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Messaggi - 0xdeadbeef

#796
Citazione di: Carlo Pierini il 22 Luglio 2018, 15:50:13 PMCARLO
Infatti non è la prima volta che sottolineo la cattiva abitudine di Popper di sparare cazzate. La scienza ci ha regalato migliaia di verità inconfutabili, e quello che dice Popper, se mai, è valito solo se per "verità" si intende l'onniscienza.

OXDEADBEEF
E ti ripeto ancora una volta: a me sembra che la moderna concezione di "scienza" dia ragione ad una tale tesi, visto
che la scienza odierna (odierna nel senso di post-relatività) parla del sapere come di un sapere "probabile".

CARLO
Infatti è "probabile" anche l'affermazione di un sapere necessariamente probabile. La scienza ha solo tre secoli d'età, cioè, è poco più di una bambina. E non sta scritto da nessuna parte che ciò che oggi appare probabile non sia tale per l'inadeguatezza dei paradigmi interpretativi oggi in uso nella Scienza.




Queste poche parole bastano e avanzano per capire come tu ragioni.
saluti
PS
Giusto per curiosità: e quale sarebbe la data di nascita della scienza? Visto che essa ha solo tre secoli dovresti ricordartene...
#797
A Sgiombo
Chiuderei la, per così dire, "prima fase" del ragionamento con queste considerazioni: non dico certamente che: "non
esiste l'etica". L'etica esiste non fosse altro che per il solo fatto di essere pensata. Ciò che dico è che non esiste
un'etica "universalmente valida", per cui la "violazione" non può essere tale se non intesa come comportamento non
conforme a quelle che sono le usanze in vigore entro una certa cultura che "una certa" etica esprime.
Beh, la ricerca dell'utile e del piacere individuali come "scoperta dell'acqua calda" fino a un certo punto.
Per me quello è il "motore primo", l'autentico universale necessariamente presente in ogni essere umano, l'assoluto
della forma che contrasta con il relativo del contenuto. Boh, un qualche interesse mi parrebbe averlo...
Sulla scena dell'uccisione del serpente ritornano infatti le considerazioni or ora fatte.
Come possono due persone che condividono le medesime radici culturali avere un'idea della moralità cosi diversa?
Bah, forse sarò io troppo immerso in certe considerazioni, ma ti confesso che quella scena mi ha letteralmente
inorridito (e non che fossi inconsapevole del fatto che si trattasse di un serpemte e non di una persona...)
Ma veniamo all'altro argomento.
Chiaramente c'è una abissale differenza fra il pensiero di una cosa reale ed una di una cosa immaginifica.
Dal mio punto di vista AL pensiero di una cosa reale (fenomeno) sottende la cosa stessa (cosa in sè). Al
pensiero di una cosa immaginifica non sottende nessuna cosa in sè, per cui a rigor di logica neppure potremmo
chiamare "fenomeno" questo pensiero.
Eppure questo pensiero "esiste" (seppur questo verbo è inadatto a definire questo "esserci", dunque mi riferirò
ad esso con il termine levinasiano di "c'è"). E fin qui, se non erro, siamo d'accordo.
Il successivo passo che ti propongo è il seguente: se questo pensiero "c'è", allora questo pensiero possiede un
"essere", cioè dev'essere riferito ad un oggetto nel medesimo modo cui vi è riferito il pensiero di un qualcosa di
reale (dicevo: "deve essere riferito ad un qualcosa che io assumo "artificiosamente" come un assoluto, come un oggetto
- sapendolo non tale").
In questo consiste il "livello" di cui dicevo, nel quale non ha nessuna importanza che il pensiero sia o meno riferito
ad un qualcosa di sensibile ("cosa c'è di comune fra le cose corporee e quelle incorporee, dal momento che di entrambe
si dice che sono?", chiede Platone).
La distinzione fra quella che chiami "inseità" del pensiero riferito ad una cosa reale e la "non-inseità" del pensiero
riferito ad una cosa immaginifica risiede NON NEL LINGUAGGIO (che dice che entrambe "sono"), ma appunto nella
consapevolezza dell'"assunzione artificiosa" del riferimento ad un oggetto che IN REALTA' "non c'è".
Si tratta in fondo di essere semplicemente consapevoli che l'oggetto cui il segno si riferisce in realtà non c'è (cioè
c'è il segno ma non l'oggetto).
saluti
#798
A Carlo Pierini
Certo che devi tenere in ben poca considerazione non dico le mie affermazioni (sulle quali potresti non aver torto),
ma l'intera filosofia dal momento che pensi questa non abbia riflettuto a sufficienza su certe tesi alla base delle
tue considerazioni. Non si sia mai posta, per usare la tua terminologia, le "domande cruciali"...
Noto fra l'altro che, nonostante io te l'abbia già detto, continui imperterrito a non distinguere fra "episteme" e "sophia"
(prova ad esempio a sostituire alla domanda sulla terra piatta o sferica la domanda: "è morale l'aborto?", e vedi se
riesci a distinguere un vero e un falso).
