La critica sociale della "rive gauche" (genitivo soggettivo; per ovvi motivi sociologico-commerciali non ve ne può essere altra proponibile nell'intrattenimento a larga scala) è un po' come il teorema di Pitagora: quando lo scopri è "avvincente", ma con il tempo diventa mera esecuzione (formalmente standardizzata) per un determinato e prevedibile fine. Trattandosi qui di arte, chiaramente conta molto anche il "come" qualcosa viene presentato, non solo il "cosa", per cui lo stesso "cosa" può essere (rap)presentato in modalità più o meno innovative, più o meno esplicite, più o meno vendibili, etc. con l'accumularsi crescente di film (o serie, come quella citata che non ho visto) "socialmente critici" siamo forse arrivati alla parodia capitalistica di una critica anti-capitalista, paradosso solo apparente consideranto che si tratta di arte che "deve" (o almeno vuole) comunque vendere e/o affabulare, non solo comunicare (disincanto celato nel doppio fondo di gran parte dell'"arte socialmente impegnata"; fermo restando che criticare l'arte che critica qualcosa non significa automaticamente essere entusiasti sostenitori di quel qualcosa, sempre se si resta nel disincanto, antidoto alle polarizzazioni "pro/contro" che mortificano la riflessione "pre-giudiziale", nel senso che precede eventuali giudizi).
Azzardo: nella tragedia l'antagonista indiretto è solitamente il destino avverso (quello diretto è una divinità crudele o il cattivo di turno), mentre nella critica sociale il ruolo di antagonista diretto è quello del ricco (più o meno corrotto, più o meno sadico, più o meno cinico, etc.), con la società (o meglio le regole di una certa società) a fungere non da sfondo ma da antagonista indiretto; si è dunque passati dall'impotenza (se di tragedia si tratta) nei confronti del destino all'impotenza (almeno iniziale, secondo il copione generico di tali film) nei confronti della società, entrambi pronti a richiedere vittime sacrificali per la fortuna di altri. La differenza cruciale è che mentre il destino, fatalisticamente, "guida chi lo accetta, trascina chi non lo accetta" (Seneca), la società viene criticata per proporre (plausibilmente) una presa di coscienza, forse alludendo ad un anti-fatalistico possibile cambiamento; questo, se non ho preso un abbaglio, dovrebbe/vorrebbe essere il plusvalore semantico/pedagogico/"di denuncia" dell'arte impegnata in questione. Non è affatto ironico che, fuori dalla narrazione della trama, chi in quella trama è rappresentato non possa "vedersi" sul grande schermo (diseredati, poveri, emarginati, etc. difficilmente useranno Netflix o andranno al cinema), poiché tale richiamo alla giustizia, implicito nella implicita critica sociale, è "giustamente" rivolto a chi rischia di essere ingiusto e/o a chi tale ingiustizia alimenta. La società ha una dinamica ingiusta e quindi alla società (quantitativamente parlando) facciamo vedere, in forma ovviamente romanzata, quali sono gli effetti collaterali del benessere di alcuni (pochi?) e quanto sono delicati gli ingranaggi che sostengono tale benessere, per cui la lotta per la grigia sopravvivenza quotidiana per "arrivare a fine mese" (o a "fine giornata") diventa una "battle royale", narrativamente impostata in una competizione per arrivare alla fine del gioco (con tanto di ricco montepremi che metaforicamente rappresenta... un ricco montepremi, come nei migliori romanzi di formazione e nella più spietata critica al capitalismo). Probabilmente l'utilità sociale di tale messaggio è paragonabile all'introduzione del film (non so se ci sia ancora) che ci ricorda che la pirateria è reato; ricordarlo a chi è nel cinema può aver lo scopo di: far sentire in colpa gli eventuali "pirati part-time" (che alternano cinema a pirateria); ricordare quanto sono criminali gli eventuali "amici pirati" che ci hanno detto «non vengo al cinema con te perché mi scarico il film»; farci sentire bravi perché siamo lì, anziché essere pirati, con l'impliclito invito a ritornare prossimamente. Colpa, discriminazione e