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Messaggi - Phil

#886
Citazione di: viator il 12 Giugno 2021, 14:38:41 PM
l'essere è l'intero, le cause (lo stare) e gli effetti (il divenire) sono le due metà dell'intero.
Dunque l'essere è sia l'intero che la condizione, ovvero, se ho ben inteso, l'essere sarebbe: l'"intero come condizione per cui le cause producono i loro effetti"?
Se così fosse, alla luce della considerazione che «le cause (lo stare) e gli effetti (il divenire) sono le due metà dell'intero»(cit.), sarebbe in atto un rovesciamento logico: l'intero non è la condizione per cui le parti si relazionano, ma è la relazione delle parti a esser condizione costituente l'intero (l'auto non è la condizione per cui i suoi vari pezzi interagiscono, ma ne è il risultato, in quanto è una determinata interazione fra le parti a identificare l'auto; sulla questione dell'intero avevo già anticipato che, per me, la categoria non va confusa con il contenuto, che la proprietà dell'esser-parte non va confusa con il criterio dell'insieme, ovvero l'esistente non va confusa con l'esistere).
Direi allora che l'essere, se inteso come intero, non può essere condizione per cui le cause sono cause e quindi producono i loro effetti, ma sono piuttosto le cause, in quanto per definizione causanti gli effetti, a produrre (assieme agli effetti) l'"essere come intero" (o meglio «l'esistente», se rispettiamo la distinzione fra categoria e suo contenuto). Tuttavia affinché la cause causino, la cause devono già essere; ecco che quindi l'essere delle cause presuppone già un essere (il loro) che non è né l'intero (che è concetto di quantità estensionale di cui la cause sarebbero solo parte, stando a quanto dici), né la condizione della causazione (che è già implicità nell'esser-causa... e qui si riallaccerebbe il suddetto discorso dell'essere come presenza).

Citazione di: viator il 12 Giugno 2021, 14:38:41 PM
Secondo me non è che si presti meglio come definizione del divenire. Si presta ugualmente bene
credo concorderai che solitamente la definizione di un intero è differente dalla definizione delle parti (vedi la definizione di «causazione» e quelle di «causa» e di «effetto», con cui intendo almeno le definizioni generali), così se il divenire è una parte dell'essere (come sostieni), allora la definizione di essere (intero) non può «prestarsi ugualmente bene»(cit.) a quella del divenire (parte).
Citazione di: viator il 12 Giugno 2021, 14:38:41 PM
Perciò la definizione che riguardi l'intero varrà (risulterà sinonima) per l'insieme delle parti che lo compongano.
Questa osservazione o è un truismo lapalissiano, se si intende gemericamente con «intero» l'insieme delle parti che lo compongono, oppure non è esatta perché la definizione dell'intero è uguale a quella dell'insieme delle parti che lo compongono solo se queste sono in una determinata relazione fra loro (vedi il classico monito che una sedia non è l'insieme dei suoi pezzi messi a caso).

P.s.
Ho cercato di non scollarmi troppo del tuo ragionamento, sebbene, come scritto, la mia opinione sul tema sia differente nonostante di tutto il bouffet sia stato raccolto solo un fazzoletto di carta per farci degli origami che forse richiedano altro tipo di "carta".
#887
Per inquadrare l'essere non mi pare necessario ricorrere alla causalità, per quanto sia la chiave di lettura del mondo solitamente più calzante e scientifica, abitualmente memore della differenza (im)portante fra la categorizzazione umana (causa/effetto) dell'esistenza e l'esistenza come condizione a prescindere dalla sua lettura umana (il solito "non confondere la categoria con il contenuto della categoria").
Il punto di partenza di ogni (onto)logica, come già scritto recentemente e in passato, è l'identità: identificare «x» significa affermare che «x è, esiste», ovvero x ha l'esistenza come sua proprietà, x è nella situazione di essere, x è presenza situata (nella mente, nel mondo esterno o altrove).
Essere (con la maiuscola solo perché siamo ad inizio paragrafo) sarebbe quindi l'atto di avere esistenza, ovvero essere-presenza o, se non si vuole usare «essere», risultare presenza (empirica, mentale, ideale o altro), il far parte dell'insieme di tutto ciò che ha la proprietà dell'esistenza («far parte dell'insieme» non equivale a «essere l'insieme»). L'essere non è forse sempre un risultare-presente (per quanto la presenza sia declinabile in differenti modalità)?
Persino, pensando ad una possibile falsificazione per assurdo, un dio o altro ente incausato e non causante sarebbe, ovvero risulterebbe-presenza (a suo modo, ma non divaghiamo), sarebbe nella situazione di essere, pur non causando nulla, né essendo causato. Meno cervelloticamente: posso guardare un sasso ed affermare che è, senza considerare minimamente da cosa esso sia causato, né cosa esso causi (senza voler qui cavillare gnoseologicamente se esso causi percezione o sia effetto di percezione, se esso esista anche se nessuno lo percepisce, causalmente o meno, etc.).
