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Messaggi - maral

#706
Tematiche Filosofiche / Re:Che cos'è la verità?
31 Maggio 2016, 19:41:11 PM
Citazione di: davintro il 30 Maggio 2016, 22:09:44 PM
La categoria di "vero" è applicabile a dei giudizi, che sono il prodotto di un pensiero soggettivo... in questo senso la verità certamente presuppone la soggettività, un pensiero pensante, ed è giusto distinguere il concetto di "verità" da quello di "realtà", al tempo stesso il criterio della viertà è la corrispondenza del giudizio alla realtà oggettiva: "la neve è bianca" è verità se e solo se la neve è realmente ed oggettivamente bianca.
Ma la verità non è necessariamente applicabile solo a dei giudizi (se per giudizio si intende un lavoro di verifica) e solo in questo senso è assoluta. Se Tizio sente di amare Maria e lo sente davvero, non è che ha bisogno di formulare un giudizio su cui valutare se è vero o no che la ama, è vero e se si mettesse a verificare cercando l'oggettività del suo amore significherebbe già che non la ama veramente. Ho tirato in ballo l'amore, ma la stessa cosa vale per il dolore: non ho bisogno di un giudizio che mi dica se il mio dolore è vero o falso, è oggettivo o soggettivo, lo sento, lo vivo, è vero. E così è per la paura, per l'angoscia (che, a differenza della paura, non ha né soggetto né oggetto), per la gioia. L'angoscia e la gioia non sono sentimenti che riguardano un soggetto (a lui relativi), suoi modi di sentire, ma accadimenti che lo trascendono accadendo, sono rivelazione.
Il reale si presenta nella verità del suo accadere e questo accadimento può porre insieme il suo soggetto e il suo oggetto. Fuori da questo puro accadere non c'è né soggetto né oggetto e il giudizio logico verificante è solo un problema del soggetto, della sua soggettività per come è determinata dall'evento.
Quando dico la verità non la dico, poiché l'evento della verità è indicibile, a meno che non sia il mio dire stesso questo evento di verità, prima che venga giudicato su un piano logico. E questo non significa che tutto è vero, è vero solo ciò che si presenta come evento di verità, come il male che sento se mi schiaccio un dito.

Citazione di: Philma se ciò che ci sembra di intravvedere fossero solo la polvere e lo sporco depositati sul velo e non l'ombra di ciò che è sotto? Se sotto il velo non ci fosse nulla, se non il nostro nudo desiderio di una presenza sognata?
E questo è il gioco che sempre si fa gioco di noi, poiché non definisce se non nel dubbio di quello che vorremmo arrivare a de-finire, rendendolo come un oggetto anziché come evento.
#707
Citazione di: Mariano il 31 Maggio 2016, 13:40:17 PM
La Natura e' affascinante ed è l'origine di tutte le nostre conoscenze e dei relativi sviluppi, ma a volte va in conflitto con se' stessa.
Cerco di spiegarmi:
La scienza con le sue varie materie va sempre più a fondo nel comprendere la struttura dell'universo ampliando continuamente la sua sfera di azione; resta però spesso un dissidio tra istinto e razionalità, entrambi espressioni della Natura.
Quando è il caso di combatterla, manipolarla, assecondarla?
Ritengo che sia una domanda che può trovare risposta solo scoprendo un'Etica universale.
Il conflitto non è nella natura, ma nella natura dell'essere umano, alla luce della cui razionalità esso appare come contraddizione. Alla natura appartiene solo il suo modo di essere, all'uomo la contraddizione di esistere che lo colloca contemporaneamente fuori e dentro la natura.
#708
Tematiche Filosofiche / Re:Che cos'è la verità?
30 Maggio 2016, 20:11:23 PM
Citazione di: Phil il 29 Maggio 2016, 13:26:45 PM
Se ho ben colto la tua spiegazione, oltre alla "verità formale", alludi ad una verità caratterizzata da un certo campo semantico dell'esperenziale: "accadere", "evento", "manifestazione dell'esserci", "istante", "significato che sta oltre il venir detto"... una verità che mi pare si quella del vissuto (non solo sensoriale ma anche esistenziale), quindi verità > v(er)ita > vita... tuttavia, se viene così denotata, ha (ancora) senso un interrogarsi filosofico al riguardo? E siamo sicuri che "verità" sia il termine adatto e non solo il residuo di una metafora metafisica dell'"ontologia delle maiuscole" (l'Essere, il Vero...)? La poesia stessa ci insegna a diffidare del suo uso del linguaggio, proprio in quanto parola alle soglie dell'indicibile/incomunicabile... secondo me, la v(er)ita evocata dai poeti, di cui loro non sarebbero custodi ma solo sacerdoti, può essere intesa come "verità" solo nel linguaggio poetico, che non deve rendere conto alla ragione; ma all'infuori di esso, fermandosi un passo prima dell'estetica, ci si chiederebbe, inevitabilmente, "cos'è allora la falsità"? Se i poeti (ribadisco: tutti? Se "no", come discriminarli?), ci dispongono "alla manifestazione dell'esserci che gioca tra il vero e il falso" (cit.), la falsità va intesa forse come non-essere (rischiando di chiamare in causa la "verità formale"), come indicazione beffardamente fuorviante dei poeti (che in quanto tali fanno del trascendere il vero e la realtà un loro diritto), come ricezione inautentica degli eventi (ma come fondare oggettivamente l'autentico?), o quale altro può essere il contraltare di quella verità?