approvazione, tre categorie indubbiamente sociali, che possono talvolta anche spaziare dal messaggio pre-film al contenuto dei film di critica sociale; tuttavia, si può ribaltare il significato/rappresentazione della critica leggendoci addirittura un compiacimento dello status quo (giocando a fare i critici della critica)? Recepito il messaggio che la società produce disagio (v. emarginati), che il successo è instabile (v. repentino fallimento economico), che la giustizia talvolta non è giusta per tutti (v. istinto di vendetta), etc. davvero una rappresentazione "drammaturgica" di tali meccanismi coincide con una loro critica? Il far vedere "quello che loro non vorrebbero farvi vedere" (che è ormai diventato "quello che voi volete vedere", con annesso "ghigno capitalista"), la rivincita in forma cinematografica del perdente, il riscatto del brutto/sfortunato/fallito, la redenzione del peccatore, etc. non sono forse (uscendo dallo schermo per tornare nella realtà non-cinematografica) come sognanti cartoline spedite dal carcere a chi è fuori dal carcere? Di fatto non diminuiscono la pena (in tutti i sensi) di chi è dentro, né dipingono necessariamente la pena come ingiusta, e producono in chi è fuori una forma di "disempatia" (parodiando la dispatia): "mi dispiace quando mi immedesimo in te, ma sono anche contento che sia solo un'immedesimazione temporanea, che finisce quando finisce il film (o quando mi accorgo che io sono fuori e tu dentro)". Nondimeno si potrebbe persino pensare, rovesciando sicuramente l'intento narrativo originario, che la distopia del "gioco ad eliminazione fisica" non sia altro che una perversione onirica di chi aborra e disprezza le fasce più basse della popolazione, quasi un delirio catartico di un classista benestante infastidito dall'insuccesso altrui e disposto a scommetter sulla vita altrui come su una corsa di spermatozoi (nel senso che solo uno sopravvive), secondo un atteggiamento non dissimile, guarda caso, ai personaggi benestanti che in questo tipo di trama (non mi riferisco a "Squid game", ma nel trailer ho visto soggetti ben vestiti in maschera e... magari mi sbaglio) sono il capriccioso pubblico del cruento spettacolo (una sorta di Colosseo per miliardari). Dove qualcuno (molti) vede una critica della "selettività sociale", empatizzando per gli eliminati e le pene che devono affrontare, altri (pochissimi, magari già avvezzi a "punteggi sociali", pene di morte, etc.) potrebbe anche vedere una perversa fantasia proibita, una sorta di ordalia di massa in cui il destino premierà chi merita una seconda chance (con un'inclinazione "umanista" in fondo non molto dissimile da chi, commentando un barcone affondato con il suo carico umano, osserva rigorosamente a bassa voce, come "è un rischio che loro hanno scelto di correre", che "avrebbero dovuto pensarci prima di imbarcarsi per cercare fortuna", che "tanto arrivati qui qualcuno di loro avrebbe fatto del male a qualcuno di noi", etc. contraddicendo ogni presunta empatia per forme di riscatto sociale reali, fuori dal grande schermo).
In questo tipo di cinema siamo, secondo me, comunque al "trastullo emotivo" (essenza dissimulata di gran parte dell'arte) tramite una simulata situazione di disagio e pericolo di vita, per il gusto di evasione dalla realtà e/o di una proiezione psicologica a tinte forti, quasi fosse un role-playing "al ribasso"; per questo c'è un protagonista a cui affezionarsi, perché agevola l'immedesimazione del pubblico o almeno un "legame narrativo" forte, che rende più coinvolgente la trama; mentre in una "battle royale" con alcuni protagonisti in rilievo ma senza eroe principale dichiarato, ogni spettatore può scegliere a chi affezionarsi, per inclinazione naturale, ma c'è il rischio di ritrovarsi dopo qualche minuto con il proprio beniamino fuori dai giochi, situazione piuttosto spiacevole per lo spettatore (effetto di "abbandono scenico" su cui si potrebbe lavorare per trame meno banali, ma che risulterebbero anche meno digeribili e meno gustose per molti palati).