Comunque lasciamo perdere e veniamo alla cosa in questione...
Nella mia riposta all'intervento di Daveintro sull'altro post (dove tu mi chiedevi cosa significassero in lingua "umana"
le cose che dicevo), io ho citato la metafora della montagna, di Popper (un epistemologo, fra l'altro, forse il maggiore)
che così recita: "la verità è la cima di una montagna coperta da nubi. Sappiamo che è lì, da quella parte, ma non
sappiamo esattamente dove".
Ecco, questo è esattamente ciò che penso anch'io (e che, presumo, penserebbe anche Kant). Non possiamo conoscere la verità
ma alla verità possiamo avvicinarci; della verità possiamo cioè conoscere la "direzione".
Come dunque vedi, sono molto lontano dal "non esistono fatti ma solo interpretazioni" di Nietzsche (mentre tu ne sei,
inconsapevolmente, molto vicino, ma non divago con cose che ci porterebbero troppo lontano).
E ti ripeto ancora una volta: a me sembra che la moderna concezione di "scienza" dia ragione ad una tale tesi, visto
che la scienza odierna (odierna nel senso di post-relatività) parla del sapere come di un sapere "probabile".
Ti invito pertento ad uscire una volta e per tutte dal tuo mondo antico fatto di oggetti fissi nella loro "datità",
di verità definitive (aggettivo che spesso usi e che dimostra molto di come tu ragioni...) ed irrevocabili.
Prendi finalmente atto che la scienza "autentica" si pone fin da principio come "confutabile", e che le verità
definitive ed inconfutabili sono patrimonio della Fede.
Per poter arrivare a ciò, ti ho consigliato e ti consiglio di nuovo di pensare non a Kant, ma a questa affermazione
di Einstein: "è la teoria a decidere cosa possiamo osservare".
saluti
#799
Bah, direi di più: com'è possibile conciliare la fede nei miracoli con la Fede...
Stando A Dostoevskij (e a Kant), il miracolo è un qualcosa di necessario a coloro che non hanno sufficiente forza per
"credere" (e si badi bene che Dostoevskij ha parole non certo di condanna per costoro...).
Quanto alla scienza io, da questo punto di vista, la lascerei proprio perdere. Tentare di conciliare scienza e fede,
come nella tesi tomista, è un qualcosa che mi pare non reggersi proprio in piedi.
saluti
#800
A Sgiombo
Vi sono stati, lungo la storia, molti casi in cui si sono disseppelliti i morti allo scopo di oltraggiare i vivi
nella loro "genia" (vedi ad esempio il disseppellimento dei morti della famiglia De Pazzi ad opera dei De Medici dopo
la famosa congiura).
Quindi no, non credo che l'onoranza ai defunti sia da annoverare fra le cose davvero innate nell'uomo. L'onoranza
per il defunto è semmai da considerare assolutamente sacra, e uno degli esempi davvero più profondi dell'"assolutamente
sacro", solo all'interno di una specifica "gens", di una cultura particolare. Ma non voglio divagare su questioni tutto
sommato marginali (almeno per come il discorso si è venuto a sviluppare fra noi due).
Per quanto io mi sia dato a pensare nel corso degli anni a quali cose potessero, nell'essere umano, considerarsi davvero
innate ed universali, non sono arrivato a contarne più di quante ne stanno nelle dita di una mano...
La più, diciamo, "forte" mi sembra essere proprio questa del perseguimento del piacere e dell'utile individuale (chiaramente,
ma a questo punto oso sperare sia appurato, non è del "contenuto" di questo perseguimento che parlo ma della "forma").
Da questo punto di vista, chissà, magari quel tangentista un "piccolo" rimorso certamente l'avrà (vedi anche la metafora di
Giuda), ma altrettanto certamente è da considerare che l'utile, il piacere, che egli ricava dall'aver incassato la tangente
supererà in "forza" la "voce della coscienza" (salvo poi, come accade in Giuda, che l'utile rappresentato dalla coscienza
non arrivi a superare in forza l'utile immediato del gretto guadagno di denaro).
Perchè il perseguimento dell'utile e del piacere è da considerare sempre in relazione comparativa ad un altro piacere o utile
(ad esempio nel suicida l'utile che gli dà la morte è da lui considerato comparativamente superiore all'utile che gli è
tramesso dall'istinto per la sopravvivenza).
Non amo portare esempi patetici di esperienze personali, ma giusto ieri ho assistito ad una scena che ho giudicato altamente
immorale (niente di che: l'uccisione di un serpente da parte di un mio vicino). Certamente la mia idea di moralità è ben
diversa da quella del mio vicino (una persona perbene, che mai immaginerebbe di essere da me giudicato un immorale per...
aver ucciso un serpente!).
E vengo con questo al discorso sulle "idee" (per cui mi riallaccio all'altra discussione).
