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Mostra messaggi MenuCitazione di: 0xdeadbeef il 16 Ottobre 2018, 15:18:59 PM
A Ipazia e Sgiombo
Si parlava, se non erro, di innatezza della morale...
In un precedente intervento, dicevo che l'empatia verso l'"altro" scema man mano che ci si allontana da se stessi. Quindi se
stessi, la propria famiglia, la propria cerchia di amici e parenti, quella dei conoscenti, e così via fino ad arrivare agli
sconosciuti che vivono in paesi a noi lontani sia geograficamente che culturalmente.
Sulla base di ciò, mi chiedo se la definizione di "morale", e di "bene", di Ipazia ("L'etica è qualcosa di molto concreto,
finalizzato alla sopravvivenza di una comunità umana con aspetti egoistici e altruistici equamente ripartiti") e Sgiombo
("ciò che è utile alla sopravvivenza e riproduzione di individui e specie") "dica" la moralità o dica qualcos'altro...
Sicuramente la morale così come da loro intesa è un qualcosa di innato; ma è davvero ancora definibile come "morale"?
Citazione di: 0xdeadbeef il 16 Ottobre 2018, 15:18:59 PM
Su una tale base, come è possibile, ad esempio, reputare immorale l'intenzione nazista di cancellare la "razza" (...)
ebraica? Non era forse, essa, vista dai nazisti come un pericolo per la sopravvivenza della razza ariana?
Citazione di: 0xdeadbeef
E allora? Lasciamo forse che sia il "nomos" umano a dirimere su ciò che è degno di sopravvivere e riprodursi e ciò che non
lo è (come del resto nell'esempio degli Hindi riportato da Jacopus)?
Ah sì, nei fatti non possiamo che agire in tal modo, d'accordo; ma, appunto, se reputiamo come "fondata" una morale che
fa NON della sopravvivenza e riproduzione dell'INTERO genere umano, ma della sopravvivenza e della riproduzione di un
particolare gruppo umano la propria sostanza, allora siamo in tutto e per tutto dentro la definizione utilitaristica della
filosofia anglosassone. Naturalmente con quel che ne consegue. E cioè con l'impossibilità di "dire" la moralità e l'immoralità al di fuori di una certa specificità (cioè al di fuori di un certo "contesto"). Che vuol dire l'impossibilità "ultima" di giudicare alcunchè
("non puoi giudicarmi", dice infatti la casalinga oggetto originario di questo post).
Non credo esista un "dato evolutivo reale" che possa confortarci circa una possibilità concreta di superare "oggettivamente"
questa impossibilità di "dire" la moralità e l'immoralità (se c'è, io non lo conosco...).
Mi tengo allora la definizione "continentale". Pur se "senza sbocchi" (Ipazia);
Citazione di: 0xdeadbeef
pur se, giustamente, a rigor di logica dovrei pormi il problema della bistecca di manzo e della carota;
Citazione di: 0xdeadbeef
essa mi dà però un riferimento che l'altra non può darmi.
Ma quale riferimento? Non certo quello di un articolo di fede...
Essa mi indica non tanto una oggettività "possibile" (altrimenti ci sarebbe uno sbocco...), quanto appunto la necessaria
mancanza di ogni riferimento nell'altra, sulla quale è appunto impossibile la formulazione di qualsiasi giudizio di valore,
o morale che dir si voglia.
saluti
Citazione di: Carlo Pierini il 16 Ottobre 2018, 13:26:02 PM
IPAZIA
c'è la rappresentazione (del mondo) e c'è la pratica di questa rappresentazione. E ciò comporta che la pratica delle rappresentazioni non è essa stessa una nuova rappresentazione.