La «condizione per la quale le cause producono i loro effetti» (cit.) si presta forse meglio come definizione del divenire (o del determinismo), e seppur sappiamo che (ovviamente usando le nostre categorie) tutto l'essere è in divenire, il nostro sasso, muto e immobile, è emblema di come anche qualcosa che non divenisse (non fosse nella condizione di produrre effetti), potrebbe nondimeno essere (se non altro perché, ontologicamente parlando, è l'essere a dare senso alle categorie che se ne occupano, non viceversa; detto altrimenti: è l'esistenza della carta che dà un senso alle varie "categorie" di origami, non viceversa, e affermare che la carta consiste nella condizione per cui le pieghe modificano la forma dell'origami è darne una visione parziale, per quanto non certo scandalosa).
Se l'essere è risultare-presenza (definizione che ha già una sua storia, non invento nulla), cos'è la presenza? La presenza è l'esser-oggetto; l'esser-oggetto è, umanamente parlando, l'essere identificabile (nello spazio e nel tempo) da un soggetto, che può "oggettificare" anche se stesso nell'autocoscienza (risultando "presente a se stesso" ed affermando «io sono»).
Si può dunque rivolgersi all'essere anche fuori dalla dicotomia causa/effetto, trattandolo come "presenza precategoriale", senza che ciò comporti affermare che l'essere non è.
#888
Tematiche Filosofiche / Esistenza e Conoscenza
10 Giugno 2021, 20:47:10 PM
Per come la vedo, le (dis)avventure storiche del principio di individuazione sembrano suggerire che il fondamento di ogni logica, ovvero il principio di identità (a=a), sia una questione il cui contenuto esperienziale riguarda più l'interpretazione (decifrazione) umana del mondo che il mondo stesso (partendo da tale consapevolezza, alcune filosofie orientali, spesso fraintese come ontologie, parlano di «nulla» e non di «noumeno», di «non-discriminazione» e non di «Verità», etc.). Una volta (im)poste le categorie (fra cui quella stessa di «esistenza»...) che denotano un sistema (sulla cui aporetica completezza e coerenza Gödel ha dato spunti cruciali, come già segnalato da altro topic), il sistema interpreta il reale, lo frammenta in identità (a=a, b=b, etc.) "ragionabili" e manipolabili, potendo poi produrre cambiamenti, invenzioni, scoperte e conoscenze sempre più minuziosi nelle dimensioni e grandiosi nella portata gnoseologica (proprio come, una volta "impostata" una lingua ci si possono produrre poesie, poemi, enciclopedie, etc. sobillare rivoluzioni, stilare dichiarazioni universali, etc.).
Essendo l'uomo un animale tanto pragmatico quanto semantico, il costante sviluppo di ulteriori prassi tecnologiche e l'aggregarsi di nuovi significati ne scandiscono la storia, tuttavia il punto di partenza, della logica e dei discorsi in generale, resta sempre il "riempimento sostanziale" di quel a=a, da cui si inizia a ragionare, esperire (o meglio, decifrare le percezioni) e conoscere (oltre che, parlando di valori in tutti i sensi, giudicare).

Il non sapere non presuppone la possibilità di sapere: ci sono non-saperi che non possono essere risolti da un sapere, come tutti quelli connessi alle domande malposte o prive di senso o concretamente, appunto, impossibili da rispondere veridicamente appellandosi ad un sapere (come ad esempio «farò colazione domani?»; potrei non arrivarci, quindi... non lo so). Il non sapere presuppone la domanda sul sapere: solo dopo la domanda, si può affermare se «si sa» o «non si sa» (uso volutamente l'impersonale, anche se il sapere è individuale); e la domanda prima di tutto identifica e denomina il suo oggetto (a=a), circa il quale si può avere conoscenza o meno. Ad esempio: guardando una nave, si può chiedere (mio solito esempio): «ti piace la polena?»; la prima reazione a questa domanda è cercare nel proprio "dizionario mentale" «polena»; una volta trovato, ovvero saputo, ciò che una polena è, dopo aver poi rintracciato ciò che permette di identificarlo (a=a) nel campo visivo, si può giudicarne la bellezza. Viceversa, mi accorgo di non sapere cos'è una polena solo dopo che ne ho incontrato il nome, e la domanda che lo contiene. So, guardando la nave, di avere di fronte a me una polena (almeno se mi fido della domanda del mio interlocutore), so che la vedo, ma non so quale spicchio di campo visivo la racchiuda, quale frammento di realtà la identifichi; so di non saperla identificare (ogni non sapere è in realtà un non saperlo, c'è sempre un "oggetto" in gioco, per quanto astratto e vago).
