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Messaggi - Phil

#766
Tematiche Spirituali / La via di liberazione
29 Gennaio 2022, 17:38:38 PM
Giocando con i parallelismi: "la mela non cade lontano dall'albero...", ossia il buddismo è figlio dell'induismo come il cattolicesimo/cristianesimo è figlio dell'ebraismo; "...ma poi rotola un po' più in là, dove c'è spazio": il buddismo ha avuto buon gioco lontano dall'affollata concorrenza del pantheon induista, così come il cattolicesimo/cristianesimo ha trovato terreno fertile nelle debolezze del paganesimo europeo, lontano dalla (s)elettività del Dio ebraico.
Per il resto, ogni volta che si usano "parole meretrici" (nel senso che si prestano fugacemente a molti significati/interpretazioni, per non dire "al miglior offerente", retoricamente parlando) come «libertà» e suoi derivati, è prioritario inquadrarle chiaramente, spesso al punto da sostituirle (magari per scoprire che non sono le "compagne di discorso" più affidabili, per quanto siano notoriamente attraenti, solleticando desideri di possesso e promettendo di soddisfare tutti).
#767
Tematiche Spirituali / Re:La via di liberazione
27 Gennaio 2022, 14:37:53 PM
Citazione di: ricercatore il 27 Gennaio 2022, 11:22:42 AM
L'Oriente pone le sue fondamenta su due pilastri "filosofici":
- il confucianesimo
- il taoismo
Sulla "via di liberazione" all'orientale, "filosofica" prima che religiosa, è doveroso aggiungere anche il buddismo che, forse non a caso, è quello che tuttora è rimasto più "in salute" rispetto agli altri due, sino a fare numerosi proseliti anche in occidente, pur senza "rubare il trono" al cattolicesimo.
#768
Mill aveva anche ben compreso che una minoranza non vale l'altra: la minoranza epistocratica non "merita" valore eccedente il suo numero ridotto perché è minoranza, ma perché è qualitativamente epistocratica; che sia quantitativamente una minoranza è più un accidente irrilevante, per quanto comprensibile, che una "questione di principio". L'apologia delle minoranze in quanto tali, più o meno (in)difendibili e (in)determinate, è una moda tutta contemporanea, talvolta, a differenza del pensiero di Mill, poco qualitativa e razionale.
#769
@baylham

L'avevo ipotizzato, tuttavia non mi convince troppo la sottesa confusione fra volere il vaccino e "volersi bene": se il medico conclude che, a causa di eccessivi rischi, non è prudente vaccinarmi, pur volendolo (altrimenti non sarei lì), perché dovrei anche firmare una dichiarazione in cui affermo di non volerlo? Se accetto e concordo sull'esenzione per motivi di salute, e tale esenzione è documentata, non potrò certo avanzare accuse contro la struttura vaccinale; perché farne una questione di volontà? Non è un po' come se il medico del lavoro mi esentasse dal sollevare pesi, io accettassi il suo "divieto", e poi mi si chiedesse in aggiunta di firmare anche una dichiarazione in cui affermo di non voler sollevare pesi? Il parere del medico, e la conseguente esenzione, non rendono "anomala" la mia dichiarazione di "non volere più ciò che avrei voluto se il medico non me l'avesse sconsigliato per motivi di salute"?
Diverso è il caso qualora il medico me lo sconsigli e invece mi intestardisca nel volerlo fare lo stesso: in tal caso potrebbe essere una questione di liberatoria, di mia volontà che prevarica il giudizio competente medico; se invece ho diritto all'esenzione, al massimo potrei firmare una apposita dichiarazione in cui affermo che voglio avvalermi dell'esenzione (è il dichiarare di non volersi vaccinare pur risultando esenti che, secondo me, è troppo vago e poco sensato).
#770
Perdonate la domanda sicuramente poco "informata" e/o troppo candida, ma non capisco in quale situazione possa essere utilizzato il "rifiuto informato" del vaccino: si va in un centro vaccinale, con o senza prenotazione e affrontando più o meno fila/attesa, solo per poi formalizzare il proprio rifiuto?
Sicuramente mi sfugge qualcosa. Forse è stata pensata come scappatoia per l'ultimo momento: dopo il colloquio con il medico si cambia idea e non si vuol uscire lasciando la procedura in sospeso? Ma la dichiarazione della propria volontà di vaccinarsi (correggetemi se sbaglio) non viene forse controllata sin dall'ingresso al centro vaccinale? Non è un modulo che, considerato il contesto in cui viene usato, potrebbe anche escludere la dichiarazione del rifiuto, nel senso che basterebbe non firmarlo fino all'ultimo momento ed eventualmente andarsene? Quale è il "vantaggio" (se non il contrario) o il senso di firmare e consegnare un modulo in cui si dichiara di non volersi sottoporre al vaccino?
#771
@daniele22

