?
09 Giugno 2016, 09:38:32 AM
Citazione di: sgiombo il 08 Giugno 2016, 19:02:24 PM

ma come fai a non cogliere la differenza?
La colgo la differenza, ma, come ho già detto sopra, quella differenza posso coglierla solo quando quel dolore (o più in generale quell'accadere) non è più presente, non c'è più, ossia quando è presente la sua assenza, è presente non come accadere, ma come già accaduto ed è su questa assenza che separo il dolore dalla conoscenza del dolore, mentre nell'evento esse sono simultaneamente insieme e indistinguibili per cui la verità è il modo stesso di apparire della realtà e non il risultato di un giudizio.
Il punto è che tutto il ragionamento che fate sia tu che davintro è situato nell'assenza dell'evento (e non può che esserlo nel momento in cui si intende giudicare la verità di ciò che di esso rimane ed è per questo che il giudizio di verità separa il significato dall'accadimento che, ormai accaduto, lascia quel significato, ma non è quel significato), ma questa non è l'esperienza di verità che si attua nell'evento e dire che questa non è verità, poiché la verità sta solo nei predicati (ossia in ciò che dell'evento si dice quando non c'è più, quando resta presente solo un pallido richiamo su cui è più che lecito avere dubbi) è, a mio avviso del tutto arbitrario, per quanto così consideri un certo senso comune.
#692
Tematiche Filosofiche / Re:Che cos'è la verità?
08 Giugno 2016, 12:28:01 PM
Citazione di: davintro il 08 Giugno 2016, 00:28:59 AM
Certamente sono possibili tante definizioni diverse di verità, dato che le definzioni sono una convenzione. Ma se si vuole dialogare occorre adottare per ogni concetto espresso una definizione univoca tale che le parole che uno scrive abbiano per chi scrive lo stesso significato che intende chi legge, pena l'incomprensione. Quindi dal punto di vista della comunicazione, non da quello teoretico, la soluzione più efficace è quella di affidarsi al senso comune entro il quale le parole hanno quel significato e non un altro. Le definizioni sono certamente stabilite a posteriori, ma sono apriori comunicative. L'obiettivo del dialogo filosofico non è quello di stabilire se una certa definizione di verità e migliore o peggiore di un'altra, dato che, essendo le definizioni il frutto di una convenzione, non ha senso pensare a definizioni migliori o peggiori in senso assoluto, ma mostrare le implicazioni logiche deducibili da un complesso di concetti a cui per ragioni comunicative associamo definizioni, l'obiettivo non è dare definizioni, rifare il dizionario, mera terminologia, (anche se una riformulazione linguistica è certamente un esito possibile di una chiarificazione della visione delle cose stesse, ma si tratterebbe perlopiù di un "effetto collaterale") ma riconoscere razionalmente come da una certa definizione di verità discendano certe implicazioni gnoseologiche, ontologiche, morale
Certo e soprattutto vedere come quanto ne discende possa lasciare intendere sul significato di quella definizione. Il problema è che proprio per l'intenzione sacrosanta di potersi capire si rischia di finire in una sorta di logicismo (in cui la verità non può che apparire come rispetto sintattico) ove la definizione data dal senso comune finisce per apparire una sorta di intoccabile feticcio-cardine. Ma non il lasciar lì il feticcio il compito filosofico, se ancora può esistere una filosofia, e men che meno in nome del senso comune. Il compito filosofico è in primo luogo non cessare mai di mettere in crisi qualsiasi definizione, e soprattutto quelle del senso comune che facciamo nostre. Mettere in crisi non significa contestarle, ma tentare di capirle nel significato effettivo, oltre la loro convenzionalità assiomatica. Qui sta da sempre (e oggi più che mai) il compito e il senso della filosofia, altrimenti non resta che il mito (mito della scienza e mito della razionalità compresi) nella sua forme più superstiziose (scientismo, razionalismo).
CitazioneIo non sono la mia angoscia. Se lo fossi non potrei tematizzare l'angoscia nè come esperienza vissuta di me come singolo individuo nè come concetto generale
Non sei la tua angoscia adesso, perché ora non c'è angoscia e giudichi su di essa. L'angoscia non c'è per questo puoi dire "io non sono la mia angoscia", per questo la puoi vedere come una sorta di oggetto che sta fuori e qualche volta entra dentro a quel qualcosa che sono io, senza accorgerti dell'assurdità di questo modo di vedere. Nel momento in cui provi angoscia sei la tua angoscia, in un modo primitivo e assoluto che ne possiede tutta la verità (e lo stesso vale per la gioia). Nel momento in cui valuti il tuo sentimento vero o falso quel sentimento non c'è, ci sei tu e fuori di te, altrove, l'oggetto da valutare (per intenzionalmente escluderlo da te o riappropriartene), ma questa è cosa tutta diversa.
La coincidenza non indica assolutamente staticità, ma completa aderenza e in questa aderenza sta proprio quella verità che non è semplicemente l'espressione di un giudizio tra termini opposti che solo si possono escludere tra loro evitando cerchi quadrati. Nel giudizio che si instaura sulla separazione tra io giudicante e oggetto giudicato c'è un senso radicalmente diverso della verità che non può mai annullare lo svelamento originario, ma vuole annullarlo per lasciare spazio a una propria intenzionalità in nome della quale trattenersi in un Io che si crede "fonte originaria del complesso di queste esperienze", estromettendole da sé, inquadrandole come un vissuto (un accaduto finito) e non più sentendole come un vivente (un perennemente accadente). La condizione di esistere è in ogni accadere e pure (per l'essere umano) nell'accadere del momento del giudizio che esprime sempre una volontà di essere del soggetto e quindi non è mai oggettivo.
Citazionese l'angoscia fosse per me la condizione naturale del mio essere non mi procurerebbe sofferenza
L'angoscia solamente accade, è data dall'accadere del nostro esserci individuale e separato, è all'alba di una coscienza che sorgendo si sente delocalizzata, proprio come la gioia che esprime invece il poter venire ricompreso in questa stessa delocalizzazione. L'io è solo una labile immagine intermedia che tenta di vivere in questa oscillazione, in nome della volontà, come l'equilibrista sul filo. E qui entra in gioco il ricordo: quando l'io scopre di potersi ricordare, si aggrappa ai ricordi per darsi consistenza (a mezzo di un dare consistenza a ciò che gli manca), e per far questo occorre assicurarsi che ci sia la consistenza certa della verità in merito a qualcosa che non è più presente e qui entra in gioco il giudizio e a questo punto la verità- aletheia si trasforma in verità- giudizio sull'oggetto del proprio ricordo e della propria aspettativa, appunto perché quell'oggetto non c'è, c'è solo il ricordo e l'aspettativa che lo velano.
In questo senso la dialettica non è tra soggetto e oggetto, ma nello stesso originario e primo accadere del mondo che istituisce ogni soggetto e ogni oggetto per rimetterli in rapporto dialettico. Non è la logica che impone di pensare "ogni esperienza vissuta come implicante un atto originato da un soggetto ed un contenuto del vissuto oggetto di una coscienza rivolto verso di esso", ma è il disperato tentativo dell'io che vuole permanere sempre oltre ogni logica.

