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Messaggi - davintro

#76
Citazione di: viator il 02 Novembre 2020, 14:49:19 PM
Salve davintro. Citandoti . "L'idea di un metafisico che rigetta in toto le scienze empiriche, che quando sta male preferirebbe rivolgersi a un teologo o a uno sciamano anziché a un medico i cui studi siano scientificamente riconosciuti è solo una caricatura".


Ma "metafisica" significa "oltre la fisica" (cioè in sè estraneo alle fondamentali leggi della fisica) e quindi se dal punto di vista umano è ovvio che il metafisico, l'esoterista od il credente risultino incoerenti nel volersi affidare - a seconda dei casi - a medico, sacerdote praticone o sciamano (o, meglio ancora a tutti e quattro.....sai mai che di qui o di là ci prendo !), dal punto di vista logico e filosofico è chiaro che I FONDAMENTI della scienza e quelli della metafisica o dell'astrologia o della religione si negano a vicenda, per cui bisogna stabilire quale dei tre ambiti sia quello che ospita la più "corretta ed efficace" visione del mondo e prendere a credervi coerentemente. Saluti.


Ammettere fondamenti metafisici su cui ogni altro sapere poggia non cancella la validità dei fondamenti immanenti alle scienze particolari e quindi la loro autonomia metodologica, a meno di non confondere la necessità dei fondamenti metafisici in relazione agli altri, con una presunta sufficienza di quelli per rendere ragione di questi. Sarebbe come pensare che il lavoro di costruzione delle fondamenta di una casa renda inutile il lavoro di costruzione dei piani superiori che sulle fondamenta poggiano, che basti conoscere le regole degli scacchi per essere abili giocatori, che lo studio delle basi di cultura generale che apprendiamo alle scuole Elementari renda inutile quello che si studia nei cicli superiori. Fuor di analogia, i princìpi metafisici costituiscono il livello originario della realtà da cui derivano gli altri appannaggio delle scienze particolari, e gli altri livelli proprio in quanto hanno una natura differente da quello che li fonda, necessitano di essere indagati con un metodo ad hoc, distinto da quello adeguato a indagare il livello originario. Per questo non c'è alcun conflitto e sovrapposizione, una volta che i diversi saperi mettono bene a fuoco i loro specifici oggetti, le loro relazioni, ma anche le loro differenze

#77
Citazione di: and1972rea il 01 Novembre 2020, 19:55:14 PM
Citazione di: davintro il 25 Ottobre 2020, 19:23:07 PM
Il che non vuol dire affatto squalificare i risultati delle neuroscienze, ma delimitarne la validità all'interno di un livello antropologico parziale, quello materiale, che non si sovrappone e non si sostituisce al livello più interiore ed essenziale, la componente formale del soggetto che pone l'Io, che è quello propriamente filosofico e metafisico, che procede sulla base di una razionalità ad hoc, non empirica nel senso del verificazionismo positivista, ma fenomenologico e poi deduttivo/speculativo
Riconoscersi allo specchio ,riconoscendosi soltanto nel proprio Sé fisicamente corporeo , per molti potrebbe voler dire identificarsi in tutto e solo ciò che la scienza può dire riguardo al corpo inteso come entità spaziotemporale; e le conseguenze sul piano antropologico di questo atteggiamento , ormai piuttosto generalizzato, sono significative e diffuse; la verità "relativa" ma ormai egemone delle scienze rischia oggi di ridurre gli uomini ed i loro corpi ad un insieme di atomiche entità platoniche fraintese come essenziali e di calare le loro esistenze in altrettanti modelli disegnati  dalla ragione. Definire L'IO (ma è logicamente troppo anche il solo poterlo "definire") come soggetto e agente assoluto, come lampada da scrivania che non può auto illuminarsi, non "oggettivizzabile", e quindi non trattabile da alcuna indagine che studia i fenomeni come oggetti, a mio avviso,  non è sufficiente per spiegare razionalmente l'impossibilità da parte della scienza  di poter  dichiarare L"IO"  clinicamente morto leggendo un elettroencefalogramma piatto.


Precisazione importante: nel mio messaggio cercavo di riferirmi, pensando di stare nello spirito del topic aperto, alla questione della natura spirituale/materiale dell'Io, questione distinta da quella dell'eventuale indipendenza, nel senso di sopravvivenza, dell'Io rispetto alla morte corporea (l'elettroencefalogramma piatto), che aprirebbe il problema dell'anima immortale, che è collegato a quello dell'Io, ma ha una sua autonomia. Riconoscere, e in ciò concordo, una natura spirituale all'Io, alla luce della sua inoggettivabilità, non implica l'idea di un'Io, o meglio, a questo punto, di un'anima, che continuerebbe a vivere slegata dal corpo. Il fatto che l'Io non sia riducibile a oggetto materiale non comporta necessariamente che per il suo attuarsi non sia necessario il corpo inteso come strumento, o per meglio dire, supporto: un conto è ammettere l'insufficienza della materia a render ragione dell'atto soggettivo dell'Io (il punto che ho provato ad argomentare), un altro è ricavare da tale insufficienza anche una non-necessità di un supporto materiale, cerebrale per il vivere e l'esistere di tale Io (punto che qua ho lasciato tra parentesi)


