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Messaggi - 0xdeadbeef

#886
Citazione di: davintro il 14 Giugno 2018, 22:16:26 PM
esiste un piano per così dire "idealistico" in cui la coincidenza tra "assoluto" e "totalità" appare legittima, ed è quello per il quale la caratteristica definitoria del concetto di "assoluto", cioè l'indipendenza, l' essere "sciolto da legami" ben si può attribuire alla "totalità, cioè a ciò che tutto comprende in sé, e oltre il quale c'è il Nulla, dunque nulla di reale che possa influenzare e condizionare la natura di tale totalità.


A parer mio, sì, da un certo punto di vista idealistico totalità ed assoluto possono coincidere; ma appunto proprio perchè,
da un punto di vista idealistico (letteralmente inteso, cioè inteso come "Idealismo tedesco"), la totalità come coincidenza
e, diciamo, "somma" del reale e del razionale è pensata come in-finita ed assoluta.
Naturalmente, per correnti di pensiero diverse dall'Idealismo le cose non stanno in questo modo (ad esempio per Kant la
"totalità" riguarda il solo aspetto quantitativo, cioè delle "cose"), e totalità ed assoluto/infinito divergono.
Dunque, l'identificazone totalità-assoluto non tanto "andrebbe" superata, ma è di fatto già superata nel considerarla
patrimonio esclusivo dell'Idealismo o di modelli ontologici e metafisici di tipo panteista, come ben dici.
Naturalmente concordo su questi concetti come pensabili (ed "esistenti") solo concettualmente, come ben dice anche Paul11.
saluti
#887
Citazione di: Phil il 13 Giugno 2018, 18:07:31 PM
Nel tuo caso, ammetto di non aver chiaro l'identikit dell'assoluto: si tratta di un "aggettivo"(cit.) che descrive una relazione che è costituita dall'"essere sciolto da", ovvero allude ad una relazione che è (a sua volta) assoluta assenza di relazione? In che senso tale "aggettivazione" esiste e porta ad indagini filosofiche?
"L'assoluto" mi pare un aggettivo in forma sostantivata (altrimenti l'articolo non ha senso), e in quanto tale deve avere un referente semiotico (qualcosa di cui parla), dunque è più sostantivo che aggettivo, aprendosi a tutta la problematica ontologica (prima che relazionale) di cui si è accennato.
Non so se tu intenda "assoluto" (non "l'assoluto") similmente ad "autoreferenziale", il che spiegherebbe gli esempi della legge, la forza, la sovranità, il linguaggio... ma tale autoreferenzialità, mi permetto di insistere, fa già parte delle rispettive definizioni, è quindi semanticamente ridondante e non mi dà (limite mio) molto da riflettere, se astratta in generale come vago denominatore comune.




Come possiamo definire "lo" sciolto; "il" senza vincoli (cioè l'assoluto)? Forse contemplando l'"in sè" costituito da
quegli articoli? Forse pensando che quegli articoli nascondano una "sostanza" eterna, immutabile, totale, infinita e
via discorrendo?
Mi sembra francamente superfluo ribadire che "dietro" quegli articoli ci deve essere un sostantivo; sostantivo di cui
quello "sciolto"; quel "senza vincoli" rappresentano l'aggettivazione.
Dunque un sostantivo, come "forza", "sovranità" o "politica", cui si accosta (si "relaziona") un aggettivazione che
rende tale forza o sovranità, o politica, "assoluta", cioè senza vincoli o limiti.
E purtuttavia, a rigor di logica, nemmeno quei sostantivi sono tali. Perchè non poggiano su nessun "in sè", su nessuna
"sostanza" (tant'è che la loro definizione non è mai univoca - e se li nominiamo tali è solo, direbbe Nietzsche, "così,
per vivere").
Quindi non ne farei una questione grammaticale (da quel punto di vista la mia è una specie di provocazione), ma,
appunto, proprio di referenza semiotica.
E questa, come accennavo, ci dice che per nessun termine "esiste" un "in sè", una "sostanza" che lo connoti in maniera
incontrovertibile; sia esso, il termine, nominato come "assoluto", "relativo", "forza", "sovranità", "politica" e
quant'altro (con o senza articolo...).
Il problema filosofico (poi che interessi o meno è un altro discorso) è appunto questo dell'"esistenza" di un qualcosa
al di là del termine che lo connota. Ed è qui, trovo, su questo terreno dell'esistenza che, per così dire, si gioca la
partita.
Trovo, per fare un esempio, francamente troppo semplicistico dire: "l'assoluto non esiste; esiste il relativo".
Beh, che vuol dire "assoluto"; che vuol dire "relativo"; che vuol dire "esistere"?
C.S.Peirce, cui già accennavo, diceva che già il solo pensare ad un qualcosa è inserirlo in una catena segnica
ben determinata (e dunque che quel qualcosa sia, già in origine, null'altro che un interpretato, un fenomeno particolare).
Come del resto anche Whitehead intuiva quando si chiedeva: "ma quest'oggetto su cui sono seduto, è una sedia o una
danza di elettroni?
Allo stesso modo vi chiedo e mi chiedo: è, questo "assoluto", un qualcosa che esiste in sè, che ha sostanza; è
è un aggettivo riferito ad un qualche sostantivo; è qualcos'altro?
La risposta che personalmente mi dò è che l'oggetto di qualsiasi risposta "esiste" solo all'interno di una certa pratica
discorsiva, di una certa catena segnica.
Da questo punto di vista l'assoluto "esiste" anche laddove è negato; come negativo del termine "relativo". "Esiste", certo,
non di una esistenza, come dire, "spaziale"; esiste come concetto; ma chi l'ha detto che i concetti, le idee, non esistono?
E allora ancora: che vuol dire "esistere"?

