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Messaggi - Mario Barbella

#91
Citazione di: sgiombo il 19 Aprile 2016, 08:31:11 AM
Concordo con chi nega l' inconciliabilità di scienza e filosofia: sono due "campi di conoscenza" perfettamente conciliabili, anzi "da conciliare", complementari.
E anche con chi (Memento) polemizza con la pretesa che la filosofia non "metta il naso nella scienza": una filosofia razionalistica sottopone "spietatamente" al vaglio della critica razionale tutto, anche la scienza (quali che siano la portata e le conseguenze dei risulati da essa conseguiti, senza alcun "timore reverenziale"), cercando di rilevarne e studiarme pregi e difetti, validità pratica e anche teorica e limiti.

Inoltre da negatore del monismo materialistico sostengo che la realtà non é limitata al naturale - materiale scientificamente conoscibile, ma include esperienza cosciente e pensiero, la cartesaina  "res cogians" (almeno per certi aspetti), che non essendo "extensa" e dunque misurabile, e inoltre non essendo intersoggettiva, non può essere conosciuta scientificamente (ma non per questo é meno reale della "res extensa": intersoggettivo =/= reale; soggettivo =/= non reale, inesistente!).
Anch'io concordo sulla conciliabilità tra scienza (intesa come insieme strutturato di di risultati di ricerche e di tesi su materie di ricerca) e filosofia. Se riflettiamo bene anche la filosofia, come una qualsiasi disciplina scientifica, poggia su un linguaggio disciplinato dal e sul principio di "causa-effetto", vale a dire che sia il fisico (oppure il matematico) che il filosofo devono spiegare o cercare una catena logica che leghi una causa convenzionalmente iniziale A con  un un effetto convenzionalmente finale B; la differenza tra i  due linguaggi (scientifico e filosofico) sta nell'ampiezza del fronte d'attacco dei due linguaggi, anzi, nei tre o più linguaggi, si perché è doveroso distinguere la forma del linguaggio del matematico rispetto a quella del fisico così come dovremmo separare adeguatamente i linguaggi di altre discipline scientifiche, ma fermiamoci al confronto di un fisico con uno storico:
Il fronte d'attacco del linguaggio del fisico (per es. di meccanica classica) affronta il problema, per esempio, del moto di un corpo tra A e B prendendo in considerazioni un ristretto o ristrettissimo insieme di dati ed ipotesi di partenza e stringendoli all'essenziale (dunque un A quanto più possibile ristretto per raggiungere logicamente un B sperabilmente molto ristretto. Per il matematico A e B devono essere puntuali pena la inaccettabilità della sua eventuale teoria matematica.
Il  fronte d'attacco del filosofo storico ha, invece, un in A stesso l'allargamento del fronte d'attacco iniziale, cioè A  è un insieme di tante a che formano un tentativo  di descrizione di condizioni iniziali multiple che sono pure una descrizione a ritroso di A. Quanto detto per A vale anche per B. Il fonte di attacco ampio A si allargherà ancora lungo il percorso A-B. si capisce bene qual'è l'insieme delle caratteristiche dei due tipi di linguaggio:m: ristretto e puntuale quello matematico e, magari del fisico, rispetto a quello fronzoso e non ben delimitabile del filosofo.
Concludo facendo però presente due cose, la prima che tra il linguaggio matematico e quello filosofico v'è tutta la gamma intermedia degli altri linguaggi della scienza: la scienza medica, per esempio, ha un percorso tutt'altro che rigido e preciso rispetto al linguaggio del fisico, ecc.; la seconda cosa è che la perdita di precisione del linguaggio del filosofo ma anche di certe scienze, trovano compenso nella quantità e nella qualità complessiva di dati abbracciati dall'ampiezza del fronte d'avanzamento tra A e B, non è a poco! ;)  ::)
#92
Tematiche Spirituali / il perdono: quanto costa?
23 Aprile 2016, 22:38:29 PM
[font='Times New Roman', serif]Nel cercare, con un motore di ricerca in internet, la frase "Settanta volte sette", che è in Mt. 18,21-35, mi sono imbattuto in un sito in cui appariva una serie di considerazioni di un sacerdote, certo Don Virgilio Covi, che non conosco, il quale, citando Luca 6.37, rifletteva sul significato del perdonare affermando, fra l'altro, che "Solo chi ha in sé lo Spirito di Dio Padre può perdonare" ed ancora: "Solo un Dio che sia Padre può perdonare". Queste frasi hanno attratto la mia attenzione perché talvolta è capitato anche a me di riflettere, come Don Virgilio, sui significati che possono essere dati alle parole "perdono" e "perdonare", non trascurando, in queste riflessioni, ciò che i Vangeli comunicano (o sottintendono) col loro linguaggio notoriamente asciutto e, per questo, un po' spiazzante.