Se non si può contestualizzare ragionevolmente un termine, forse il suo uso è solo metaforico (v. autoreferenzialità della "verità" in poesia...).
Il punto è che la "verità formale" non è verità proprio in quanto si presenta come solo formale, dunque è essa stessa che, nel suo essere formale, spinge oltre il limite logico formale che la definisce, oltre il suo poter essere detta secondo logica. La formalità logica che si impone sul linguaggio è quindi uno dei veli con cui la verità si maschera per rivelarsi nella sua danza, non la verità stessa e il crederla tale in virtù della sua potenza discriminativa logica significa solo cadere nella burla giocata dal divino fanciullo eracliteo (che poi è lo stesso gioco della poesia e dell'arte le cui figure non si possono prendere come "verificabili", o tanto meno degne di una doverosa fede letterale). Lo stesso fanciullo danzante non è certamente un vero fanciullo che possiamo pensare di dimostrare per procedimento analitico deduttivo o trovare da qualche parte come un bambino che balla, è a sua volta un inganno di cui siamo consapevoli, ma tale da richiamarci alla verità che non ha definizione poiché ogni definizione la tradisce.     
In tal senso la verità nell'evento non è il semplice negativo logico della falsità che la esclude come suo opposto.
Anche fondare oggettivamente la verità è velarla, poiché se la fondo oggettivamente, che ne è della verità soggettiva e perché mai dovrei escludere l'una in nome dell'altra? La verità non si preoccupa di essere né soggettiva né oggettiva, poiché gioca sempre tra soggetto e oggetto.
Il contraltare della verità dell'evento sta appunto nel negarla come evento per cristallizzarla per sempre in un puro costrutto formale che si pretende inamovibile in modo da poterlo dire con totale esattezza senza sentirne la potenza, o nella salma mummificata di un ente oggetto sempre perfettamente calcolabile e verificabile, o anche in un idolo supremo o una legge suprema, fosse pure quella di un divenire assoluto. Il contraltare della verità è la risata del fanciullo che si fa beffe di chi cade nei suoi tiri birboni tentando di prendere alla lettera ciò che dice per valutarne solo la lettera.
   
#709
Tematiche Filosofiche / Re:Che cos'è la verità?
29 Maggio 2016, 12:02:28 PM
Citazione di: Phil il 27 Maggio 2016, 23:03:48 PM
Eppure, sperare che il dire poetante riesca dove ha fallito il dire filosofico, non è come affidarsi ad uno stregone dopo essere stati delusi da un omeopata?
La poesia non è forse quella frontiera estrema del linguaggio totalmente disinteressata al vero, al punto di poterlo anche dire, stordire o tradire liberamente?
L'elezione di un poeta piuttosto che di un altro, come "profeta del vero", come può essere "veridica"? Holderlin e Basho raccontano la stessa verità?
Oggi, nella contemporaneità, la nostra verità è la nostra poesia?
La differenza sta appunto tra verità come correttezza da verificare formalmente, e verità come accadere (evento che ci coglie e ci comprende nel momento stesso in cui si presenta). Certamente il poeta è stregone, il cui lavoro di finzione, serve a preparare il terreno all'evento veridico, ma senza pre giudizi né sui poeti, né sugli stregoni, poiché non sono loro a raccontare la verità, ma solo a disporci alla manifestazione dell'esserci che gioca tra il vero e il falso riempiendo l'istante di un significato che nell'evento sta  sempre oltre il venire detto.

Citazione di: Duc in altum!Inoltre Pilato non è ironico, ma impaurito: "...all'udire queste parole, Pilato ebbe ancora più paura..."
Giusta osservazione, la verità non è mai rassicurante, ma più spesso fa paura, ci chiama in gioco oltre la logica e dal suo gioco non è detto che si esca riportando a casa se stessi, per questo per lo più accade di non volere che si presenti.