La mia idea di moralità è "reale" quanto la sua: non esiste un riferimento oggettivo per cui si possa parlare di una maggiore
o minore moralità (qui mi riallaccio anche a quanto dicevo sulla moralità come non innata, quindi come relativa).
Il pensiero è certamente pensiero di "qualcosa" (la mia idea di moralità, per "essere", deve essere riferita ad un qualcosa che
io assumo "artificiosamente" come un assoluto, come un oggetto - sapendolo non tale).
A questo livello non ha nessuna importanza che il pensiero sia o meno riferito ad un qualcosa di sensibile (si diceva del cavallo
e dell'ippogrifo), cioè ad un "oggetto" ("ab-soluto" per sua stessa definizione in quanto oggetto). Perchè il linguaggio (cui
Pierce accosta acutamente anche il pensiero) DEVE appunto assumere "artificiosamente come un assoluto, come un oggetto - sapendolo
non tale" il riferimento ad un qualcosa. O altrimenti, dicevo, non potrebbe "essere" (non potrebbe cioè nè essere "detto" né pensato
"qualcosa").
Come dicevo altrove, il linguaggio e il pensiero procedono necessariamente per assoluti.
E tuttavia le persone consapevoli (mi verrebbe da dire i "filosofi"...) sanno che questo procedere è un artificio. Cioè sanno che
vi è differenza fra cosa "pensata" e cosa "reale" (solo gli Idealisti non lo sanno - e bada bene che gli Idealisti infestano il
mondo...).
E' per questo che Kant insiste molto sul "dato empirico". Cioè insiste sulla differenza fra il pensare una cosa "reale" e una cosa
"pensata" (un cavallo e un ippogrifo) PUR SAPENDO che anche la cosa "reale" è un pensato, e che quindi "ad un certo livello" non
si dia differenza con la cosa pensata.
E' questo, comunque, un argomento davvero di estrema complessità.Che richiede un grandissimo sforzo di astrazione, proprio
perchè pensare il "reale" è pur sempre pensare un pensato.
La "cosa in sè", cioè il REALE (l'autentico REALE...), a rigor di logica non può né essere detta né essere pensata.
E, specularmente, la cosa pensata (il "fenomeno") deve a rigor di logica essere assunta necessariamente come una "cosa in sè",
come un oggetto assoluto (per "dire" la mia idea di moralità io la devo assumere artificiosamente come un assoluto).

saluti
#801
A Sariputra
Allora, ti premetto che io ragiono in maniera "kantiana" (non perchè io mi ci sforzi, ma perchè Kant "mi ha detto" come
io ragiono...), per cui distinguo nettamente l'analisi della realtà dal ciò che io vorrei che fosse.
Dio ha per me una duplice valenza. Dal lato del "ciò che io vorrei che fosse", Dio è per me una speranza e, soprattutto,
un imperativo morale. Dal lato reale, io penso che Dio (purtroppo) sia l'ipostasi assolutizzata dei bisogni reali che si
presentano all'interno di una comunità (penso che l'affermazione di Durkheim: "Dio è la comunità" sia verosimile).
Dal punto di vista "reale" è perciò congruo pensare che sia Dio che l'etica siano sovrastruttue culturali.
No, l'uomo non è né buono né cattivo, ma il suo comportamento buono o cattivo è determinato da un groviglio inestricabile
di condizionamenti sociali e psicologici (vedi sopra la risposta a Sgiombo). E' "egoista" nel senso che persegue sempre e
solo il proprio piacere e utile, ma "egoismo" è un termine che va bene per il "contenuto" dell'agire umano, non per la
"forma" (vedi sempre la risposta a Sgiombo).
Beh, diciamo che Dio è probabilmente una "falsità" se ci riferiamo ad una sua esistenza "reale"; non lo è in quanto "idea"
(sono millenni che quest'idea "esiste", quindi non può essere falsità). E comunque non ritengo sia bene che negli ultimi
due secoli quest'idea abbia perso forza; perchè solo pochissimi hanno la forza di sopportare l'idea che tutto sia nulla -
la decadenza morale della nostra società "atea" lo sta a dimostrare.
In quello che io reputo uno dei punti più alti di tutto il pensiero Dostoevskij dice (anzi, "fa dire" ad un suo personaggio):
"se anche Dio non fosse verità, starei con Dio, non con la verità" (e a questo, personalmente, cerco di attenermi...).
Quano al tentare di formare una comunità più giusta su queste basi lo reputo improbabile se non impossibile (Dostoevskij
stesso, nella "Leggenda del Grande Inquisitore", difende i "deboli" incapaci di sopportare il tremendo peso della
libertà e dell'indeterminatezza dell'"autentica" religione di Cristo - contro la vulgata comune che vede nel celebre
capitolo dei "Karamazov" un'attacco alla Chiesa Cattolica).
Ma su questo potremmo parlare molto a lungo (mi fa davvero piacere conoscere un estimatore del Grande Maestro russo)...
saluti
#802
A Sgiombo (seconda parte...)