Nel comune intendimento il verbo "perdonare" significa non dar luogo ad atti di vendetta o, comunque, di rivalsa nei confronti di chi ci abbia arrecato danno od offesa di qualche gravità. Questo stesso concetto potrebbe essere esteso, non ad un'offesa, ma, per esempio, ad un credito reale a cui il perdonante vi rinunci in assoluta gratuità per debitore. Per brevità lasciamo da parte quest'ultima importante accezione e fermiamoci alla prima, quella relativa del perdono di un'offesa. Cerchiamo di andare a qualche episodio di perdono che abbiamo effettivamente sperimentato. Immaginiamo il caso di una offesa, non molto grave, che riteniamo di aver ricevuto da un conoscente o un amico; se non intendessimo perdonarlo potremmo scegliere di redarguirlo, di mostrargli il nostro disappunto togliendogli la consueta amicizia, oppure possiamo fingere di niente ma decidendo, anche se non dichiaratamente, di chiudere ogni rapporto con lo stesso. L'offesa potrebbe essere anche molto più grave di quanto appena detto sicché, proporzionalmente, anche il nostro desiderio e le modalità di rivalsa vi s'adeguerebbero. Fatta questa puntualizzazione sulle possibili situazioni immaginiamo di voler, invece, perdonare chi ci ha offeso.
Nel caso di offesa non molto grave ma comunque significativa, il nostro perdono potrebbe risolversi nel non dar luogo a nessuna, seppure lieve, forma di contro-offesa, mantenendo, sì, immutati i rapporti apparenti, ma conservando in animo un certo rancore, per esempio, perdendo la primitiva simpatia o la stima nei confronti dell'offensore. Questo tipo di perdono imperfetto è, perché lascia in animo una traccia del rancore. Va ancora considerato il fatto che un perdono, pur senza rancori residui, come si auspicherebbe, perde pur sempre ogni valore morale o, se si preferisce, di sacralità evangelica che lo renderebbe prezioso, infatti, per un vero perdono è necessario tener presente queste possibilità:

* L'offesa è troppo piccola o è trascorso del tempo sicché il senso di gravità dell'offesa, anche se originariamente importante, si è estinto o grandemente attenuato al punto da non giustificare più i costi morali e/o materiali connessi al mantenimento o alla gestione di una qualsiasi situazione di tensione e, soprattutto, del persistere l'idea di un'azione di rivalsa. E' evidente che, in tali casi, nessun merito può essere riconosciuto a chi ha, diciamo così, perdonato senza alcun vero sacrificio grazie agli effetti del tempo ed alla esiguità dell'offesa, specie se si tiene conto che questo perdono avrebbe potuto essere dato quando ancora il bruciore dell'offesa era ancora vivo, ma ciò non fu fatto per ragioni che è facile comprendere.