Interessante il "rimbalzo" dell'esigenza di distinzione fra «diventa fondamentale distinguere la verità della scienza, quella che è tale solo se può essere falsificata [...] dalla verità della credenza o, ancor "peggio", dalla verità applicata a ciò che non ha a che fare con la verità ontologica, ma solo con la convenzione sociale, la cultura, un certo orizzonte di senso o paradigma, etc.»(autocit.) e
Citazione di: daniele22 il 16 Gennaio 2022, 15:40:14 PM
dissentendo in parte da te, ritengo fondamentale distinguere le verità della scienza dalle verità della ragione umana che critica se stessa sotto le bandiere della scienza
Non sono certo su quale sia il parziale dissenso e mi incuriosisce il concetto di «verità della ragione umana che critica se stessa sotto le bandiere della scienza»(cit.), soprattutto se con quest'ultima non alludi alle neuroscienze, in cui la ragione umana si imbatte nell'empiria del proprio funzionamento, che essendo tendenzialmente oggettivo non può prestarsi a critiche "di concetto".
Credo che la scienza, essenzialmente, non dia basi per criticare la ragione umana, essendone "distillata" applicazione: la scienza analizza, studia, sperimenta, etc. si occupa di verità fattuali (quindi incompatibili con le "verità" ideologiche e prospettiche di cui si nutre la società nel suo strutturarsi); al massimo è la ragione che critica se stessa mettendosi alla prova nell'applicarsi alla scienza. Chiaramente, la scienza (come le sue verità) può essere strumentalizzata, ostracizzata, deturpata in narrazioni faziose, etc. ma ciò non è "difetto" della scienza quanto piuttosto un suo uso improprio da parte di ideologie politiche o sociali, o comunque non scientifiche, quindi non strettamente pertinenti (per quanto "comunicanti" con la scienza). Sicuramente ci sono zone di intersezione fra scienza e riflessione sulla scienza (epistemologie, bioetiche, etc.), tuttavia, sempre a proposito di distinzioni, non va confuso quale sia l'apporto della scienza (dati, procedure, dimostrazioni, etc.) e l'apporto ideologico (scopi, utilizzi, applicazioni, etc.).
Le «verità della ragione umana che critica se stessa sotto le bandiere della scienza»(cit.) sono a rischio (dipende dai casi) di "confusione di ruolo" tanto quanto lo sono/sarebbero le "verità della scienza che critica se stessa sotto le bandiere della ragione umana"; affinché ci sia una "sana" dialettica fra le due bisogna distinguerne i ruoli e le responsabilità (così come è sano distinguere il ruolo e la responsabilità dello scienziato da quelli del politico).
So che toccando questo tema c'è un elefante nella stanza, ma preferirei non "covidizzare" anche questo topic.
#772
Citazione di: daniele22 il 13 Gennaio 2022, 12:23:44 PM
Quale sarebbe il peso della falsità, quand'anche della menzogna, nel determinare le forme della nostra attuale realtà sociale?
La domanda che fenomenologicamente precede quella sul ruolo della falsità, è quella sul ruolo della verità: perché parliamo di «verità», qual è la necessità (psico)logica della verità? Per ragionare prima di agire abbiamo bisogno di sapere di cosa possiamo fidarci, quali punti d'appoggio per la nostra azione e il nostro pensiero ci danno garanzia di tenuta, di supporto, il famoso punto d'appoggio archimedeo su cui sollevare (la nostra visione de) il mondo. La verità, se intesa come coerenza fra descrizione e suo oggetto (poiché non c'è verità se non nel discorso che ne parla, nemmeno quando la si ipostatizza in Verità metafisica o altro), è dunque solitamente un'informazione che serve, utilitaristicamente parlando, a comprendere la realtà o a prendere decisioni basandosi su tale verità (sempre tenendo ben ferma la distinzione fra verità ed esistenza, ossia fra discorso ed oggetto del discorso).
Socialmente parlando, non è tuttavia necessario che la verità sia vera (come dimostra tutto il fenomeno, non certo recente, della cosiddetta "postverità"): se un'informazione o un complesso di notizie sono creduti veri, potranno avere ripercussioni sociali persino epocali, senza che la verità si faccia giustizia da sola (storicamente non mancano i casi di leader che hanno movimentato masse o sconvolto il pianeta propugnando una "tesi di verità" tutt'altro che vera, così come, d'altro canto, ogni genitore/governo sa che a volte è "bene" non dire tutta la verità al proprio figlio/popolo, anche se questi si ritiene, controfattualmente, in grado di badare bene a se stesso).
Per cui, secondo me, diventa fondamentale distinguere la verità della scienza, quella che è tale solo se può essere falsificata (l'infalsificabile è alieno alla verità, più di quanto lo sia la falsità che ne è la nemesi sullo stesso "piano"), dalla verità della credenza o, ancor "peggio", dalla verità applicata a ciò che non ha a che fare con la verità ontologica, ma solo con la convenzione sociale, la cultura, un certo orizzonte di senso o paradigma, etc. senza nessi necessari e univoci con la realtà: la "vera" giustizia, la "vera" bellezza, la "vera" fede, la "vera" filosofia, i "veri" valori, etc. dove "vero" (qui inteso come "autentico", se non come "migliore") non ha alcun rapporto cogente con la realtà, ma solo con una determinata narrazione (autoreferenziale), spesso tutt'altro che epistemica, interpretante la realtà sociale, non quella "ontologica".
Tutto ciò premesso, direi che «il peso della falsità» dipende molto dal "peso statistico" delle persone che la ritengono una verità, soprattutto considerando come in ambito sociale e culturale non è sempre possibile un esperimento che dimostri "oggettivamente" quale sia la verità, specialmente se per "verità" intendiamo in realtà, più o meno dissimulatamente, un valore o un ideale fra i molti possibili.
#773
Segnalo che per la richiesta di risarcimento a seguito di effetti collaterali della vaccinazione anti-Covid si è mosso il Codacons, che ha attivato una raccolta di richieste così da poter procedere legalmente (qui informazioni e link utili).
#774
Non sono affatto pratico di procedure legali, ma nel link che ho postato si consiglia: «In base alla legge, una persona che ritenga di aver subito un danno dal vaccino contro la Covid-19 non potrebbe chiedere direttamente l'indennizzo allo Stato [come nel caso del documento che hai postato? non so]. Dovrebbe rivolgersi a un tribunale, contestando l'incostituzionalità dell'articolo 1 della legge 210 del 1992. Il giudice, quasi certamente, rinvierebbe immediatamente la questione alla Corte costituzionale che, secondo la sua stessa costante giurisprudenza, dovrebbe riconoscere il diritto all'indennizzo». Chiaramente fra il richiedere e l'ottenere c'è molta differenza (soprattutto se la somma in gioco non è esigua), forse si tratta solo di capire qual è la procedura migliore e, ancor prima, se c'è (secondo quel link, per quel che vale, potrebbe esserci).
#775
Da quel che ho capito, il rimborso per danni vaccinali non è richiedibile solo per i vaccini obbligatori, ma anche per quelli facoltativi per cui si presta il consenso, come quello antinfluenzale (in base a quanto specificato dal suddetto aggiornamento della legge) e dunque anche per quello anti-Covid (soprattutto alla luce dei vincoli di legge che comporta, in ambito lavorativo e non). Qui ulteriori informazioni.
#776
@Eutidemo