CitazioneRiflettere sulla gioia che provo non cancella l'intensità del vissuto, anzi è proprio l'intensità del sentimento che stimola il soggetto ad indagarne i motivi e gli aspetti in una riflessione oggettivante. Le mie accezioni di soggetto pensante e di soggetto senziente non sono due aspetti contradditori ed escludenti, sono due livelli, due strati compresenti della mia vita di coscienza che rendono a questa coscienza la sua complessità e la sua ricchezza. Magari l'uomo avesse il potere di cancellare od attenuare l'intensità di un vissuto semplicemente riflettendo su di esso! Di fatto non saremmo mai tristi perchè ogni qualvolta sentiamo giungere in noi la tristezza potremmo, tematizzandola in una riflessione, depotenziarla, fuggendo così da essa
L'intensità del sentimento è data, nel momento in cui si riflette su di esso, dalla mancanza di quel sentimento di cui quel riflettere è rievocazione. In questo senso noi sentiamo sempre, poiché sentiamo sia la presenza che la mancanza e la mancanza evoca la presenza. Per questo pensare non è mai separato dal sentire. Non è che con la riflessione attenuo l'intensità del sentire, ma è solo quando l'intensità di quel sentire si presenta attenuato (poiché il mondo lo accoglie) che riflettere ci diventa possibile. Si può riflettere allora su ciò che di esso resta, su di un resto (ma quanto quel resto corrisponde proprio a quel sentire? E' qui che ci si sente chiamati a giudicare e lo stesso giudicare a questo punto è un accadere). 
#693
Tematiche Filosofiche / Re:Che cos'è la verità?
08 Giugno 2016, 10:31:12 AM
Citazione di: sgiombo il 07 Giugno 2016, 07:58:27 AM
Ma infatti in primo luogo non si tratta di giudicare ma di stabilire il significato che diamo alle parole che usiamo, in modo da capirci (e conseguentemente confrontare le rispettive convinzioni e credenze).
Certamente, ma non si tratta a mio avviso di stabilire il significato che diamo alle parole, ma di tradurci le parole nel significato che in esse possiamo sentire diversamente. Certamente che per iniziare a capirsi non si può che partire da un linguaggio comune, ma è solo un punto di partenza da cui occorre scendere per intendere quali assunzioni lo reggano.
Non ti sto chiedendo di dimostrare che i fatti possono essere reali o no, mentre i predicati, predicando di quei fatti, possono essere veri o falsi, ti sto chiedendo di provare a uscire dalla logica che vuole, secondo quanto comunemente si impara, che le cose stiano così per cogliere l'aspetto fenomenologico della questione (aspetto che ci riguarda tutti, perché è così che sentiamo): se mi do una martellata sul dito non ho dubbi che il mio dolore è reale e insieme è vero, non distinguo il fatto (martellata) dal predicato (dolorosa) per giudicare poi se è corretto o no metterli insieme. Ed è per questo che ti chiedo di spiegarmi in base a quale assunzione dici e si dice che  "Veri o falsi possono essere solo credenze, predicati, giudizi, conoscenze", su cosa appoggia questo modo di dire e non può appoggiarsi sul "si" del si dice. E se quella distanza tra fatto e predicato che va istituita per misurarne la congruenza, va proprio sempre istituita, per esprimere un giudizio di verità, oppure la verità (e non solo la realtà) si esprime anche immediatamente nell'esperienza del suo accadere ben prima che da qualsiasi giudizio? In sostanza: la verità può essere data solo da giudizi formalmente ben costruiti su confronti che pretendono di essere esclusivamente oggettivi o dall'evidenza del suo svelarsi (aletheia)?
E nota che quello che ti chiedo qui è un giudizio, ma è un giudizio che sa giudicarsi, ossia sa riconoscere se vi sono dei limiti o no nella sua pretesa di istituire la verità nella sola analisi dei predicati.   