CARLO
Non è esattamente così: anche la pratica delle rappresentazioni è oggetto di rappresentazione. Ti faccio un esempio: l'uso di equazioni matematiche per esprimere delle leggi fisiche è una "pratica delle rappresentazioni". Eppure esistono due rappresentazioni diverse e inconciliabili di questa "pratica": quella di Hume-...Sgiombo, secondo cui l'immutabilità-eternità della logica matematica non garantisce l'immutabilità-eternità delle leggi fisiche che essa esprime, e quella di Pitagora-Platone-Galilei-Leibniz-Spinoza-...Pierini che, invece, concepisce i numeri come gli eterni archetipi del creato, cioè i modelli immutabili sui quali sono plasmate le leggi immutabili-deterministiche del mondo.
Citazione di: Carlo Pierini il 10 Settembre 2018, 21:03:04 PMNon solo: è il potenziamento degli strumenti tecnoscientifici a rendere possibile nuova scienza. Quindi Lou ha perfettamente ragione.Citazione di: Lou il 10 Settembre 2018, 20:35:43 PMCARLO
Non penso sia così "tutto qui", Carlo, o meglio, il rapporto appare invertito: la scienza rincorre le applicazioni cretative e tenta di descriverne i fenomeni a cui dan corso. In un certo senso è è la tecnica che apre scenari inediti alla scienza, volendomi mantenere nella distinzione che poni, in modo, diciamo di trend genealogico.
Certo. L'applicazione creativa del sapere scientifico si riflette anche in un potenziamento degli strumenti di osservazione e di ricerca della scienza stessa (dal cannocchiale, al microscopio, ai telescopi in orbita, alle telecamere inviate su Marte, ecc.).
Citazione di: viator il 07 Settembre 2018, 12:52:32 PM
L'amore - anche restando nel limitato ambito umano - ho già detto che è la pulsione ad includere (essere inclusi) e/o a capire (essere capiti).
L'incapacità di provare amore (la quale include quindi la capacità di odiare) non è altro che l'incapacità di capire a fondo.
Se qualcuno si trovasse a poter capire tutto ciò che incontra, ti assicuro che non potrebbe fare a meno di amare tutto ciò che incontra.
Citazione di: 0xdeadbeef il 15 Ottobre 2018, 21:10:10 PMTrovo questa impostazione del problema etico non abbia sbocco proprio per la sua impostazione idealistica, imperniata su una concezione platonica del Bene (ancorata implicitamente al valore Vita, cosa su cui invece, materialisticamente, concordo). L'etica è qualcosa di molto concreto, finalizzato alla sopravvivenza di una comunità umana con aspetti egoistici e altruistici equamente ripartiti. Ma le comunità umane sono molte e differenziate per condizioni oggettive, prima che soggettive. E spesso confliggenti tra loro. L'idea di un Bene universale è pura ideologia: nel deserto è Male sprecare l'acqua, in Irlanda, no. Gli esempi qui riportati sulle carestie indiane illustrano alla perfezione il concetto. Quello che a noi di tradizione "cattolico-romana" pare assolutamente inaccettabile, è più che accettato non solo dalle caste indiane superiori, com'è logico, ma pure da quelle inferiori che hanno subito un male concreto, che però non è considerato Male nel loro orizzonte etico. Tutt'al più si consoleranno pensando che nella prossima reincarnazione, se rispettano il loro Karma, potranno rinascere in una casta superiore.
Ciao Sgiombo
A parer mio ancor prima del "dove" (è la morale), è il caso di stabilire il "cosa" (è la morale). Perchè la definizione
di essa non è univoca, ed è su questa non-univocità che, per così dire, si gioca la partita.
Ti propongo la seguente definizione: la morale (o etica che dir si voglia) è la condotta rivolta al bene. La qual
definizione, come ovvio; ci rimanda allo stabilire un'altra definizione; quella di "bene" (e qui la facciamo finita con
questo gioco di scatole cinesi...).
Quindi: cos'è il "bene"?
Ti cito il Dizionario Filosofico di N.Abbagnano: "l'analisi della nozione di "bene" mostra subito l'ambiguità che essa
cela: giacchè il bene può significare o ciò che è - per il fatto che è - o ciò che è oggetto di desiderio, di
aspirazione etc".