#710
Tematiche Filosofiche / Re:Che cos'è la verità?
27 Maggio 2016, 21:26:16 PM
Citazione di: Mariano il 27 Maggio 2016, 15:07:25 PM
Tutto il resto è poesia!
E la poesia non è forse verità? Forse l'unica possibile verità
#711
Tematiche Filosofiche / Re:L'altruismo
27 Maggio 2016, 12:20:01 PM
Credo che per tentare di affrontare la questione che poni valga la pena di partire da un'analisi più radicale, ontologica più che psicologica, sociale o biologica dell'altruismo/agoismo.
Inizio allora dall'ente (inteso come l'essere attualmente e concretamente in atto) e dalla considerazione (ontologica appunto) che "l'ente è" e, a differenza dell'essere, è al plurale, è come "enti". "L'ente è" ha un duplice senso: è in se stesso (è se stesso), ed è per altri con pari necessità. Se vogliamo possiamo dire che l'ente è per gli altri enti in quanto è in se stesso ed è in se stesso in quanto è per gli altri enti. Dunque l'essere me di me stesso non è qualcosa di isolato e separato da ogni altro, ma al contrario, io sono me stesso in quanto ci sono degli altri intorno a me che, finché restano a me irriducibili, partecipano in ogni istante del mio esserci mentre io partecipo del loro. E questa relazione duplice ha sempre l'aspetto sia del prendere l'altro, farlo proprio, che del donarsi all'altro offrendogli cura a mezzo di se stessi. Laddove una di queste posizioni si cristallizza prevaricando in modo assoluto sull'altra, l'ente che oscilla sempre tra le due, cessa di esistere (sia come io individuale e psichico, che come organismo biologico o sociale).
Partendo da questa posizione (che semplificando si potrebbe riassumere dicendo che egoismo e altruismo giocano sempre l'uno con l'altro come presa di possesso e offerta di cura in quanto questo gioco esprime l'esistenza stessa), risulta evidente che non può esistere né una società umana esclusivamente fondata sull'egoismo né sull'altruismo e la considerazione su quale si istituisca come fine rispetto all'altro, dipende esclusivamente da una visione soggettiva della questione, del tutto contingente a una data situazione culturale che instaura la sua prospettiva di senso.

Venendo ai 4 punti che poni in discussione osservo che:
1- E' vero che i bisogni dell'altro mi giungono sempre mediati (e quindi in qualche modo percettivamente falsificati) da me, ma siamo sicuri che quello che sono io non mi appaia ugualmente falsificato proprio perché solo gli altri possono mediarmelo? Perché è solo la loro presenza viva che può informarmi di una mia immagine a cui si accompagnano i miei bisogni? Non sarò allora invece proprio io l'aspetto più problematicamente enigmatico e ambiguo dell'informazione?
2- E' vero, l'altro è pluralità di individui, con tutte le contraddizioni che ne conseguono nel volerli "altruisticamente" soddisfare, ma, ripeto, se io sono il riflesso di questa pluralità posso ritenere davvero che soddisfare me stesso sia più semplice? che mi basti dare ascolto alla così presupposta unica e incontrovertibile mia pulsione? Questa pulsione è davvero unica o non è piuttosto un coacervo di contraddizioni sempre pronte a esplodere? Quale pluralità c'è in me mentre mi illudo di una mia autonoma unità?
3- Il punto è che non si tratta di accettare l'altro per soddisfare il suo altruismo, ma perché la sua presenza è ontologicamente indispensabile alla mia stessa esistenza e non solo per quanto di lui posso intendere (ossia fare mio), ma soprattutto per ciò che di lui mi resta sempre altro, sempre incomprensibile, sempre oltre me stesso e disfunzionante rispetto alle mie esigenze, poiché questa disfunzione è l'essenza della sua alterità che mi è tuttavia indispensabile per esistere.
4- Ma l'autosufficienza anche a livello biologico, è davvero il risultato di un egoismo? Di un pensare solo a se stessi? O non piuttosto di una dinamica che include sempre il pensare a se stessi pensando agli altri? 
Il problema è che se non ci fossero gli altri essendomi reso capace di fare mio ogni altro  temo che questo io ipertrofico e onnipervasivo potrebbe solo morire di nausea per indigestione o noia assoluta di se stesso e, per riuscire ancora a respirare, vorrebbe un altro, non per prenderlo e usarlo consumandolo, ma per potersi donare a lui. 