* L'offesa è più importante di quella del caso precedente sicché la spinta verso un'azione di rivalsa potrebbe essere effettivamente forte; tuttavia l'eventuale azione di rivalsa si presenterebbe problematica sia per pavidità dell'offeso, sia per la mancanza di mezzi atti allo scopo e per tema di pericolose contro-reazioni e, infine, anche per il "costo" che richiederebbe il mantenimento di uno stato conflittuale. Per quest'insieme di cose l'offeso decide allora che conviene perdonare (diciamo così) l'offensore. E' appena il caso di ribadire che un tale perdono, forzato da queste circostanze, non vale molto anche in assenza di qualsiasi tangibile rivalsa ai danni della controparte, e non vale neppure se, nel tempo, sbiadendosi significativamente il rancore, si desse finalmente luogo ad una completa riconciliazione.
Vorrei ancora una volta sottolineare che il "raffreddamento" del peso dell'offesa, dovuto al trascorrere del tempo, raffredda pure l'essenza dell'eventuale perdono annullandone il valore; nessun merito allora rimane a chi avrebbe dovuto già da prima perdonare, ma mancò di farlo. Vorrei altresì sottolineare il fatto notevole che il valore sacrale del perdono cresce col diminuire dei rischi, fatiche ed altri "costi" per una qualsiasi forma di rivalsa nei confronti dell'offensore; infatti, il perdono varrebbe moltissimo se il perdonante, pur potendo, senza rischi e senza costi, vendicarsi con un semplice atto di volontà, ciò non ostante vi rinunci in totale gratuità. Da ciò si evince immediatamente che il perdono di Dio non può che avere una valenza infinita proprio perché l'infinità di quella potenza rende infinitamente piccolo –cioè nullo- il sacrificio divino e, conseguentemente infinitamente grande il valore del Suo perdono.

Dopo questa rassegna sul "bilancio" tra costi e benefici, è il momento di un cauto avvicinamento al senso cristiano e teologico del perdono. Il perdono divino è solo il modello limite verso cui tendere per cercare di dare qualche granello di merito al nostro atto di perdonare che, come abbiamo visto, spesso potrebbe esserne privo.
Ma il perdono umano, per la sua ideale riuscita, che lo renderebbe un po' simile a quello divino, dovrebbe, per quanto detto, lasciare pulita la memoria del perdonante come se l'offesa ricevuta non fosse stata neppure percepita, quindi, senza che veruna traccia vi resti nel ricordo del perdonante salva, però, la coscienza del perdono dato. Un bel dire!
E' così che dovremmo pensare al vero perdono? No, perché un tale perdono -abbiamo detto- non costerebbe sacrifici al perdonante, quindi, non avrebbe valore. Ma soprattutto peserebbe quella totale ed assoluta dimenticanza dell'offesa che annullerebbe il valore del perdono anche per il solo fatto che ogni perdita di informazione, in qualunque circostanza, anche lontana da questo argomento di riflessione, ci allontana dall'aspirazione di tendere ad imitare Dio, proprio perché Dio, in quanto Conoscenza assoluta, è privo della debolezza della dimenticanza, quindi, non può perdere alcuna informazione in questo ed in qualsiasi altro senso.
Ma se è così scoraggiante la nostra condizione come dovremmo o potremmo comportarci per seguire al meglio il comando evangelico del perdonare? Abbiamo visto come qualunque risposta alla domanda inciamperebbe in palesi contraddizioni o sarebbe così complessa da farci smarrire fra le innumerevoli ramificazioni delle possibili argomentazioni, dunque è difficile affrontarla di petto, ma forse è possibile aggirarla fidando nella buona fede. Questa buona fede, applicata all'atto del perdono, fa sì che l'atto stesso, al di là delle scoraggianti considerazioni fatte, che comunque non ne pregiudicano l'utilità sociale, anche se non si carica di valore sacrale, non di meno si scarica di parte delle insufficienze connesse a qualunque azione umana. In fondo la fiducia nella buona fede non è altro che un aspetto della Fede, cioè l'unico strumento che potrebbe condurci all'imboccatura di un provvidenziale tunnel che, quando inaspettatamente lo si trovasse, si aprirebbe una fantastica scorciatoia capace collocarci, se divinamente graziati, niente meno che nella giusta direzione verso la Conoscenza assoluta. Questo tunnel-scorciatoia sarebbe ciò che per taluni mistici è l'esperienza del rapimento estatico, per qualcun altro è la percezione di una grazia ricevuta, per un uomo di scienza o un matematico è la fortunosa ed improvvisa intuizione che, gratuitamente e di colpo, lo coglie aprendo loro inaspettatamente la via per la soluzione dei annosi problemi di ricerca, per un artista, infine, è la grande ispirazione artistica che lo renderà più che pienamente soddisfatto.
 ::)
#93
Citazione di: paul11 il 20 Aprile 2016, 10:59:20 AM
Si potrebbe anche pensare che Dio non ci sia, si potrebbe anche quindi pensare che pregare non serva a nulla,
Sospettare, seppure come probabile, che Dio non ci sia è esattamente la stessa cosa che sospettare che io (IO) non ci sia!!!!
Per il resto condivido appieno la tua posizione quale è espressa nel tuo post. :)
#94
TRE FUCILI AL BIVACCO
Qualche riflessione sulla preghiera


