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Messaggi - davintro

#91
ciò che della scienza di cui si è chiamati a stabilire i limiti e le condizioni di validità l'epistemologo è tenuto a conoscere è il metodo e i termini generali dell'oggetto a cui la scienza in questione fa riferimento, mentre non si è affatto tenuti a tener conto dei risultati. Un epistemologo/gnoseologo che tenesse conto dei risultati della scienza che sottopone a vaglio critico finirebbe con l'autoimpedirsi di valutare la validità dei criteri di verità a cui la scienza fa capo con i conseguenti limiti. Per mettere in discussione qualcosa è necessario partire da criteri distinti da quelli che ciò di  cui si deve discutere applica, altrimenti l'oggetto della critica finirebbe con l'essere assolutizzato, dato che i criteri della critica coinciderebbero con quelli della scienza di cui la critica è chiamata a discutere (appunto, i suoi risultati), cosicché tale scienza finirebbe con l'essere dogmatizzata, con l'impossibilità di riconoscerne i limiti costitutivi. Ecco perché vincolare l'epistemologia ai risultati delle scienze che sottopone a vaglio critico esprime il modello scientista che dogmatizza l'ambito delle scienze naturali, impedendo alla filosofia di poter lavorare su presupposti distinti da esse, sulla base dei quali riconoscere il limite della scienza. Il compito dell'epistemologo non è discutere i risultati di una scienza entro i limiti in cui quel risultato sia legittimo in relazione al campo di attinenza della scienza in questione, ma quello di delimitare il campo entro cui un certo metodo è legittimato e un altro no. L'epistemologo è come un arbitro neutrale che deve far rispettare le regole del gioco, e che può farlo senza alcuna necessità di conoscere le qualità dei singoli giocatori, i risultati e tifare per una squadra contro un'altra. Il suo compito finisce nel momento in cui ha individuato la correlazione tra una certa metodologia scientifica e la natura dell'oggetto a cui la metodologia è adeguata, fissando i limiti entro cui la scienza applicante quella metodologia è legittimata, in termini generali, a formulare le teorie, senza bisogno di entrare nel merito sull'effettiva verità della teoria, gli basta avere gli strumenti per riconoscerne la potenziale legittimità, legittimità sulla base del metodo inteso nei suoi aspetti essenziali, cioè astraendo dal particolare livello di abilità dell'applicazione dei singoli scienziati. Per individuare la correlazione è sufficiente conoscere in termini formali e generali il metodo delle scienze e la natura del campo oggettivo corrispondente, oltre ad un'ontologia generale dell'Essere, cioè una visione generale entro cui i singoli campi scientifici (regioni dell'essere, direbbe Husserl) mostrano i loro confini e dunque i loro limiti. Tutta questa tipologia di conoscenza rientra nell'ambito della visione d'essenza, cioè la visione che coglie le cose negli aspetti universalistici, sovratemporali e spaziali, per questo l'epistemologia è a tutti gli effetti una ramificazione della metafisica (cioè, della filosofia), è indipendente dalle scienze naturali, e proprio questa indipendenza le consente di non assolutizzarle, mettere in discussione i loro presupposti, e delimitarne il campo di legittimità


per quanto riguarda la definizione di"buona filosofia"... che si parli del platonismo come "pessima filosofia", mi rincuora un pò, perché ispirandomi in gran parte a quel modello (ovviamente, con una distanza di anni luce rispetto alla grandezza di Platone e di chi in misura maggiore o minore lo ha poi nella storia recuperato), sarei in ottima compagnia all'interno del recinto della "pessima filosofia", che però sarebbe invece del tutto rispettabile, sulla base di un diverso punto di vista
#92
Giopap scrive:


"Una buona filosofia (come, senza falsa modestia é la mia) non ignora la scienza, ma non può certamente limitarsi a pretendere erroneamente di cercare soluzioni scientifiche a problemi ontologici generali o metafisici, né esimersi da sottoporre a serrata critica razionale (anche) le conoscenze scientifiche."[/size]