Mi sembra che la tua definizione di "bene" ("ciò che è utile alla sopravvivenza e riproduzione di individui e specie")
rientri nella prima di quelle due categorie (infatti tu non dici che quello è ciò che desideri, ma che è quello che è).
Questo ti porta a squalificare come immorali quei comportamenti non conformi all'"essere" che affermi (senza, naturalmente,
tener conto che quei comportamenti potrebbero essere stati dettati da un desiderio ben preciso - magari di vivere meglio io
piuttosto che altri, o magari proprio vivere io piuttosto che altri...).
Torno sul dilemma filosofico di cui dicevo in un precedente intervento: cosa saremmo disposti a fare per evitare la morte
di uno sconosciuto che vive in un paese sconosciuto, a migliaia di kilometri da noi?
Saremmo disposti a donare una grossa somma di denaro, tutto ciò che possediamo o la stessa vita di un nostro familiare?
Certo, sacrificheremmo forse un figlio per evitare la morte di migliaia di persone a noi sconosciute? Non sembrino queste
cose poi così assurde (anche se in un certo qual modo lo sono). Perchè la loro presunta assurdità ci mette davanti alla
domanda: cosa faccio io per gli altri, e cosa sarei disposto a fare?
Quante volte abbiamo anteposto il NOSTRO interesse personale o l'interesse di una ristretta cerchia a quello di un non ben
definito "interesse generale"? Quante volte abbiamo tacitato la coscienza con gli argomenti più disparati per non ammettere,
ecco che torna il punto, che il "bene" da noi preferito è stato quello che è oggetto di desiderio e di aspirazione (non
quello che è)?
La filosofia anglosassone (per la quale il "bene" è l'utile individuale, quindi è ciò che è oggetto di desiderio) se la
cava troppo facilmente: c'è Dio che interviene a regolare per il meglio le volizioni individuali (un concetto che in
economia si traduce con il vero fondamento di tutto il liberismo, e cioè la "mano invisibile" di A.Smith), ma per
quanto riguarda la filosofia "continentale", la nostra?
Per la "nostra" (ho qualche dubbio su questo aggettivo possessivo, visto che ormai la mentalità anglosassone sta dilagando)
filosofia il "bene" è ciò che è; e che lo è "assolutamente", cioè a prescindere dalla volizione soggettiva.
La nostra è dunque una posizione molto più scomoda di quella anglosassone; una posizione che, se presa seriamente (cioè alla
lettera), ci obbligherebbe a scelte morali pesantissime: persino a sacrificare noi stessi o la nostra famiglia sull'altare
della sopravvivenza e riproduzione degli altri.
saluti
Citazione di: sgiombo il 14 Ottobre 2018, 11:16:06 AMVi è un'ontologia degli enti reali che conviene lasciare alla scienza, compreso dio quando lo si spaccia per ente reale (e con ciò rispondo a Pierini) e un'ontologia dei concetti e degli enti immateriali che appartiene alla filosofia, inclusa la filosofia della scienza o epistemologia. Quindi il confine c'è, ma non è del tutto invalicabile da parte di filosofi-scienziati che hanno una preparazione sufficiente per non confondere i due "regni", ma che ne permettono la reciproca comunicazione e collaborazione.
Per ontologia intendo lo studio, la ricerca della conoscenza della realtà nei termini più generali astratti in cui essa possa essere considerata; realtà in generale che secondo me eccede la particolare realtà fenomenica materiale scientificamemnte conoscibile.
Dunque per me, contrariamente ai monisti materialisti, l' ontologia non sarà mai inglobata nei confini della scienza, sarà sempre materia di studio filosofica.
Citazione di: sgiombo il 14 Ottobre 2018, 10:49:23 AM
Per esempio non é di fatto possibile prevedere il singolo risultato del lancio di due dadi o di una moneta non truccati