Chiedo lumi riguardo un aggiornamento dell'art. 1 della legge 210/92 che si riferisce al vaccino antinfluenzale (se non mi sbaglio, non rientra fra gli obbligatori):
«AGGIORNAMENTO (14)
La Corte Costituzionale, con sentenza 22  novembre - 14  dicembre 2017, n. 268 (in G.U. 1ª  s.s.  20/12/2017, n. 51), ha dichiarato "l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, comma 1, della legge 25 febbraio 1992, n. 210 (Indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazioni di emoderivati), nella parte in cui non prevede il diritto all'indennizzo, alle condizioni e nei modi stabiliti dalla medesima legge, nei confronti di coloro che si siano sottoposti a vaccinazione antinfluenzale"».
#777
Eccoci giunti alla "morale della favola" (come esplicitata nei video che avevo postato): l'importante è uscire dallo stallo (ossia non morire di fame) trovando espedienti per rompere la simmetria. Perché invece l'asino della storiella muore? Perché è un asino, non sa trovare escamotage per infrangere lo stallo decisionale. Tutto qui (poi si può certamente parlare di neurologia, libero arbitrio, etc. ma prima bisognava capire quale fosse il senso del paradosso e perché alcune menti del passato avessero scelto di dedicargli del tempo; non certo perché fosse una storia verosimile o perché non sapessero calcolare l'equivalenza di due coppie di segmenti...).
Sul rapporto fra lancio della moneta e caso, rimando a questo vecchio post.
#778
Le scelte dell'asino non sono tutte sullo stesso piano, né logico né cronologico; può aiutare gerarchizzarle: se nella scelta-bivio "muoversi/non-muoversi", si decide di non-muoversi, la storiella finisce lì; se si decide per il "muoversi", solo allora si passa al bivio successivo, in cui dovrà scegliere "verso-prima-balla/verso-seconda-balla", ed è qui che si innesta la storiella, che diventa paradosso nel momento in cui si muore restando a due passi dal salvifico cibo, ossia l'asino sceglie di muoversi ma non sa decidersi sul dove farlo.
Se lo scopo dell'asino fosse mangiare entrambe le balle, non vi sarebbe alcun paradosso, perché sarebbe indifferente quale mangiare per prima. Lo stallo paradossale, che fa restare l'asino fermo fino a morire quando invece vorrebbe mangiare e salvarsi (non essendo un asino suicida) è quello del criterio con cui compiere la scelta di quale balla mangiare per prima (se poi sia l'unica o ne seguano altre, è indifferente: mangiata la prima, l'asino non muore più di fame e viene meno il paradosso del morire di fame vicino al cibo).
Riprendendo l'esempio di Eutidemo: se devo alzarmi dalla sedia per andare in bagno, non posso alzarmi prima da un lato e poi dall'altro, né posso alzarmi senza aver deciso da quale lato alzarmi; «da un lato qualsiasi» è una banalizzazione che non rimuove la fattuale necessità di scegliere: finché sono padrone delle mie azioni, devo decidere se alzarmi a destra o a sinistra (o in avanti arretrando la sedia, etc.) e se anche il bagno è dietro di me, quindi non ho convenienza di percorso fra alzarmi a destra o sinistra, devo comunque scegliere; magari mi verrà spontaneo alzarmi a destra perché è la gamba più forte o perché quando arriva lo stimolo sono già leggermente inclinato a destra. La scelta di alzarsi da un lato, e non dall'altro, non è comunque mai priva di motivo, ragionato o istintivo che sia; non è mai realmente "un lato qualsiasi", almeno finché siamo in grado di intendere e di volere (sebbene ciò non comporti avere pieno controllo di ogni singolo gesto, come quelli nati da motivi inconsci, reazione nervosa, etc. che hanno pur sempre i rispettivi motivi, seppur non padroneggiati dal soggetto).