Al di là del fatto che la filosofia è di per sé una scienza, solo che a differenza delle scienze naturali, non si occupa della realtà fisica, contingente, ma dei princìpi primi, delle verità universali, a cui il sapere empirico non può accedere, e che dunque penso avrebbe senso raffrontarla con le scienze naturali, ma non con la "scienza" in generale, dato che, intendendo per scienza qualunque discorso suffragato da argomenti razionali, la filosofia rientrerebbe al massimo livello, troverei più sensato dire che, eventualmente, non si condivide un certo modo di fare filosofia che ritenga di fare a meno della scienza, ma non di porre tale modo come "non buono" (stando alla lingua italiana, sotto il livello "buono" ci sarebbero i mediocri e gli incompetenti...) Sarebbe del tutto legittimo non condividere l'idea spiritualista, di matrice prima di tutto platonica, della filosofia come sapere che ricerca il puro intelligibile astraendo dal condizionamento dell'esperienza sensibile, e dunque ponendola come indipendente dalle scienze, sulla base della distinzione dei piani di indagine, ma non credo lo sia etichettare tutti i filosofi che si ispirano a questo modello, i vari Agostino, Cartesio, Rosmini, Gentile, come pensatori mediocri e incompetenti. Oppure pensiamo a esistenzialisti cristiani alla Kierkegaard, tutti protesi all'indagine sull'interiorità personale, dove il richiamo alle scienze naturali sembra assente o quasi. Ripeto, si può non condividerli argomentando nel merito i punti di dissenso, ma non negandone la grandezza o la significanza degli stimoli apportati alla riflessione. Vincolando la "buona filosofia" alla dipendenza con i risultati delle scienze naturali, in pratica la si limiterebbe all'empirismo e alla varie forme di materialismo positivista, il che mi sembrerebbe molto sminuente. Sono decisamente critico verso molte tendenze filosofiche, ma personalmente preferisco sempre limitarmi a parlare di dissenso teorico, ma non a considerarle come espressioni di "cattiva filosofia", perché i dissensi non precludono la possibilità di scorgervi un certo grado di acutezza e anche, limitatamente, possibili punti di accordo
#93
Citazione di: giopap il 11 Maggio 2020, 09:15:44 AM
Citazione di: Ipazia il 11 Maggio 2020, 09:03:34 AM
Citazione di: giopap il 11 Maggio 2020, 09:15:44 AM
Citazione di: Ipazia il 11 Maggio 2020, 09:03:34 AM
Premesso che gli esiti della capocciata sono comprovabili al di là di ogni ragionevole dubbio (evidentemente per giopap i dubbi metafisici sono esonerati dall'obbligo della ragionevolezza) resta valida l'obiezione di davintro:


Per me i dubbi teorici sulla (eventuale) realtà metafisica, per esempio circa l' esistenza  di altro oltre i fenomeni coscienti immediatamente esperiti (= esistenti-accadenti), sono diversa cosa dai dubbi ragionevolmente superabili in pratica; e lo sono proprio per il fatto che, lungi dall' essere "esentati dall' obbligo della ragionevolezza", devono sottostare anche al ben più rigoroso obbligo della razionalità teorica.
Ma evidentemente Ipazia si ritiene esentata (del tutto legittimamente; esattamente come del tutto legittimamente io, da filosofa, non me ne ritengo) dal discernere fra ragionevolezza pratica e razionalità teorica.
Essere filosofi non é certo un obbligo per nessuno.
Come anche evitare dal sottoporre a serrata critica razionale ogni credenza circa realtà e conoscenza della realtà.


Premesso che gli esiti della capocciata sono comprovabili al di là di ogni ragionevole dubbio (evidentemente per giopap i dubbi metafisici sono esonerati dall'obbligo della ragionevolezza) resta valida l'obiezione di davintro:


Per me i dubbi teorici sulla (eventuale) realtà metafisica, per esempio circa l' esistenza  di altro oltre i fenomeni coscienti immediatamente esperiti (= esistenti-accadenti), sono diversa cosa dai dubbi ragionevolmente superabili in pratica; e lo sono proprio per il fatto che, lungi dall' essere "esentati dall' obbligo della ragionevolezza", devono sottostare anche al ben più rigoroso obbligo della razionalità teorica.
Ma evidentemente Ipazia si ritiene esentata (del tutto legittimamente; esattamente come del tutto legittimamente io, da filosofa, non me ne ritengo) dal discernere fra ragionevolezza pratica e razionalità teorica.
Essere filosofi non é certo un obbligo per nessuno.
Come anche evitare dal sottoporre a serrata critica razionale ogni credenza circa realtà e conoscenza della realtà.