         Le preghiere più accorate, sincere e di intima emozione sono quelle recitate in silenzio sotto il peso di angosciose preoccupazioni; ma questo è una limitazione a quanto spetterebbe al più importante momento della religiosità genuina. La limitazione starebbe nel fatto, per altro normalissimo, che le angosciose preoccupazioni siano la quasi sola (o almeno la prevalente) motivazione che spinge alla preghiera e la sola causa che coinvolge più intensamente l'orante.
Ma ci sono altre motivazioni per un pregare spontaneo ed intimo? Si, forse quella  per le anime dei cari che ci hanno lasciato da poco, a distanza seguono tutte le altre motivazioni di preghiera, spesso poco coinvolgenti, tra cui quelle recitate per rispetto dei doveri verso la comunità religiosa di appartenenza e per altre motivazioni di circostanza quali le tradizioni connesse a liturgie ed alle abitudini personali. Ma qualche volta vedremo che non è così.
Invidio coloro, che non sono pochissimi, i quali, durante la preghiera, sono  palesemente pervasi dall'emozione, fino alle lacrime. Ancor più invidio -e mi impressionano- i mistici, veramente pochissimi, come, per esempio, Giovanni Paolo II o san Pio da Pietralcina, che conosciamo più da vicino, i quali, mi pare, non abbiano mai mostrato  lacrime nei  momenti di preghiera che i mezzi televisivi ci hanno trasmesso, tuttavia  il loro coinvolgimento nella preghiera era tale che gli oranti apparivano palesemente contriti, contratti e contorti come da forte sofferenza interiore, quasi per intensa necessità di espiazione. Oso credere che le motivazione di questo tipo di preghiera siano molto diverse da quelle consuete della implorazione, ma soprattutto sembrano difficilmente comprensibili ai più.
Si dice che la preghiera sia  parlare con Dio, molti aggiungerebbero, "per implorare qualcosa", ma è sempre così oppure ci potrebbero essere motivazioni che solo molto  indirettamente sarebbero riconducibili ad una richiesta? Credo di si, azzarderei col dire che la preghiera sia anche studio, riflessione interiore, ricerca. Ricordo di aver letto, condividendone il senso, che è preghiera anche l'attenta e cercata lettura di un brano biblico o evangelico. Se ciò è vero, come non dire che la preghiera sia anche studio e ricerca?
     Sono convintissimo che lo studio sia, almeno in un certo senso, assimilabile alla preghiera perché Dio è Conoscenza, anzi, Conoscenza assoluta; la C maiuscola  di Conoscenza è necessaria, perché l'accezione comune di questa parola è piuttosto fuorviante non rendendo assolutamente l'idea sul  vero e ben complesso significato né sulla importanza  che merita il termine stesso. Lo studio è, nella preghiera ma pure in ogni altro rapporto con la sacralità, un percorso conoscitivo, difficile e complesso, che si sviluppa lungo la via della Verità, verso la Conoscenza assoluta, cioè nella direzione di una meta posta all'infinito. Invidio il mistico perché il suo studio per appressarsi alla Verità o la sua preghiera è sorretto dalla intima speranza di incontrare un aiuto straordinario, come di un'imprevedibile imboccatura di un tunnel-scorciatoia o un'illuminazione estatica, che lo ponga gratuitamente sulla direzione giusta e rapida, che gli consenta di scorgere nientemeno che i bagliori dell'agognata ma remotissima luce della Verità.
     Il senso mistico è, dunque, il dono che consente a pochi eletti, di trasformare i lentissimi progressi della Conoscenza, che arranca lungo la tortuosa ed incerta via della razionalità, in qualcosa di molto più diretto ed efficace, appunto un tunnel, che potremmo forse definirlo via dell'Amore. Il fatto che Conoscenza e Amore siano aspetti diversi della stessa sostanza ne ebbero intuizione già gli autori biblici e certezza l'evangelista  Giovanni il quale ne colse e ne amplificò il senso riconducendo l'Amore al Logos. In parole povere, ed in prima approssimazione,  la similitudine tra Amore e Conoscenza possano riassumersi nel fatto che entrambi i termini alludono alla unione o alla fusione di cose che, diversamente, sarebbero disperse ed ingovernabili. Per quanto riguarda l'Amore  il concetto sembra abbastanza comprensibile mentre, per quanto attiene al termine Conoscenza, la spiegazione potrebbe essere che, "conoscere" un sistema di cose, percepite dell'Osservatore, cioè dell'IO cosciente, come indipendenti e caotiche, significa trovare una relazione logica che leghi le cose stesse sicché i loro movimenti divengano chiaramente interdipendenti e, tutte le cose, connesse all'IO osservante.
Tuttavia Amore e Conoscenza non sono esattamente sovrapponibili benché l'uno sia un'allotropia dell'altra, come il diamante e la grafite non hanno lo stesso valore, nonostante siano forme allotropiche della stessa sostanza chimica, infatti il diamante è più prezioso della grafite, analogamente potremmo dire dell'Amore (con la A maiuscola) e della Conoscenza.
      Queste considerazioni mi incoraggiano a sostenere che, così come si suol dire che ogni occasione è buona per far del bene, altrettanto si può dire che le occasioni di approccio religioso, come omelie, preghiere collettive, catechesi, siano occasioni di ricerca, di studio e di riflessione, ciò può valere anche per le occasioni di preghiera individuale. Mi rendo conto delle difficoltà di razionalizzare questa similitudine.
     La creazione di Adamo coincide con la creazione dell'IO, che non è l'io individuale comunemente inteso, l'IO è unico ed è il solo titolare dell'Universo, infatti tale fu Adamo; ecco perché il peccato di Adamo equivale al peccato dell'IO cioè il peccato dell'umanità tutta, anzi, dell'Universo; quest'ultima considerazione chiuderebbe definitivamente l'annosa polemica sulla presunta illogicità dell'attribuzione ad ogni nato umano del peccato originale.
L'Universo è un costruzione logica dell'IO nello spazio della Conoscenza, la cui metrica è pensabile, appunto, in termini di Conoscenza. Questa costruzione logica si auto-sorregge su ed in sé stessa proprio come i famosi tre fucili al bivacco che vedevamo da ragazzi in certi vecchi film western: essi si auto-sostenevano l'un l'altro col calcio poggiato sul suolo e le punte delle canne l'una contro l'altra senza poter dire quale fucile sostenesse gli altri. La metrica di questo spazio della conoscenza presuppone una misurabilità quantitativa della Conoscenza, non la conosciamo, ma se già la scienza la conoscesse[1] avremmo costruito un pezzettino, seppure infinitesimo, di quella "D" che potremmo immaginare di scrivere davanti alla parola "IO"; questa è una conseguenza del fatto che DIO  è Conoscenza. Una bestemmia? No, le Scritture lo lasciano in più parti capire,  prendiamo,  per esempio,  i versetti Es.,3,17-14 che così recitano: "Mosé disse a Dio: <<Io arrivo dagli israeliti e dico loro: il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Ma mi diranno: come si chiama?  E io che cosa risponderò loro?>>  Dio disse a Mosé: << Io sono colui che sono!>>, Poi disse <<Dirai agli israeliti: Io-Sono mi ha mandato a voi>>"; secondo questa istruzione data a Mosé, questi doveva presentarsi al suo popolo dicendo che tutto ciò diceva lo diceva, appunto,  "IO-SONO", come dire che Dio parla all'Universo dell'"IO" tramite l'IO!.  

