La metrica in poesia era un canone. Penso a Leopardi, un grandissimo conoscitore dei classici e forse il primo che, in metrica, ha cominciato a forzarla e a modernizzarla, adattandola allo "stream of consciousness" che lui forse per primo e poi nel 900 la poesia ha sentito di dover esprimere. Ungaretti, pur in metrica libera, è stato uno scultore del verso poetico, Montale un musicista, come Quasimodo. Prima di loro, un Carducci teorico della metrica e poi Pascoli e D'Annunzio hanno proseguito il lavoro di Leopardi e portato nella poesia il colore, il suono, i profumi, una tridimensionalità sensoriale che, a mio avviso, difficilmente si sarebbe potuto costringere in un sonetto o in altra forma metrica canonizzata. Ai tempi di Dante, un sonetto come "Guido, i' vorrei che tu e Lapo ed io" era comunicazione, più ancora che poesia, e strappava gli applausi. Una comunicazione virtuosistica, come quella del corteggiamento. La poesia metrica aveva quindi uno scopo, quello di divertire e piacere, in una specie di certamen poetico generale. Questo scopo, dal 900 in poi, è venuto meno, il poeta si è trovato senza uditorio, a parlare principalmente a sè stesso, non più un cantore o un rapsode, ma uno scrittore e basta. Da qui, perso il ritmo e la musicalità metrica, sono emersi la musicalità e il colore verbali. Amo moltissimo Ungaretti e Montale, nelle loro poesia non sento affatto la mancanza di una metrica fissa.