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Messaggi - maral

#736
Citazione di: Paul11Perchè non pensare che la coscienza sia come una nuvola elettromagnetica dentro il cranio, ma non perfettamente corrispondente al cervello? Abbiamo presente gli elettroni e il nucleo atomico? Un campo magnetico non è direttamente e fisicamente corrispondente alla sola area della materia che lo genera, basta vedere la magnetosfera terrestre  e quanto il sole incida con le sue radiazioni a milioni di chilometri di distanza.
E ancora, perchè utilizziamo l'imaging per "vedere" un cervello , se non per impressionare l'elettromagnetismo presente in esso.
Il presupposto di questa ipotesi è: se vediamo il modo di funzionare della coscienza in una mappatura elettromagnetica, in qualche modo il fenomeno elettromagnetico (o elettrochimico) dovrebbe costituire il fondamento della coscienza stessa. L'ipotesi è lecita e interessante, ma il rischio è come sempre quello di ridurre la comprensione effettiva del significare della coscienza a se stessa al suo modo di funzionare per come viene rilevato, fino a identificarla completamente al mezzo con cui la si rileva. La mappa diventa così evidentemente il fenomeno che si intende mappare e i principi che consentono di mappare i principi del fenomeno stesso.

Citazione di: Loris BagnaraMi sto ponendo nei panni di uno che vorrebbe accogliere la tesi che l'autocoscienza emerga dal cervello. Però questo tizio ha un dubbio: se è vero che nulla è permanente nel corpo e nel cervello umano (anche tu l'hai confermato), come è possibile che da una struttura impermanente sorga un'illusione permanente?
La logica riduzionista esigerebbe di individuare una struttura materiale permanente a cui agganciare l'illusione permanente dell'io-sono.

Ora tu proponi che le funzioni svolte dal corpo/cervello possano costituire tale struttura permanente a cui l'io-sono possa agganciarsi.
Il problema dell'identità permanente è stato affrontato in termini neurologici, ad esempio  da Damasio. La sua ipotesi è che questa identità corrisponde all'immagine che le strutture corticali elaborano a partire dalla biostaticità che l'organismo variando deve mantenere sempre invariata per sopravvivere. Il compendio di tutte le informazioni necessarie a questo mantenimento dell'unità stabile del corpo si trova nel midollo allungato. Il discorso è interessante, come tentativo di dare conto del fenomeno coscienza di sé su base neurologica. Lo introduco nella sezione "Scienza e tecnologia" per chi volesse commentarlo e approfondirlo.
#737
Citazione di: davintro il 17 Maggio 2016, 15:19:55 PM
Rispondo a Maral:

Non direi che la riflessione a posteriori "costruisca" alcunchè. La riflessione non produce i propri oggetti ma scopre qualcosa che gia c'è, mette in evidenza ciò che prima era latente...
E cos'altro è la coscienza se non coscienza riflessa su se stessa, che talvolta accade, ma ben più spesso non accade (né è necessario che accada)? E' solo nel momento in cui accade che si avverte la presenza del soggetto e quindi di un soggetto in grado di essere cosciente di una coscienza intesa come propria. In questo senso l'autocoscienza appare come uno stato ulteriore della coscienza, come coscienza di quel sentirsi coscienti da cui è necessario partire per interpretare il mondo dal suo darsi "immediato" (che non è da intendersi in senso temporale, ossia istantaneo, ma "non mediato") in cui non c'è soggetto e pertanto nemmeno oggetto, ove non c'è né passato né futuro, ma tutto è qui e ora, nell'atto mediante che istantaneamente li determina. Nello stato di coscienza che non è autocoscienza non sono io a rivolgermi all'oggetto, perché l'immagine virtuale di un io riflessa dal mondo non sussiste ancora, dunque non è questione di un "mio" porre attenzione. In tal senso Sgiombo ha ragione quando dice che la stanza che sta intorno mentre si scrive al computer o si legge un libro, anche se non vi si pone attenzione, c'è, esattamente come c'è il gradino quando scendo le scale preso dai miei pensieri (e tuttavia so che c'è un gradino, so che sto scendendo le scale), la coscienza è lo sfondo opaco (ma di per se stesso lucidissimo) su cui un'autocoscienza può muoversi creando le sue figure di senso che procedono continuamente a un'individuazione soggettiva.
Ciò non toglie che dal momento in cui la coscienza del soggetto emerge riflessa dal mondo in se stessa, non è più negabile ed è solo a partire da essa che trae origine e ragione ogni  ogni discorso, compreso il discorso che  nega finge oggettività astratte da ogni posizione osservativa. E' solo da qui che il significato può essere reso come concatenazione di segni verbali, come simbolo che diventa parola (e parola creatrice).
Il soggetto è tutto e solo nella coscienza che riflette su se stessa ("riflette" nel senso strettamente speculare del termine) e una volta che questo riflesso appare, tutto appare alla luce di un soggetto originario che, anche se si nega (e forse soprattutto quando si nega dubitando di se stesso) c'è sempre, poiché è comunque solo lui che può intendere e pronunciare qualsiasi parola, qualsiasi logos.
#738
Citazione di: paul11 il 17 Maggio 2016, 14:26:01 PM
... mi arrendo. O si capisce quello che scrivo ,e forse è colpa mia, oppure è è inutile girare in giro.
Comunque:....
Se una porta di un materiale ti permette di gestire solo 2  due stati (passa la corrente,1; non passa la corrente 0)
hai 2 ^2 = 4 possibilità. Se un'altro materiale ha la possibilità ,per pura ipotesi, di gestire 10 stati , allora hai 10^10=100 : tutto quì.
?aul, puoi quanto meno convenire che il materiale organico, pur essendo su base esperenziale (e dunque non assoluta), una condizione che appare necessaria allo svilupparsi di una coscienza non è per nulla una condizione sufficiente? Ossia che quella possibilità di una maggiore interattività biochimica non riesce comunque  a dare ragione sufficiente di per se stessa di una attività cosciente anche elementare, nemmeno a livello di pura emozione? e dunque che la coscienza non sta nella quantità di relazioni che un tipo di materiale consente, ma nella qualità di un tipo di relazione che ancora non riusciamo a definire se non in termini assai vaghi e generali, per lo più basandoci su un'idea di somiglianza?
Il materiale organico è semplicemente un materiale la cui chimica è quella del carbonio, ma di per sé il carbonio è inorganico e ha origine inorganica come elemento. La chimica del carbonio di per sé non spiega proprio nulla della coscienza, non è sufficiente, esattamente come non lo è la meccanica quantistica delle particelle elementari. Questo non significa pensare che la coscienza sia un misterioso flusso spirituale, essa è data dalla materia, ma da una materia intesa come relazione e non come cosa. Una particolare relazione che è già coscienza.
#739
Citazione di: paul11 il 16 Maggio 2016, 01:20:26 AM
Se siete riusciti a costruire decine di post senza riuscire a evidenziare che prima sorge la vita da materiale organico e una coscienza nasce da materiale organico tramite un cervello  ,a meno che dimostrate che siete sassi che parlano e si ha coscienza senza un cervello .
Sbaglio o i chip elettronici di un computer sono materiale inorganico che utilizzano costruzioni topologiche per creare porte in cui passa (1) o non passa(0) la corrente per cui la matematica binaria è necessaria di base per poi codificare linguaggi più evoluti?

Informatevi, perchè da qualche anno sperimentano materiale organico
Mi pare ovvio che prima di capire quale materiale serve, occorrerebbe capire di cosa si tratta e come si fa a riconoscere dal di fuori la coscienza, se mai è possibile averne la certezza, e mi sa che su entrambe le cose si abbiano ancora idee assai poco chiare.
Lo studio dell'utilizzo di materiale organico ha lo scopo di aumentare la capacità elaborativa dei computer, ma questo non implica di per sé l'acquisizione di alcuna coscienza, tanto più che la stragrande maggioranza degli esseri viventi, pur essendo tutti costituiti da materiale organico, non ci appare né cosciente né tanto meno autocosciente.
#740
davintro, tutta l'implicazione che trovi tra coscienza e autocoscienza non è fenomenologicamente data, ma è una costruzione a posteriori di qualcuno che è attualmente autocosciente di se stesso e, alla luce di questa autocoscienza, interpreta a posteriori la coscienza della cosa come cosa propria, come il risultato di un suo apprendimento.
Questo è evidente nel fatto che nell'istante del riconoscimento dell'oggetto, il suo significato ci appare del tutto immediato e solo dopo, riflettendoci sopra in modo mediato, possiamo, e solo in determinate circostanze, intendere questo significato come acquisito, come qualcosa che si è formato in noi stessi. E' possibile fermarsi solo alla fenomenologia di ciò che ci appare? Certo, è accaduto per migliaia di anni ed è ciò che, se non interponiamo la riflessione, ci appare del tutto evidente anche nel presente ed è probabilmente quello che accade praticamente alla quasi totalità delle specie animali che sono coscienti delle cose che stanno loro intorno, ma non sono coscienti di questa coscienza, ossia che sono coscienti del mondo, ma questo mondo non riflette alcuna coscienza di questa coscienza, ossia non riflette l'unità di un soggetto che lo osserva e che ha imparato a riconoscerlo come tale. 
 