#694
Citazione di: Loris Bagnara il 02 Giugno 2016, 14:53:33 PM
Ma c'è un'altra questione irrisolta, ed è irrisolta non solo per la soluzione che proponi tu, ma anche per qualunque altra soluzione che preveda la nascita della coscienza dal nulla. Anche per la tradizionale concezione dell'anima creata da Dio.
Mi riferisco al mistero dell'individuazione. Immaginiamo gli esseri umani che escono dalla catena di montaggio della Natura (o di Dio): uno, due, tre... N... Ecco, arrivati a N, quello sono io. Non uno, o dieci o cento prima, e neanche dopo. Proprio N.
Non c'è nessun rapporto di necessità fra l'ennesimo corpo prodotto dalla natura e il mio io. Potevo nascere prima, o dopo, o in un corpo d'animale, o anche mai, che anzi sarebbe la cosa più "naturale". Eppure ci sono.
Ecco, è questa la domanda a cui io sento (tormentosamente) di dover rispondere. Tutto il resto, interessa ben poco.
Io questa domanda la metterei in un altro modo, non perché io in questo corpo, ma semplicemente perché io. Infatti se io fossi in un altro degli innumerevoli esistenti di questo mondo, semplicemente non sarei io. Dunque la vera domanda è perché invece io ci sono e, per quanto si possa tentare di farsene una ragione, temo che, proprio in quanto ci sono, la risposta non posso vederla. La mia esistenza è il punto da cui mi muovo, non posso mai essere fuori di essa da poterla vedere e se la considero è solo dal punto di vista della mia esistenza dalla quale, per sapere il perché c'è dovrei esserne fuori.

CitazioneL' omeostasi intorno a (non troppo lontano da) determinati valori medi di vari parametri fisici e chimici vitali, allontanandosi eccessivamente dai quali ci si ammala o addirittura si muore, regolata da certi determinati centri nervosi ubicati nel tronco encefalico, di cui parla Damasio identificandola con il sé é sostanzialmente identica in ogni persona umana (e in molti individui di tantissime altre specie animali), mentre il "sè" di ciascuno di noi è molto diverso da quello di ciascun altro: la sua spiegazione manca completamente il bersaglio!
Non mi trovo d'accordo con questa obiezione: perché mai la coscienza dovrebbe essere identica nell'ipotesi di Damasio? E' identica nel meccanismo generale e di base in cui si attua, ma è ben diversa nel contenuto specifico e concreto, dato che diversa è sempre la situazione e la condizione biochimica di quel corpo (afferito come informazione nel tronco encefalico), come sempre diversa è la condizione in cui si trova la corteccia nel contesto biochimico in cui quel corpo la esprime. E' cioè diverso sia il modo di allontanarsi dal punto di equilibrio omeostatico, sia di riflettere questo allontanamento in ogni particolare situazione per tentare diversamente di recuperarlo, mentre è identica solo la necessità di doverlo mantenere. Dire che dovrebbe essere sempre identica è come dire che tutte le fotografie dovrebbero essere identiche giacché in fin dei conti il modo per scattare una foto è sempre quello.