Per Viator


"credere" (ma il termine non sarebbe così adeguato, essendo la metafisica disciplina razionale per eccellenza, al netto delle umane lacune di rigore argomentativo che le configurazioni storiche della metafisica hanno mostrato) a fondamenti spirituali o metafisici non implica il precludersi al riconoscimento di validità delle dimostrazioni scientifiche, ma semplicemente ammettere ACCANTO E NON IN CONTRAPPOSIZIONE al livello fisico della realtà appannaggio delle scienze naturali, un livello intelligibile e spirituale, indagabile con una specifica modalità argomentativa, il modello di razionalità deduttiva, che inferisce a partire da princìpi di verità evidenti come quelli della logica formale, e dall'analisi delle relazioni tra i concetti colti nelle loro definizioni generali. L'idea di un metafisico che rigetta in toto le scienze empiriche, che quando sta male preferirebbe rivolgersi a un teologo o a uno sciamano anziché a un medico i cui studi siano scientificamente riconosciuti è solo una caricatura: un metafisico serio non ha alcun problema a riconoscere al medico la competenza riguardo ciò che a che fare con la corporeità, fintanto che quest'ultima non si pretenda di allargarla alla realtà dell'uomo nella totalità degli aspetti. Ma un medico, nella misura in cui fosse alla presa con pensieri di questo genere, cesserebbe di essere tale, e si porrebbe come filosofo (e metafisico) a sua volta
#78
nel momento in cui dico "Io" mi sto riconoscendo come soggetto dei miei pensieri o delle mie azioni, e dunque sto attribuendo al mio essere l'idea di un'unità per cui il complesso dei miei impulsi psichici e la mia spazialità corporea non si disperdono mai totalmente, ma sono delimitati sulla base di un'idea di soggetto, di identità che pensa e agisce sulla base di una certa qualità interiore, una certa direzione che orienta i miei atti. Il contributo di Cartesio, poi recuperato dalla fenomenologia husserliana, per cui proprio la sospensione delle cose dalla loro condizione di "fatti esistenziali" per recuperarli come fenomeni costituenti la coscienza, è il presupposto per svolgerne un'analisi sotto il segno dell'evidenza, sta nell'affermazione che l'eventuale dubbio circa l'effettiva realtà di questa unità identitaria autopercepita dall'Io, potrebbe riguardare solo la realtà esterna all'autocoscienza, ma non il vissuto stesso soggettivo autocosciente (l'Io): anche se mi illudessi, l'illusione riguarderebbe la corrispondenza fra vissuto soggettivo dell'Io e oggettiva realtà del mio essere, il Sé, che nella sua oggettività comprende il complesso delle relazioni con cui il mondo esterno, tramite la materia, interviene sulla mia identità, ma non l'atto stesso di un soggetto genericamente, cioè trascendentalmente, inteso che si illude su aspetti della sua persona. Posso dubitare, errare sul mio "Sé, ma non sul mio Io. La fallibilità del giudizio sul mio Sé è data proprio dalla componente di materialità che lo costituisce: in quanto, anche, corporeo, il Sé è aperto (materialità come passività nell'accezione aristotelica a cui forse Cartesio stesso resta fedele) agli influssi ambientali del mondo esterno, che in quanto alterità rispetto alla mia soggettività pensante, resta una dimensione mai pienamente trasparente, e questa opacità si trasferisce al Sè nella misura in cui l'esterno incide su di esso. Posso ammettere la possibilità che il fatto di aver due gambe anziché 4 sia un inganno che subisco fin dalla nascita, oppure di aver un'allucinazione e di essere in questo momento in Francia anziché in Italia, tutti aspetti del mio Sé in qualche modo legati alla dimensione corporea, mentre, che mi illuda o meno, esiste senza dubbio l'atto dell'Io che si interroga e riflette sul proprio Sé, attribuendogli una certa idea, un'unità individuale, una forma, ed essendo la forma interruzione della continuità spaziale e materiale, quest'atto di unificazione è attività spirituale, che non è idea astratta, nel senso in cui l'empirismo erroneamente associa tutto ciò di ideale all'astratto, ma concreta attività psichica tramite cui l'Io sa astrarsi, anche se limitatamente, dalla materialità del proprio Sé per tematizzarlo, metterlo in discussione, limitarlo sulla base di una forma. In sintesi, se il Sé, complesso delle nostre proprietà oggettive, inserito in una rete di relazioni causali con il mondo esterno, è unità di spirito e materia, l'Io atto di pensiero autocosciente, è pura spiritualità, e ciò gli rende possibile l'astrazione e l'oggettivazione del proprio Sè, che come materia, "subisce" passivamente la valutazione dell'Io. Se fossimo Dio, puro spirito, piena coincidenza tra Io e Sè, nessuna possibilità di illusione su di sé sarebbe possibile, proprio in quanto si darebbe coincidenza totale tra autocoscienza soggettiva, Io e suo oggetto riflesso, Sè, senza alcuna interferenza dell'esterno, che invece nell'uomo incide per il tramite della componente materiale.


Il problema della spiritualità/materialità dell'Io è un problema specificatamente filosofico, non neuroscientifico o di qualsivoglia altro sapere fisicalista, in quanto qualunque sapere poggiante sull'esperienza dei sensi, cioè ponente il proprio oggetto di studio come esterno rispetto all'osservatore, non può che limitarsi all'indagine della componente più superficiale, di esso, quella predisposta a corrispondere all'osservazione sensibile, alla materia, ma non può dir nulla sull'esistenza o meno di una componente spirituale, proprio perché il loro fondamento epistemico è per definizione inadeguato a occuparsi di tale componente. Se ci si vuole occupare dell'Io occorre procedere all'interno di un punto di vista il più possibile contiguo all'Io stesso, e se definiamo l'Io come "autocoscienza", allora è solo l'analisi dei vissuti in prima persona, registrando ciò che è essenziale in loro mettendo fuori circuito le componenti accidentali secondo l'insegnamento fenomenologico, ciò entro cui possiamo averne un'esperienza autentica. Non si può studiare l'Io con l'osservazione esterna, perché tale scelta metodologica assume come premessa pregiudiziale la posizione materialista: ciò che non è osservabile esteriormente, con i sensi, non può esistere, quindi vado a cercare l'Io dove già in partenza è scontato non potrei averne che manifestazioni fisiche, o comunque direttamente condizionate dalla fisicità del mondo esterno. Il che non vuol dire affatto squalificare i risultati delle neuroscienze, ma delimitarne la validità all'interno di un livello antropologico parziale, quello materiale, che non si sovrappone e non si sostituisce al livello più interiore ed essenziale, la componente formale del soggetto che pone l'Io, che è quello propriamente filosofico e metafisico, che procede sulla base di una razionalità ad hoc, non empirica nel senso del verificazionismo positivista, ma fenomenologico e poi deduttivo/speculativo
#79
Citazione di: Jacopus il 25 Settembre 2020, 14:53:34 PM
CitazioneL'aspetto sartriano è ego-centrico, narcisista, ma non in termini denigratori, necessariamente e logicamente così si finalizza, si avvita su se stessa. Perchè tutte le manifestazioni sono riflessive, prendono senso nel pensiero individuale senza un confronto, sono prive di ontologia. Significa che la libertà ,sempre sartrariamente, può caricarsi di responsabilità, ma diventa un atto e una scelta individuale e individualistica: una aleatorietà, in quanto la morale è priva di fondamento (per quale motivo un uomo dovrebbe essere responsabile? )[/size]


Il pensiero sartriano è tutto, fuorché egocentrico e narcisista. In realtà è uno dei primi tentativi,  dai tempi di Socrate, di fuoriuscire da narrazioni "dominanti e deresponsabilizzanti", facendo carico all'uomo, alla sua nudità di organismo vivente, la necessità di domandarsi e agire in un mondo senza dei, né celesti né terreni. L'esistenzialismo espone un corpo e dice questo è un corpo con la sua storia, la sua sofferenza, la sua felicità,  abbine cura, sforzati di comprenderlo nella sua unicità, e comprendi anche la sua malvagità, la sua incomprensibilitá, la sua follia, la sua irriconoscenza, la sua debolezza. E fa questo senza chiedere in cambio alcuna conversione. È questo il tratto distintivo fondamentale, che riconduce ovviamente al nichilismo ma anche al principio responsabilità di Jonas. Non siamo più soggetti morali perché ubbidienti ad un dogma, ma dobbiamo noi responsabilmente, darci il dogma da seguire. E a questo dogma si deve rispondere. Ma non potrà mai essere un dogma qualunque. Un esistenzialista non potrà mai essere uno sterminatore alla "Dio riconoscerà i suoi", proprio perché ogni vita deve essere riconosciuta come unica, preziosa, irripetibile.
Scoomodando Kohlberg e i suoi stadi dell'agire morale, l'esistenzialismo si pone nella fascia dell'agire morale post-convenzionale, fondato su principi universali che scaturiscono dal singolo ma che, proprio attraverso il rispetto di ogni singolarità, trova il senso in un umanesimo che connette il pensiero greco con l'illuminismo, negando però l'ingresso ai mostri della ragione (scientismo, marxismo, fascismo) figli degeneri dell'illuminismo stesso.