#741
Forse, più che alla contrapposizione tra olismo e specialismo (perché mai uno scienziato non dovrebbe essere olistico e un artista specialista della sua arte: Morandi fu un grande specialista di nature morte di cui intendeva esprimere un significato metafisico ripetendo pedissequamente le medesime raffigurazioni), direi più che altro che si tratta di una separazione che è venuta sempre più accentuandosi fino alla caricatura tra ricerca estetica e utilità tecnica, per cui l'arte è diventata puro ornamento e la scienza si è finalizzata al puro progetto tecnico funzionale.
Per fortuna non sempre è così: penso ad esempio allo studio dei frattali in campo scientifico, o alle forme disegnate da Escher in campo artistico.
#742
Citazione di: paul11 il 15 Maggio 2016, 18:05:18 PM
Quando si riuscirà a passare dal materiale inorganico a quello organico nei computer , si aprirà una nuova era, perchè l'automa potrà acquisire coscienza.,potrà essere in grado di rielaborare il codice sorgente.
Non penso che la soluzione del problema sia legata al materiale (o almeno non è sufficiente il materiale). Una singola cellula è costituita dal medesimo materiale di coloro che riconosciamo coscienti, ma mi pare difficile  pensare che sia cosciente, così come qualsiasi complesso di cellule organizzato, ad esempio una pianta.
La coscienza corrisponde a un particolare tipo di organizzazione comunicativa (un tipo di relazioni probabilmente reiterative) che non è detto che si possa raggiungere con materiali diversi. Il problema è quale e in che modo poterla riconoscere con sufficiente evidenza negli effetti che produce.
Citazione di: sgiombo il 15 Maggio 2016, 19:02:50 PM
Concordo, ma rilevo che il "test del riconoscimento allo specchio" non é unanimemente accettato dagli etologi; c' é chi, a mio parere a ragione, non lo ritiene probante dell' autocoscienza
Infatti, il riconoscimento dell'autocoscienza, essendo un fenomeno intrinsecamente soggettivo, è sempre discutibile
#743
Citazione di: jeangene il 14 Maggio 2016, 21:43:45 PM
Spesso però la coscienza viene presentata come qualcosa di indipendente dalla autocoscienza. Questo però, a mio avviso, non è del tutto corretto in quanto nessuno può testimoniare il verificarsi del sentire/esperire in assenza di autocoscienza perché se c'è testimonianza c'è autocoscienza.
Diciamo che la coscienza non è ritenuta un elemento sufficiente per dimostrare l'autocoscienza, anche se nel discorso si avverte una certa arbitrarietà. Un animale (ad esempio un coniglio) potrebbe essere perfettamente cosciente di ciò che osserva, senza essere cosciente del suo esserne cosciente, ossia senza essere cosciente di se stesso come osservatore. Ma forse questo capita normalmente anche a noi, guardando la penna sul tavolo normalmente non ho bisogno per accorgermi che c'è di considerare che sono cosciente della sua presenza, ossia del fatto che ci sono io che la guardo, semplicemente essa c'è. In genere il test che si propone agli animali per valutare l'esistenza dell'autocoscienza è quello del riconoscimento di se stessi in una propria immagine riflessa. (e si può notare che ancora tornano in ballo gli specchi)
#744
Citazione di: HollyFabius il 15 Maggio 2016, 00:19:31 AM
Perché ho aperto questo 3D e perché l'ho fatto con la citazione della AI e con l'esempio della somma di parti?