Resta chiaro che è il nome ad "aver bisogno" dell'identità del referente, non viceversa: nel momento in cui identifico qualcosa, distinguendolo dallo sfondo della realtà circostante, dargli un nome è solo una necessità comunicativa e pragmatica, non una necessità onto-logica (posso infatti chiamarlo con una sola lettera o con un nome di fantasia o denotarlo con quello», magari per domandare: «cos'è quello?»). Ad esempio, quando vedo una foto che rappresenta qualcosa che non conosco, ma chiaramente identificabile (a differenza di quando parto da un nome che non conosco, come «polena», di cui non so identificare il referente), ad esempio un misterioso oggetto appeso in una teca di vetro, nel momento in cui identifico quel qualcosa (a=a), posso, senza "battezzarlo", iniziare comunque a studiarlo, ragionarci, procedere nel definirlo per somiglianze e differenza con altri oggetti, etc. pur sapendo che in realtà quell'oggetto è perlopiù un insieme macroscopico di altri sotto-oggetti, fino agli atomi ed oltre.

Citazione di: daniele22 il 10 Giugno 2021, 13:43:49 PM
quando ti rivolgi a qualcuno, più che l'apparente contingenza che ti farà dire quel che dirai, dovresti indagare il motivo più intimo che ti ha fatto rivolgere a quel qualcuno ... Intendo con ciò che quando cominci a parlare stai già chiedendo qualcosa anche senza chiedere. Cosa chiedi dunque, a prescindere da ciò che dici?
Solitamente si chiede anzitutto ascolto; il prerequisito del senso del parlare, inteso come comunicare, è l'avere un destinatario in ascolto (l'onanismo del soliloquio è il surrogato di una comunicazione autentica, è la dissimulazione della nostalgia di un destinatario mancante). Per dirla più filosoficamente: ogni domanda è preceduta logicamente dalla metadomanda circa le condizioni di possibilità di ottenere una risposta o, appunto, almeno ascolto.
#889
Tematiche Spirituali / Riflessioni sul suicidio.
09 Giugno 2021, 23:39:21 PM
Propongo questa considerazione: «Durkheim, in ottica sociologica, ha descritto quattro forme di suicidio a coppie antitetiche: altruistico-egoistico e fatalistico-anomico. Nella prima coppia, a un polo, l'atto suicidario è condizionato, in maniera decisiva, da pressioni ideologiche e culturali che sembrano negare l'individualità della persona, mentre, al polo opposto, lo stesso atto è determinato da un eccesso di individualismo, che fa sfumare il senso di appartenenza alla comunità. Nella seconda coppia, a un estremo, si assiste a un'esagerata pressione di regole e norme che il singolo non è in grado di sostenere; dall'altro, il suicidio è frutto di una difficoltà del soggetto a tollerare momenti di transizione socioculturale, che comportino un cambiamento dei sistemi di valore e una perdita dei punti di riferimento» (tratto da questo articolo, in cui si parla, fra l'altro, dell'"effetto Werther", ovvero di come l'emulazione possa talvolta andare anche contro la propria autoconservazione).
#890
Tematiche Filosofiche / Tutti filosofi.
08 Giugno 2021, 20:55:43 PM
@daniele22

Proporre un proprio testo in un topic intitolato «tutti filosofi» mi sembra molto pertinente, tuttavia credo che, se vuoi che la tua proposta assurga ad argomento centrale di (eventuale) discussione, tu possa tranquillamente aprire un altro topic ad hoc, senza richiedere "autorizzazioni a procedere" (o intendevi "manifestazioni d'interesse"? Se così fosse, eccone una).
#891
Tematiche Spirituali / Re:Riflessioni sul suicidio.
05 Giugno 2021, 17:51:04 PM
Credo che, per quanto sia inopportuno generalizzare su qualcosa di radicalmente individuale (forse non c'è gesto più estremamente personale del suicidio, darsi la morte, considerando che il darsi la vita non è possibile), la scena raccontata chiami in causa quelli che sono in generale i principali moventi del suicidio: quello psichiatrico (con differenti declinazioni), quello del dolore (anche qui le possibilità sono molteplici) e quello della non accettazione (il "sentirsi pieni di vergogna" o semplicemente il non accettare più la vita).
Sulla questione della fragilità, sempre restando sul generale, lo scenario è forse più ambiguo: può il togliersi consapevolmente la vita essere un gesto dettato direttamente dalla fragilità? Quanta forza d'animo, imprescindibile per il suicidio, scaturisce dalla fragilità che rende insopportabile la vita? Se l'esser fragili porta a soccombere, a l'esser schiacciati (che non è lo schiacciarsi volontario), quanta risolutezza e quanta (ultima prova di) forza sono richieste per sottrarsi a ciò che schiaccia, rendendosi "inschiacciabili" in quanto definitivamente fuori dalla dinamiche oppositive e dai rapporti di forza? La fragilità stessa della vita individuale, non richiede un'estrema forza per essere violata dal suo stesso possessore, andando contro ogni istinto, ogni norma morale e ogni scelta di autoconservazione compiuta fino a quel momento?