saluti
#888
Citazione di: Kobayashi il 13 Giugno 2018, 17:14:52 PM

Il Regno non può costruirsi nel privato: il fatto che lo si possa pensare la dice lunga su quanto il cristianesimo sia diventato una religione spenta.
Naturalmente condivido le tue osservazioni storiche.
Quello che mi interessava far notare è che alla base della contraddizione di cui parlava Jacopus nel post iniziale, secondo me, c'è una rimozione che progressivamente si è sviluppata nei secoli, ovvero l'idea che la componente mistica della religione cristiana non può vivere senza quella socio-politica.




Ciao Kobayashi
Diceva Jacopus in una precedente risposta (cui ho a mia volta risposto):
"La mia domanda però si rivolge ad una diversa platea, ovvero a coloro che riconoscono l'importanza del giusnaturalismo,
poichè la tradizione cristiana e quella religiosa in genere, ritiene che la legge divina sia superiore a quella umana
e che quindi quella umana si debba conformare ad essa, perlomeno cercando di imitarla".
In risposta, citavo appunto il Luteranesimo, quale momento fondamentale del passaggio del Cristianesimo da una sfera
comunitaria ad una individuale.
Tale passaggio non avviene a caso. Tutta la storia dell'Occidente è la storia di una progressiva e prepotente emersione
dell'individuo; un individuo ormai visto come "monade", cioè bastevole a se stesso.
Naturalmente ciò ha comportato la separazione fra stato e chiesa, così come il tramonto del giusnaturalismo.
Anche a mio parere la religione cristiana, se autentica, non può vivere separata dalla dimensione socio-politica (ho
qualche dubbio ma spero, in tale concordanza, di ben interpretare quella tua "rimozione"). Ma così, di fatto, avviene.
E dici bene ove dici che il Cristianesimo è diventata una religione "spenta". Ma non tanto, trovo, per una propria colpa.
E' che l'uomo occidentale è, intrinsecamente, per la stessa cultura che lo ha generato, un uomo a-religioso ove non
addirittura anti-religioso.
E il Luteranesimo ne è tappa dal profondo significato. Non è certamente per caso che proprio i paesi luterani hanno
visto per primi lo spegnersi di ogni sentimento religioso.
saluti
#889
Citazione di: Kobayashi il 13 Giugno 2018, 10:57:24 AM
Ritornando al post iniziale di Jacopus...

Chi sente di essere cristiano deve essere fiducioso che il Regno di Dio possa essere costruito.