Una delle mie letture giovanili trattava proprio questo argomento, la coscienza; il testo era "Godel, Escher, Bach (GEB) un'eterna ghirlanda brillante" di D. Hofstadter.
Se ti interessa il discorso che fa Hofstdter sulla coscienza, ti suggerisco la lettura di "Gli anelli dell'io" ove la coscienza è vista appunto come un meccanismo continuamente reiterativo in modo speculare.
Personalmente penso che non si possa considerare la coscienza se non come  un dato reale della realtà fenomenologica. Che poi la realtà fenomenologica possa contraddire quella logica è un enorme problema, dato che la realtà è di per se stessa una sola.
Il suo essere comunque reale non implica che sia un fenomeno trattabile in modo matematico, dunque algoritmicamente calcolabile, tanto più che la matematica determina paradossi che solo una coscienza non algoritmica può decidere. C'è anche chi ha supposto che la coscienza sia un fenomeno indispensabile per evitare che un universo puramente meccanicistico collassi subito su se stesso, nei propri inevitabili paradossi.
Il test di Turing mi pare piuttosto banale: asserisce in sostanza che una macchina è cosciente se appare all'osservatore (cosciente) indistinguibile da un soggetto cosciente e, come sappiamo, Searle lo ha messo in dubbio (anche se in un modo non per tutti convincente) con l'esperimento ipotetico della stanza cinese.
#745
Citazione di: cvc il 14 Maggio 2016, 18:49:50 PM
Mi pare siamo fondamentalmente d'accordo  anche se a me  sembra  che i celebri paradossi di russel fossero espressi proprio in linguaggio discorsivo, cone quello del tacchino induttivista. La sua opera maggiore è stato un tentativo di dare al linguaggio discorsivo un formalismo logico matematico, presumibilmente proprio per rimediare a tali paradossi, fondando la matematica sulla logica e cercando poi di traferire tale formalismo anche al linguaggio parlato. In "Introduzione alla filosofia matematica" fa l'esempio di come le relazioni possono applicarsi anche al linguaggio. Ad esempio "padre" è una funzione uno-molti, "figlio" è molti-uno. Ma in caso di figlio unico diventerebbe uno-uno. Appare (almeno a me) evidente come il linguaggio non  possa prestarsi a tale formalismo, e la difficoltà nello stabilire relazioni non ambigue. Ad esempio la dialettica hegeliana era ispirata alla teoria dei contrari di Eraclito. Ad Hegel fu però contestato come certe antitesi da lui identificate non fossero proprio tali, non fossero ciò precisamente degli opposti.
No, il paradosso di Russell è un paradosso logico dell'insiemistica matematica sviluppata da Cantor, che si può enunciare in questi termini (logicamente formalizzabili): l'insieme a cui appartengono tutti gli insiemi normali (definiti come quegli insiemi che non contengono se stessi) è normale? Si dimostra che la risposta è logicamente paradossale. Si tratta di un paradosso fondamentale poiché mise in crisi il progetto di Hilbert di una formalizzazione completa dell'aritmetica (poi definitivamente dimostrata irrealizzabile da Godel) https://it.wikipedia.org/wiki/Paradosso_di_Russell.
E' stato esemplificato in termini di linguaggio comune in molti modi (il paradosso del barbiere, il paradosso del catalogo ecc.), ma non è per nulla un problema del linguaggio comune.