La questione fondamentale che entrambi ponete resta comunque il rapporto mente (intesa come facoltà di pensarsi) - corpo (inteso come funzionalità biologica). E' certamente un problema, ma si può non vederlo come un problema, come fa Searle (con il quale per certi versi mi trovo abbastanza d'accordo) che dice che il problema mente - corpo è come quello della liquidità dell'acqua, ossia lo si risolve pensandolo come un'emergenza dei fenomeni neuronici e in fondo mente e corpo sono lo stesso fenomeno descritto in due modi diversi, dunque non c'è nessuna difficoltà ad ammettere che la coscienza è un fenomeno assolutamente irriducibile e del tutto biologico. Ovviamente a questo punto il filosofo (e forse anche il neurologo) dovrebbe chiedersi perché mai c'è questa duplicità descrittiva e non solo come accade (cosa di cui la scienza si occupa, senza avere ancora comunque del tutto risolto). Ossia dovrebbe chiedersi perché e in base a che cosa un fenomeno del tutto biologico può vedere (immaginare) se stesso, come se fosse in grado di porsi fuori da se stesso, dal suo reale biologico accadere. Da dove salta fuori l'osservatore che osserva la sua biologia a partire da nient'altro che la sua biologia e fermo restando che è la sua biologia (perché se fosse qualcos'altro, tipo anima immateriale, sarebbe sicuramente, sono d'accordo, una faccenda paradossale)?
E' questo mi suona sconvolgente e su questo mi sembra che Searle, vittima forse del suo punto di vista pragmatico, passi troppo tranquillamente oltre, non vedendolo per nulla come un problema.
Comunque lascio parlare il filosofo, che così si esprime sulla coscienza nel suo intervento a TED:
http://www.ted.com/talks/john_searle_our_shared_condition_consciousness
Anche questo intervento è molto interessante (e pure brillante, come sanno sempre essere i pragmatisti).
#695
Scienza e Tecnologia / Re:Introduzione alla sezione
07 Giugno 2016, 00:05:40 AM
Citazione di: Phil il 06 Giugno 2016, 19:41:00 PM
Non sono sicuro che la scienza, o meglio, gli scienziati contemporanei abbiano mai davvero fatto seriamente promesse così audaci e quasi propagandistiche... non so se è solo la "caricatura della scienza" o un suo "programma asintotico", ma la ricerca scientifica, per quel che ne so, procede in realtà su problemi concreti e parziali (ad esempio, curare quella malattia...). Forse siamo noi "profani" (ma qui non voglio parlare anche per te!) a renderla idealista più di quanto essa, in pratica, nel suo agire, si dimostri...
Le biotecnologie sembrano giè promettere molto: le cellule staminali ad esempio, in virtù della loro totipotenza, possono sanare malattie degenerative che si credevano irreversibili che colpiscono i tessuti cerebrali (Alzheimer, Parkinson), ed è proprio di questi giorni il caso di pazienti dalle funzioni motorie compromesse da ictus che le hanno potute recuperare grazie all'uso di cellule staminali iniettate attraverso l'orecchio.
Persino la vita eterna non è più un problema in linea di principio, se si identifica l'individuo con il suo codice genetico. Il codice genetico si può rendere eterno.
I miracoli, un tempo eventi eccezionali oggetto di fede, stanno ormai diventando normale questione di bio ingegneria.

CitazioneIl big bang è un'"ipotesi di lavoro" (credo si chiami così in gergo) per la scienza, non un dogma o un assunto di principio su cui basare implicazioni, e il paradigma che ne consegue è continuo oggetto di ricerche per valutarne la plausibilità. Direi che più che "idealista", la scienza contemporanea è "possibilista": non si basa su ideali forti, ma su ipotesi possibili e da indagare epistemologicamente... tuttavia, se per "idealista" intendi, riduttivamente, "teorica", allora, almeno una parte di essa lo è sicuramente (ad esempio l'omonima "fisica teorica").
Certamente il Big Bang non è un dogma (la scienza non ha dogmi, al massimo dogmatici metodi di oggettivazione e verifica), ma è da tempo che non è più, a quanto mi risulta,  una semplice ipotesi di lavoro.
#696
Tematiche Filosofiche / Re:Che cos'è la verità?
06 Giugno 2016, 23:40:35 PM
Citazione di: memento il 06 Giugno 2016, 22:27:37 PM
Bisogna riconoscere che il pensiero cristiano,pur con tutti i suoi difetti,ha dato un grande impulso alla ricerca della verità. Rifiutando tutto ciò che è immediato,superficiale,sensibile,aletheia appunto
Spostando appunto la verità dal suo manifestarsi all'aperto nuda al suo nascondersi nell'interiorità dell'io. E poi non c'è da stupirsi se questo io cresce a dismisura, giacché è lui che ha dentro di sé la verità nascosta, così tutta nascosta dentro che fuori resta solo il mondo oggetto, vuoto di verità, quindi a totale disposizione. E così la verità diventò profondamente interiore.
CitazioneCos'è la verità? Per risponderti con parole di Nietzsche:
"Un mobile esercizio di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane che sono state potenziate poeticamente e retoricamente, che sono state trasferite e abbellite, e che dopo un lungo uso sembrano a un popolo solide, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria, sono metafore che si sono logorate e hanno perduto ogni forza sensibile, sono monete la cui immagine si è consumata e che vengono prese in considerazione soltanto come metallo, non più come monete."
Quelle monete la cui immagine è consumata sono appunto quei simulacri che tentiamo ancora di trattenere nei giudizi di verità, l'ultimo resto di una verità che ormai può apparire solo come illusione, poiché troppo è sprofondata e troppe incrostazioni l'hanno ricoperta.[/quote]
#697
Tematiche Filosofiche / Re:Che cos'è la verità?
06 Giugno 2016, 23:20:54 PM
Citazione di: davintro il 06 Giugno 2016, 21:20:45 PM
Cosa sarebbe la "verità assoluta del mio amore?" Quale verità posso dire riguardo all'amore che posso provare, per esempio, per una persona? Posso dire che la persona  che amo "merita" di essere amata", posso dire che "io sono innamorato di questa persona", ma queste verità (o falsità) sono prese di posizione che pongo in atto nel momento in cui pongo il mio sentimento non più come situazione che mi assorbe, ma come fatto che io rendo OGGETTO di una valutazione, nel momento in cui io in un certo senso mi scindo tra "me" in quanto soggetto che che valuta e che pensa cose vere e false e "me" in quanto oggetto che diviene il tema della valutazione, l'incapacità di questo duplicarsi renderebbe impossibile il pormi come soggetto della verità
Ma sentire che si ama una persona e dirlo in verità (a quella persona, al mondo intero, a se stessi), non ha nulla a che vedere con il giudicare oggettivamente se quella persona merita o meno il mio amore, le due cose sono infinitamente lontane e non è che per questo che quel sentire che mi spinge a dire quello che sento (e sento e dico vero) ben prima di giudicarlo non ha nulla a che vedere con la verità. La situazione si svela per quello che è con il suo semplice apparire, nell'esperienza in atto che faccio desituandomi. Vogliamo chiamare questo "realtà", come dice Sgiombo, riservando il termine vero e la sua negazione al solo giudizio? Va bene, ma non ne vedo il motivo (di cui chiedevo ragione a Sgiombo che non può cavarsela dicendomi che comunemente la si intende così, giacché il comunemente non ha nessuna rilevanza e nega l'autenticità più effettiva dell'esperienza). La verità coincide nell'esperienza con la realtà in quanto sento che quella realtà è del tutto vera e quindi oggetto e soggetto in essa non sono più uno di fronte all'altro con il secondo che valuta il primo, ma sono fusi in quello che accade, sono nell'accadere di quello (qui l'amore) che accade.