Il "Regno di Dio" non è mai stato costruito perchè è impossibile da costruirsi.
O meglio, forse (forse...) è possibile, ma solo entro la sfera personale: mai in quella pubblica (l'unico tentativo
finora fatto, quello del potere temporale della Chiesa, si è risolto appunto in un potere temporale qualsiasi).
Anzi, tutta la storia dell'occidente è la storia del progressivo spostarsi della religiosità dalla sfera pubblica
a quella privata (seguendo il processo di emersione dell'individuo).
Il mio non è un giudizio di valore, ma la constatazione di un fatto.
saluti
#890
E come potrebbe non iniziare a brulicare una dissoluta molteplicità di assoluti se esso, l'assoluto, è un aggettivo
(e non un sostantivo)? Cioè se esso "ex-siste" nella sfera della relazione ma non in quella dell'"in sè", della
sostanza?
Ma proviamo a fare un giochino che, a mio parere, potrebbe presentare aspetti interessanti ai fini del nostro
discorso. Proviamo, ad esempio, a definire la "politica"...
Comincio io. Per me la politica E' la distizione fra chi comanda e chi è comandato.
Naturalmente, si noti bene quell'"è" che definisce la politica nel senso "sostanziale" (cioè che la "sostantiva").
Altri, presumo, ne darebbero altre definizioni. Con la stessa (si badi bene) pretesa di sostanzialità.
Ma allora c'è qualcosa che non torna, visto che la "sostanza", aristotelicamente intesa, è una sola...
Questo Nietzsche lo aveva capito bene (nelle parole che ho riportato in altre risposte). E' per questo che, dicevo,
il linguaggio è "assoluto per costrizione" (si esprime necessariamente per sostantivi).
Questo è il motivo per cui sostengo che l'assoluto "esiste", eccome (e somiglia molto a quello descritto dall'amico
Sgiombo...)
saluti
#891
Citazione di: paul11 il 11 Giugno 2018, 15:26:19 PM
La mia personale sistematizzazione è che l'assoluto crea regole non enti.



Con una battuta mi verrebbe da dire: finalmente qualcuno che capisce la differenza fra un aggettivo e un sostantivo
(differenza che solo l'Idealismo abolì)...
Sono in linea di massima d'accordo. Il problema della scienza propriamente detta è che, come dire, "non vede se
stessa", e quindi non può avere nessuna capacità di sintesi (da qui il problema del non vedere l'assoluto come
"relazione").
Un unico appunto: non parlerei di "superiorità" della filosofia sulle scienze come se essa potesse, di diritto,
attribuirsi un potere di guida e di giudizio su di esse.
Di fatto così è, necessariamente; ma. appunto, non lo può essere di diritto.
saluti
#892
Citazione di: Jacopus il 12 Giugno 2018, 00:38:54 AM
La mia domanda però si rivolge ad una diversa platea, ovvero a coloro che riconoscono l'importanza del giusnaturalismo, poichè la tradizione cristiana e quella religiosa in genere, ritiene che la legge divina sia superiore a quella umana e che quindi quella umana si debba conformare ad essa, perlomeno cercando di imitarla.