#712
Citazione di: sgiomboRinuncio a cercare ulteriormente di farti capire che la questione che ho posto non é quella se valga la pena o no di correre il rischio di vivere infelicemente ma dell' ingiustizia di imporre questo rischio ad altri
Ma è proprio questo il punto: l'ingiustizia di imporre il rischio ad altri ha come correlato (inevitabile, dato che il rischio in questione coincide con l'esistenza stessa) l'ingiustizia di parimenti imporre che questo rischio non sia corso. Comunque termino anch'io qui, tanto più che non penso che questa preoccupazione sarà motivo di futura estinzione, dettata semmai a livello psichico dalla maturata coscienza di un orizzonte nichilistico dell'esistenza. 
#713
Tematiche Filosofiche / Re:Che cos'è la verità?
27 Maggio 2016, 00:50:12 AM
Già, ci sono molti modi per dire la verità, anche se in linea di principio, la verità dovrebbe essere una sola, perché se ognuno ha la sua verità nessuno è nella verità. La cosa è però quanto meno assai problematica, bisognerebbe capire se la verità è in ciò che si sente o in ciò che si dice, o nel rapporto tra ciò che si sente e ciò che si dice, o, per uscire da questo soggettivismo di moda che riduce ogni filosofia a psicologismo, essa sta nel rapporto tra ciò che è e ciò che si dice, come mi pare intendano Platone, per il quale la luce della verità è nella trascendenza ideale, e Aristotele, per il quale l'essere è uno pur dicendolo appunto in molti modi (correttamente secondo le categorie che l'intelletto gli assegna) e da qui l'analisi della correttezza linguistica che studia il giusto rapporto logico tra le preposizioni. Ma è poi corretto ritenere che la verità sia solo un rapporto corretto tra preposizioni? Che stia tutta nel principio di ragion sufficiente?
E se la verità non fosse per nulla una faccenda proposizionale? Cos'è quella a-letheia, non latenza?
Certo Lou ha ragione quando ricorda che per Heidegger, che avrebbe tanto voluto fondare una nuova metafisica a partire dalla "meraviglia delle meraviglie" per cui "l'ente è anziché nulla", l'essere gioca continuamente (come il divino fanciullo di Eraclito) a svelarsi e nascondersi, a mostrarsi e mascherarsi, dunque tra verità e inganno, un po' - se mi si permette l'accostamento- come fa la dea Maya danzando con i suoi veli, e mascherandosi si scopre, come se alla fine la verità, quella vera, quella profonda e indicibile (di cui, come direbbe Wittgenstein, non si deve dire nulla, ma di cui, come ancora direbbe Wittgenstein, non possiamo non voler dire a dispetto della ragion sufficiente che subito mostra la sua insufficienza).
In fondo questo divino fanciullo che gioca con noi e si fa gioco di noi  non è proprio ciò che l'arte con le sue finzioni che vogliono poter dire il vero tenta sempre di evocare?
Torna ancora Heidegger, la sua fascinazione per la parola poetica. Heidegger che ritenne Nietzsche (il cui studio appassionato lo portò ai limiti del suicidio) il compimento di Platone, l'espressione finale e tragica di quella metafisica dell'Occidente a cui Platone aveva dato inizio e Aristotele aveva portato alla sua massima espressione filosofica. Platone, Aristotele... Nietzsche (passando per Hegel e tutti gli altri, ognuno a interpretare la sua scena grandiosa destinata all'oblio eterno), l'alfa e l'omega di una storia immensa giunta al suo epigono tragico, tutti legati dalla stessa metafisica a cui lo stregone della Selva Nera sognava di dare un significato radicalmente nuovo, una nuova aurora, ma ne fu incapace, se ne sentì incapace (solo un Dio ci può salvare, giunse a dire), o forse quella metafisica nuova ce l'aveva davanti, era paradossalmente l'antimetafisica radicale della tecnica che mostrava un mondo senza uomo, la fine dell'ente per eccellenza nel niente.
Duc scrive che la verità è l'illusione che poniamo (o da cui siamo posti?) a dirigere la nostra quotidianità; chissà se allora condivide la scettica ironia di Pilato che, a Gesù che gli diceva di essere venuto al mondo per dare testimonianza alla verità, replica proprio con questa domanda "Quid est veritas?" (Gv 18, 38), ma a cui nel passo non segue risposta.