#892
Più che paradossale il discorso della "tartaruga sofista" è contraddittorio: se essa ammette A e B come vere, ma poi non ammette la verità di Z, si contraddice e per sbrogliare la contraddizione servono... esattamente A e B, che se assunte vere sono sufficienti per implicare la verità di Z (Achille cade nella trappola della tartaruga, quando acconsente all'affermazione del quadrupede «né l'uno né l'altro [...] fino a questo momento è costretto, per necessità logica, ad accettare che Z sia vera» riferendosi a due lettori illogici, che possono di certo esistere, sebbene, per necessità logica dovrebbero appunto accettare anche Z per non contraddirsi). La sfida di convincere la tartaruga della verità di C, pone a Ulisse la necessità di convincerla che dalla premessa maggiore (A) e la premessa minore (B) derivi necessariamente la conclusione (Z); C consiste nella deduzione (di cui uno degli assiomi logici prevede appunto che da premesse vere non possa essere inferita, in una ragionamento valido, una conclusione falsa; v. tavole di verità dell'implicazione). Come spiegare a qualcuno la validità dei meccanismi della deduzione? Solitamente si parte dall'insiemistica; riformulando: tutte le cose che sono uguali alla stessa cosa, sono uguali fra loro (formano un insieme); i due lati sono uguali alla stessa cosa, quindi rientrano nell'insime delle cose uguali fra loro (se invece non vi rientrano, allora non possiamo affermare la verità di entrambe le premesse, come invece la tartaruga fa).
Il paradosso dunque non sussiste: a partire da C in poi (all'infinito) non si fa altro che affermare la validità della deduzione enumerandone infinite applicazioni in modo crescente; è come voler spiegare la proprietà transitiva aumentando sempre gli elementi coinvolti: non servirebbe a molto, da un punto di vista argomentativo/dimostrativo, applicarla ad infiniti casi, poiché l'interlocutore resterebbe sempre non convinto del principio che viene applicato (applicare un procedimento logico non equivale a dimostrarne la validità ad un interlocutore "in cattiva fede"; se fosse solo un San Tommaso basterebbe invece ricorrere a misurazioni empiriche per dissolverne le perplessità del caso).
#893
Tematiche Filosofiche / Cos'è l'intuizione?
01 Giugno 2021, 12:48:57 PM
Non so se ho ben intuito cosa si intenda qui esattamente con «intuizione», essendo una parola spesso ambigua (il cui senso spazia dal prevedere al misticheggiare, passando per il comprendere "al volo"), ma credo che se l'in-tuizione è un guardar-dentro, poiché il fuori non fornisce adeguati elementi o soluzioni, allora si può considerare l'intuizione come une tertium fra induzione e deduzione: quando si deduce sono solitamente chiari ed distinti i principi/assiomi/regole/etc. da cui si parte, mentre quando si usa l'induzione sono evidenti i casi empirici su cui si basa l'inferenza; nel caso dell'intuizione mi pare venga a mancare la tendenziale trasparenza tipica di entrambi i processi (che pur hanno le loro eccezioni: la "casalinga di Voghera" e l'"uomo della strada" ragionano magari in modo perfettamente logico senza aver consapevolezza formale dei principi logici di non-contraddizione, dei sillogismi, etc. pur intuendone il funzionamento e come applicarli). Se l'intuizione è conoscenza che affiora da meccanismi non consci, ovvero che "bypassa" il ragionamento consapevole (il "pensiero lento" direbbe qualcuno), resta problematico condividerne l'autentico valore euristico non potendo solitamente esporne il "movente" in forma argomentativa (salvo sia poi l'"applicazione" dell'intuizione a dimostrarne la pertinenza e la funzionalità).
#894
Tematiche Filosofiche / Filosofia dell'anarchismo
26 Maggio 2021, 14:07:38 PM
Incuriosito dall'immagine postata, ho rintracciato una versione più estesa in turco (fonte), per cui ho tradotto alla lettera con un servizio online:



L'ultimo riquadro in basso a destra nella versione originale è «Fetö», con riferimento ad una precisa corrente affine al terrorismo.


P.s.
Inevitabilmente ne esistono altre versioni e la stessa immagine può essere accompagnata da didascalie differenti.