Una specie di Sharia insomma...
Argomento delicato e di grande complessità ma, come dicevo, la separazione fra Stato e Chiesa data in Occidente
a ben tanti anni fa (ma direi proprio che tutta la storia del pensiero dell'occidente altro non è se non la
storia di tale separazione...), quindi perchè porsi questo interrogativo ora, in occasione di questo evento
particolare e, tutto sommato, di non grandissima rilevanza storica (è successo ben altro...)?
Per come la vedo io, gli autenticamente cattolici si rifacciano al principio del Papa-Re (quindi ad una
indistinzione fra potere spirituale e temporale), mentre gli altri, quelli meno "autentici", si avvicinino
al Luteranesimo ed alla sua predicazione (che prevede il ritrarsi della Fede entro la sfera personale).
Tutto quel che sta in mezzo a questi estremi è "misura", pacatezza, ma anche inevitabile compromesso.
saluti
#893
Beh insomma, la separazione fra Stato e Chiesa data ormai un bel pò di anni...
Poi, che c'entra, che molti vivano la religione in maniera, come dire, "farisaica" è ben noto...
Personalmente sono di quelli che hanno apprezzato la mossa di Salvini, e lo dico da ex di sinistra e, diciamo,
da non-indifferente verso la religione o comunque la spiritualità in genere.
Certo la cosa "colpisce", è d'impatto; ma forse meglio esporsi in questo modo, quasi "virilmente" direi che non,
magari, andare a stipulare patti con i sanguinari "ras" libici affinchè si tengano loro gli immigrati (come
più o meno hanno fatto certi stomaci delicati del nord-europa con Erdogan).
Sia comunque chiaro che per me al primo posto deve esserci il salvataggio delle vite umane. Poi, certo, se
magari qualcuno (di quelli dallo stomaco delicato...) volesse solidarizzare e contribuire...
saluti
#894
Scusate ma cerco di dire ciò che intendo per "assoluto" fin dalla mia prima risposta (l'assoluto, dicevo, è lo "sciolto";
il libero da vincoli - come da etimologia).
Poi, ma solo poi, ho dato una mia interpretazione su ciò di cui questi vincoli potrebbero essere costituiti.
In realtà il termine "assoluto" non ha una storia molto antica (mi pare che una delle prime formulazioni sia stata di
Cusano a proposito di Dio, ma non vorrei ricordare male), e solo con l'Idealismo tedesco perviene al significato
etimologico corrente.
Dicevo anche che con quel termine non mi riferivo tanto ad una derivazione dalla "sostanza" aristotelica, ma al
significato che ad esso diede Kant, e che è appunto esprimibile in termini di "relazione" (assoluto come possibilità
sotto ogni aspetto).
Quindi, dicevo ancora, non capisco perchè ci si ostini ad attribuire a quel termine una valenza solo ed esclusivamente
"ontologica" (o metafisica).
Da questo punto di vista (l'assoluto come il libero da vincoli, costrizioni o impedimenti), con l'assoluto dobbiamo
eccome fare i conti.
Ho fatto l'esempio della legge (e ad essa mi riferivo come non-relativa - se si prescrive che uccidere è un reato tale
prescrizione vale anche per chi così non la pensa); avrei potuto riferirmi in genere alla "forza"; alla "sovranità",
che sempre legittima se stessa sulla base della propria volontà di potenza (che tende a rimuovere qualsiasi limite
che ad essa si opponga).
Ma potrei riferirmi anche a certo "scientismo" oggi dilagante (basti guardare all'economia, dove ci viene imposta una
visione dogmatica - cioè assoluta - che contrasta assai con quel principio di fallibilità che sempre dovrebbe guidare
la scienza autenticamente intesa).
Per finire, appunto, con lo stesso linguaggio (assoluto per "costrizione" - no, non esistono linguaggi che non hanno
una funzione strutturata "assolutamente")
saluti
#895
Beh, io direi che se vengo condannato è sì in virtù di una convenzione stabilità da una società; ma una convenzione che
pretende di valere assolutamente, cioè per tutti i membri di quella società.