Mi sono spesso chiesto anch'io cosa vi sia di unitario nel molteplice...
L'onoranza tributata ai defunti sembra essere uno di questi esempi di "unitarietà", senonchè Tucidide intendeva dire che
ciò che ai Greci appariva immorale (l'usanza persiana di bruciare i morti) era per i Persiani morale (mentre immorale
appariva loro l'usanza greca di seppellirli).
E' insomma una questione "relativa", laddove invece l'affermazione di Sariputra circa una morale "autentica" prefigura
uno sfondo assoluto.
Ora, ciò che io sostengo non è certo che la morale non "esista"; "esiste" ma è appunto relativa, e perciò non si può
parlare di una morale autentica o di una inautentica.
Continuo piuttosto a non capire questa tua pretesa vi sia un altruismo, una com-passione, UNIVERSALMENTE DATA nel
comportamento umano (non solo, ma che questo sia dovuto all'evoluzione biologica).
Non starò certo a enumerare gli esempi storici in cui questo non avviene affatto (e che sono senz'altro più numerosi
di quelli nei quali invece avviene), ma sulla base di quanto prima dicevo chiederti: ritieni forse che questo sia
il vero spirito innato dell'uomo che certi condizionamenti sociali hanno traviato?
Perchè se così fosse quello che stai tratteggiando è null'altro che il "mito del buon selvaggio", una teoria chiaramente
metafisica (l'uomo dotato di "anima", quindi partecipe della divinità) che assai poca attinenza ha con la realtà.
Ma qual'è questa "realtà"? Non certo quella di un uomo cattivo per natura, ci mancherebbe (sarebbe solo il rovescio
speculare dell'altra visione).
Se (SE...) la base assoluta, innata, del comportamento umano è la ricerca del proprio piacere o utile allora il contenuto
di tale piacere o utile è determinato da un groviglio inestricabile di condizionamenti sociali e psicologici.
Io, tanto per fare un esempio, non credo che Gino Strada (cambio nome dopo la gaffe di Madre Teresa...) faccia quel che
fa PERCHE' questo gli procura dispiacere o dolore. Tutt'altro, sono convinto che egli faccia quello perchè gli procura
piacere e utile; perchè se non lo facesse si sentirebbe sicuramente peggio (magari si sentirebbe, si dice, "in colpa").
All'opposto, un tangentista (evito altri nomi...) non ha tutta questa sensibilità, e la notte dorme benissimo anche se
poche ore prima ha ricevuto una somma di denaro per, che so, dare l'autorizzazione a sversare veleni in una discarica
abusiva.
In entrame le persone c'è ricerca del piacere e dell'utile (cioè c'è volontà di potenza), ma che differenza nel CONTENUTO
di tale forma...
Ora, puoi dire che nel tengentista vi siano, innati, altruismo e compassione? Magari sarebbe capace, una volta tornato a
casa, di accarezzare amorevolmente i propri figli (e anche i propri cani...) MA...
Ecco, "MA", nel senso che per me il comportamento umano è un tale groviglio di cause che risulta di fatto impossibile
determinare un qualcosa di "oggettivo" che ne fissi una volta e per tutte le caratteristiche, e che l'antica domanda
di Kant ("uomo, cosa sei?") resti, come dire, uno sfondo inaggirabile.
saluti
#803
A Sgiombo
Ma perchè, dicevo, pensare a Dio come sempre e solo quello, diciamo, storicamente determinato?
Non vorrei andare fuori tema, ma il concetto di Dio come lo ritrovo, ad esempio, in Kant o Dostoevskij (se non l'hai già
letto ti consiglio caldamente la "Leggenda del Grande Inquisitore" (che è un capitolo dei Karamazov ma che trovi facilmente
in rete come documento di lettura) è ben lontano dal concetto trito e meschino che ne fornite tu e Sariputra.
Ma passiamo oltre.
No, beh, Durkheim è un filosofo e antropologo ben profondo, che nei suoi studi sul totemismo teorizza la coincidenza fra
Dio e la comunità, null'altro (pensa solo al fatto che nell'antichità ogni città avesse un proprio Dio, e che l'effige
del Dio - poi "traslato" nella bandiera - era il primo feticcio di cui il conquistatore si impossessava).
La verità è che non si tratta di dire ciò che fa piacere dire, ma di dire ciò che "è" (non ciò che "dovrebbe essere").
E ciò che "è" è molto spesso gretto e meschino: non so che farci.
Che poi vi siano eccezioni (perchè sai bene che di questo si tratta) è una cosa che apprezziamo tutti (oso sperare almeno
tutti noi qui, in questo forum), ma una cosa che certo non "fotografa" la realtà (cioè che "è").