Mi si perdoni questo volo velocissimo, superficiale e impasticciato su millenni di ricerca della verità, il senso che vorrei qui si capisse è che tutti noi pensiamo di possederla la verità vera (fosse pure la verità di una mela che tutti dicono che è una mela, ma che ognuno alla fine la trova un po' diversa e la sua è certo la mela più vera), anche quando apparentemente sembriamo disposti ad ammettere che la verità è solo questione personale, che dipende dai punti di vista senza accorgersi che dopotutto anche questa è una pretesa che vuole che valga per tutti (escluso lui, mentre dice questo). E' come se ognuno, anche il più scettico, sapesse cos'è la verità in positivo (per questo mi era piaciuta la definizione al negativo degli antichi Greci) e tenta di dirlo e si arrabbia pure, ma non ci riesce a dirlo senza contraddirsi. Il divino fanciullo di Eraclito è proprio un gran burlone: non solo velandosi si svela, ma pure svelandosi si vela, la contraddizione si ripete all'infinito nella danza e chi cerca onestamente e senza fingere la verità rischia di trovarla solo nella follia che lo mena per il naso senza pietà.
#714
Citazione di: sgiombo il 25 Maggio 2016, 09:01:45 AM
Ma se genero un figlio gli impongo (a lui. al figlio stesso) forzatamente, ingiustamente i rischi della vita; mentre se non genero nessuno non faccio alcuna ingiusta imposizione a nessuno.
In ogni caso si decide e si impone una decisione (se è meglio correre il rischio di esistere o no, poiché anche la decisione per una non procreazione impone la scelta di chi così ha deciso) e ovviamente non può che essere così, dato che ciò per cui si decide non esiste e dunque non ha alcuna libertà perché ne manca assolutamente la precondizione che è appunto la sua esistenza. E' evidente che il soggetto è libero solo se esiste, non se non esiste ma è pensato in ragione di una futura libertà di un'esistenza che però gli viene negata per salvaguardarlo dai rischi di quella stessa libertà.  Qui non si decide in ragione di una aspetto concreto di esistenza, ma di principio, sull'esistenza stessa negandola, del tutto a priori e dunque del tutto arbitrariamente. Si decide (e si impone) in assoluto che non vale la pena di correre il rischio, ossia che non vale proprio comunque la pena di esistere, perché solo il nulla (non l'esistere) garantisce la libertà.
Se un giorno il figlio (esistente), maledirà il genitore che lo ha procreato per averlo procreato esponendolo così al dolore di vivere, è solo in quanto procreato che potrà farlo e lo farà in nome di un'assurdità che non ha alcun senso.
Può anche essere che l'autocoscienza esponga al pericolo di questo estremo nichilismo ontologico esistenziale radicalmente autocontraddittorio: perché c'è qualcosa anziché il nulla che sarebbe tanto meglio - che se non altro rimanendo nel nulla si sarebbe più liberi e tranquilli.


#715
Citazione di: cvc il 24 Maggio 2016, 23:21:58 PM
Sullo stato sociale come ostacolo della crescita credo che sia una questione di posizione ideologica. Secondo i paesi più liberisti come gli USA lo stato sociale è insostenibile ed è di fatto inesistente, nei paesi del nord Europa come la Germania una spesa sociale elevata (livello Italia) non ha affatto impedito la crescita.  
Mi pare dimentichi che anche in Germania le tutele dello stato sociale sono state comunque ridotte.
La tecnica non è più strumento del capitalismo né di qualsiasi ideologia, ma è il capitalismo (e qualsiasi altra ideologia) ormai a essere strumento per la tecnica, ossia strumento che funziona per garantire l'efficacia e l'efficienza sistemica di produzine. La domanda è del tutto inserita nl sistema tecnico produttivo, poiché è indispensabile non per incrementare il capitale, ma per il continuo smaltimento del prodotto che rende possibile il continuare ad aumento di produzione (per cui è per ragioni tecniche che occorre un'obsolescenza programmata- materiale e psicologica- del prodotto che ne stimola il consumo), un aumento che è del tutto autoreferenziale, che non vede altro scopo oltre se stesso e utilizza ogni altro scopo (utili economici compresi) per se stesso. La concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi è effetto dello sviluppo tecnico, ma  potrà essere corretto in ragione della tecnica stessa se si dimostrerà controproducente al produrre.
Nemmeno io penso che debba essere la tecnica a dettare la morale, ma di fatto è così: buono è ormai ciò che tecnicamente funziona in modo prevedibile, costante, secondo programmazione. E anche il vero ormai ha solo il senso del tecnicamente utilizzabile. La domanda è piuttosto se è ancora possibile opporre una resistenza a questa riduzione di ogni significato al funzionamento e in quali termini, con quali risorse che non appartengano esse stesse alla tecnica.
La tecnica fin dalle origini (che coincidono con le origini del genere umano, come ricorda il mito prometeico) ha per scopo la semplificazione, la riduzione della resistenza a scopo manipolativo, il problema è che questo scopo manipolativo (poietico) è diventato del tutto fine a se stesso (è diventato pura praxis) di cui pure il benessere reale derivante dalla "facilitazione tecnica" alla fine è solo strumento e per lo più illusorio.