#895
Giurerei (seppur da ateo) di aver una visione del mondo all'opposto dell'idealismo, almeno quando si parla di culture: finora le ho focalizzate, correggimi se sbaglio, come un gruppo di persone che si organizza in itinere per il quieto vivere, senza ideali assoluti o fondamenti forti inoppugnabili, proprio perché l'uomo è "materia" (biologia, istinto, etc.) che avendo la capacità di astrarre concetti può inventarsi un'etica, chiamando «bene» (questa sì operazione idealistica e fondativa) ciò che sembra funzionare per tenere assieme il branco (ciò che è utile al branco). Tuttavia quando gli si chiede di presentarne il fondamento, allora non resta che appellarsi agli dei (infalsificabili), alla natura (interpretata a posteriori secondo l'etica che già si preferisce, v. discorsi gender che si litigano la natura selettivamente) o, proprio fuori da ogni idealismo, constatare il ruolo dinamico, documentato e tracciabile, della storia delle differenti culture (anche se ciò rende un po' debole ogni affermazione del tipo «questo è bene, quello è male»).
Riconoscere ad esempio che non è un bene né un male restare vivi o nutrirsi, ma solo una pulsione istintiva a cui si è aggiunto nei secoli un plusvalore sociale, quello appunto etico (canonizzato in leggi e convenzioni sul "valore" della vita), non credo comporti una cesura fra l'essere umano e il suo pensiero, anzi direi che riconduce il pensiero dell'uomo, proprio quando si fa troppo "idealistico", alla sua umanità corporea e disincantata (essendo una constatazione basata su ciò che è stato e tuttora è storia, non su giudizi di valore).
La cesura fra etologia ed etica è dunque la "doverosa" (metodologicamente parlando) cesura fra constatazione e valutazione, fra analisi e giudizio di valore, fra, come detto, «quegli animali si riproducono» e «quegli animali devono riprodursi perché ciò è bene», oppure «quell'animale è stato ucciso» ed «è un bene che quell'animale sia stato ucciso o scacciato dal branco poiché ne aveva trasgredito le regole», etc. Ciò non significa idealizzare l'uomo, anzi, è l'antidoto ad ogni idealizzazione che l'uomo fa di sé in quanto "animale speciale"; l'etica si rivela allora nient'altro che un modo, sociale e culturale, di adattamento all'ambiente, fondato (stavolta direi di sì) sulla capacità di concettualizzazione tipica dell'uomo, che egli ha immesso nella sua storia, dai miti per spiegare i fulmini, ai testi sacri, al valore morale della tradizione (di cui uno del lasciti è il concetto di Bene ereditato dalle religioni), tutto ciò senza avvedersi che la sua etica, con cui vuole e può giudicare l'umanità, non ha fondamento più saldo della grammatica della lingua che parla: entrambe culturalmente denotanti il suo esser-uomo, sebbene, mi pare, nulla di eccessivamente univoco o incontrovertibilmente fondato su una qualche "oggettività a priori".


P.s.
Se il fondamento è davvero tale, non può non determinare, nel senso di influenzare, il comportamento di ciò che viene fondato: la dicotomia bene/male determina il "comportamento" di ogni etica (nel suo strutturarsi), la grammatica determina il "comportamento" di ogni discorso, etc. e anche qui non riscontro idealismi, quanto piuttosto constatazioni. Riguardo i genitori: essi non fondano(?) la morale dei figli, sono solo uno dei fattori culturali dell'imprinting che caratterizzerà gli attributi della morale dei figli, assieme agli amici, ai social, alle letture, ai vissuti, etc. per questo spesso «la mela è caduta lontano dall'albero»(cit.) senza che si tratti di un miracolo. La morale dei figli sarà fondata sulla dicotomia bene/male, come ogni morale prevede, mentre il contenuto esatto di tali due categorie non sarà necessariamente il risultato di un prevedibile e calcolabile "copia e incolla" della cultura in cui crescono (potrebbero esserci buddisti anche in Congo).
#896
Altre note sintetiche: la "causalità" dell'istinto di sopravvivenza, proprio in quanto istinto, spiega l'etologia, non l'etica: l'istinto non ci dice di dover sopravvivere perché è bene (come viene letto a posteriori dai paradigmi etici), ma solo che siamo "programmati" per sopravvivere (e non solo per quello). Dove altro potremmo fondare l'etica? In qualcosa che consenta di fondare la dicotomia a priori dell'etica, bene/male, che risulta assente nella natura in sé: non c'è causa materiale che preveda bene/male (ammesso e non concesso che l'etica, immateriale, abbia una causa materiale). La causalità spiega genealogicamente il «perché è così» dei valori (storia della morale), senza tuttavia arrivare fino alla natura, che ai valori non garantisce appoggio: il cane non ama che gli si rubi l'osso, non perché è un gesto immorale o perché abbia il concetto di proprietà privata, ma perché istintivamente vuole avere cibo, sapendo che ne ha/avrà bisogno. La "sovrastruttura etica" si basa, storicamente parlando, su un grado minimo di autonomia comportamentale dell'uomo rispetto alla natura e agli istinti, si rivolge alla gestione dei bisogni primari in una società, non vi si fonda: il fatto che si ritenga giusto (e bene) che il cibo non sia gratis per tutti, è un "bene" eloquente riguardo il fondamento dell'etica sui bisogni primari. Ricorrendo alla cultura (da declinare al plurale, chiaramente), invece, la spiegazione mi sembra piuttosto scorrevole. Sul rapporto fra singolo e comunità: gli esempi da te fatti dimostrano quanto la vicinanza alla natura degli istinti (e, talvolta, ai bisogni primari) comporti divergenza dal bene etico (comunemente inteso): il violento usa violenza senza amare riceverla, l'affamatore non ama morire di fame, il ladro ruba ma non ama essere derubato, etc, proprio perché il rapporto fra l'individuo e la società fa nascere problemi di convivenza, pragmatica e morale, che non "si superano da soli", né appellandosi al fondamento etico della natura ("spoilerando": messi in secondo piano ma non eliminati, la natura, gli istinti e l'universalità dei bisogni primari, è qui, di fronte alla suddetta dialettica singolo/società, che nasce l'etica).