Da un certo punto di vista sì, moralità ed immoralità sono una cosa "laica" (per non esserlo dovremmo essere certi dell'
esistenza di Dio, o almeno averne "fede"). Ma una cosa "laica" che bene o male deve fare i conti con un'idea (l'idea di Dio),
e tu mi insegni che anche un'idea ha una consistenza "reale" (a proposito, devo ancora risponderti sull'argomento; magari lo posso
fare anche qui, in questo post).
Per quanto mi riguarda preferisco usare le categorie kantiane dell'"essere" e del "dover essere", ove la seconda implica
necessariamente uno "sguardo" metafisico, o "valoriale" che dir si voglia.
saluti
PS
Mi sono accorto adesso di aver risposto solo al tuo primo intervento
#804
A Sariputra (ma anche a Sgiombo, al quale risponderò nello specifico appena posso)

Francamente non riesco a capire come si possa pensare ad un uomo buono per natura (o cattivo per natura, intendiamoci)
escludendo del tutto da un tal pensiero l'elemento metafisico (e precisamente quell'elemento che va sotto l'espressione:
"ciò che vi è di unitario nel molteplice").
Un elemento, certo, non proprio e del tutto "religioso"; ma un elemento che con la religione ha senz'altro molto da
spartire.
Certamente la paura di chi è "altro" gioca un ruolo importante, in questo sono senz'altro d'accordo. Ma è di una paura
ancestrale che stiamo parlando (probabilmente dovremmo risalire al periodo neolitico, quando vi furono i primi incontri-
scontri fra stanziali e nomadi - quando la capanna rotonda lasciò campo alla capanna quadrata come segno evidente di
fortificazione contro un nemico esterno), quindi di una paura che poco o nulla è dovuta ai condizionamente sociali
in genere.
Sicuramente nella storia si sono avuti anche esempi di solidarietà e collaborazione, ma se mi permetti molto più
frequenti sono stati i momenti di scontro e rivalità in genere (dovuti non sempre certo alla "paura", ma spessissimo
a brama di conquista, come ben sappiamo).
Ma vengo all'elemento che ritengo più importante (importante in questo discorso, beninteso).
Dicevo che a parer mio ciò che più di ogni altra cosa contraddistingue non solo la modernità, ma l'intero processo
storico dell'occidente è l'emergere prepotente dell'individuo.
A questo proposito trovo estremamente interessante la tua citazione del libro di Venturini (e ciò che Venturini vi dice
non mi meraviglia affatto...).
La mia tesi a tal proposito è quella cui accennavo: nell'emergere dell'individuo assistiamo ad una contemporanea e
speculare eclissi della comunità. E siccome è solo all'interno della comunità che può sorgere un nucleo condiviso di
valori etici e morali (che Durkheim, acutissimamente, fa coincidere con "Dio"), nel momento in cui la comunità si
eclissa si eclissano necessariamente anche quelli.
Ciò che rimane da questo immenso sommovimento è l'individuo "monade" (quello per cui "morto lui finisce il mondo";
un individuo che regola i rapporti con gli altri individui secondo la "volontà di potenza", cioè secondo l'egoistica
ricerca del piacere e dell'utile (una dinamica che in economia si chiama "libero mercato", ma non divago....).
Ora, trovo molto interessante anche la tua annotazione per cui in occidente ci si sarebbe cominciato ad interrogarci,
a porci delle domande, insomma.
Bah, forse a forza di sbattere il muso contro una parete si acquista consapevolezza se non altro dell'esistenza di una
parete, non credi?
Probabilmente abbiamo capito (e lo hanno capito ormai in tanti, non solo i più "consapevoli") che "qualcosa non va";
anche se dobbiamo ancora mettere a fuoco, e ci vorrà molto tempo, se mai avverrà, il "che cosa" non va e soprattutto
il PERCHE' non va...
Provo a buttar là qualcosa: non va il mercato; non va la solitudine dei nostri anziani; non va in genere quella
che viene percepita, e giustamente, come una "disumanizzazione" dell'intera società.
Quanto al PERCHE' non va ti rimando a quanto dicevo sopra...
saluti
#805
A Sariputra
E che vuol dire moralità "autentica": forse che ne esiste una "inautentica"?
Tucidide descriveva le onoranze funebri dei Persiani (i quali bruciavano i morti) e dei Greci (che li seppellivano)
sottolineando come il rispettivo mezzo di onorare i morti inorridisse la rispettiva controparte (pur se il fine era
il medesimo)...
Chiaramente il nucleo familiare è l'unità minima per quanto riguarda una comunità; ma è comunità a tutti gli effetti.
Ed è infatti proprio nella famiglia (come nell'antico "clan", che era una famiglia, diciamo, ben più larga di come noi
oggi la intendiamo) che vediamo esplicitati in massimo grado quei sentimenti di solidarietà e di altruismo che vanno
annacquandosi man mano che il nucleo si allarga (parentela; paese; regione; etc.).