Detto altrimenti (e più in sintesi): se non c'è ricaduta sociale della critica sociale proposta nei film (semmai sia possibile che ve ne sia), non si tratta in fondo di una vetrina ("borghese e filistea" si sarebbe detto nel secolo scorso) per un messaggio "politicamente corretto" (quindi ad ampio spettro di pubblico) per cui è ovvio che ci sia il lieto fine (seppur "aperto"), il riscatto/redenzione, che è proprio ciò che indebolisce la critica sociale che si vorrebbe proporre (edulcorando la sorte del misero protagonista che spesso finisce dall'altro lato della "barricata sociale")? Non ci si ritrova, volenti o nolenti (ancora ed inevitabilmente) nell'arte fine a se stessa, nell'arte come fruizione emotiva, come esperienza (di senso) esistenziale, forse anche come alterazione momentanea (e modaiola) dell'immaginario collettivo (già dilagano meme a tema, mi pare), ma nondimeno quasi al punto che quel film potrebbe anche essere fruibile (e magari godibile) senza scoperchiare il "prezioso" substrato di critica sociale che fieramente contiene? Fruizione ingenua, infantile ed estranea all'autentico e profondo scopo comunicativo dell'autore, si obietterà; tuttavia è anche vero che una volta inviata la suddetta cartolina, chi la legge lo farà secondo i suoi canoni, siano essi estetici, politici, sociologici o... postali. D'altronde sarebbe sensato chiedersi: mi è piaciuto (se così è) quel film perché contiene un messaggio con cui concordo, perché sa coinvolgermi suscitando emozioni e tenendomi incollato allo schermo, o per entrambi i motivi? Detto semiologicamente: mi piace il significato, il significante o entrambi (con il referente che, trattandosi di critica, è a suo modo un "a priori")? In fondo, trattandosi di cinema, c'è anche da chiedersi quale ne sia lo scopo: essere utile come "racconto formativo", essere "piacevole" (con tutte le sfumature possibili), essere piacevolmente recepibile perché rispecchia in un "bel modo" le inclinazioni dello spettatore, etc. ciascuno risponderà secondo la sua concezione di cinema.
P.S.
Tutto questo per dire che non ho visto "Squid game", ma quando mi imbatto in film del genere, riesco agevolmente a godermeli (se è il caso) senza tenere in primo piano il messaggio di "pubblicità progresso" che contengono, preferendo fruirli come arte espressiva senza contenuti etici o politici che vorrebbero spiegarmi come il mondo dovrebbe essere (oppure hanno per oggetto di riflessione l'"acqua tiepida"); tali contenuti ci sono, indubbiamente, ma non riesco a prenderli troppo sul serio (limite mio, magari) se contestualizzati in un contesto artistico, forse perché dall'arte mi aspetto edonismo (si può dire?), a prescindere da ammiccamenti al "politicamente corretto" o a dinamiche motivazionali(?) di peccato/redenzione o a coperte di seriosa denuncia sociale messe su trame incentrante su pulsioni ludiche e/o richiami ed emozioni forti (è dai tempi di Totò che certi stilemi narrativi "nobilitano socialmente" i contenuti di molte trame, con il risultato che ormai, forse parlo solo per me, si è anestetizzati al richiamo alla "giustizia sociale" o ad "un mondo migliore", richiamo "orale" che resta da sempre confinato in un film, perché se all'uscita del cinema un mendicante ci chiede due spicci, meglio non darglieli, non è certo quella la soluzione ai suoi problemi; magari verrà reclutato in un gioco ad eliminazione e allora, forse, ci affezioneremo a lui e pagheremo per vederlo al cinema o in un reality di cui sarà protagonista... ma non c'era già un film con questa trama, uno di quelli che doveva/voleva insegnarci qualcosa? Oppure, al netto di "intenti da grancassa", voleva solo raccontarci una storia avvincente ispirandosi parossisticamente a come stanno le cose, e siamo noi a vederci un'istruttiva "morale della favola"? Certo, pur non avendolo visto, non credo che la morale di "Squid game" sia che bisogna fare l'elemosina, ma mi viene il sospetto che molta della critica sociale implicita in molti film del genere non vada a parare seriamente da nessuna parte, se non nel far sentire fortunato, o ancora meglio, "meritevole" chi in quella rappresentazione drammatica può immedesimarsi solo "per gioco"; edonismo depoliticizzato sotto coperta socialmente impegnata, come si diceva poco fa).