#897
Premettendo che l'«è cosi» applicato alla ricerca/legittimazione di fondamento non è comparabile con l'«è così» applicato alla constatazione della realtà (che potrebbe anche essere spiegata valicando il fatalismo di quell'«è così», ma non divaghiamo), pongo solo alcune domande per assicurarmi di aver ben capito la tua posizione:
Citazione di: Ipazia il 24 Maggio 2021, 00:06:46 AM
La dicotomia bene/male non trae ispirazione dall'iperuranio, ma sempre dalla natura: vita=bene, morte=male. Tutto il resto dell'impalcatura etica si regge su questo paradigma naturalistico, nel quale anche le eccezioni confermano la regola.
quindi la natura (im)pone bene/male nella dicotomia vita/morte, ovvero la morte per la natura è male, non è solo un processo di trasformazione? Non ricadiamo in una anacronistica teodicea applicata alla natura ("come può la natura alimentare il proprio male")?
Non è che si sta leggendo con categorie culturali umane quello che in natura è solo un istinto di sopravvivenza (tanto quanto l'aggressività, solo che questa viene interpretata e giudicata moralmente, non a caso, diversamente dall'uomo)? Verrebbe quasi da chiedere dove tale "natura moraleggiante" (e antropomorfizzata in quanto persino filosofeggiante) fondi il suo bene/male... ma è di certo un'altra storia o un altro troncante «è così».
Citazione di: Ipazia il 24 Maggio 2021, 00:06:46 AM
Sulla non arbitrarietà dei fondamenti etici la verifica è facile e, analogamente alle dimostrazioni matematiche per assurdo, investe il campo della non-etica. Salvo patologie psichiatriche, nessun assassino, ladro, truffatore, mentitore, violento, ama essere ucciso, derubato, truffato, ingannato, violentato.
Dunque, stando a tale "dimostrazione" basata su ciò che l'uomo "naturalmente" non ama (senza voler sviluppare il pericoloso piano inclinato che lega ciò che il singolo vuole/ama e il bene della società, questione per nulla "naturale"), la natura fonda anche la proprietà privata come bene (il cui furto è male), la correttezza morale del non truffare, etc.?
Non è che rovesciando fondamento e campo di applicazione possiamo farle fondare, ad libitum, anche tutto ciò che invece è sembrerebbe fondato piuttosto sulla cultura (v. diritti individuali, umani e altre convenzioni contrattualmente stabilite, senza voler entrare nel merito, che presuppone appunto la comprensione dei fondamenti da cui si parte)?
#898
@Ipazia

Non vorrei che l'"accanimento maieutico" diventasse sconveniente, quindi proverò ad essere sintetico (per i miei canoni): affermare che «il fondamento è fondamento»(cit.) è un po' come rispondere alla domanda «perché?» con «perché sì»: un dogmatismo che è la tomba di ogni analisi ed indagine (filosofica o meno). Riguardo i "comuni denominatori" delle dottrine giuridiche: essi hanno da sempre lo scopo di tenere coesa e funzionale le società; se si consente di uccidere a piacimento, la società si sfalda, quindi si vieta l'omicidio con una legge che si basa sull'instaurazione del contratto sociale (altrimenti non ha senso parlare di legge), non sulla natura o sul valore della vita (valore che è infatti stabilito, utilmente ed arbitrariamente, a posteriori dal diritto). La natura non ha valori, né esistenziali né etici, ma, come detto, solo meccanismi, cambiamenti di stato, istinti, etc. sui quali fondare un'etica è frutto di interpretazione a posteriori; tutti i dibattiti etici sul fine vita assistito, sulla pena di morte, sul come dare la vita, etc. lo dimostrano, senza che il chiamare in causa il "fondamento della natura" risolva inappellabilmente le questioni etiche connesse.