Dio conferì ad Adamo la titolarità o, se si preferisce, la "proprietà" dell'Universo. La titolarità di qualcosa presuppone il diritto del proprietario di "dominarla" in toto  come ciò che è suo, ma non è detto che questo sia sempre facile o possibile, lo sanno benissimo i proprietari di appartamento in stabili condominiali. Il dominio che Adamo, cioè l'"IO", ha del suo universo è, come dire, flaccido, cioè simile a quello che un tale ha su una miriade di cagnolini collegati a lui da altrettanti guinzagli diversamente lunghi, alcuni solo di qualche centimetro, altri sempre più lunghi, fino a vari chilometri, il fascio è tenuto stretto in una mano dal povero proprietario. Il  dominio che l'Osservatore, che nella metafora è il padrone dei cagnolini, è effettivo solo nei confronti dei cagnetti con guinzaglio cortissimo, poi si fa sempre più flaccido fino a diventare puramente nominale. Tuttavia un dominio parziale, vale a dire una Conoscenza parziale, benché piccola, comunque c'è. Ciò che l'umanità, cioè l'IO, teme massimamente è l'entropia, cioè la perdita graduale ed irreversibile della conoscenza cioè di questo pur debole dominio sull'Universo, soprattutto ne teme l'irreversibilità, che è il vero significato terrificante della Morte.
L'atavica paura dell'irreversibilità entropica, della Morte, si riflette esattamente e completamente nella paura, più o meno inconscia, dell'Inferno con la sua disperatissima irreversibilità[2] con cui lo si definisce; è forse proprio per attenuare e convivere con la paura dell'irreversibilità che nasce il Purgatorio, esso lascia sperare nella possibilità, pur remota, di cogliere in limite all'irreversibilità assoluta che, grazie a lunghissimi e penosi sacrifici e all'indispensabile aiuto divino, consenta di riguadagnar quota interrompendo il terrificante e sempre più precipitoso scivolamento nel baratro entropico, verso il nulla. Orbene il Purgatorio darebbe l'idea di una concretizzazione  del tentativo costosissimo e remotissimo di sperare nel rimedio estremo di un danno come la ricostituzione dei cocci di una vaso frantumato..