Azzardo: nella tragedia l'antagonista indiretto è solitamente il destino avverso (quello diretto è una divinità crudele o il cattivo di turno), mentre nella critica sociale il ruolo di antagonista diretto è quello del ricco (più o meno corrotto, più o meno sadico, più o meno cinico, etc.), con la società (o meglio le regole di una certa società) a fungere non da sfondo ma da antagonista indiretto; si è dunque passati dall'impotenza (se di tragedia si tratta) nei confronti del destino all'impotenza (almeno iniziale, secondo il copione generico di tali film) nei confronti della società, entrambi pronti a richiedere vittime sacrificali per la fortuna di altri. La differenza cruciale è che mentre il destino, fatalisticamente, "guida chi lo accetta, trascina chi non lo accetta" (Seneca), la società viene criticata per proporre (plausibilmente) una presa di coscienza, forse alludendo ad un anti-fatalistico possibile cambiamento; questo, se non ho preso un abbaglio, dovrebbe/vorrebbe essere il plusvalore semantico/pedagogico/"di denuncia" dell'arte impegnata in questione. Non è affatto ironico che, fuori dalla narrazione della trama, chi in quella trama è rappresentato non possa "vedersi" sul grande schermo (diseredati, poveri, emarginati, etc. difficilmente useranno Netflix o andranno al cinema), poiché tale richiamo alla giustizia, implicito nella implicita critica sociale, è "giustamente" rivolto a chi rischia di essere ingiusto e/o a chi tale ingiustizia alimenta. La società ha una dinamica ingiusta e quindi alla società (quantitativamente parlando) facciamo vedere, in forma ovviamente romanzata, quali sono gli effetti collaterali del benessere di alcuni (pochi?) e quanto sono delicati gli ingranaggi che sostengono tale benessere, per cui la lotta per la grigia sopravvivenza quotidiana per "arrivare a fine mese" (o a "fine giornata") diventa una "battle royale", narrativamente impostata in una competizione per arrivare alla fine del gioco (con tanto di ricco montepremi che metaforicamente rappresenta... un ricco montepremi, come nei migliori romanzi di formazione e nella più spietata critica al capitalismo). Probabilmente l'utilità sociale di tale messaggio è paragonabile all'introduzione del film (non so se ci sia ancora) che ci ricorda che la pirateria è reato; ricordarlo a chi è nel cinema può aver lo scopo di: far sentire in colpa gli eventuali "pirati part-time" (che alternano cinema a pirateria); ricordare quanto sono criminali gli eventuali "amici pirati" che ci hanno detto «non vengo al cinema con te perché mi scarico il film»; farci sentire bravi perché siamo lì, anziché essere pirati, con l'impliclito invito a ritornare prossimamente. Colpa, discriminazione e approvazione, tre categorie indubbiamente sociali, che possono talvolta anche spaziare dal messaggio pre-film al contenuto dei film di critica sociale; tuttavia, si può ribaltare il significato/rappresentazione della critica leggendoci addirittura un compiacimento dello status quo (giocando a fare i critici della critica)? Recepito il messaggio che la società produce disagio (v. emarginati), che il successo è instabile (v. repentino fallimento economico), che la giustizia talvolta non è giusta per tutti (v. istinto di vendetta), etc. davvero una rappresentazione "drammaturgica" di tali meccanismi coincide con una loro critica? Il far vedere "quello che