CitazioneLa questione dell'impossibilità di raggiungere una conoscenza pienamente oggettiva è altra rispetto a quella di ammettere, al di là di tutte le possibili concettualizzazioni o interpretazioni, l'esistenza di una realtà oggettiva pensata genericamente che funga da criterio di definizione della verità.
.
Certo che è altra, ma quella verità che dici che deve oggettivamente esistere e a cui occorre adeguarsi, oggettivamente non esiste (senza che questo significhi che esista soggettivamente), ossia non esiste in oggetto proprio come non esiste in soggetto. Cos'è il concetto oggettivo di verità che devo ammettere a priori? Soprattutto quando lo posso definire sempre solo a posteriori, magari istituendo una regola formale? E il punto essenziale che con la mia risposta precedente volevo mettere in luce è che quella regola formale, per quanto oggettiva possa credere che sia, è sempre un soggetto che la stabilisce, ma da quale posizione la stabilisce se non dalla sua soggettiva posizione? Ed è per questo che, ribadisco, non c'è alcuna verità oggettiva: la verità se è tale non è né oggettiva né soggettiva, sta oltre qualsiasi oggetto e qualsiasi soggetto, poiché è essa che pone ogni soggetto e ogni oggetto semplicemente accadendo e accadendo coincide con la realtà, il suo accadere attuale ha già risolto ogni giudizio.
Il piano logico e fenomenologico vanno certamente distinti, ma non si può separarli, perché se la verità è vera è una, anche se può esprimersi in modi diversi, dunque esiste un modo logico e uno fenomenologico in cui l'unica verità si rivela e questi 2 modi si riferiscono al medesimo unico vero a cui entrambi rimandono, dalle rispettive posizioni. Se la logica legge il vuoto dell'angoscia come un oggetto non può che falsificare l'esperienza fenomenologica che non è per nulla quella di un oggetto-vuoto. "Il vuoto accade", questa è l'esperienza fenomenologica che il linguaggio può tradurre solo in modo molto approssimativo con tutto il rischio di oggettualizzare quel vuoto come se fosse cosa separata dal suo accadere (dalla presente eternità del suo accadere), da cui la coscienza viene assorbita, per cui io non sono soggetto di fronte a quell'angoscia oggetto, ma sono proprio quell'angoscia, sono la stessa cosa, essa è me. Le relazioni logico formali non hanno nulla a che vedere con questa verità, esse istituiscono solo una grammatica, ma la verità va sempre oltre ogni possibilità grammaticale di dirla.  


CitazioneLa gioia non ha bisogno di avere un motivo per divenire oggetto: è sufficiente che sia tematizzata da un atto riflessivo del soggetto che prova gioia rivolto verso il proprio stato psichico, l'oggetto della gioia non sarà il motivo, ma il vissuto stesso che definiamo "gioia".
Ma non è questa la gioia che accade: il soggetto che tematizza la propria gioia, se la tematizza non la vive per nulla e allora cos'è che tematizza? Forse solo il ricordo di quella gioia, la sua pallida traccia.
CitazioneIn questo senso il sentimento è un fondamentale supporto per la scoperta della verità, ma non perchè i sentimenti determino i giudizi, ma al contrario perchè i sentimenti che provo si formano a partire anche (non solo) a partire dai giudizi. Semplificando molto il discorso si può dire che risalgo dagli effetti alle cause
I sentimenti non si formano a partire dai giudizi, semmai sono i giudizi che possono formarsi a partire dai sentimenti e si formano nella speranza di trattenerli, ossia di trattenerne nella verità di un giudizio il simulacro della verità che accade, la traccia che di essa resta quando è passata e, poiché quel simulacro rimasto è sempre sbiadito, in dubbio, si preoccupa di giudicare se quella pallida traccia rimasta sia vera o falsa.
#698
Tematiche Filosofiche / Re:Che cos'è la verità?
06 Giugno 2016, 22:05:20 PM
Citazione di: sgiombo il 06 Giugno 2016, 08:20:04 AM
Proprio non capisco.
Quanto da me scritto sono semplicemente i significati comunemente attribuiti ai termini "reale" non reale", "vero" e "falso".