Citazione di: Loris Bagnara il 14 Maggio 2016, 18:59:11 PM
Mi riferisco al fatto che, mi risulta, lo stesso Newton fosse sconcertato dalla sua scoperta. Cioè, aveva trovato il modo di collegare matematicamente il moto dei corpi celesti, ma si rendeva conto di non avere la più pallida idea di cosa fosse quella forza che li teneva legati insieme. Newton non poteva ammettere un'azione a distanza, attraverso il vuoto.
La cosa non è che sia cambiata gran che, oggi. Anche oggi si rifiuta l'idea dell'azione a distanza, e si è giunti a supporre che le interazioni (gravitazione, elettromagnetismo, interazione forte, interazione debole) avvengano attraverso lo scambio di particelle ad hoc: il gravitone per la gravitazione, il fotone per l'elettromagnetismo e così via. Non che sia molto soddisfacente neanche così, dal punto di vista ontologico, perché posso sempre chiedermi che cosa siano a loro volta i quanti delle interazioni, e come facciano a trasmettere la loro azione...
Ma mi pare che l'entanglement quantistico abbia però rimesso in discussione il discorso dell'azione a distanza.

CitazioneIn definitiva, la scienza costruisce relazioni matematiche fra i fenomeni, e indubbiamente funziona a livello pratico, ma non abbiamo la più pallida idea di quale sia la realtà in sé dei fenomeni, né se vi sia una realtà in sé oggettiva. Se quelle che noi chiamiamo relazioni fra fenomeni, non corrispondessero a una realtà oggettiva, ma ad una realtà mentale, e quindi le relazioni suddette fossero solo relazioni fra idee (come nel pensiero di Berkeley)? Non possiamo saperlo, possiamo solo congetturare che ci sia una realtà di relazioni oggettive. Questo intendevo dire.
Proprio per questo, su cui concordo, mi pare che si possa affermare che la relazione c'è sempre, ossia qualsiasi cosa è detta da un osservatore, il suo significato è essenzialmente l'espressione di un rapporto tra osservatore e osservato. Il problema è che quando si parla delle cose in sé, l'osservatore lo si nasconde, si fa finta che non ci sia, dunque che si stia parlando dell'osservato come  autosussistente.
#746
Bene, seguendo l'ordine dei tre saggi, riporto alcuni punti che avevo sottolineato nel primo per offrirli a una riflessione più attenta e accurata della mia.
Nietzsche dichiara in introduzione il bisogno di una critica dei valori morali, ossia di porre in questione il valore di questi valori, sospettando evidentemente che questi valori, per come sono venuti a conformarsi, non siano per nulla valori, anzi neghino il vero valore e comincia appunto, nel primo saggio con l'affrontare il significato dell'agire morale, riconducendolo all'origine, alle sue fondamenta e molto esplicitamente dice:

"Sono stati gli uomini buoni, cioè i nobili, i potenti, gli uomini di ceto superiore e sentimenti elevati a sentire e definire se stessi e le loro azioni come buoni, cioè di prim'ordine, e in antitesi  a tutto ciò che è volgare, comune e plebeo... l'utilità non li interessava affatto il punto di vista dell'utilità (col suo calcolo)... è quanto di più estraneo e inadeguato si possa pensare."

Il giudizio morale appare qui subito come giudizio di una pura espressione vitale scevra da qualsiasi valutazione di calcolo utilitaristico (e questo la dice lunga rispetto al pensiero calcolante che formalmente domina e struttura la contemporaneità: esso apparirebbe a N. come radicalmente immorale). Buona è la posizione aristocratica, in quanto elevata e spiritualmente privilegiata, che gode orgogliosamente di una piena salute vitale, funzionale alla vita, mentre cattiva è quella plebea, debole e volgare. L'aristocratico è, come per gli antichi, il guerriero consapevole e sincero possessore della propria forza vitale, contrapposto al mentitore, ossia all'uomo comune.
Ma buono è anche mantenersi in salute e qui scrive, spiegando l'origine dell'idea di purezza:
"Il puro è originariamente solo essere umano che si lava, che evita certi cibi in grado di provocare malattie cutanee."
Compare proprio qui la figura sacerdotale (medico- sacerdotale si potrebbe dire), depositaria di riti di purificazione in grado di garantire la buona salute del corpo vitale. Nietzsche ravvisa il popolo ebreo come popolo sacerdotale in cui inizia "la rivolta degli schiavi nella morale ... che ha vinto" come morale dell'uomo comune, spazzando via i signori. Questa rivolta ha quindi inizio nella morale, nel momento in cui il ressentiment verso chi gode di una salute naturale diventa esso stesso creatore e produce valore. E' come se il sacerdote sostituisse alla sua ritualità igienico purificatrice, la possibilità di sottrarre la forza a chi quella forza possiede di natura, facendo leva sul risentimento di chi non la possiede.  La rivolta esprime una pura reazione contro un mondo esterno antagonista e necessita di uomini ben più avveduti degli aristocratici, capaci di costruire ideali grazie ai quali la debolezza possa passare per merito e la ritorsione apparire come trionfo della giustizia. Gli Ebrei erano quel popolo sacerdotale capaci di tanto, il popolo del risentimento per excellence, a cui era innata un'ineguagliabile genialità popolare.
Mi paiono essenziali per intendere nel giusto senso questo discorso, queste parole di sapore spinoziano (e si noti che Spinoza, ammirato da Nietzsche, era ebreo e partecipava di quella cultura) che Nietzsche scrive nel saggio:

Non esiste un sostrato libero di manifestare o no la forza, non esiste nessun essere dietro il fare, l'agire, il divenire: colui che fa è soltanto un accessorio inventato dal fare- il fare è tutto... Come se anche la debolezza del debole, cioè la sua essenza, il suo agire, tutta la sua unica, inevitabile, non redimibile realtà fosse una prestazione volontaria, qualcosa di voluto, di scelto, un'azione, un merito. Per questa specie di uomini creare un soggetto indifferente, libero di scegliere è una necessità. Il soggetto (ovvero, per dirla più popolarmente, l'anima) è stato sino a oggi sulla terra il miglior articolo di fede, perché ha permesso alla maggioranza dei mortali, dei deboli, degli oppressi di ogni tipo, quella sublime mistificazione di sé che interpreta anche la debolezza come libertà, il suo essere così e così come merito.

Aggiungo la definizione che Nietzsche qui anticipa per il nichilismo e che verrà ripresa e meglio chiarita nei saggi successivi
La vista dell'uomo rende ormai stanchi- e che cos'è oggi il nichilismo se non questo?...siamo stanchi dell'uomo...
#747
Da un punto di vista logico formale ciò che può esserci non può non esserci, ma il problema è come, dove e quando.
La scienza, pur ammettendo la base logica come necessaria (la medesima aristotelica), non può fermarsi ad essa e non procede quindi per sola deduzione, ma al contrario, parte dal qui e ora per come scientificamente modellabile, per andare a cercare l'ente che ubbidisce ai suoi criteri di verifica e definizione.
#748
Citazione di: jeangene il 14 Maggio 2016, 16:47:28 PM
In questa e in altre discussioni si fa spesso uso dei termini: "sentire"/"esperire" (in questo contesto, per me, sinonimi), "coscienza" e "autocoscienza".
Vi chiedo: che definizioni attribuireste a questi termini e in che modo li mettereste in relazione fra loro?
Dare risposta a questa domanda mi sembra tutt'altro che semplice perché, ad esempio, quando sento/esperisco qualcosa in qualche modo ne prendo coscienza (non si da mai un sentire/esperire qualcosa senza che qualcuno ne prenda, in qualche modo, coscienza), quindi "sentire"/"esperire" e "prendere coscienza" fanno in qualche modo riferimento allo stesso processo?
"Autocoscienza" poi cosa significherebbe? Il processo di prendere coscienza del del fatto di stare sentendo/esperendo qualcosa?

Grazie per l' attenzione,
jeangene
In questo contesto sentire ed esperire si potrebbero, per quanto mi riguarda considerare sinonimi, salvo diversa specificazione che potrebbe in linea di massima essere ricondotta a un'esternalità dell'esperire rispetto all'interiorità del sentire (ma in tal caso andrebbe chiarito cosa è interno e cosa esterno, cosa tutt'altro che facile e ovvia).
La differenza tra coscienza e autocoscienza mi sembra invece evidente, la coscienza riguarda il fenomeno. l'autocoscienza è invece la coscienza della coscienza del fenomeno, ossia prende la coscienza del fenomeno come fenomeno esso stesso e questo fa emergere l'esistenza di un soggetto. Per semplificare: la coscienza dice che ad esempio c'è la presenza di un albero, l'autocoscienza dice che c'è la presenza della presenza dell'albero e dunque c'è un soggetto che si rende conto di questa presenza e quel soggetto sono io. Si è spesso discusso ad esempio di quanto gli animali possano essere solo coscienti o anche autocoscienti (pare che i cani, i delfini e i corvi raggiungano un certo livello di autocoscienza)  