loro non vorrebbero farvi vedere" (che è ormai diventato "quello che voi volete vedere", con annesso "ghigno capitalista"), la rivincita in forma cinematografica del perdente, il riscatto del brutto/sfortunato/fallito, la redenzione del peccatore, etc. non sono forse (uscendo dallo schermo per tornare nella realtà non-cinematografica) come sognanti cartoline spedite dal carcere a chi è fuori dal carcere? Di fatto non diminuiscono la pena (in tutti i sensi) di chi è dentro, né dipingono necessariamente la pena come ingiusta, e producono in chi è fuori una forma di "disempatia" (parodiando la dispatia): "mi dispiace quando mi immedesimo in te, ma sono anche contento che sia solo un'immedesimazione temporanea, che finisce quando finisce il film (o quando mi accorgo che io sono fuori e tu dentro)". Nondimeno si potrebbe persino pensare, rovesciando sicuramente l'intento narrativo originario, che la distopia del "gioco ad eliminazione fisica" non sia altro che una perversione onirica di chi aborra e disprezza le fasce più basse della popolazione, quasi un delirio catartico di un classista benestante infastidito dall'insuccesso altrui e disposto a scommetter sulla vita altrui come su una corsa di spermatozoi (nel senso che solo uno sopravvive), secondo un atteggiamento non dissimile, guarda caso, ai personaggi benestanti che in questo tipo di trama (non mi riferisco a "Squid game", ma nel trailer ho visto soggetti ben vestiti in maschera e... magari mi sbaglio) sono il capriccioso pubblico del cruento spettacolo (una sorta di Colosseo per miliardari). Dove qualcuno (molti) vede una critica della "selettività sociale", empatizzando per gli eliminati e le pene che devono affrontare, altri (pochissimi, magari già avvezzi a "punteggi sociali", pene di morte, etc.) potrebbe anche vedere una perversa fantasia proibita, una sorta di ordalia di massa in cui il destino premierà chi merita una seconda chance (con un'inclinazione "umanista" in fondo non molto dissimile da chi, commentando un barcone affondato con il suo carico umano, osserva rigorosamente a bassa voce, come "è un rischio che loro hanno scelto di correre", che "avrebbero dovuto pensarci prima di imbarcarsi per cercare fortuna", che "tanto arrivati qui qualcuno di loro avrebbe fatto del male a qualcuno di noi", etc. contraddicendo ogni presunta empatia per forme di riscatto sociale reali, fuori dal grande schermo).
In questo tipo di cinema siamo, secondo me, comunque al "trastullo emotivo" (essenza dissimulata di gran parte dell'arte) tramite una simulata situazione di disagio e pericolo di vita, per il gusto di evasione dalla realtà e/o di una proiezione psicologica a tinte forti, quasi fosse un role-playing "al ribasso"; per questo c'è un protagonista a cui affezionarsi, perché agevola l'immedesimazione del pubblico o almeno un "legame narrativo" forte, che rende più coinvolgente la trama; mentre in una "battle royale" con alcuni protagonisti in rilievo ma senza eroe principale dichiarato, ogni spettatore può scegliere a chi affezionarsi, per inclinazione naturale, ma c'è il rischio di ritrovarsi dopo qualche minuto con il proprio beniamino fuori dai giochi, situazione piuttosto spiacevole per lo spettatore (effetto di "abbandono scenico" su cui si potrebbe lavorare per trame meno banali, ma che risulterebbero anche meno digeribili e meno gustose per molti palati).