Naturalmente è verissimo che le leggi cambiano nel tempo e nello spazio, ma è altrettanto vero che in un certo tempo e
in un certo spazio quelle leggi hanno una validità assunta come assoluta (seppur per convenzione).
L'assoluto, da questo punto di vista, non è da me inteso come relativo alla coppia dicotomica legale/illegale, ma
come riferentesi alla "universalità" del valore ascritto alla norma giuridica (cioè alla sua prescrittività "per tutti").
Ma dirò di più (lo accennavo): tutto il linguaggio è fondato su una pretesa di assolutezza, senza la quale nemmeno
potremmo alzarci e dire: "guarda che bella giornata è oggi". L'assoluto, da questo punto di vista, permea di sè
ogni aspetto della nostra vita quotidiana (Nietzsche diceva infatti che se dicìamo di qualcosa che "è" lo diciamo "così,
per vivere" - cioè legava la concezione di assoluto ad una visione convenzionale ed utilitaristica).
Chiaramente, ma lo dicevo, non è dell'assoluto "classicamente inteso", come è insomma in Aristotele, che sto parlando.
Diciamo che la mia visione dell'assoluto è più, come dire, "kantiana". Ma, visto che si parlava di "relazione", e da
quel punto di vista si escludeva categoricamente l'"esistenza" dell'assoluto, beh, io dico che invece quel termine
(esistenza-dell'assoluto) vada molto ma molto ben più ponderato e specificato.
saluti
#896
Beh, capisco come certi discorsi possano sembrare pedanti, "onanistici", riferiti cioè relativi a ristrette cerchie
di "iniziati" e che, tutto sommato, meritino una bella "rasoiata".
Però, appunto, sembrano soltanto...
Visto che, personalmente, ritengo la filosofia non esercizio astratto e sterile, ma ricerca dei fondamenti più
profondi di tutto ciò che risulta, poi, terribilmente immanente e concreto, farò qui l'esempio forse più
macroscopico della "realtà" dell'assoluto. Nelle aule di tribunale, infatti, c'è scritto: "la legge è uguale per tutti";
che vuol semplicemente dire che la legge viene intesa assolutamente.
Dunque l'assoluto "esiste" (...) eccome: lo si chieda a coloro che vengono condannati da una corte che, magari, non
"comprende" le motivazioni personali (relative) che hanno portato l'imputato a trasgredire l'assoluto rappresentato
dalla legge.
Quindi non ci si illuda pensando di aver liquidato una volta e per tutte certi concetti, perchè poi quei concetti, come
si suol dire, rientrano dalla finestra...
Proprio il "rasoio di Okham", fra l'altro, è un esempio di questo rientrare dei concetti per vie che non si erano
considerate. Ma non è questo il punto, e non divaghiamo.
saluti
#897
Perdonatemi ma trovo che la vostra posizione (certamente rispettabile e forse, per certi versi, anche condivisibile)
sia, come dire, esageratamente sbrigativa. E che poco faccia i conti proprio con il concetto di "relazione".
Affermare infatti che qualcosa (in questo caso l'assoluto) non "esiste" significa affermarlo in maniera assoluta.
Anche in questo caso mi rifaccio all'etimologia del termine "ex-sistere"; che vuol dire "stare saldamente fuori".
Fuori da che cosa? Naturalmente dall'interpretazione soggettiva; cioè dal relativo.
Trovo superfluo premettere "per me" (l'assoluto non esiste); ognuno di noi è in un certo qual modo "costretto" ad
esprimersi per assoluti (come il genio di Nietzsche ha intuito); essendo il silenzio la sola alternativa possibile.
Trovo perciò inevitabile, necessario, che tra il relativo e l'assoluto (come concetti, non certo come essenti
"concreti") si stabilisca una qualche relazione.
A mio modesto parere, l'identificazione fra assoluto e tutto (come fra relativo e molteplice) confonde e rende tutto
il discorso "distorto", ed appunto perchè troppo individua in questi due termini una esistenza "concreta" (che cioè
ha una posizione spazio-temporale).
saluti