la responsabilità presuppone l'autonomia e l'autonomia richiede l'ammissione di una dimensione di interiorità, autonoma, per l'appunto, dai condizionamenti esteriori al soggetto, indicante un'idea di personalità autenticamente "propria" a partire da cui trarre i criteri delle proprie scelte libere. Ovviamente non penso a una chiusura a compartimenti stagni interno-esterno, ciò che da questa dimensione interiore deriva è sempre mescolata, nel complesso della storia delle azioni, con le influenze esterne, ma andando per analisi, considerandola di per sé, essa indica comunque una tendenza originaria in atto sin dal primo istante della storia dell'ente, che Aristotele aveva genialmente colto nel concetto di "entelechia", divenire come dispiegamento di un senso predefinito, dall'uovo di gallina  procede una spinta alla nascita della gallina e non di un fagiano. Ora, la posteriorizzazione dell'essenza rispetto all'esistenza è proprio ciò che cancella questa dimensione interiore, in quanto l'esistenza, cioè il determinarsi all'interno delle contingenze ambientali, le relazioni con il mondo esterno. è ciò che in quest'ottica produce l'essenza, cioè l'identità interiore, la spinta a realizzare una certa idea di sé al di là di ciò che è altro da sè. Insomma, l'esteriorità precede e produce l'interiorità, le relazioni producono l'identità. Ed ecco che parlare di autonomia e responsabilità non ha più senso, non c'è più nulla di "auto", privata dell'essenza, l'esistenza resta il prodotto fortuito di circostanze e fattori esterni al proprio essere, se fossi vissuto in tempi e luoghi diversi avrei compiuto scelte diverse, e per questo non c'è alcuna responsabilità, perché non c'è alcuna identità originaria, alcuna "davintrità" da considerare e giudicare a prescindere da ciò con cui mi è capitato di imbattermi. In questo senso l'assunto esistenzialistico della precedenza dell'esistenza sull'essenza mi pare stare di fatto nella stessa linea antropologica dell'empirismo moderno, anche se utilizzando categorie e terminologia ben diverse: senza un'essenza autonoma dalle esperienze del mondo esterno, l'uomo nasce tabula rasa su cui si accumulano progressivamente le conseguenze di queste esperienze, che l'esistenza può solo subire, ma non affrontare attivamente, dato che privata di un'essenza originaria, non sarebbe più caratterizzata da alcuna tendenza intrinseca a partire da cui poter selezionare e rielaborare in modo libero e soggettivo i contenuti dell'esperienza esterna. Che libertà ci può essere in un vaso vuoto da riempire successivamente al suo essere reale (o "imbuto" direbbe la Azzolina...)?




Per Lou


bisognerebbe capire se queste rielaborazioni delle categorie ontologiche tradizionali che l'esistenzialismo opera debbano essere intese più su di un piano strettamente terminologico, oppure più come implicante una prospettiva teorica ben distinta, non solo linguisticamente, ma anche nel suo contenuto generale di immagine della realtà, rispetto alla metafisica classica. Nel primo caso basterebbe chiarire le nuove definizioni, intendere i significati che l'esistenzialismo attribuisce a "essenza" o a "esistenza" e a partire da ciò rivedere i giudizi circa la sostenibilità logica delle sue posizioni. Nel secondo caso, mi pare che questo diverso complesso di premesse teoriche andrebbe ricercato in una concezione di tipo indeterministico e irrazionalistico della realtà, in cui il caso invece di esser visto, come lo vedrei io per il nulla che conta la mia opinione, come ignoranza, relativa ai limiti soggettivi della nostra conoscenza, assurge a corretta risposta ai quesiti ontologici e metafisici sul perché delle cose, senza alcuna causalità ad imprimere delle tendenze, per l'appunto, essenziali, nelle loro correlazioni agli effetti, ai vari aspetti della realtà che si cerca di spiegare. Concezione a cui si unisce una definizione in chiave anticompatibilista della libertà, libertà come assoluta e generale assenza di necessità, che sarebbe reale proprio in quanto espressione dell'indeterminismo che caratterizza, per l'appunto, la realtà. In favore di questa seconda ipotesi si potrebbe considerare un, per quanto minimale e grossolano, inquadramento storico, per il quale l'esistenzialismo, a partire dall'inizio degli studi su Kierkegaard, si sviluppa nei primi del 'Novecento sulla spinta di un clima culturale di reazione ai sistemi idealistici e positivisti ottocenteschi, alle loro pretese di vedere la storia come progresso lineare e razionale governato da una logica necessità. Questo clima di reazione si caratterizza appunto per certi toni irrazionalisti e vitalisti di cui possiamo trovare espressione in un Nietzsche o anche, per certi aspetti, a un Bergson
#80
dal punto di vista etico, direi che non si danno necessarie implicazioni dalla risposta alla questione della precedenza dell'esistenza sull'essenza o viceversa, in quanto, in accordo alla legge di Hume, non c'è alcun nesso di necessaria deduzione logica dall' "essere" al "dover essere". I giudizi morali esprimono sempre preferenze sentimentali arbitrarie, non ricavabili dalle posizioni in sede teoretica o ontologica riguardo la questione del rapporto essenza-esistenza, che inerisce al problema, non di come le cose dovrebbero essere, ma di come oggettivamente sono. Anche ammettendo una precedenza dell'essenza, questo non potrebbe impedire a chiunque di considerare la mia natura essenziale come sgradevole e auspicare di attribuirmene una diversa, squalificandola in questo modo, proprio perché le considerazioni di valore viaggiano su binari paralleli rispetto a quelle di fatto. Resta il fatto che una precedenza dell'esistenza sull'essenza resta un assurdo teoretico. Intendendo per esistenza il carattere di attualità, di dinamicità di un ente, e per essenza il "quid", la natura intrinseca in base a cui è possibile definirlo in un certo modo, allora la precedenza dell'esistenza dovrebbe implicare che io, come esistenza, avrei in un certo tempo del mio esistere, scelto, prodotto a posteriori la mia essenza, il mio essere "uomo", anziché cane, gatto ecc. L'assurdo sta nel fatto che in questo caso il contenuto di questa supposta scelta sarebbe espressione di una libertà che agisce nel vuoto, nell'indeterminato, nella totale assenza di cause, di motivazioni che determinerebbero la direzione della scelta. Sarebbe una libertà frutto del caso, ma considerando che il caso è solo il nome con cui definiamo la nostra ignoranza, ciò che è oltre i limiti della nostra conoscenza (che è sempre sapere di cause), motivare le scelte dell'esistenza riguardo l'assunzione di un'essenza anziché un'altra con il caso, non può essere una risposta fondata sulla realtà oggettiva, ma solo un'ammissione di ignoranza che è un problema della nostra mente soggettiva, non delle realtà. L'essenza non succede, cronologicamente o logicamente, all'esistenza, non ne è prodotto arbitrario, ma è quella tendenza originaria che orienta l'esistenza a realizzarsi in una direzione anziché un'altra. Non c'è mai stato un momento in cui, come esistenza abbia scelto di assumere l'essenza "umanità", anziché "gattità", o "canità" (faccio l'esempio di specie, per chiarire meglio il discorso, ma vale anche per l'essenza individuale come avere un certo tipo di personalità, di carattere, anziché un altro). Fin dal primo istante del mio esistere, dal concepimento, l'umanità, essenza dell'uomo, è ciò che ciò che ha impresso una intrinseca direzione predefinita al mio sviluppo, al netto degli accidenti legati alle influenze esterne, che si inseriscono all'interno della direzione originaria, possono ostacolarla, ma mai annullarla tout court. Né si può dire che l'essenza preceda l'esistenza: per farlo dovrebbe porsi come causa efficiente, motore che concretamente crea un'esistenza dal nulla, per fare questo dovrebbe essere realtà a tutti gli effetti, mentre invece l'essenza è idea (in un senso diverso però dalla pura astrazione a cui la relega l'empirismo, è idea che però incide per altri aspetti sul modo d'essere delle cose). Essenza ed esistenza non si succedono, convivono in contemporanea in ogni realtà rendendo in modi distinti ragione del suo essere. Senza esistenza, solo come essenza, la cosa resterebbe pura possibilità ideale priva di realtà, senza essenza l'esistenza sarebbe solo assurdo caos impossibilitato ad assumere una qualsivoglia determinazione (o qualunque scelta), resterebbe tutto e il contrario di tutto, ciò che la logica intende nei suoi princìpi come impossibile
#81
Ipazia scrive:


"La teoria dei bisogni mi pare non si limiti al piano terra della piramide di Maslow. Nei piani successivi di etica "idealistica" ve n'è molta. Ma sempre su quella base "fallacemente" naturalistica essa insiste, la cui assenza o degrado finisce col compromettere tutto l'edificio. Insomma: per gustare un bel cielo stellato e godere del piacere della convivenza sociale, di arte e scienza, la pancia vuota non è opzionale."[/size]

Penso che qua occorra distinguere due diversi piani di relazioni: Un conto è una necessaria condizionalità, per cui la pancia piena è condizione necessaria per godere della bellezza estetica, del valore della vita contemplativa, del livello, diciamo, idealistico-spirituale. Che questa relazione sia reale, credo nessuno possa mettere in discussione. Un altro è dedurre da essa una superiorità assiologica, etica del gradino basso, la condizione, rispetto ai gradini elevati, ciò che la condizione rende possibile. Dal mero fatto che a pancia vuota nessun bene spirituale possa essere goduto non discerne alcuna superiorità etica delle esigenze delle pancia rispetto a quelle dello spirito, ma solo che l'assolvimento delle prime renda possibile di fatto le seconde. Ma nulla impedisce che una volta resi disponibili i beni spirituali questi non si possano considerare più nobili rispetto a quelli, pur necessari, che hanno permesso il loro conseguimento, né che si valuti una vita composta solo da beni primari come necessariamente legittima da proseguire. Sarebbe come se arrivando a Roma tramite treno, debba sentirmi eticamente obbligato, invece che godere delle bellezze della Città Eterna, a continuare a venerare il treno che mi ha consentito di raggiungere la città, di considerare il treno più intrinsecamente importante per la mia vita rispetto alla bellezza artistica, l'unica cosa che dato al treno una sua ragion d'essere. Sarebbe puro e cieco utilitarismo. E anzi, troverei molto più sensata la posizione aristotelica, per cui proprio in quanto un certo bene è mezzo per conseguire un altro che resta invece fine a se stesso, questo debba essere giudicato eticamente inferiore all'altro, proprio perché mentre quest'ultimo avrebbe in se stesso il suo fine, esso trae il suo fine dall'esterno, cioè dall'essere condizione di altro da sè
#82
un'etica fondata sulla soddisfazione dei bisogni primari/materiali ha senso come arbitraria, per quanto legittima, preferenza individuale, che considera la soddisfazione delle esigenze spirituali, la creatività artistica, la conoscenza, come un'opzione accidentale. Chi sceglie il suicidio, il martirio, cioè antepone il sacrificio della sua vita biologica per la lotta per un ideale, oppure riconosce il suo vivere come condizione non più degna di essere perseguita, formula un giudizio di valore, utilizza la categoria di giustizia, applicandola al proprio vivere, ed in questo modo mostra una facoltà di astrazione, che lo porta a trascendere la biologicità, relativizzandone il valore sulla base di un principio superiore, sia esso un'ideale personale di "vita degna di essere vissuta" potenzialmente distinto dalla fattualità della vita attualmente perseguita, oppure un ideale collettivo di giustizia sociale e politica in nome del quale si è disposti al sacrificio di sé (Jan Palach). Se l'etica coincidesse con la biologia non avrebbe alcuna possibilità di oggettivarla in una valutazione, in un giudizio in cui porsi il problema di un suo superamento, immaginare un'alternativa alla vita biologica esprime una dimensione spirituale nell'uomo responsabile di questo idealizzare. Ed ecco perché l'etica ha come condizione necessaria la spiritualità del soggetto che formula giudizi etici. Chi vedesse la vita biologica come valore universale (vedo che "assoluto" è un termine troppo contestato) formulerebbe un giudizio, non sulla base della biologia (la materia pura in quanto tale non è capace di autoriflessione, e l'esperienza sensibile non è  commisurata a pensare in termini di universalità. Tocco, vedo, sento questo particolare oggetto, non certo l'idea di universale) ma sulla base di una spiritualità che attribuisce tale valore alla biologia, alla vita corporea, che però non sarebbe il fondamento etico del giudizio, ma l'oggetto che passivamente viene rivestito da tale eticità. Se noi fossimo corpo e basta non potremmo neanche formulare questo giudizio, dato che non potremmo rendere il corpo oggetto di tale valutazione, cioè non potremmo nella riflessione cosciente distaccarcene per oggettivarlo
#83
Tematiche Filosofiche / Re:Il nulla come concetto
24 Agosto 2020, 22:50:46 PM
rispondendo a Bobmax