Non a caso il detto celebre di certi nazionalismi politici è "Dio, Patria, Famiglia". Una affermazione che solo ad una
analisi superficiale potrebbe apparire come mera espressione retriva, quando invece è il risultato di tutto un modo di
vedere le cose, di tutta una cultura, che nasce con la Rivoluzione francese ed arriva fino ai giorni nostri (senza voler
con ciò esprimere un giudizio di valore, per carità).
Ora, vedi tu, nella storia, questi sentimenti di solidarietà e altruismo nei confronti di altre persone, di altre culture,
di altre nazionalità?
Non solo, li vedi tu, oggi, presenti come ieri nella nostra stessa società?
No, non li puoi vedere, semplicemete perchè sono scomparsi. Ma perchè sono scomparsi (ed è proprio questo che ci interessa)?
Forse perchè, come dai ad intendere (poi magari mi sbaglio), non c'è più una moralità "autentica"?
E come fai a dire una simile aggettivazione senza ricorrere a categorie "ab-solute", cioè metafisiche? Ti rendi conto che
parlare di una moralità "autentica" è equivalente a dire: "io sono il signore Dio tuo, non avrai altro Dio all'infuori di
me"?
Tempo fa, al bar del mio paese, ho sentito una persona (avrà fatto sì e no le elementari...) affermare: "il giorno che muoio
io finisce il mondo".
Ora, a parte il fatto che costui ha espresso un pensiero in tutto degno di Nietzsche (a riprova che tutti sono capaci di
fare "grande" filosofia), ti rendi conto che una simile "forma-mentis" non può contemplare solidarietà ed altruismo?
Questo è forse l'esempio più lampante di quell'emersione prepotente dell'individuo che, dicevo, contrassegna l'intero
processo storico dell'occidente, e che oggi è probabilmente arrivato ad uno dei suoi punti più estremi.
E, no, quella persona non era e non è "cattiva". E' egoista, senz'altro, ma come ormai lo sono tutti...
saluti
#806
A Sgiombo e Sariputra
A parer mio in queste questioni vengono sempre e inopportunamente tirate in ballo le religioni così come esse si sono
formate nella storia.
Oppure vengono tirate in ballo questioni che solo apparentemente non hanno a che fare con le religioni "storiche",
come ad esempio quella di un uomo "buono per natura".
Dice Sgiombo:
"Comunque non c' é alcun bisogno di credere in Dio né in alcuna "mano invisibile" per avvertire in se stessi e notare
universalmente di fatto in tutti gli uomini (in conseguenza de tutto naturale e quasi ovvia dell' evoluzione biologica)
gli imperativi morali della compassione (in senso letterale: condivisione delle passioni, dolorose e penose come
piacevoli e felici) degli altri, della generosità, altruismo, magnanimità, ecc".
A me sembra che anche laddove "non ci sia bisogno di credere in Dio", affermare questo è COME credere in Dio: è
assolutamente equivalente.
Ma vediamo un attimo a ciò che dice Sariputra:
"Penso che non si tratta di stabilire a priori  degli imperativi, empirici o categorici, ma di sperimentare nella propria vita
quali siano i vantaggi reali, concreti di un comportamento guidato dalla virtude. Se sostituiamo i termini "bene" e "male",
che vengono percepiti dall'uomo moderno come carichi di valenza metafisica ( e perciò rifiutati...) con "effetti salutari"
e "nocivi", sottolineiamo che un comportamento immorale non è tale perché va contro delle norme, ma perché è dannoso a se
stessi, agli altri, a entrambi".
Se confrontiamo queste tesi con quel che afferma E.Durkheim sull'origine delle religioni (l'origine delle religioni è nel
totemismo, e perciò vi è una diretta corrispondenza fra l'idea di Dio e la comunità), vediamo che queste tesi possono avere
una loro validità, ma solo all'interno di una ben specifica comunità, o "cultura".
E' in altre parole evidentissimo che solo all'interno di un gruppo umano ben "individuato" (da una cultura, da una lingua
come da una vera e propria etnia) possono stabilirsi rapporti fra i membri improntati alla solidarietà e all'altruismo.
Molto di rado (e se permettete gli esempi storici si sprecano...) questi rapporti si instaurano nei confronti di culture
diverse: del cosiddetto "altro".
Lungo il processo storico, l'occidente in particolare ha visto un sempre più prepotente emergere dell'individuo, una
dinamica che è andata naturalmente di pari passo con l'eclissarsi della comunità.
Ma se prendiamo per buona la tesi di Durkheim (e io ce la prendo...), l'eclissarsi della comunità coincide con l'eclissarsi
dell'idea di Dio NELLA FORMA dell'eclissarsi del "valore" che dalla tradizione comunitaria proviene.
Ecco allora che la condivisione delle passioni, l'altruismo nei confronti degli altri membri come dinamica finalizzata alla
preservazione e alla continuazione della comunità (ed è qui che il Bene e il Male diventano il "salutare" e il "nocivo")
viene a perdere di senso; perchè ove non c'è più una comunità non possono nemmeno esserci i suoi "valori"; "valori" che
strutturalmente possono essere ricondotti appunto ai concetti di "salutare" e di "nocivo".