Il «come è la natura (umana) coi suoi bisogni naturali»(cit.) non è l'«a priori di ogni elaborazione e postulazione etica»(cit.) ma è il campo d'applicazione dell'etica: ad esempio, di fronte all'immigrato affamato (che per "come è la sua natura" ha urgente bisogno di cibo) si può decidere se respingerlo in mare, o accoglierlo, o riportarlo dove morirà di fame, etc. senza che (v. sopra) si possa fare appello al "fondamento naturale" per falsificare eventuali posizioni etiche "malfondate" (il che dimostra che il fondamento è altrove e i bisogni naturali sono ciò su cui l'etica "legifera", o almeno giudica, ma non si fonda).
Direi che l'«a priori di ogni elaborazione e postulazione etica»(cit.) è, fino a prova contraria, la dicotomia bene/male, e andarli a rintracciare a posteriori nella natura comporta darne una lettura umanizzata: come già spiegato in precedenza, il bene è negli occhi di chi guarda, non nella natura, negli istinti, nei bisogni, etc. D'altronde se bastasse appellarsi ai bisogni primari per individuare o "dedurne" il Bene, allora l'etica sarebbe solo la versione poetica o la formalizzazione pre-giuridica della biologia; tuttavia, da quando sono nate le prime società sino alla complessità e la plurivocità delle questioni etiche contemporanee, si può anche sospettare che non sia troppo credibile rovesciare campo d'applicazione e fondamento, neppur per amore di "solidità".
#899
Citazione di: Ipazia il 22 Maggio 2021, 11:47:11 AM
La base dell'etica è ben radicata in physis. Negarlo è fallacia antinaturalistica.
Non sono sicuro di cosa tu intenda con «fallacia antinaturalistica», ma credo nessuno neghi che ci sia un rapporto/relazione fra etica e physis, in quanto l'etica si rivolge anche ai bisogni fisiologici primari. La questione è se si tratti o meno di fondamento/legittimazione (come da titolo del topic) o di appello argomentativo (v. esempio precedente sulla violenza) o campo d'applicazione (che è solitamente al capo opposto del fondamento, logicamente parlando).
La convinzione etica che «non si può prescindere da: dar da mangiare agli affamati, curare gli infermi, vestire gli ignudi»(cit.) non ha fondamento né nella natura né nella physis, ma in una morale che inevitabilmente si applica (non fonda) anche ad aspetti naturali e fisiologici. Concretizzando: se guardando la natura (umana o altro) riusciamo a dire «questo è bene» e «questo è male», è perché tali giudizi si fondano sulla natura che osserviamo o vi si applicano a posteriori? In sintesi: il bene/male etico è già negli occhi di chi guarda o si "scopre" guardando e studiando l'"oggetto naturale"?
Detto altrimenti (riformulo alla ricerca della domanda meno ambigua): casa nella natura o nella physis (di)mostra che sia bene «dar da mangiare agli affamati»? Il fatto che altrimenti muoiano è un male solo per un paradigma che già presuppone l'assioma «la vita è un bene», ma tale paradigma non si fonda sulla (ma di certo è in relazione con la) natura, essendo essa un contesto in cui vita/morte sono solo cambiamenti di stato, di attività organico/energetica, di interazione fra cellule, batteri, etc. senza che sia in gioco «bene» o «male» (categorie degli uomini per gli uomini), almeno  prima che l'uomo rivolga verso tali fenomeni naturali e fisiologici il suo sguardo già etico, di un'etica fondata altrove (e che, inevitabilmente, assegna alla vita umana un valore che, per natura, non ha; come ben ci spiegano i virus e le pandemie... per quanto riguarda l'istinto di sopravvivenza vale quanto già detto in precedenza sul non confondere etica ed istintività).

Per chiarire ho già usato altrove il parallelismo con il linguaggio (parallelismo in senso euclideo, ovvero che non confonde i due ambiti): il fondamento della lingua italiana è tutto ciò che può esser detto in italiano (nomi, concetti, frasi, etc.) o l'insieme delle sue regole sintattiche, grammaticali, etc.? Se è l'insieme di tali regole (e non i referenti a cui l'italiano si applica), esse sono fondate sulla physis della nostra natura cerebrale (area del linguaggio, etc.) o su altro? Quale "spicchio" di physis o natura fonda il congiuntivo in italiano e lo rende assente in altre lingue? Da notare che non sto parlando del linguaggio in generale, ma nello specifico della lingua italiana che ci fa scrivere queste stesse frasi (proprio come la nostra etica, volgendosi agli altri uomini, ci fa dire «non si può prescindere da: dar da mangiare agli affamati, curare gli infermi, vestire gli ignudi»).
Secondo me, non c'è niente di male (appunto) nel riconoscere che abbiamo bisogno di etica e morale per dare coesione alla nostra vita sociale e culturale, un bisogno tale che non importa (fondativamente parlando, non contenutisticamente parlando) se siano dettate dal cielo divino o radicate nell'"oggettività" della natura o approntate storicamente dagli uomini, resta il fatto che non possiamo farne a meno (la stessa immoralità non è altro che una morale differente).