Queste considerazioni invitano a riflettere su come dovremmo atteggiarci nella preghiera: non è sempre cosa facile, non lo è assolutamente per chi è poco incline –e siamo in tanti- verso sentimenti mistici, è invece molto più facile per chi è in cuor suo sensibile ed aperto verso sentimenti di commozione nella preghiera anche quando non si è pienamente immersi in circostanze dolorose. Per i primi sarebbe consigliabile preferire la riflessione e lo studio  razionali, anche con l'aiuto di testi, alla preghiera tradizionale; per i secondi, senz'altro più fortunati, non sarebbero necessari suggerimenti, se mai dovrebbero essere questi a darli.

M.B.





[1] La misura della  Conoscenza, al pari di una grandezza  fisica come l'energia, l'entropia richiederebbe, prima di tutto, una precisa definizione scientifica, il ché non sembra facile, poi cercare di penetrare, fin quanto è possibile -qui si concentrerebbe tutta la difficoltà-, nell'aggrovigliatissimo gomitolo della complessità dell'Universo.
[2] Questo è un esempio di come certi argomenti, significativamente irrazionali e lontani da ogni approccio scientifico, riflettano argomenti razionali ben noti alla quotidianità del lavoro scientifico  e non solo.
#95
Tematiche Filosofiche / Re:La direzione della storia
15 Aprile 2016, 20:58:10 PM
Citazione di: Jacopus il 15 Aprile 2016, 18:56:17 PM
Questo argomento mi è stato suggerito da quello che ho aperto a proposito della violenza nelle Sacre Scritture. Ad ogni modo si tratta di una semplice domanda che è l'oggetto di una disciplina filosofica, la filosofia della storia: "La storia ha una direzione?".