L'autocoscienza è utile a mantenere una visione critica del disegno tecnico sul mondo, ma pure la coscienza che si ha di se stessi si forma in ragione di ciò che si viene a fare nel mondo, non è un'entità separata autonoma che domina dal di fuori della dimensione dell'agire, ma istituisce la visione del soggetto a partire da ciò che fa e usa per fare. Per questo oggi l'esigenza tecnica sull'uomo che ne rende inevitabile la disumanizzazione (la decostruzione di quel significato umano che ci è stato fin qui evidente) rende critica in termini di contraddizioni estremamente angoscianti la posizione stessa dell'uomo.
#716
Tematiche Filosofiche / Re:Che cos'è la verità?
24 Maggio 2016, 23:30:52 PM
Citazione di: davintro il 24 Maggio 2016, 18:00:08 PM
Non riesco a vedere una contrapposizione tra le due accezioni della verità, quantomeno non necessaria. L'idea della verità come disvelamento del reale presuppone la concezione realista per cui è l'adeguazione del pensiero soggettivo alla realtà oggettiva a porsi come misura della verità Se il pensiero cristiano, direi soprattutto l'agostinismo, e la modernità a partire dalla svolta cartesiana ha considerato la necessità di fondare la conoscenza della verità come uno scavo interiore, ciò non contraddice l'idea della verità come rivelazione, ma indica un metodo finalizzato a porre l'uomo nelle condizioni ideali per ricevere la rivelazione, o manifestazione della verità nel modo più chiaro e meno ambiguo possibile. Il riconoscimento dell'arbitrarietà della pretesa di identificare la propria esperienza soggettiva con la realtà oggettiva, che si radicalizza nell'assunzione della possibilità del solipsismo, ha portato alla necessità di fondare la conoscenza con un dato stabile e al di là della dubitabilità, e tale dato è rinvenibile nella coscienza, ciò la cui esistenza non può essere messa in dubbio in quanto il suo essere coincide per definizione con l'esperienza e l'apparenza stessa e comprende in sè la stessa possibilità di errare. Questo passaggio dall'esteriorità all'interiorità implica certamente un ruolo più attivo del soggetto ricercante la verità, ma resta pur sempre un'attività non autoreferenziale, ma strumentale al recupero di una passività più adeguata ad accogliere la rivelazione dell'essere. Dalla svolta moderna del cogito cartesiano non discende solo l'idealismo immanentista, ma anche lo spiritualismo metafisico di un Rosmini per cui la verità è un dono che l' uomo riceve da una trascendenza, l'idea dell'essere come oggetto interiore presente alla mente o la stessa fenomenologia husserliana che anelava al "ritorno alle cose stesse", e il concetto di "cosa stessa" ha senso in relazione all'idea classica  e realista della verità come rivelazione... Perchè la verità per "rivelarsi" dovrebbe per forza provenire dall'esteriorità e non invece "risalire" da un'interiorità, da una profondità che viene scoperta dall'uomo che si rivolge alla conoscenza di se stesso? Non c'è alcuna "violenza", un violentare la natura, semplicemente la si riconosce a partire da un diverso punto di vista, "la violenza" semmai la rivolgiamo verso noi stessi in quanto soggetti conoscenti modificando il nostro punto di vista per rendere questo il più possibile "degno" di ricevere la rivelazione.
L'osservazione che fai è giusta, se si intende aletheia (non latenza), come qualcosa di originariamente nascosto che si rivela in particolari condizioni che è necessario determinare in se stessi, una sorta di educazione interiore per preparare il terreno allo svelamento. A quel punto sul terreno dissodato dalla educazione, la verità potrà mostrarsi nella sua pura nudità. E certo questo in realtà è anche nell'intento del greco, e penso a Platone, a Socrate, alla sua maieutica volta a far partorire la verità che già c'è. Ma non mi pare che la scienza occidentale abbia assunto questa strada e Kant lo mostra chiaro quando dice che l'uomo di scienza deve comportarsi con la natura come il giudice in tribunale. Il giudice non interroga se stesso per disporsi verso uno svelamento, ma il presunto reo che sospetta voglia nascondere qualcosa e qui il presunto reo è la natura. Quella a-letheia è una condizione che impone, non una manifestazione spontanea che ha imparato ad accogliere. In questo senso c'è violenza, la violenza di chi pensa necessario scoprire ciò che il mondo vuole ingannevolmente tenergli nascosto e per far questo, in nome della verità, ogni mezzo è lecito, un po' come in un tribunale dell'inquisizione di fronte al quale il reo va messo a nudo.