mi pare che "esistente" possa intendersi come sinonimo di "reale", attualizzazione dell'Essere in un ente dotato di un potere causale con cui interagire direttamente con il resto delle cose, oppure come puro sostantivo, ipostasi dell'Essere, sinonimo di ente. Nel primo caso, l'esistenza come realtà, l'attribuzione di proprietà nei giudizi non è limitata ad essa, ma si estende all'Essere nella sua generalità, comprendente anche il modo in cui si dà come Essere ideale. In questo caso, l'unicorno sarebbe nell'Essere, ma non nell'esistenza, in quanto non reale, ma ente fantastico. E la non esistenza non gli precluderebbe la possibilità di essere oggetto su cui formulare dei giudizi, in quanto, anche riconoscendolo come ente fantastico, possiamo immaginarlo attribuendo delle proprietà che lo definiscano nella sua idea, cioè dando dei giudizi su di lui (l'unicorno che mi sto mentalmente immaginando è bianco, sta correndo ecc.) Dunque l'esistenza  non è condizione necessaria della giudicabilità, la condizione necessaria è l'Essere, che rende possibile la giudicabilità circa le proprietà di enti immaginari o astratti. Se invece intendessimo l'esistenza come sinonimo di "ente", cioè ogni possibile determinazione dell'Essere, comprendente non solo cose reali, ma anche astratte-immaginarie, in questo caso, a maggior ragione troverei contraddittorio che la giudicabilità di ciò che esiste non fosse anche giudicabilità di tutto ciò che è, con l'intuizione dell'idea di Essere come condizione necessaria di ogni possibile giudizio, dato che la differenza tra Essere ed esistenza sarebbe di fatto solo grammaticale, sintattica, l'Essere come infinitivo dell'esistenza, ma tutto ciò che esiste sarebbe essere, e viceversa, ed entrambe le nozioni sarebbero allo stesso modo respingenti del Nulla e del negativo, come contrari e opposti, non ci sarebbe alcuna differenza semantica, di riferimento a diversi ambiti ontologici, come era nel primo caso, con l'esistenza comprendente solo oggetti reali, e l'Essere comprendente anche enti immaginari-astratti come l'unicorno
#84
rispondendo a Phil (purtroppo da un pò di tempo non riesco più a citare messaggi, forse un problema tecnico col mio pc)


"credere nell'assolutezza di un principio etico" è un'espressione insensata, in quanto la credenza è una categoria che vale solo sul piano teoretico, non etico, si "crede" sempre nell'oggettività di uno stato di cose fattuale (anche quando la credenza non è supportata da argomenti razionali), non nel valore di un "dover essere", che in quanto ideale e non fatto, non è mai riconoscibile come qualcosa che è al di là della volontà di un soggetto, ma è da tale volontà posto. Questo vuol dire che in etica l'assoluto si debba intendere in modo diverso da come se ne parla in teoretica, in etica non si tratta è di assoluto da intendersi come oggettività indifferente alle arbitrarie preferenze individuali, ciò però non toglie che ciascun individuo necessiti, nell'assunzione di una scala di valori etici, di considerare tale scala come un assoluto, non nel senso di porla come necessaria per ogni altro individuo, intersoggettivamente, ma in relazione alla sua coerenza individuale, di porla come ideale regolativo da applicare in ogni circostanza della sua vita, onde evitare il caos e la paralisi delle scelte, dovuta all'incapacità di discernere quali valori siano PER LUI/LEI più o meno importanti, cioè posizionati ai vari gradini della scala. Che questo "assoluto individuale" meriti o meno di essere definito "assoluto", che si debba definire "assoluto debole", annacquato rispetto alle accezioni di assoluto delle metafisiche, delle morali tradizionali, penso sia una questione più terminologica che sostanziale. Mi limiterei a dire, che, stando all'etimo del termine, assoluto, come "sciolto dai legami", indipendente da ciò che è altro da sé, questa scala di valori etici, pur posta arbitrariamente da ciascun singolo, nel momento in cui diviene regola universalmente applicabile in ogni circostanza esistenziale, mostra comunque di trascendere la particolarità di tali circostanze, di esserne indipendente, "sciolta", e dunque non così assurdamente definibile come "assoluto". L'individuo la sceglie arbitrariamente, liberamente, ma la sceglie al fine di porla come regola da rispettare nel modo più universale possibile, al netto di ogni debolezza o incoerenza che di fatto (ma non di diritto) sempre accade
#85
Tematiche Filosofiche / Re:Il nulla come concetto
23 Agosto 2020, 00:16:45 AM
la realtà non può essere il Nulla, perché essendo il polo intenzionale a cui ogni giudizio è riferito nel mirare a rispecchiarla nella verità, allora ogni giudizio, cioè attribuzione di un predicato a un soggetto, deve necessariamente affermare qualcosa circa il soggetto a cui si riferisce le sue proprietà. Ma se l'essere è l'idea che consente di affermare in generale qualcosa di qualcuno, cioè attribuzione di presenza, allora la realtà, come complesso di soggetti a cui attribuire predicati, cioè proprietà, non può essere il "Nulla", ma qualcosa di cui si può sempre attribuire delle proprietà che la determinano in un certo modo. Nulla è la totale assenza di predicati da poter attribuire a ciò che definiamo come tale, dunque è ingiudicabile, se non derivandolo, dialetticamente e indirettamente, dal suo opposto, cioè l'Essere, questo sì, totalità di tutto ciò di cui possiamo avere una diretta esperienza. Ma se il Nulla è ingiudicabile, allora non può nemmeno essere Reale, dato che, essendo la realtà necessario oggetto di riferimento di ogni giudizio, dovrebbe essere costituita in modo da ricevere le predicazioni del giudizio, cioè costituirsi come Essere (anche se l'Essere ha un'estensione più ampia della realtà). E non vale l'obiezione per cui si cercherebbe di ammettere una contrapposizione tra il complesso delle nostre potenzialità giudicanti, necessitanti di porre come oggetto di riferimento l'Essere, e la realtà che invece, resterebbe Nulla ingiudicabile e irrazionale: tale obiezione sarebbe pur sempre un giudizio, e dunque dovrebbe rientrare nella logica entro cui è necessario riferire la propria presunta verità (corrispondenza al reale) all'Essere, soggetto delle predicazioni attribuite a un giudizio, dunque contraddirsi nel presumere di porre fuori dall'Essere, nel Nulla, il suo oggetto
#86
Tematiche Filosofiche / Re:Il nulla come concetto
22 Agosto 2020, 00:16:18 AM
Citazione di: Ipazia il 21 Agosto 2020, 22:04:13 PM
Certo che il nulla é pensabile anche tenendo i piedi saldamente a terra e senza scomodare l'essere mitico denominato Essere: una stanza vuota, e - ancor più tragicamente - una cassaforte vuota, non contengono nulla. Il nulla é una variante del vuoto ed uno spazio vuoto, fatto salvo il contenuto di aria elastica incolore inodore insapore e oltremodo ospitale, é assolutamente  ;)  esperibile.