Colgo questo post nel punto a cui fa cenno alle Sacre Scritture per dire che, indipendentemente di quello che vado a sostenere e/o di ciò che chi mi legge creda di aver capito, sono una persona religiosa, cristiana e rispettosa delle Scritture stesse. Detto questo ecco che dico che le Sacre Scritture sono scritte dagli uomini così come è stato per i vangeli inclusi gli apocrifi e di altro tipo. Ma allora dove sta la sacralità .di queste opere?  Questi scritti sono elaborazioni ed elucubrazioni degli uomini che:  
- le scrissero e le continuano a scrivere sotto il controllo critico dell'umanità che, bene o male ed in qualche modo, raggiungono. Ho detto continuano a scrivere, basta semplicemente leggere quando si scrive in libri, opuscoli religiosi, oppure si dice nelle omelie, nelle discussioni filosofico-religiose, in questo stesso post, da me e da altri, e chi più ne sa più ne  metta, come si suo dire,  ecc. 

- le discutono e le scartano come sciocchezze superstiziose oppure le rinnegano con rabbia e odio, ecc.

- le combattono sulla base ad una così detta "altra religione",  ecc. ecc. ecc.

La conclusione di questo mio intervento è quello di mettere sotto l'attenzione di chi si pone queste questioni antiche come il mondo facendo loro rilevare che l'umanità stessa è la complessissima macchina elaboratrice che tritura la storia e la filtra ed i risultati possono solo essere in qualche misura notati dopo che il tempo abbia, in questo modo e con questa macchina, agito; e Dio, che diciamo l'ispiratore delle Scritture? Ma è ovvio -almeno a chi ha buon senso o un'apertura mentale idonea- è proprio questa complessità a sostanziare ciò che diciamo Dio! :o
#96
Citazione di: Mariano il 03 Aprile 2016, 22:21:20 PM
Ritengo che sostenere che Dio non c'è perché non lo si percepisce denoti un voler dare un significato riduttivo del percepire.
Percepire non è soltanto ricevere una sensazione o una dimostrazione razionale, recepire è anche intuire, sentire; ed è questo l'unico modo per avere Fede aldilà di elucubrazioni mentali come ben dice Giuseppe.
.
Dio è nell'IO sicché sostenere, come si usa dire, "non credente" equivale a dire che non credo,  nientemeno, in ME> medesimo cioè nel mio IO cosciente!  
Bell'affare!!!!!!!!..
#97
Citazione di: acquario69 il 07 Aprile 2016, 03:06:48 AM
non penso che il credere o meno si possa ridurre ad una semplice opinione,più o meno personale e individuale..
la Verita non proviene e non può essere richiusa dalla sua idea relativa che l'uomo può farsene,e stando così le cose questo alla fine non può avere nulla a che vedere con la fede,appunto intesa come semplice riduzione delle proprie opinioni
Secondo me l'uguaglianza al 50% tra il credere o non  credere non sta assolutamente in piedi almeno finché non ci si convinca (finalmente e sarebbe ora!.....) che il "non credere" semplicemente equivale a dire che IO (cioè l'IO cosciente) metta in dubbio, niente meno che ME stesso anziché  essere assolutamente certo di  esistere (non importa dove e come) come autocoscienza e intelligenza. Ci mancherebbe che, magari, andassi ad assegnare un qualche percentuale a questa certezza assoluta della Vita che è assoluta.
Qualcuno potrebbe dire: . "ma cosa c'entra questa risposta riguardo alla questione di un sentimento religioso non primitivo", oso rispondere suggerendo di puntare la mente sull'evento evangelico dell'umanità terrena del Cristo che pare suggerire qualcosa di gigantesca importanza ma non ancora ben compresa, forse non siamo maturi abbastanza ma............................. ::)  :-[  :o