Il fatto che veri o falsi possono essere solo credenze, predicati, giudizi, conoscenze, ovvero la loro peculiarità di poter essere veri o falsi (oltre che, come tutti gli altri fatti, reali o meno) sono veri in base ai significati che comunemnete si attribuiscono a questi temini, a come di definiscono questi concetti, a ciò che si intende per essi, la loro connotazione.
Cioé é vero che questo di fatto comunemente si intende con questi concetti (e non con quello di "fatto in generale"); se tu attribuisci ad essi per qualche tuo motivo significati diversi, tali per cui ad esempio un sentimento di amore (e non: la dichiarazione di un sentimento di amore), oltre a poter essere reale o meno, a poter accadere o meno, può anche essere vero o meno, allora é necessario che ci traduciamo reciprocamente i differenti linguaggi che usiamo.
Scusa Sgiombo. ma quello che di fatto comunemente si intende è proprio quello che di fatto è filosoficamente doveroso analizzare e criticare chiedendosi perché comunemente lo si intende. Qual è il fondamento di questo comunemente. Se non ci si pone questa domanda, se dopo aver detto che comunemente la si intende così non si va a vedere cosa ci sta sotto allora non si sta facendo filosofia, ma chiacchiere (interessanti finché si vuole, e magari pure con un certo gusto filosofico, ma solo chiacchiere). Non è una questione di linguaggi diversi, ma di intenti. Per questo ti ho fatto le domande di cui sopra, per capire cosa ci sta sotto (e per vedere se si riesce a vederlo insieme). Il comunemente non giustifica nulla, anzi.
#699
Tematiche Filosofiche / Re:Che cos'è la verità?
05 Giugno 2016, 23:32:19 PM
Citazione di: davintro il 01 Giugno 2016, 22:14:46 PM
Fintanto che mi limito ad avvertire un dolore, questo dolore non è tematizzato, non è oggetto di una presa di posizione per la quale posso dire cose vere o false.
E' il suo diretto presentarsi che lo rivela vero, e indiscutibilmente vero. In questo caso la verità non è il risultato di un giudizio ponderato e oggettivo, ma di un puro accadere. Ammesso che sia mai esistito un giudizio puramente oggettivo che riguarda il vissuto (i giudizi oggettivi possono venire dati solo su preposizioni formali, come i teoremi matematici) e non piuttosto sempre condizionati dalla posizione soggettiva da cui si giudica. Anche la scienza riduce il concetto di oggettività a quello della costruzione di una soggettività condivisa, secondo un metodo applicabile in determinati campi e in altri no.
Citazionema nel momento in cui sto amando o temendo non sto affermando alcuna verità o falsità.
Come no, sto affermando la verità assoluta del mio amore, poiché semplicemente lo sento è vero e reale insieme.
CitazioneLa verità va considerata all'interno del piano logico e cognitivo dei giudizi, va distinto dal piano estetico dei sentimenti, è appannaggio della scienza (comprendente anche la filosofia), non dell'arte, quantomeno non in modo esplicito e diretto
E perché mai? Non sarebbe piuttosto meglio pensare che la verità, pur essendo una sola, ha diversi modi di presentarsi e a volte, anziché di un giudizio preceduto da analisi logica, ha bisogno di un'esperienza (che a volte può non avere né soggetto né oggetto, come l'angoscia, o la gioia senza motivo) o anche di un'interpretazione?

#700
Tematiche Filosofiche / Re:Che cos'è la verità?
05 Giugno 2016, 23:06:22 PM
Citazione di: sgiombo il 01 Giugno 2016, 11:41:02 AM
Veri o falsi possono essere solo credenze, predicati, giudizi, conoscenze.
E questo secondo te è vero o falso? In base a cosa?

CitazioneAnche credenze, predicati, giudizi, conoscenze sono fatti (che dunque in quanto tali possono essere reali o meno); ma fatti del tutto peculiari: gli unici fatti che possono (anche) essere veri o falsi.
E perché? In base a cosa fai questa distinzione tra fatti?
#701
Tematiche Filosofiche / Re:L'altruismo
05 Giugno 2016, 22:53:18 PM
Dire che le società umane siano egoistiche o altruistiche mi sembra in ogni caso azzardato, in quanto sono solo gli individui (che possiedono un io in ragione del quale riconoscono un altro che li riconosce) a esserlo. Nelle società in genere si trovano sia individui egoisti che altruisti, o sarebbe meglio dire, individui in certe occasioni egoisti e in altri altruisti e questa è una fortuna, perché se tutti fossero sempre altruisti, e in questo hai ragione, non si andrebbe da nessuna parte, ma se tutti fossero sempre egoisti nessuna società potrebbe mai determinarsi. Che la cooperazione sia egoistica perché ciascuno dei cooperanti trattiene qualcosa per sé, vale quanto dire che è altruistica perché ciascuno dei cooperanti rinuncia a qualcosa per sé.
E' vero comunque che sono esistite epoche storiche in cui la visione egoistica ha avuto più successo e in cui tutto il mondo appare egoista (con la giustificazione che non si può che essere egoisti in un mondo così egoista), la nostra direi proprio che è una di quelle e il paradosso è che non siamo mai stati tanto dipendenti dall'altro come oggi.
CitazioneIn molte situazioni non c'è possibilità di accordo, il conflitto non ha soluzione, non ci sono compromessi possibili: o si ascolta musica o si fa silenzio
Un accordo si trova sempre, se chi si mette d'accordo non si sente un totalmente egoista: si tratta di rinunciare a qualcosa a vantaggio dell'altro trattenendo per sé qualcosa. Si tratta anche di imparare a giocare con i significati delle cose, di interpretarli, invece che di assumerli senza possibilità di alternativa.
L'uomo nasce come animale sociale e la società, gli altri tra cui si trova, finisce sempre per determinarlo per l'essere umano che diventa, in reciprocità.
#702
Citazione di: Mariano il 31 Maggio 2016, 22:46:55 PM
Per maral:
"Il conflitto non è nella natura, ma nella natura dell'essere umano...."