non sono un fisico, ma non credo che il vuoto della fisica sia assimilabile al Nulla filosofico... se anche l'atmosfera può essere studiata, analizzata nelle sue microcomponenti chimiche, nei suoi elementi massimamente semplici (chiedo scusa per la probabile terminologia imprecisa da profano naturalista), vuol dire che è pur sempre "qualcosa", un "non-nulla", a cui sono attribuibili delle proprietà positivamente presenti, per cui siamo sempre nel campo dell'Essere. E anche, ammesso e non concesso, che questo vuoto sia identificabile col Nulla, dovremmo ammettere l'effettiva realtà del Nulla, ma non ancora la sua originarietà nel pensiero, il suo essere diretto contenuto di esso. Il vuoto della cassaforte è in realtà un pensiero che deriva dalla percezione delle pareti non coperte da alcun oggetto, percezione del loro colore, che non è Nulla, ma rifrazione dell'ente "luce", qualcosa di positivo, e il senso del vuoto/nulla non è propriamente reale, ma espressione psicologica della delusione di un'aspettativa, l'aspettativa di trovarci del denaro che non c'è, mentre l'insignificanza (relativa alle nostre aspettative, si intende) delle pareti ci comunica l'apparenza del vuoto, dell'assenza, che però è sempre assenza relativa, e esperita in modo derivato
#87
la verità non è una categoria propriamente etica, in quanto riguarda giudizi di fatto e non di valore. In etica parlare di assoluto è apparentemente più difficile, perché il criterio di giudizio non è la corrispondenza a una realtà oggettiva, ma un sistema di valori dato dalla sensibilità soggettiva, senza che ci sia una razionalità a sancire la superiorità oggettiva di un sistema valoriale personale rispetto a un altro. Questo però non vuol dire che l'Assoluto sia in quest'ambito una nozione insensata o inutilizzabile... Anche se non ci sono ragioni oggettive a dimostrare la necessità della mia scala di valori morali, in ogni caso questa scala verrà da me assunta come assoluto criterio regolativo in base a cui giudicare la misura di come un'azione appaia giusta o meno. Anche se di tipo diverso rispetto alla teoretica, anche l'etica si configura come complesso di giudizi richiedente criteri che, fintanto che rimandino a delle condizioni estrinseche per la loro validità, cioè non assoluti, resteranno sempre inadatti a fondare la legittimità morale dei nostri giudizi e delle azioni che da essi conseguono. Il confronto intersoggettivo, la promozione dell'istruzione e del senso critico ecc. sono necessità che hanno ragion d'essere solo in quanto si ritenga giusto evitare un modello di società dove alcuni gruppi presumano di poter imporre violentemente i loro valori al resto delle persone. Ma questo "ritenere giusto" implica a sua volta un ideale regolativo di"giustizia" da assumere come parametro, e che si definisce come rispetto per la persona umana, contro ogni discriminazione arbitraria e violenta. Il relativista etico che teme che la nozione di Assoluto sia lesiva della convivenza in una società multiculturale, composta da individui di diverse convinzioni religiose/filosofiche/etiche, implicitamente pone la condanna della violenza e della sopraffazione come valore assoluto, quindi assume, pur non potendone dimostrare una razionalità oggettiva, non riguardando la teoretica, un ideale regolativo di "giustizia" definito in un certomodo, da qui la difesa del principio di tolleranza, fosse un relativista davvero coerente non potrebbe avere nulla in contrario rispetto violenza e sopraffazione (se non un indefinito e vago disgusto estetico, al massimo), perché non avrebbe criteri assoluti a partire da cui definire il suo modello ideale di società basata sulla convivenza pacifica
#88
Tematiche Filosofiche / Re:Il nulla come concetto
21 Agosto 2020, 19:10:53 PM
ogni atto di pensiero, inteso come atto entro cui ad un certo contenuto di pensiero sono attribuite delle proprietà, dei significati, implica necessariamente che il contenuto cada all'interno dell'idea dell'Essere, cioè che quello che sto pensando sia un "non-Nulla", qualcosa di cui poter affermare, positivamente, delle determinazioni che lo specificano come ente costituito in un certo modo. Dunque sembrerebbe che il Nulla non sia pensabile, ma se così fosse in senso rigoroso, evidentemente, non potremmo starne qua a discutere in questo spazio virtuale, la discussione, la riflessione su qualcosa ne implica la pensabilità... per uscire dal paradosso, trovo che la soluzione sia distinguere all'interno dell'ambito del pensabile, le idee da un lato, i concetti dall'altro. Definendo "idea" ogni contenuto di pensiero che si intuisce in modo diretto, originario, e "concetto" come nozione derivante da un'astrazione operata su contenuti di per sé intuitivamente, originariamente colti, si potrebbe intendere il Nulla come concetto, ma non come idea: noi non abbiamo un'esperienza diretta del Nulla, come detto, ogni esperienza ha come contenuto ciò che riconosciamo come "qualcosa", avente delle proprietà che lo rendono riconoscibile, abbiamo però esperienza delle differenze qualitative tra i diversi enti, esperiamo che un gatto NON è un albero, che a sua volta NON è una pietra, che a sua volta NON è un fiume ecc., ed astraendo (anche se per la natura non fisica, ma intelligibile del concetto in questione, si tratterebbe di un'astrazione sui generis, non frutto di una parzialmente arbitraria comparazione fra enti che si sviluppa nel tempo, selezionando delle caratteristiche comuni fra oggetti individuali, ma di un'universalizzazione immediata che coglie fin dal primo "non", la sua essenza generica che lo costituisce come tale) l'essenza comune alle varie negazioni, per poi formularla come ipostasi, soggetto, ricaviamo il "nulla", che così, come ogni concetto, sarebbe un'astrazione derivata dall'esperienza del molteplice. Diversamente dal Nulla, l'Essere è un'idea, oggetto intuito direttamente dal pensiero senza che sia ricavato per astrazione in un certo tempo e spazio in cui avverrebbe l'esperienza da cui astrarsi: se così fosse, l'idea dell'essere vedrebbe limitare la sua applicabilità a quella particolare esperienza da cui è stata astratta, essendo invece l'idea dell'Essere l'idea che contiene tutto ciò che è pensabile, oltre il quale vi è il  Nulla, cioè il non pensabile (se non come detto, derivativamente dall'Essere), mi pare logico che l'apprensione di questa idea sia presenza necessaria in ogni atto di pensiero, cioè sia appresa innatamente (al di là che nel corso della vita si apprenda un linguaggio che consenta di stimolarne la riflessione e tematizzazione, cose però diverse dall'intuizione diretta)
#89
la posizione di un Assoluto non è un'opzione fra tante altre, ma una necessità logica che nasce nel momento in cui si indaga la validità di un qualunque criterio di verità, anche quando applicato in sfere che non sono, almeno apparentemente, quelle della filosofia o della metafisica, ma della realtà empirica: un criterio di verità può essere autosufficiente nel legittimarsi nella capacità di fondare la validità di un discorso, ed in tal caso questo criterio potrà definirsi "assoluto", cioè indipendente da ogni condizione di validità ad esso estrinseca, oppure richiede un principio altro da sé, ed in questo caso il criterio non sarà "assoluto", e proprio per questo la tesi che a quel criterio si appoggia, fintanto che ad esso si ferma invece che continuare a regredire fino ad arrivare al criterio primo e assoluto, non potrà avanzare alcuna pretesa di verità, cioè di facoltà di corrispondere alla realtà oggettiva. Per questo la negazione di qualunque principio assoluto è necessariamente autocontraddittoria, nel negare l'assoluto, la tesi ammette di appoggiarsi su criteri di verità arbitrari, cioè non assoluti, e questo vale per qualunque giudizio, comprese quelli inerenti la realtà naturale oggetto delle scienze particolari, e non solo quelli inerenti la sfera religiosa. La scomparsa di ogni rapporto giudicante coscienza-mondo, farebbe sì che l'unica tipologia di relazione resti puramente estetica, non come "giudizio" estetico, ma come esperienza meramente fenomenale, gioco di apparenze, che in alcun modo sarebbe possibile per la ragione valutare riguardo la corrispondenza con una realtà oggettiva extrafenomenale. L'errore che si compie nel ritenere possibile una conoscenza scientifica in assenza della categoria di Assoluto, più o meno tematizzata riflessivamente sulla base della volontà e degli interessi di ricerca del soggetto conoscente, nasce a mio avviso dalla confusione tra metafisica e storia della metafisica, deducendo da un legittimo dissenso riguardo le soluzioni proposte da determinate proposte metafisiche avanzate nella storia, la condanna della metafisica tout court, quando in realtà la metafisica non è un'opinione, una particolare tesi su cui si può essere d'accordo o meno, ma un necessario livello di conoscenza, che, anche quando non tematizzato in modo sistematico, o si ritiene di fare dell'antimetafisica, continua a essere utilizzato, come applicazione dei criteri fondamentali, originari da cui derivano tutti gli altri che utilizziamo, senza che quelli derivino a loro volta da altro. Possiamo contestare un certo tipo di metafisica, una certa nozione di assoluto, mai la metafisica e l'assoluto in generale, pena la perdita dei criteri fondamentali di verità in ogni sua applicazione. Contro ciò non varrebbe neanche l'obiezione che questi criteri di verità trascendentali resterebbero necessari a livello di logica formale di pensiero, senza che da essi debba discendere un livello di sapere sulla realtà, sull'ontologia. Questa scissione così netta fra logica e ontologia non terrebbe conto della definizione classica di "verità", cioè tomisticamente, verità come corrispondenza di una preposizione alla realtà, da cui discende che la proposizione per cui riteniamo vero il fatto che un certo criterio logico di verità si pone come autosufficiente a livello formale, corrisponde nella realtà la presenza di un ente in cui tale criterio si applica. Ogni definizione è una convenzione, quindi non necessariamente assumibile, ma allora mi chiedo come i negatori della metafisica e dell'assoluto tout court potrebbero diversamente definire la nozione di verità per evitare che dai loro fondativi criteri di giudizio presunti validi debba discendere anche nella realtà l'esistenza di un principio fondativo
#90
Citazione di: giopap il 13 Maggio 2020, 18:31:04 PM
Davintro:
ciò che della scienza di cui si è chiamati a stabilire i limiti e le condizioni di validità l'epistemologo è tenuto a conoscere è il metodo e i termini generali dell'oggetto a cui la scienza in questione fa riferimento, mentre non si è affatto tenuti a tener conto dei risultati. Un epistemologo/gnoseologo che tenesse conto dei risultati della scienza che sottopone a vaglio critico finirebbe con l'autoimpedirsi di valutare la validità dei criteri di verità a cui la scienza fa capo con i conseguenti limiti. Per mettere in discussione qualcosa è necessario partire da criteri distinti da quelli che ciò di  cui si deve discutere applica, altrimenti l'oggetto della critica finirebbe con l'essere assolutizzato, dato che i criteri della critica coinciderebbero con quelli della scienza di cui la critica è chiamata a discutere (appunto, i suoi risultati), cosicché tale scienza finirebbe con l'essere dogmatizzata, con l'impossibilità di riconoscerne i limiti costitutivi. Ecco perché vincolare l'epistemologia ai risultati delle scienze che sottopone a vaglio critico esprime il modello scientista che dogmatizza l'ambito delle scienze naturali, impedendo alla filosofia di poter lavorare su presupposti distinti da essi, sulla base dei quali riconoscere il limite della scienza. Il compito dell'epistemologo non è discutere i risultati di una scienza entro i limiti in cui quel risultato sia legittimo in relazione al campo di attinenza della scienza in questione, ma quello di delimitare il campo entro cui un certo metodo è legittimato e un altro no. L'epistemologo è come un arbitro neutrale che deve far rispettare le regole del gioco, e che può farlo senza alcuna necessità di conoscere le qualità dei singoli giocatori, i risultati e tifare per una squadra contro un'altra. Il suo compito finisce nel momento in cui ha individuato la correlazione tra una certa metodologia scientifica e la natura dell'oggetto a cui la metodologia è adeguata, fissando i limiti entro cui la scienza applicante quella metodologia è legittimata, in termini generali, a formulare le teorie, senza bisogno di entrare nel merito sull'effettiva verità della teoria, gli basta avere gli strumenti per riconoscerne la potenziale legittimità, legittimità sulla base del metodo inteso nei suoi aspetti essenziali, cioè astraendo dal particolare livello di abilità dell'applicazione dei singoli scienziati. Per individuare la correlazione è sufficiente conoscere in termini formali e generali il metodo delle scienze e la natura del campo oggettivo corrispondente, oltre ad un'ontologia generale dell'Essere, cioè una visione generale entro cui i singoli campi scientifici (regioni dell'essere, direbbe Husserl) mostrano i loro confini e dunque i loro limiti.