In un discorso di questo tipo, a me sembra che il Paradiso e l'Inferno c'entrino poco...
saluti
#807
Dice Kobayashi nel primo intervento in cui parla di Deleuze:

"Il concetto di forza. Ci sono forze attive, che tendono alla propria affermazione (che godono della differenza rispetto alle
altre forze), e reattive, che si oppongono alle prime.
La volontà di potenza è l'elemento genealogico delle forze. Ossia, è ciò che produce la differenza di quantità di due o
più forze che sono in rapporto, ed è ciò che determina la qualità di ciascuna forza.
Le forze, in base alla loro quantità, possono essere dominanti o dominate.
In base alla loro qualità, attive o reattive.
C'è volontà di potenza sia nella forza attiva che in quella reattiva.
Quindi in N. c'è un'opera di ricerca di ciò che si muove sotto un certo fenomeno e che determina il valore di esso (il lavoro
genealogico), e nello stesso tempo un'opera creativa che mira a favorire la liberazione delle forze che affermano, le forze
vitali, attive, nobili".

Ora, non ho mai letto nulla di Deleuze su questa questione, quindi mi baso sulle poche righe riportateci da Kobayashi.
Detto ciò, da quel che leggo a me questa questione delle forze "attive" e "reattive" sembra molto, come dire, "artificiosa".
Se il movente primo dell'agire umano è la ricerca dell'utile e del piacere (come io sostengo sulla base di quanto afferma la
tradizione filosofica anglosassone), allora tale distinzione è INNANZITUTTO valoriale.
Insomma, chi dice cos'è "attivo" e cos'è "reattivo"? Così, a naso, mi sembrerebbe proprio si stia sostenendo che le forze
"attive" sono quelle che, ove siano in quantità maggiore delle "reattive", conducono alle "nobili virtù" dell'oltreuomo...
Non solo, ma come si fa a dire che vi è volontà di potenza anche nelle forze "reattive" (presumibilmente quelle che si
OPPONGONO alle suddette nobili virtù) e poi per così dire "squalificare" tali forze?
Su quali basi avvengono questi giudizi di valore?
Perchè mi sembrerebbe oltremodo evidente che si sta parlando di giudizi di valore; e però questi giudizi non possono
essere certo espressi su una base, diciamo, "nietzscheiana" (la filosofia di Nietzsche semmai distrugge il giudizio di valore).
Perchè se questa interpretazione di Deleuze (e diciamo pure anche l'originario pensiero di Nietzsche) fosse plausibile la
volontà di potenza si porrebbe, essa, come l'"in sè" originario, come il "movente non-valoriale" che non distingue perchè non
può distinguere (dicevo: su quale base) fra le sue molteplici attuazioni.
Bah, attendiamo se Kobayashi ha da dirci qualcosa di più preciso.
saluti
#808
Citazione di: Lou il 16 Luglio 2018, 21:05:21 PM
Ma per Nietzsche e Spinoza stesso non ritengo proprio sia così, viene prima la polis dell'individuo, è inimmaginabile una vdp individualistica posta in questi termini, se non in senso reattivo. Se me lo consenti, nè per l'uno, nè per l'altro. La realtà non è individuale.


Come affermo nella precedente risposta a Kobayashi, contesto questa tesi delle forze "attive" e "reattive" (la contesto
sulla base, dicevo in precedenza, degli studi dello psicologo nietzscheiano A.Adler, che individua la volontà di potenza
anche nel masochista, nel suicida o nel malato psichico).
Dal mio punto di vista è chiaro che l'"oltreuomo", nella sua "nobiltà", vitalità etc. è solo un residuo idealistico se
non proprio metafisico (anzi, direi che lo è decisamente...), e che la realtà è molto più elementare e meschina.
Che vuol dire: "la realtà non è individuale" (come che vuol dire che per Nietzsche viene prima la polis)?
Sto semplicemente dicendo che la filosofia anglosassone, nella sua tradizione classica, vede il "Bene" in maniera
soggettiva, e cioè come ricerca dell'utile e del piacere individuali (contro una tradizione europeo-continentale
che invece lo vede, il "Bene", in maniera oggettiva, cioè come "in sè").
E che Nietzsche, nel momento in cui distrugge quell'"in sè", distrugge anche l'idea europeo-continentale del "Bene".
PER CUI, visto che non è certo pensabile che Nietzsche possa riprendere PER INTERO l'idea anglosassone del Bene (con
annessi e connessi "orologiai", mani invisibili e divinità varie...), chiedevo cosa restasse.
Si pensa davvero possa restare l'idea di un "oltreuomo" nobile e, diciamo, dalle mille virtù?
Oppure si può pensare che resti una realtà elementare e meschina, come dicevo, che vede l'agire umano come rivolto solo
e sempre al perseguimento del proprio utile e piacere?