non e mia intenzione essere cavilloso,ma non capisco: la natura dell'essere umano non è nella natura?
Certo che è nella natura, ma la natura nell'uomo si esplica come un esserne gettato fuori. Ed è solo in quanto gettato fuori che l'uomo può parlare di natura, cercando di spiegarsela o di trasformarla su progetto. Conosci forse altri essere viventi che lo facciano?
E' per questo motivo, che l'uomo vede delle contraddizioni in natura, mentre le contraddizioni sono solo nel suo particolare modo di stare in natura.
#703
Citazione di: DeepIce il 01 Giugno 2016, 17:29:49 PM
Hobbes parte dal presupposto che gli esseri umani sono come bestie, per questo motivo hanno bisogno di devolvere i propri diritti ad un sovrano che garantisca poi la pace e la convivenza civile. Fin qui ci siamo.

Ora la mia domanda è la seguente, il sovrano di Hobbes non è un essere umano? Non rientra anche lui nel "bellum omnium contra omnes"?
Più su che cosa sia il sovrano di Hobbes mi chiederei a questo punto cosa pensa di essere Hobbes e dove si collochi nella sua definizione degli esseri umani. Ci sono un sacco di pensatori o pseudo tali che amano collocarsi in altezza per descrivere panoramiche mirabili sull'umanità, dimenticando di dire su quale presunta altezza ritengano di trovarsi collocati: viene così spontaneo mettersi in cima alla scala e magari pure con i tacchi alti! 
#704
A meno che il Sé non sia appunto una mappa... capace di leggere se stessa.
In realtà mi pare che comunque Damasio instauri un dualismo per spiegare il Sé: nel tronco encefalico c'è la mappa, ma la rappresentazione avviene nella corteccia che la riceve e la riflette al corpo attraverso il tronco encefalico (dunque a ciò che la mappa rappresenta) come "me stesso" da mantenere. E' proprio questa continua interazione reiterata tra la mappa e la sua rappresentazione corticale che costituisce il me stesso. In questo senso il Sé non è un qualcosa di reificabile, ma una sorta di relazione continua e costante tra tronco e corteccia. Se questa costanza viene a cadere il corpo agisce per recuperarla (recuperare se stessi) e, se non ci riesce, l'organismo muore.

Gli scienziati seri comunque sanno sempre ben vedere e riconoscere i limiti delle loro discipline, a differenza degli apprendisti stregoni (anche se di successo) che si vogliono far credere scienziati, ma sono spesso solo scientisti.
#705
Tematiche Filosofiche / Re:L'altruismo
01 Giugno 2016, 23:38:52 PM
Citazione di: baylham il 31 Maggio 2016, 12:02:01 PM
Riconosco che la mia analisi è un abbozzo grezzo, ma la sua base mi appare robusta, radicale. E' proprio l'ontologia a spiegare ulteriormente la prevalenza dell'egoismo.  La volontà (che sceglie, orienta verso il sé o verso l'altro), la conservazione della propria unità (respirare, bere, mangiare) sono elementi minimi dell'individuo, la cui esistenza è possibile indipendentemente dall'esistenza dell'altro.
Forse che l'individuo respira, beve e mangia se stesso? No, ha bisogno di qualcosa che sia altro da lui che gli si offra come disponibile a venire consumata, ma non solo, ha pure bisogno di averne cura per ricevere da essa sostentamento (nei popoli che oggi classifichiamo come primitivi, questo principio che si traduceva nel ringraziamento/restituzione verso ciò di cui ci si alimentava -o che si immaginava producesse ciò che ci alimentava, il Grande Altro- era molto più sentito che da parte nostra, convinti come siamo di poter fare sempre i nostri interessi esclusivi senza restituire nulla, come se non dipendessimo da nessun altro ma solo da noi stessi, mentre paradossalmente non siamo mai stati resi così tanto dipendenti l'uno dall'altro dagli albori della storia umana).
Capisco comunque che qui intendi l'altro come altro essere umano, ma in tal caso è proprio quella relazione umana reciproca che si rivela essenziale per esistere come esseri umani: il linguaggio ad esempio è nell'essenza umano e non può esistere linguaggio che non implichi in origine una relazione di offerta di cura da parte di altri. Senza questa cura primaria di cui siamo stati oggetto manco esisteremmo come esseri umani, è essa che ci viene a determinare per quello che siamo. Non è un di più quello che l'altro mi dona. qualcosa di cui potrei fare a meno in nome della sostanzialità perfetta del mio ego, ma l'essenza stessa della mia esistenza, se non ci fosse altruismo nessun io potrebbe esistere e nessuna società.