La fenomenologia di Husserl va indubbiamente in senso opposto (non per nulla egli denuncia la crisi delle scienze europee e propone una scienza fenomenologica), ma vede questo dissodamento come opera fondamentalmente logica, da specialisti, e non come un approccio di origine esistenziale che nasce dal soggetto concreto piuttosto che da un immaginario soggetto trascendentale.   
#717
Citazione di: sgiombo il 24 Maggio 2016, 21:18:51 PM
Non sto affatto dicendo che la condizione di assenza di rischio data dall' inesistenza é in ogni caso meglio della condizione di rischio data dall' esistenza.
Sto invece dicendo che il correre un rischio (qualsiasi, in generale; e in particolare il rischio dell' infelicità che la vita comporta) dovrebbe unicamente, necessariamente essere, secondo giustizia, conseguenza di una libera scelta di chi eventualmente decida di correrlo (oppure di non correrlo); e che il doverlo forzatamente correre per una scelta altrui, subita passivamente e non assunta liberamente di propria iniziativa o per lo meno liberamente accettata (dando il proprio consenso a chi semplicemente si limitasse a proporcela, e non invece ce la imponesse forzatamente, senza chiedere il nostro consenso), significa patire un' ingiusta prepotenza.
Ma chi questo chi a cui viene sottratto il rischio di decidere se non esiste e scegli (tu, alla luce della tua coscienza sull'esistenza e non certo lui) di non farlo in ogni caso esistere? Non è forse ancora un arbitrio questa decisione che sei pur sempre solo tu a prendere in base alla regola che non correre alcun rischio è in assoluto meglio del correrli?
Se non è giusto imporre forzatamente ad altri di correre rischi perché dovrebbe essere giusto imporre loro di non correrli? Sempre imposizione è da parte di chi decide per un altro.
Ma tutto questo discorso non ha senso logico, proprio poiché qui si sta parlando di un puro astrattissimo e generalissimo esserci in quanto tale, un esserci che si incarnerà in gioie e dolori, e quindi correrà rischi, ma solo se ci sarà e solo se ci sarà potrà valutare, lui a posteriori con la sua esistenza, e non tu a priori, se di correre tutto questo rischio di esistere in quanto tale è valsa la pena o no.

CitazioneEsempio (molto banale; me ne scuso):
Secondo te é giusto prelevare con l' inganno i risparmi di un altro e fare a suo nome, senza il suo consenso, un investimento (che magari si rivelerà fruttuoso e gli arrecherà grossi guadagni)?
Ma certo che non è giusto, ma quest'altro a cui sottraggo i risparmi esiste! Se io faccio nascere un figlio non lo inganno prelevandogli qualcosa da mettere a rischio. Cosa gli prelevo? Cosa gli metto a rischio? La sua inesistenza forse? La sua possibilità di scegliere se correre rischi o meno? Se non esiste cosa gli sottraggo di suo e cosa di suo metto a rischio?




#718
Citazione di: cvc il 24 Maggio 2016, 20:40:17 PM
A differenza dei cavalli da tiro, i lavoratori umani pagano tasse che servono per erogare le pensioni e sostenere lo stato sociale.
E infatti ormai da tempo ormai lo stato sociale è considerato il principale ostacolo alla crescita.
Certo si può discutere se la tecnologia sia legata o meno al capitalismo e cosa sia funzionale a cosa. Ad esempio Severino ne vede chiara la contrapposizione essendo il capitalismo in funzione dell'incremento del capitale, mentre la tecnica finalizzata alla soddisfazione di qualsiasi bisogno. E tra le due cose in contesa lui dice che sarà inevitabilmente la tecnica a prevalere. Io però non ne sono così sicuro: la tecnica ha avuto un ottimo alleato nel capitalismo, proprio poiché è esso che determina e fa permanere quello stato di bisogno che la tecnica ha lo scopo di soddisfare continuamente. La tecnica ha necessità di una domanda per continuare a produrre, il capitalismo ha necessità di una domanda per incrementare il capitale, dato che il capitale che si incrementa su se stesso, senza prodotto tecnico, è pura e catastrofica illusione. Entrambi hanno quindi bisogno della domanda in perfetta sinergia. Il problema su come sostenere la domanda è un problema tecnico e dunque il capitalismo muterà per quegli aspetti che si dimostreranno tecnicamente inadeguati al sostenimento della necessità di un consumo continuo e senza intoppi di quanto viene prodotto per non rischiare (come già accade) di finire sommersi da una marea di prodotto non consumato, ossia non immediatamente smaltito con il conseguente rischio di paralisi delle produzioni, alla cui efficienza la tecnica non può mai rinunciare. La ridistribuzione  della ricchezza può funzionare, ma fino a un certo punto, poiché ciò che si rende veramente necessario è stimolare continuamente il bisogno di beni per produrli, è costringere a fare di tutto pur di entrare nel ciclo di produzione senza poterne uscire, facendo leva sul desiderio continuamente indotto.