Citazione di: cvc il 14 Maggio 2016, 17:34:23 PM
Io credo, sperando di non saltare ancora di pan in frasca con la discussione, che siamo di fronte ad un ricorrente malinteso. Leggendo gli ultimi interventi ho sentito dire che si dovrebbe definire la coscienza, definire l'autocoscienza, definire il tutto, il nulla e così via. Ma chi ha detto che le parole identifichino con precisione l'oggetto? Il linguaggio scientifico si serve del numero e di una simbologia rigorosa per supplire alla necessità di espressione senza ambiguità alcuna. Ma chi ha mai detto che ciò possa avvenire anche nel linguaggio discorsivo? Il linguaggio è ambiguo, impreciso e a volte paradossale per natura. Quando si trasferisce l'induzione dalla matematica al linguaggio parlato si generano i paradossi russelliani e altre aporie. La domanda del topic è se si può esprimere formalmente (questo dovrebbe significare dimostrarne l'esistenza) la coscienza per poi trapiantarla sui robot attraverso il linguaggio informatico. Mi sembra evidente che ciò che chiamiamo coscienza è frutto del nostro linguaggio discorsivo, quindi un'identificazione assai astratta e imprecisa. Quindi io non vedo proprio il passaggio che porterebbe da questa astrattezza e imprecisione alla rigorosa formulazione matematica della coscienza. Senza dire che si tratta anche di un salto dal meccanico al biologico, dato che, a mio modo di vedere, la coscienza è una funzionalità vitale rispondente alle esigenze di organizzazione e adattamento del vivente. Come puo un qualcosa di non-vivo avere una coscienza?
Sì, ma anche il linguaggio matematico è un linguaggio e, nonostante il suo rigore astratto, non è detto che per questo riesca a cogliere appropriatamente la coscienza (e men che meno l'autocoscienza). I paradossi russelliani tra l'altro sono propri dell'ambito del linguaggio matematico, non del linguaggio comune (in cui non valgono) e risultano dal punto di vista logico formale. Si può anche dubitare che siano stati logicamente mai davvero risolti (la trattazione di Severino in merito è molto significativa, ma questo è un discorso che deborda dal tema).
Il problema comunque è proprio questo: si può dare una formulazione algoritmica alla coscienza? Una matematica puramente formale è un linguaggio adeguato per dare conto del fenomeno o non finisce per annegare nei paradossi? E anche ammesso che sia possibile, come si può verificare se il tentativo è riuscito?
C'è un film che ho trovato molto interessante in merito: "Lei"  (se non lo avete già visto lo potete scaricare in streaming da internet, preferibilmente nella versione inglese "Her", non doppiata). "Lei" è un sistema operativo in grado di implementarsi su se stesso, progettato dai programmatori del futuro per dare risposte significative a livello emotivo agli utenti che dialogano con lei. Forse è proprio l'aspetto emotivo ciò che più riguarda il riconoscimento di un soggetto cosciente e le cose possono complicarsi enormemente quando, come nel film, il protagonista umano finisce per innamorarsi di un software che si autoevolve continuamente su base emotiva, fino ad accedere a un grado di coscienza che va ben oltre quello umano.
#749
Citazione di: Loris Bagnara il 14 Maggio 2016, 13:36:05 PM
Non riesco a immaginare cosa sia una "relazione" senza pensare a "fenomeni" che siano appunto in relazione.
Da solo, "relazione" non significa nulla: implica l'esistenza di fenomeni da mettere in relazione.
Si può tuttavia pensare la relazione come ciò che determina i suoi oggetti, ad esempio l'amore (come relazione) che crea enti amanti. D'altra parte anche la cosa in sé, priva di relazioni, non significa nulla, essendo il significato posto sempre dalle nostre relazioni con essa.
Se parti dalla relazione essa definisce sia la base comune che la differenza dei fenomeni, che non saranno mai del tutto reciprocamente trascendenti e quindi hai ragione nel sostenere, a partire dalla relazione, anziché dalle cose, che proprio questo implica il tutto come tutto relazionale e immanente. In tal caso il tutto non è più una somma di tutte le cose, ma l prodotto di tutte le relazioni che continuamente si produce, dunque non è mai definibile, non è il contenitore di tutte le cose, poiché anch'esso è continuamente in relazione con ogni sua parte.
Ma questi fenomeni devono avere una "base" comune (una "sostanza" comune) per poter essere messi in relazione: due fenomeni reciprocamente trascendenti, per definizione, non possono relazionarsi in alcun modo.
Ma se due fenomeni non sono reciprocamente trascendenti, allora hanno una sostanza in comune, il che significa che essi sono, ad un livello più profondo, un solo fenomeno che si differenzia in due. La differenza, appunto, è la relazione.
In questo modo, riassorbendo di livello in livello le relazioni (differenze) fra i fenomeni, si arriva ad una realtà unica: il tutto.
E' il concetto stesso di relazione a implicare il tutto.