giopap:
Fin qui sono perfettamente d' accordo.
Ma la filosofia non é solo epistemologia (e più in generale gnoseologgia).
E' anche ontologia, considerazione della realtà in generale, complessivamente intesa, nelle sue componenti scientificamente conoscibili e in quelle non scientificamente conoscibili.
E in quanto tale non può permettersi di ignorare la conoscenza scientifica della componente della realtà che ad essa é accessibile, quella fenomenica materiale, in quanto se la negasse ne verrebbe automaticamente falsificata (la critica epistemologica della conoscenza scientifica valuta ed evidenzia i limiti, anche di certezza, della conoscenza scientifica, ma in campo naturale materiale -fenomenico- non può trovare conoscenze più saldamente fondate di quelle scientifiche, che dunque in tale limitato ambito deve considerare come il cosiddetto "gold standard" e rispettare per non cadere nell' errore e nel falso).
Per esempio se un ontologia implicasse (in ambito fenomenico materiale) il sistema cosmologico geocentrico, automaticamente per ciò stesso sarebbe falsificata, se una filosofia della mente (parte dell' ontologia) implicasse effetti di una sostanza immateriale sulla sostanza materiale del cervello (attraverso la ghiandola pineale o suoi surrogati) sarebbe ipso facto falsificata.