CitazionePer far capire quanto profondamente radicato, inconscio, sia l'egoismo e in risposta ad una obiezione posta al mio concetto di egoismo/altruismo nel precedente forum, faccio una banale esemplificazione quotidiana: la spesa in un negozio. Normalmente l'acquisto di beni è finalizzato ai bisogni propri o della propria famiglia. Se si va al negozio con la propria automobile si cerca di arrivare il più vicino possibile, a discapito dell'uguale proposito dell'altro. Nei banchi del negozio si sceglie la merce migliore, a discapito dell'altro, a cui rimane secondo i propri criteri la merce peggiore.
In breve, essendo la scarsità relativa un concetto fondamentale dell'economia, si comprende facilmente che normalmente la soddisfazione dei propri bisogni danneggia la soddisfazione dei bisogni dell'altro.
Certo nel contesto artificiosamente competitivo che l'attuale visione del mondo vuole rendere assolutamente unico e necessario può apparire così, ma l'obiettivo è sempre più facilmente raggiungibile se, anziché mettersi a correre per arrivare primi in virtù delle posizioni che si sanno conquistare con i mezzi di cui si è fruitori esclusivi e ognuno per gli interessi propri, si tentasse di collaborare insieme, ciascuno per il contributo che può dare. La capacità altruistica sta infatti alla base di qualsiasi situazione sociale. Certo, si potrebbe dire che anche questo mettersi insieme è egoismo, un mezzo di successo dell'io, ma è del tutto arbitrario pensarlo. il gesto altruistico autentico precede qualsiasi considerazione egoistica e nasce da un piacere primario di stare insieme di cui insieme partecipiamo. Anche confrontarsi su un forum come questo è un gesto altruistico, se ognuno pensasse solo a se stesso e a far prevalere a ogni costo la propria ragione, anziché offrirla in discussione agli altri, qualsiasi dialogo degenererebbe assai presto. Poi, anche per prevalere sugli altri, occorre che ci siano degli altri a offrire il loro plauso: l'egoista ha sempre un bisogno assoluto di una disponibilità altruistica attorno a sé.

Citazione1) Condivido la problematicità dei bisogni e dell'informazione relativa. Tuttavia c'è un reale problema di quantità d'informazione: acquisire l'informazione di un bisogno individuale è più economico, efficace ed efficiente, rispetto a quella di innumerevoli individui.
Ma se sono gli altri a determinare quello che sono l'informazione che ho da me stesso è quanto meno ugualmente problematica e a questa problematicità si aggiunge la necessità problematica di una sintesi in cui riconoscermi come altro di ogni altro senza andare in frantumi. Il mio bisogno è sempre il riflesso di una miriade di altrui bisogni che lo mutano, lo contraddicono, lo ingarbugliano. Pensare che il mio bisogno sia più semplice poiché corrisponde a un solo individuo e pertanto si presti a una soluzione più economica, efficacie ed efficiente è una mera illusione da cui sarò presto disilluso. In realtà io resto sempre una moltitudine in cerca di unità.

CitazioneTuttavia l'altruista come sceglie di fronte a chi vuole ascoltare musica e chi vuole stare in silenzio?
Tentando un accordo che si basi sul rispetto reciproco, anziché pretendere che solo si ascolti musica o si resti sempre in silenzio.

Citazione3) Che l'altro sia necessario è nella stessa definizione di egoismo e altruismo. Tuttavia si pone il problema dell'incontro, della relazione tra due altruisti. Il processo mi appare necessariamente divergente, non convergente, come invece l'incontro tra un egoista e un altruista.
Ma anche l'incontro tra due egoisti presenta problemi di divergenza enormi e ancor più evidenti. Forse occorre sempre qualche misura di egoismo e qualche misura di altruismo perché si realizzi un incontro ed è meglio per entrambi che ognuno non sia solo altruista o solo egoista. Nell'altruismo ci si offre, nell'egoismo si prende, occorre che il darsi e il prendersi possano accadere e l'uno in ragione dell'altro.
Citazione4) Sebbene il puro egoismo sia forse biologicamente possibile, è una prospettiva senza alcun interesse reale, umanamente fuori dalla storia. Dal punto di vista della sopravvivenza, conservazione di una specie l'esistenza dell'altruismo è un grande, indiscutibile vantaggio, ma non la sua prevalenza.
Che l'altruismo accada credo proprio sia fondamentale, se non ci fosse nemmeno l'egoismo sarebbe possibile e gli egoisti si estinguerebbero subito. Ma è probabilmente vero che senza egoismo probabilmente l'altruismo, inteso come libera scelta di donarsi all'altro, non sarebbe per nulla a sua volta possibile.
Nessun vivente fa la propria volontà, in genere fa solo quanto gli è dato di poter fare dal contesto in cui si è trovato originariamente accolto da qualcun altro, che qualcun altro gli ha altruisticamente dato.