Non è vero che la tecnica è neutra e dipende dall'uso che ne facciamo, poiché ormai è essa che ci usa e stabilisce gli usi confacenti al suo produrre, programmandoli al massimo delle possibilità. E' la tecnologia che detta la morale che si riduce a pura morale d'uso, non certo noi, e questa morale è necessariamente del tutto indifferente all'umano: ormai è l'uomo che, in quanto mezzo produttivo, non è più né buono né cattivo, ma solo funzionale o meno al calcolo dell'efficienza massima di produzione del sistema complessivo; pensare in termini di buono e cattivo secondo i vecchi parametri etici è già decisamente antiquato: essenziale è solo funzionare nel modo più pianificabile e prevedibile possibile. Per questo l'autocoscienza, tecnicamente parlando, è una complicazione indebita, comporta costi eccessivi, è ormai un lusso che non ci si può permettere per evitare errori di programmazione imprevisti.  I falsi bisogni invece sono un'assoluta necessità tecnica, basta convincere che non sono per nulla falsi, ma diritti perpetuamente ribaditi a cui non si può rinunciare per vivere.
#719
Sgiombo, ma tu, dicendo che scegliendo la procreazione si impone un rischio a chi verrà ad esistere stai dicendo che la condizione di assenza di rischio data dall'inesistenza è in ogni caso meglio e questa è una valutazione che tu dai arbitrariamente e solo in quanto esisti. Io penso invece che il confronto sul significato di per sé (preso in modo del tutto autoreferente e astratto) di esistenza e inesistenza non si pone proprio, è logicamente assurdo, mentre ha senso decidere di non procreare in base a certi parametri con cui ci si configura, da un punto di vista sempre più o meno soggettivo, l'esistenza futura .
Ha senso cioè dire che in un mondo in cui le esistenze si troveranno sempre più compromesse, evito di procreare, poiché questo mondo non offrirà alcuna cura a chi vi vivrà. Ma questo non è un confronto tra esistenza e inesistenza, ma tra la mia esistenza attuale e l'esistenza di chi esisterà in futuro.
#720
Probabilmente più che un problema tra natura e cultura (per l'uomo, per lo meno da quando ha sviluppato l'agricoltura diventando stanziale, la natura ha sempre avuto un senso culturale e ciò che noi oggi pensiamo natura è il risultato del progetto che l'essere umano ha fatto su di essa), mi sembra di un problema tra quanto l'attuale tecnologia richiede (e richiederà sempre più in futuro) e il modo ancora umano di sentirci. In altre parole l'attuale tecnologia presenta l'uomo a se stesso come inadeguato e antiquato.
Proporre di lasciare che l'uomo faccia quei lavori di cui è stato capace, alla luce dell'attuale concezione tecnologica senza reali alternative del mondo non ha senso, poiché le macchine, prive di autocoscienza, funzionano meglio, ossia più efficacemente ed efficientemente, ormai persino il progettare e decidere in situazioni complicate, attività che ingenuamente si riteneva dovessero restare di appannaggio umano.  Oggi si chiede semmai che l'uomo si conformi alla macchina, si renda trattabile come macchina, produttiva e soprattutto di consumo, non certo il contrario. 
Non so se avete presente i vecchi cavalli da tiro, quando ero giovane se ne vedeva ancora qualcuno in giro, oggi nemmeno uno. Sono scomparsi e oggi i cavalli servono solo per il divertimento nei maneggi, per tirare qualche carrozzella di ameni turisti o per fare bistecche. Proporre di riutilizzare i cavalli da tiro al posto dei tir non avrebbe nessun senso. L'uomo sta  avvicinandosi alla medesima condizione, senza più trovare senso e significato in ciò che ancora, nel sistema tecnologico, gli resta per un po' permesso di fare in attesa che le macchine lo facciano meglio di lui, Per ora si tratta della posizione di terminale della catena tecnologica, utile allo smaltimento del prodotto tramite l'eccitazione programmata del suo desiderio. Ma i cavalli in fondo sono stati più fortunati, perché non hanno una coscienza di sé  come hanno gli esseri umani, coscienza del proprio significare e quindi della propria inadeguatezza esistenziale. Per l'essere umano l'estinzione sarà più dolorosa, per questo, per evitare intoppi, lo si anestetizza.