Citazione di: davintro il 22 Aprile 2016, 17:53:45 PMCiao davintro, mi soffermo su questa domanda della questione molto interessante da te qui introdotta.
Il discorso che sto facendo presuppone però di base la risposta a una domanda fondamentale: la filosofia è scoperta della verità (realismo) o creazione della verità (idealismo)? Nella prima ipotesi (quella su cui io convengo ma questo non è importante) la filosofia è autonoma dalla storia della filosofia, in quanto i suoi concetti hanno un valore oggettivo poichè corrispondenti, husserlianamente parlando, alle "cose stesse", aspetti del mondo reale che danno a quei concetti un senso perennemente attuale, indipendentemente dal riferimento alle opinioni dei pensatori che ci hanno preceduto. Le "cose stesse" in ogni momento possono essere scoperte ed osservate nell'esperienza attuale di ognuno che sia interessato a rifletterci su. Nella seconda ipotesi invece filosofia e storia della filosofia coincidono in quanto la comprensione dei concetti implica il risalire a ciò che li ha creati, vale a dire l'attività pensante che si dà nella storia. La filosofia coinciderebbe con il suo sviluppo storico, ogni singolo pensatore non farebbe altro che aggiungere un mattone a un edificio perennemente in costruzione che però è unico in quanto assorbe sinteticamente in sè tutte le posizioni succedutesi, solo apparentemente contrastanti tra loro, ma in realtà inglobate in un pensiero unico in continua progressione. Una visione tipicamente idealista che mi lascia fortemente perplesso (ma non ne voglio parlare ora, sono già stato troppo lungo). Non a caso, l'impianto storicistico dell'insegnamento della filosofia in Italia può essere visto come il portato di un dominio nella nostra cultura per larga parte del '900 del neoidealismo di Gentile e Croce...
Come è noto la filosofia nasce nel pensiero greco come esigenza di stabilire come stanno veramente le cose, ossia la verità fondamentale che non può essere che la verità del tutto e nasce realistica: c'è una realtà che va detta, che deve farsi discorso, logos, affinché possa essere detta in modo veritiero, coerente con la realtà stessa che sussiste in sé. Il logos è lo strumento che va affinato affinché ciò che si dice restituisca il significato del reale (parafrasando Aristotele e lo stesso Platone, vero è dire vero di ciò che è vero e non vero di ciò che non è vero). In questo la scienza non si è discostata per nulla dal realismo filosofico originario, essa rappresenta solo un affinamento del logos che ha associato al metodo deduttivo originario che parte dalla definizione del principio primo, della unità originaria necessaria a priori, al metodo induttivo che cerca, a mezzo di un grande rigore procedurale predefinito, di risalire alla sostanza formale dei principi. La scienza, come la filosofia classica, non crea la verità, ma la scopre e la scopre in virtù del potente funzionamento del suo metodo che le consente di dire come sta oggettivamente (quindi di per se stessa) la totalità delle cose, di ogni cosa.
Sappiamo anche che questa visione oggettiva è però entrata in crisi proprio con la nascita del razionalismo scientifico: già con Cartesio che fonda il reale sul soggetto pensante, poi con l'empirismo e poi con Kant e la sua critica della ragion pura. A questa crisi l'idealismo hegeliano ha tentato una risposta che ha rappresentato forse l'ultima grande enunciazione metafisica della filosofia. In essa la verità ha perso la sua visione perfettamente statica, per diventare prodotto della storia dialettica dello spirito che la viene continuamente creando verso una totalità di completa sintesi (che per Hegel si trovava nel suo stesso pensiero), in tal modo la verità diventa storia della verità e la filosofia storia della filosofia. Marx si porrà nella stessa direzione, ma immergendo questa dialettica nel reale accadere storico, rappresentandola come lotta di classe determinata dal potere economico finché il pensiero post marxista individuerà nel puro divenire stesso (in ciò che continuamente esso crea e distrugge) il motore di ciò che è reale. Il divenire (come già per Eraclito) prende quindi il posto dell'essere e la storia è la verità-evento che essa viene continuamente creando. La realtà è il mutamento e il suo rivelarsi veritiero è storia (di idee, di popoli, di rapporti economici ecc.), ma la storia, come espressione della pura immanenza diveniente, è ancora un oggetto metafisico, con tutte le pretese metafisiche che le competono su chi solo in essa può esistere come evento.
La storia è, come fa intendere Nietzsche, anche quando si rivela volontà di potenza, solo un cumulo sterminato di rovine. Al nostro sguardo, che vede solo il passato, appare solo il morire di ogni evento che riflette continuamente il nostro stesso morire insieme all'universo intero ed è proprio questo che determina la morte di ogni metafisica e il grande rimpianto per la metafisica dell'essere, per quell'oggettività che fissava una stabilità a fronte di un nichilismo ontologico tanto liberatorio, quanto disperato e vano. E si chiede, di nuovo si chiede, come fa Green, che la filosofia sappia ancora dirci qualcosa, dare indirizzi forse in questo sterminato campo di rovine, ma la filosofia non riesce più a dire nulla che risollevi la speranza metafisica, paradossalmente sembra che solo la scienza, e proprio nella sua versione tecnica e a-storica, possa farlo.
E qui occorrerebbe scendere nel profondo della tecnica. Non c'è dubbio che l'uomo contemporaneo, abitante del liquido Paese della Cuccagna che la tecnologia allestisce continuamente per lui, è l'uomo antiquato di cui parla Gunther Anders, un residuo bio psichico che paga continuamente il prezzo dell'illusione di funzionalità progettata con grande maestria da apprendisti stregoni anch'essi in corso di trasformazione sempre più inumana, ma è anche vero che solo nell'assunzione del proprio fare l'uomo può trovare il senso di se stesso, è solo lì che trova e ha sempre trovato abitazione e quel senso che lo comprende e che lui può comprendere.
Per questo credo che la necessità di una nuova filosofia alla fine non possa che trovare risposta dall'analisi di una storia che ci appartiene, di cui non siamo, ciascuno, per il nostro modo di sentire, di vivere, di pensare, che espressione dialettica di un flusso immane che viene a rappresentare il continuo accadere del mondo in cui tecnicamente, da sempre, siamo chiamati ad abitare, possiamo venire ad abitare.