Questo aspetto crono-logico di scelta escludente (aut-aut), in cui un'opzione sembra valere l'altra ma è tuttavia possibile scegliere solo una fra le due, è più evidente nella narrazione di Ovidio (la tigre che si avventura in una valle rinuncia così facendo a mangiare il bestiame nell'altra valle, che nel frattempo potrebbe andare altrove), o di Al-Ghazali (l'uomo indeciso su quale donna corteggiare, fra due parimenti meritevoli; se potesse sposarle entrambe non ci sarebbe dilemma), o anche di Aristotele (un uomo, estremamente tanto assetato quanto affamato, non sa se dirigersi prima verso il cibo, rischiando di morire nel frattempo di sete, o verso l'acqua, rischiando di morire nel frattempo di fame).
#779
Per capire quale sia la paradossalità della storiella, non bisogna guardarla con occhi geometrici né etologici, ma basta pensare ad ogni volta che siamo indecisi fra due situazioni che ci sembrano equivalenti (la morale della favola non è che l'asino muore di fame...).
Per una lettura in chiave più contemporanea e meno metaforica si può dare un'occhiata qui e qui.

P.s.
Per gli anglofoni, suggerisco questo.
#780
@Eutidemo

Corsivo mio:
Citazione di: Eutidemo il 02 Gennaio 2022, 15:53:05 PM
il punto (per unanime parere di tutti i matematici) è senz'altro un'entità geometrica "infinitamente piccola"
Citazione di: Eutidemo il 03 Gennaio 2022, 11:53:33 AM
Quanto alle "fonti" che mi hai chiesto, le quali definiscono il punto come "infinitamente piccolo", potrei citarti:
Daniil Charms, ("Casi" Adelphi Books):
O.Lagerkrantz ("Scrivere come Dio" Ed. Marietti):
G. Szpiro ("L'enigma di Poincaré" Odifreddi Ed.Apogeo):
E potrei continuare a lungo!
Gli autori che hai citato, Charms e Lagercrantz, sono, se non erro, poeti e scrittori, non matematici; il che mi fa sospettare che nella loro interpretazione "artistica" del punto non siano fedelissimi alla definizione matematica standard, come per altro schiettamente riportata da wikipedia e Treccani (oltre che, mi sbilancio senza nemmeno controllare, dai manuali di matematica).
Per quanto riguarda la citazione da G. Szpiro, non sono sicuro si tratti di una attenta definizione in ambito matematico; leggiamo il passo:
«Aveva una buona ragione per non amare molto il nome di famiglia: foneticamente, in francese, suona come "punto quadrato" e fin dal tempo degli antichi greci si sà che il punto é infinitamente piccolo e certo non quadrato. Quel suo "nome sbagliato" irritava notevolmente il futuro matematico».(cit.)
Se davvero hai altre fonti matematiche, non esitare a postarle... tutto il resto puoi già trovarlo nei manuali.