(chiedo scusa all'amico Sgiombo: ho scritto questa risposta senza aver letto la sua)

Ecco si, appunto, carissimo Sgiombo, mi sembra tu abbia ben "inquadrato" il problema.
Dicevo di Nietzsche, il quale nei "Frammenti postumi" dice: "nell'eterno fluire delle cose di nulla potremmo dire
che è".
Cioè non potremmo mai, senza ricorrere all'assoluto, affermare che questa cosa E' questa cosa.
saluti e stima.
mauro
#898
Per quel che mi riguarda, preferisco pensare all'assoluto (e quindi al relativo) in termini etimologici.
L'assoluto è, da questo punto di vista, l'"ab-solutus": lo "sciolto"; il libero da vincoli...
E da quale vincolo l'assoluto potrebbe essere "sciolto"? Ad esempio dal vincolo dell'interpretazione soggettiva.
L'assoluto si verrebbe quindi a configurare come il non-interpretato; come la "cosa in sè"; come, in definitiva,
la Verità (specularmente il relativo sarebbe a questo punto l'interpretato; il "fenomeno"; l'opinione).
Occorre qui accennare che per il "relativismo" (cioè la corrente di pensiero che fa del relativo l'unica verità),
ove esso non fosse "ingenuo", verità inconfutabile, dunque "ab-soluta", è proprio il relativo stesso nella misura
in cui esso annulla l'assoluto ovunque TRANNE, appunto, che nell'affermazione circa la sua stessa "natura".
saluti
#899
Per rispondere all'amico Green Demetr, il tempo assunto al pari degli altri essenti (come è evidentemente assunto
da Severino) vuol semplicemente dire che il tempo, in quanto eterno, non esiste: è nulla.
O, per meglio dire, è nulla per noi (poveri) "mortali"; non per Severino, per il quale se esso è un essente non può,
evidentemente, essere nulla (infatti è eterno).
Però ci dovrebbe, appunto, spiegare un pò meglio cosa lui intende per "tempo", visto che, almeno per quel che io ho
letto, l'argomentazione circa la diatriba Einstein-Popper (i fotogrammi della cinepresa) mi sembra assai, come dire,
"carente".
In realtà, a me sembra che tutta la filosofia di Severino sia meglio comprensibile se analizzata alla luce di quel che
Nietzsche afferma nei "Frammenti postumi".
Dice Nietzsche: "nell'eterno fuire delle cose di nulla potremmo dire che è". Se lo diciamo, continua Nietzsche (ora
non ricordo le parole precise ma il senso è certamente questo), è: "così, per vivere".
Tutto il discorso si sposta allora sul "simbolo", sul significato e dunque sulla catena segnica dei significanti-
significati.
Peirce afferma che già il pensare (quindi in un momento antecedente il parlare) è inserire il "primum assoluto",
l'"oggetto", all'interno della catena segnica. Riferendo la teoria di Peirce alle parole di Nietzsche potremmo
supporre che quell'"è" atemporale ("eterno" di una eternità che Nietzsche relativizza all'utilità, alla convenzione
- "così, per vivere") sia null'altro che un primo "segno" posto dal primo interprete.
Senonchè, a me sembra, non è questa la strada che Severino percorre. Perchè da lui quell'"è" viene inteso appunto
come "primum assoluto" (la negazione dell'esser-sè dell'essente è autonegazione, dice Severino nell "Struttura
originaria").
Quindi, in Severino, già nel "primum assoluto" (che poi lo sia è, come visto, tutto da dimostrare) è escluso il
tempo, che dunque risulta presupposto (presupposto...) nella sua eternità, o nullità che dir si voglia.
Insomma, questo di cui ho dato qualche accenno mi sembrerebbe un, come dire, buon terreno da esplorare.
Sicuramente più della "contraddizione C" cui accennavo (in cui si parla della struttura originaria come
di una totalità formale, astratta), che forse porterebbe tutto il discorso ad aggrovigliarsi più di quanto
già non lo sia.
Per cui, e per quanto mi riguarda, mi scuso di averla tirata in ballo.
saluti
#900
Ringrazio tutti voi delle gentili e interessanti risposte.
In effetti, come ben dice l'amico "Bobmax", trovo anch'io che Severino si ripeta continuamente, senza offrire nessun nuovo
spunto di riflessione; nessun "in altre parole" che meglio chiarisca certi suoi criptici concetti (criptici, beninteso, non
solo al "volgo" ma anche a fior di pensatori...).
Ed è un vero peccato, perchè personalmente ritengo Severino filosofo di prima grandezza; e certo questa sua, diciamo,
"problematica comprensione" non giova, prima che al resto, alla sua stessa statura di intellettuale.
Dunque, Severino "parte" con l'affermazione che la negazione dell'esser-sè dell'essente è "autonegazione" (mi pare che,
pur se in scandalosa sintesi, a questo possa ridursi la "struttura originaria").
Dunque siamo ancora ("ancorati", come dice Bobmax) a Parmenide, mi pare evidente.
Senonchè l'enunciazione parmenidea, come del resto quella di Severino, è null'altro che il principio di non contraddizione
da cui è stato espunto il tempo (che invece fa la sua comparsa nell'enunciazione di Aristotele).
Ed è proprio la mancanza del tempo, trovo, che permette a Severino di affermare, nella struttura originaria, l'eternità
dell'essente.
Ma che fine fa il tempo nella filosofia di Severino? Questo il filosofo non ce lo dice. O almeno, trovo, non ce lo dice
in maniera esauriente, limitandosi alla continua ripetizione degli stessi enunciati.
Il tempo, presumo, fa la medesima "fine" di ogni essente (cioè: esistendo solo l'eternità esso non esiste, è nulla)?
Cioè ancora, il tempo "appare" solo nell'orizzonte della "terra isolata dal destino"? E su quale base si afferma tutto
questo?
Insomma, trovo che il problema fondamentale, nella filosofia di Severino, sia proprio questo del tempo.
Ma il problema del tempo è, evidentemente, il problema del divenire (che per Severino è l'apparire e lo scomparire
dell'essente nell'orizzonte degli eterni - cioè, Severino non nega tanto il divenire; nega che il divenire avvenga in una
unica dimensione temporale - egli comunque si riferisce al divenire come a un "compimento").
Ebbene, come spiega questa ipotesi, questa congettura (e per me è già un eufemismo definirla tale...), che porta
dritti a teorizzare una serie infinita di universi paralleli nei quali ogni attimo è conservato?
Non certo, presumo, con la struttura originaria o il principio di non contraddizione depurato del tempo...
A questo punto dovremmo probabilmente cominciare a parlare della "contraddizione C", nella quale egli ipotizza
una distinzione fra forma e contenuto; distinzione in cui non è impossibile intravedere (e qualcuno lo ha già fatto),
diciamo, "contaminazioni" da parte della metafisica "classica" (pur se Severino tiene ferma l'eternità di ogni essente).

saluti