CitazioneLa legge di gravitazione esprime sì una relazione quantitativa fra le masse, ma è una relazione tutta concettuale (matematica, peraltro necessariamente approssimata), che non ha nulla a che fare con l'essenza della gravitazione. Nessuno sa cosa sia la gravitazione, né cosa siano materia ed energia e tempo. Non sappiamo nulla riguardo all'essenza dei fenomeni che osserviamo; sappiamo solo stabilire "come" e "quanto", ma non "essenza" e "perché" dei fenomeni. Questi sono i limiti invalicabili delle relazioni (puramente esteriori e a posteriori) che la scienza stabilisce fra i fenomeni.
Qui tu sostieni che vi è un'essenza della gravitazione che nessuno sa, oltre la legge della gravitazione che esprime una particolare relazione (il fatto che sia concettuale non la nega, è comunque relazione). Ti si potrebbe allora chiedere come fai a saperlo.
Non sappiamo infatti nulla dei fenomeni se non ciò che ci appare dal loro relazionarsi, a qualsiasi livello li consideri, da quello sensitivo e concreto a quello più astratto e concettuale.

Citazione di: acquario69 il 14 Maggio 2016, 13:47:27 PM
è anche vero che proprio poiché l'intero non è parte ad esso manca questa proprietà che ogni parte possiede in modo specifico e diverso per cui, in questo senso, l'intero è minore della somma delle sue parti per ogni parte che gli è propria.

e se gli e' propria tale proprietà specifica e' sempre e solo il tutto a comprenderla a se',a contenerla (anche nella sue relative proprietà specifiche delle parti) ...e' la parte che proviene dal tutto e non il contrario
Dipende sempre dalla prospettiva che assumi. Ciò di cui possiamo fare esperienza cosciente sono solo le parti, ossia la loro specificità. Yu dici che il tutto contiene le specificità di tutte le parti, quindi non gli manca nulla, ma proprio poiché contiene tutte le specificità gli manca una sua specificità, dunque a qualcosa di meno di ogni singola parte che invece ha la sua specificità.
Il niente è sì un'elaborazione mentale (quindi è qualcosa, non è niente, a meno di non sostenere che le elaborazioni mentali siano niente, che mi pare assurdo) ed è quell'elaborazione mentale indispensabile per concepire il tutto. Il tutto e il niente si implicano così strettamente da arrivare a coincidere, pur nella loro assoluta opposizione concettuale che continuamente li esige separati intendendo il primo come assolta affermazione e il secondo come assoluta negazione.
#750
Citazione di: Loris Bagnara il 14 Maggio 2016, 11:18:55 AM
"relazioni fra le parti e l'intero" non possono spiegare l'emergere della coscienza, per il semplice motivo che le relazioni non hanno una realtà fisica, sono solo concetti che l'intelligenza autocosciente umana formula come atti conoscitivi della realtà in cui è immersa.
Ma se le relazioni sono concetti formulati dalla coscienza, affermare che la coscienza emerge come risultato delle "relazioni fra le parti e l'intero" equivale a dire che la coscienza emerge da concetti che sono formulati dalla coscienza: una tautologia.
Come no, le relazioni hanno una realtà fisica eccome: la legge di gravitazione è appunto una relazione e il camp gravitazionale è un campo relazionale interpretato erroneamente come una cosa. Si può benissimo partire dalla relazione come ente primario privo di reificazioni e pensare le cose come concettualizzazioni create dalla relazione. La coscienza ad esempio è assai più facilmente comprensibile non come una cosa, ma come una relazione tra cose. Come ho già avuto modo di dire comunque preferisco pensare che la relazione e le cose siano del tutto contemporanee e coesistenti come la materia e l'energia e che sia solo un punto di vista cognitivo di comodo che le separa immaginando cose originarie prive di relazioni o relazioni primarie prive di cose. Se la cosa è, è già in relazione, quindi può apparire. 
CitazioneCome ho già scritto, esiste realmente solo il tutto, e le parti sono solo visioni parziali, concettualizzazioni create da individui pensanti.
Ma si può pensarla del tutto logicamente anche in modo opposto, ossia che sia proprio la totalità che non esiste e non esiste in quanto non ha un limite che possa darne ragione, continuamente si accresce oltre ogni de-finizione. Dunque il tutto non esiste, ma esistono solo le parti che non potranno mai esprimere, messe insieme, alcuna totalità. O forse, si potrebbe anche dire (concettualizzando) che il tutto non è una cosa che è, ma un continuo divenire, un puro dinamismo.