Non a caso dicevo appunto fin dall'inizio che avrei cercato di proporre un Nietzsche diverso, appunto "da un altro punto di vista"...
saluti
#809
Citazione di: Kobayashi il 17 Luglio 2018, 12:35:25 PM
Quello che voleva suggerire Deleuze è che l'uomo nobile di N. (così come per esempio l'uomo nobile di Eckhart), non può essere dedotto dai luoghi comuni della nostra vita pubblica.
L'uomo nobile non è chi ha il potere politico o economico, per intenderci, ma chi vive con gioia la propria differenza, chi non ha risentimento e non ha alcun interesse a costringere gli altri a essere come lui, chi con serenità va avanti per la sua strada senza voler essere riconosciuto, interessato più alla sua gioia di creare che al vile godimento di sottomettere gli altri etc..

Non condivido affatto questa interpretazione di Deleuze.
Come ti dicevo nella precedente risposta (che forse ti è sfuggita):
"Quindi certo, sono in linea di massima d'accordo con Deleuze. Senonchè mi sembrerebbe però alquanto discutibile la sua
distinzione fra forze "attive" ("che tendono alla propria affermazione") e "passive" (forze "dominate" che presumibilmente
NON tendono alla propria affermazione).
Voglio dire che se c'è volontà di potenza sia nella forza attiva che in quella passiva, come mi pare affermi Deleuze, allora
sia le forze attive che quelle reattive tendono alla propria affermazione (come del resto vi tendono necessariamente nella
mia tesi, visto che sostengo la natura innata ed universale della ricerca del piacere e dell'utile).
Da questo punto di vista il proposito di Nietzsche di un "oltreuomo" nel quale le forze "attive" ("vitali"; "nobili") si
liberano (e non possono che liberarsi dalle forze reattive...) in un'opera "creativa" mi appare come un residuo
idealistico se non proprio metafisico".
Credo in sostanza che, per così dire, la partita si giochi tutta in quella distinzione fra forze "attive" e "reattive" che
dal mio punto di vista non esiste (in quanto la volontà di potenza coincide con la ricerca dell'utile e del piacere).
Dove va a pescare, Nietzsche, quest'idea della volontà di potenza come espressione dell'uomo "nobile" SE NON in un'idea
aprioristica della "nobiltà"? SE NON, cioè, in un vero e proprio valore morale?
Eppure è chiaro che la sua filosofia piuttosto distrugge il valore morale e l'apriorismo...
saluti
#810
Citazione di: sgiombo il 16 Luglio 2018, 19:30:33 PM
Citazione di: 0xdeadbeef il 16 Luglio 2018, 17:15:33 PMMa "impulso (comportamentale istintivo)" significa puramente e semplicemente "conato", desiderio di raggiungere un (qualsiasi; più o meno buono o cattivo, importante o futile, nobile o volgare, ecc. che sia) obiettivo.
CitazioneOgni volontà (di potenza?!?!?!) per definizione é ricerca di soddisfazione.
Ma questo non equipara affatto tutte le diversissime e in qualche caso del tuttp reciprocamente contrarie volontà possibili e realmente esistenti fra loro!

No, non le equipara affatto (il piacere e l'utile di Madre Teresa di aiutare i poveri e i sofferenti non può in
alcun modo essere equiparato al piacere e utile di Hitler di sterminare gli Ebrei, è ovvio).
Ma, ti chiedo, cos'è che allora differenzia i due diversi modi di perseguire il proprio piacere?
Sulla risposta a questa domanda a parer mio torna quella parolina: "Bene", cui la filosofia anglosassone afferma
consistere la ricerca del piacere e dell'utile individuali.
Non è chiaramente (almeno per me ) così come affermato dagli anglosassoni. La teoria soggettiva del Bene mostra tutti
i suoi limiti laddove costretta ad inventarsi un qualcosa di francamente grottesco, come l'affermazione che Dio, "poi",
regolerà al meglio e a vantaggio di tutti questi impulsi individuali al piacere (come del resto nella teoria della "mano
invisibile" di Smith, vero e proprio fondamento assoluto di tutta la teoria economica neoclassica).
Si rende allora necessario un recupero della teoria "oggettiva" del Bene (quella classica dell'Europa continentale); una
teoria che giudica "buono" un agire SE conforme ad un'idea del Bene che è "data" come "oggetto".
Ecco allora che la ricerca del piacere e dell'utile di Madre Teresa apparirà come "buona", appunto perchè conforme
ad un'idea del "Bene in sè" (e viceversa per Hitler).
Dal punto di vista di Nietzsche però il problema è che questa idea oggettiva del Bene viene rimossa (laddove viene
dichiarato, con Dio, "morto" il valore morale). E ciò che allora rimane non è certo l'eco "eroica" e pateticamente
romantica dell'"oltreuomo", ma la meschinità e il grottesco della visione anglosassone.
saluti
(come vedi sono ancora kantiano...)