Davintro:
Tutta questa tipologia di conoscenza rientra nell'ambito della visione d'essenza, cioè la visione che coglie le cose negli aspetti universalistici, sovratemporali e spaziali, per questo l'epistemologia è a tutti gli effetti una ramificazione della metafisica (cioè, della filosofia), è indipendente dalle scienze naturali, e proprio questa indipendenza le consente di non assolutizzarle, mettere in discussione i loro presupposti, e delimitarne il campo di legittimità

giopap:
Malgrado concordi che tutto, per definizione, rientra in quella che piuttosto che "metafisica" chiamerei "ontologia" (la realtà in toto complessivamente intesa, compresa la materia fisica fenomenica, oltre che il pensiero -res cogitans, psiche- fenomenico, ciò che é metafisico e ciò che é metapsichico), quindi anche la conoscenza della realtà e la sua critica razionale, credo non solo che la epistemologia debba criticare e "fondare" se possibile e nei limiti del possibile le scienze naturali e non viceversa, ma anche che l' ontlogia non possa -pena il cadere nel falso- contraddire nulla di ciò che la realtà é, in tutte le sue varie componenti, compresa quella fenomenica materiale sulla quale le scienze naturali fanno testo (pur con tutti i limiti che l' epistemologia rileva).




Davintro:
per quanto riguarda la definizione di"buona filosofia"... che si parli del platonismo come "pessima filosofia", mi rincuora un pò, perché ispirandomi in gran parte a quel modello (ovviamente, con una distanza di anni luce rispetto alla grandezza di Platone e di chi in misura maggiore o minore lo ha poi nella storia recuperato), sarei in ottima compagnia all'interno del recinto della "pessima filosofia", che però sarebbe invece del tutto rispettabile, sulla base di un diverso punto di vista.

giopap:
Immagino che a tua volta ritenga "pessimi" altri filosofi secondo me di grandezza non inferiore a Platone, come Democrtio, Epicuro, Hume, Russell e tanti altri.
E non vedo perché mai dovremmo farci attanagliare da un ipocrita irenico rispetto filosoficamente corretto nell' esprimere le nostre profonde convinzioni, del tutto"legittime" per severe che siano e per grandi e "popolari" che ne siano gli oggetti.




Penso la divergenza possa riguardare la definizione di "filosofia". Intendendola come una sorta di "tuttologia", come un sapere che comprende indiscriminante tutti gli aspetti possibili delle cose, comprese le proprietà fisiche degli oggetti, certamente non potrebbe ignorare le scienze naturali, in quanto i loro risultati resterebbero interni allo stesso oggetto di indagine della filosofia, che dunque dovrebbe costantemente mediare tra le sue conquiste e tali risultati. L'indipendenza che invece le riconosco è data dall'attribuirle un oggetto di indagine ben distinto da tutte le altre scienze, al di fuori del quale si fermerebbe il suo interesse (a scanso di equivoci, non sto ovviamente dicendo che un filosofo inteso come persona concreta non possa interessarsi a prospettive extrafilosofiche, la storia ne è piena, ma che l'interesse sarebbe legato a un discorso di completezza di cultura generale, e non in quanto "filosofo"). L'autonomia del suo campo sarebbe data dal fatto che questo campo può essere indagato solo dalla particolare metodologia filosofia, basata sull'analisi e sul riscontro della coerenza logica interna tra il significato generale dei concetti senza necessità di alcuna verifica empirica. Questo sistema di relazioni tra significati intelligibili sarebbe contenuto di un sapere aprioristico e universalistico indipendente dalla mutevolezza e particolarità spaziotemporale, cioè l'ambito di cui si occupano le scienze naturali. La confusione tra le due diverse accezioni di "filosofia" può nascere dal fatto che in entrambi i casi si ha che fare col concetto di "totalità", con la differenza però che nella prima accezione la totalità va intesa come totalità di ogni aspetto del reale, sensibile o intelligibile, mentre nella seconda la totalità riguarderebbe il fatto che i princìpi filosofi, essendo universali, resterebbero validi in tutte le condizioni possibili in cui le cose possono esistere, senza però esaurire in essi il complesso degli aspetti reali, lasciando così libero lo spazio delle scienze particolari, che si spartirebbero con la filosofia sfere di influenze ben distinte. Se si vuole, la differenza è un pò avvicinabile a quella che sussiste tra le espressioni "Dio è tutto" (panteismo) e "Dio è la ragion d'essere di tutto" (teismo), sostituendo "filosofia" con "Dio". Nel nostro caso la differenza sarebbe, sintetizzando le due formule, quella riscontrabile tra "la filosofia si occupa di tutto" e "la filosofia si occupa di ciò che è necessariamente valido in tutte i contesti". Insomma, penso la questione sia soprattutto terminologica




non mi sento di considerare pessimo o "non buono" nessun filosofo/filosofia, non per ipocrisia o politically correct, ma perché, al netto dei dissensi, mi sembrerebbe molto improbabile non poter trovare punti di condivisione o almeno di interesse con ciascuno di essi, tali da legittimare il riconoscimento comunque di un certo valore teorico. Tra gli autori citati ricordo con piacere che, da piccolo, quando cominciavo a imbattermi nei primissimi rudimenti di storia della filosofia, avevo eletto Epicuro a mio filosofo preferito, per via della centralità del valore della tranquillità nella sua etica, e continuo ancora ad apprezzarlo per quel punto, al di là della non condivisione della sua cosmologia tutta fisicalista (non atea, però). Così come pur contestando l'ateismo di Russell nonché lo pseudoargomento della credibilità della teiera e degli spaghetti volanti come analogia con la credibilità di Dio, apprezzo alcune idee politiche sul primato della libertà individuale o anche, in sede epistemologica, la denuncia della fallibilità del metodo induttivo tramite l'argomento del tacchino e del giorno del Ringraziamento