#900
Riprendendo la Genesi, osserverei che, se non sbaglio, il primo gesto sia tecnico che etico dell'uomo è vestirsi; la conseguenza dell'aver mangiato il frutto (mela o altro che sia) dell'albero proibito innesca la prima operazione di strumentalizzazione della natura («intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture», cit.) e la prima forma di pudore sociale («sono nudo, e mi sono nascosto», cit.), di "accostumatezza", che distinguono subito l'uomo dagli altri animali. Il male viene forse "mondanizzato" proprio in quel momento, nel momento in cui l'uomo si differenzia dal "bene naturale" fatto dell'assenza di tecnica e "costumi morali"? L'albero del bene e del male è forse tale perché i suoi frutti instillano il male nel bene (dell'Eden), male inteso come perdita dell'armonia con la natura (che viene "intrecciata" dalla tecnica) e come pudore (quindi nascondimento, non trasparenza, dicotomia pubblico/privato, etc.) nei confronti del prossimo?
[Per inciso, ho solo giocato a dare un'interpretazione eterodossa del passo biblico, non sono un nostalgico dell'epoca nudista nelle caverne.]

Abbandonando narrazioni ed eresie bibliche, va ricordato che la cosiddetta «fallacia naturalistica» ci mette in guardia dal derivare prescrizioni da descrizioni, ovvero confondere (o addirittura fondare) il "dover-essere" etico-morale-culturale con l'essere meccanicistico, biologico, etc. ad esempio, partire da «i mammiferi si riproducono» (constatazione di ciò che è) per derivarne «un mammifero si deve riprodurre, quindi le donne devono far figli» (dover-essere etico, seppur di un'etica antica... ma non troppo) è chiaramente un non sequitur, emblematico del non sequitur generale fra il piano della biologia e quello dell'etica (come tutti i "cortocircuiti" della bioetica confermano).
Tenere distinte etica ed etologia, in questo caso, è secondo me fondamentale: le leggi dell'istinto, incise nel dna, che regolano la vita biologica non vanno confuse con le leggi delle tribù, che sono incise su supporti meno congeniti e da pensose mani umane. Che l'uomo abbia per istinto l'aggressività coma autotutela fisica, o l'istinto di maternità/paternità verso la prole, o soffra alcune situazioni di privazioni (psicologiche o fisiche), non prescrive nulla di etico, pur rappresentando una descrizione etologica. A posteriori, si potrebbe dire che non è giusto uccidere perché l'uomo per istinto rifugge la morte o non è giusto che una madre abbandoni il figlio perché allo stato brado solitamente è la madre che si cura della prole, etc. ma tali «non è giusto» non si fondano sulla natura, ma usano il comportamento etologicamente osservato come argomentazione (che non è fondamento) a favore di determinate norme sociali, indubbiamente utili, condivise, ormai "filogeneticamente" nel "dna" di tutte le culture in lungo e in largo nel globo, etc. Nondimeno l'appello argomentativo "ad naturam" non va scambiato con un possibile fondamento dell'etica, almeno tanto quanto la presenza di criminali violenti (constatazione) può essere (non «è») un argomento a favore dell'uso della violenza per autodifesa, ma non è il fondamento della doverosità (prescrizione) della violenza interpersonale (né dal punto di vista dei criminali, né dal punto di vista dei non criminali). Radicalizzando: che vivere sia bene e soffrire/morire sia male non può essere affermato basandosi sulla natura, che metabolizza la vita con cambiamenti di stato che nulla hanno a che fare con l'etica (ma può ben essere affermato basandosi sulla propria umanità, biologica, culturale, etc.), poiché l'attaccamento alla vita fa parte della nostra natura tanto quanto l'aggressività (e nessuno proporrebbe l'aggressività come fondamento dell'etica); proprio come non si può affermare che, eticamente parlando, un atomo instabile sia un male (per la sua "privazione") o la forza di gravità sia un bene (perché ci mantiene sulla Terra), almeno se si abbandona l'istintivo antropocentrismo per un'analiticità che non usa indebitamente categorie valutanti di altri contesti.
La natura, guardata dall'uomo, risulta fatta di meccanismi; il giudizio di valore morale su tali meccanismi (e scegliere quindi quali traslare nella società, in quanto ritenuti "giusti", e quali rigettare in quanto "primitivi") trova i suoi fondamenti altrove, anche se tale altrove non ha la indiscutibile perentorietà ed "oggettività" della natura (che è sempre la prima alternativa quando non si elabora a fondo il lutto del divino e si è ancora affamati di "pensiero forte", come, bene o male che sia, istinto naturale e cultura occidentale prevedono).