Detto altrimenti (e più in sintesi): se non c'è ricaduta sociale della critica sociale proposta nei film (semmai sia possibile che ve ne sia), non si tratta in fondo di una vetrina ("borghese e filistea" si sarebbe detto nel secolo scorso) per un messaggio "politicamente corretto" (quindi ad ampio spettro di pubblico) per cui è ovvio che ci sia il lieto fine (seppur "aperto"), il riscatto/redenzione, che è proprio ciò che indebolisce la critica sociale che si vorrebbe proporre (edulcorando la sorte del misero protagonista che spesso finisce dall'altro lato della "barricata sociale")? Non ci si ritrova, volenti o nolenti (ancora ed inevitabilmente) nell'arte fine a se stessa, nell'arte come fruizione emotiva, come esperienza (di senso) esistenziale, forse anche come alterazione momentanea (e modaiola) dell'immaginario collettivo (già dilagano meme a tema, mi pare), ma nondimeno quasi al punto che quel film potrebbe anche essere fruibile (e magari godibile) senza scoperchiare il "prezioso" substrato di critica sociale che fieramente contiene? Fruizione ingenua, infantile ed estranea all'autentico e profondo scopo comunicativo dell'autore, si obietterà; tuttavia è anche vero che una volta inviata la suddetta cartolina, chi la legge lo farà secondo i suoi canoni, siano essi estetici, politici, sociologici o... postali. D'altronde sarebbe sensato chiedersi: mi è piaciuto (se così è) quel film perché contiene un messaggio con cui concordo, perché sa coinvolgermi suscitando emozioni e tenendomi incollato allo schermo, o per entrambi i motivi? Detto semiologicamente: mi piace il significato, il significante o entrambi (con il referente che, trattandosi di critica, è a suo modo un "a priori")? In fondo, trattandosi di cinema, c'è anche da chiedersi quale ne sia lo scopo: essere utile come "racconto formativo", essere "piacevole" (con tutte le sfumature possibili), essere piacevolmente recepibile perché rispecchia in un "bel modo" le inclinazioni dello spettatore, etc. ciascuno risponderà secondo la sua concezione di cinema.
P.S.
Tutto questo per dire che non ho visto "Squid game", ma quando mi imbatto in film del genere, riesco agevolmente a godermeli (se è il caso) senza tenere in primo piano il messaggio di "pubblicità progresso" che contengono, preferendo fruirli come arte espressiva senza contenuti etici o politici che vorrebbero spiegarmi come il mondo dovrebbe essere (oppure hanno per oggetto di riflessione l'"acqua tiepida"); tali contenuti ci sono, indubbiamente, ma non riesco a prenderli troppo sul serio (limite mio, magari) se contestualizzati in un contesto artistico, forse perché dall'arte mi aspetto edonismo (si può dire?), a prescindere da ammiccamenti al "politicamente corretto" o a dinamiche motivazionali(?) di peccato/redenzione o a coperte di seriosa denuncia sociale messe su trame incentrante su pulsioni ludiche e/o richiami ed emozioni forti (è dai tempi di Totò che certi stilemi narrativi "nobilitano socialmente" i contenuti di molte trame, con il risultato che ormai, forse parlo solo per me, si è anestetizzati al richiamo alla "giustizia sociale" o ad "un mondo migliore", richiamo "orale" che resta da sempre confinato in un film, perché se all'uscita del cinema un mendicante ci chiede due spicci, meglio non darglieli, non è certo quella la soluzione ai suoi problemi; magari verrà reclutato in un gioco ad eliminazione e allora, forse, ci affezioneremo a lui e pagheremo per vederlo al cinema o in un reality di cui sarà protagonista... ma non c'era già un film con questa trama, uno di quelli che doveva/voleva insegnarci qualcosa? Oppure, al netto di "intenti da grancassa", voleva solo raccontarci una storia avvincente ispirandosi parossisticamente a come stanno le cose, e siamo noi a vederci un'istruttiva "morale della favola"? Certo, pur non avendolo visto, non credo che la morale di "Squid game" sia che bisogna fare l'elemosina, ma mi viene il sospetto che molta della critica sociale implicita in molti film del genere non vada a parare seriamente da nessuna parte, se non nel far sentire fortunato, o ancora meglio, "meritevole" chi in quella rappresentazione drammatica può immedesimarsi solo "per gioco"; edonismo depoliticizzato sotto coperta socialmente impegnata, come si diceva poco fa).