concordo sulla distinzione tra razionalità teoretica e ragionevolezza pratica, nel senso che nell'ambito di quest'ultima, in cui si è necessitati a prendere una qualunque decisione riguardo l'agire, si considerano diverse ipotesi teoriche con i vari dati necessari a cui appellarsi per fare una scelta, e si dovrà adottare l'ipotesi più probabilmente valida, senza pretendere di attribuirle una certezza assoluta strettamente razionale circa la sua verità, proprio perché il dubbio portato alle estreme conseguenze paralizzerebbe l'azione, rendendo impossibile il conseguimento degli obiettivi che la prassi quotidiana impone: non ho bisogno della certezza assoluta che le auto siano reali e non mie allucinazioni, per tenerne conto quando attraverso la strada, mi accontento che la loro realtà abbia un determinato livello di probabilità perché influiscano il mio agire. Però nel caso della passività dell'Io circa le proprie percezioni come argomento per riconoscere l'esistenza di una trascendenza che si opporrebbe al corso spontaneo della produzione di fenomeni da parte dell'Io, la ragionevolezza pratica non centra nulla, il rilevamento della passività è il frutto di un'analisi fenomenologica sui vissuti, che può svolgersi su un piano puramente contemplativo e "disinteressato", un piano teoretico che cerca di mettere a fuoco un livello massimamente certo nella sua verità, senza alcun interesse pratico, che invece porterebbe a fermarsi alla mera probabilità circa il valore di verità delle conclusioni.
#94
Citazione di: Ipazia il 10 Maggio 2020, 23:11:52 PM
Citazione di: davintro il 10 Maggio 2020, 22:59:19 PM
... L'argomento è valido invece sulla base del carattere di passività che accompagna il vissuto del dolore: non essendo l'Io a decidere in coscienza e volontà di provare quel vissuto, va da sé la necessità di ammettere un non meglio specificato "oltre", un' ulteriorità che incide sui vissuti dell'Io, a dispetto dalla libera attività di questo, in controtendenza con ciò che l'Io produrrebbe come soggetto pienamente autonomo (ulteriorità, non necessariamente esteriorità, in quanto potrebbe darsi anche ulteriorità interiore, realtà psichica interna al soggetto delle percezioni ma distinta dall'Io ,verso cui si "divertirebbe" a infondere sensazioni fisiche in assenza di un'effettiva realtà fisica posta al di fuori del corpo: già parlare di "mondo esterno" sarebbe un riempimento non necessariamente valido dell'idea generica di una realtà oggettiva extracoscienziale, che però in questo senso generico sarebbe invece riconoscibile in modo certo)



Ma ancor è più valido con un carattere di attività che accompagna il vissuto del dolore, con un Io che decide in coscienza e volontà di provare quel vissuto al fine di ammettere finalmente uno specifico "oltre" al di là di ogni ragionevole e metafisico dubbio. Un experimentum crucis atto a scuotere lo scetticismo più radicale sulla via di Damasco verso la Verità dell'Altro.


mi pare, ma potrei benissimo aver equivocato il senso, che proprio in questo caso si dovrebbe parlare di pura immaginazione di una realtà oggettiva, un caso in cui l'Io non riconosce l'esistenza di un' ulteriorità che produrrebbe in lui quel vissuto, ma che al contrario, sarebbe soggetto volente e cosciente della sua produzione. In questo caso il vissuto andrebbe considerato a tutti gli effetti una fantasia, e non l'espressione di una reale causalità, che invece dovrebbe far riconoscere la sua indipendenza rispetto al soggetto, solo nella misura in cui intervenga sul soggetto, al di là di ciò che il soggetto desidererebbe percepire. Non si può razionalmente ammettere alcunché di "oltre" rispetto al soggetto senza la possibilità che tale "oltre" opponga una propria resistenza all'autonomia dell'Io umano, alla sua libera attività umana, portandolo a fargli percepire fenomeni che non siano espressioni della propria volontà razionale
#95
Citazione di: Ipazia il 10 Maggio 2020, 21:40:50 PM
Citazione di: viator il 10 Maggio 2020, 18:13:59 PM
Secondo voi è possibile - da un punto di vista psicofilosofico - estraniarsi, astrarre dal sè soggettuale e riuscire ad "immedesimarsi" sensorialmente in "altro dal sè".........concretizzando come "vera" (sempre sensorialmente) la "realtà" binaria e duale (ed addirittura poi molteplice) dell'esistente ? Saluti.

Sì, è sufficiente sbattere la testa contro il muro. L'altro-da-sè si paleserà in tutta la sua potenza fisica e metafisica. Risolvendo in un battibaleno il dilemma "oggettivo-soggettivo, sostanza-apparenza, relativo-assoluto e via con i più diffusi dilemmi filosofici". Realizzando nell'attimo fuggente dell'impatto il tanto agognato UNO che interrompe, risolvendolo, il samsara duale. Ripristinandolo subito dopo con una consapevolezza aumentata.


direi che lo sbattere la testa contro il muro sia un argomento razionale, nel senso più radicale del termine, a favore dell'esistenza di una realtà oggettiva, a condizione di non consistere in un'inferenza casuale, in realtà arbitraria, tra lo sbattere la testa e il dolore che ne consegue, sulla base della contiguità temporale in cui i due eventi si collocano. Sull'arbitrarietà di inferenze causali di questo genere mi troverei d'accordo con l'empirismo moderno. Dal fatto che due fenomeni siano temporalmente contigui non ne discende necessariamente un nesso causa-effetto. L'argomento è valido invece sulla base del carattere di passività che accompagna il vissuto del dolore: non essendo l'Io a decidere in coscienza e volontà di provare quel vissuto, va da sé la necessità di ammettere un non meglio specificato "oltre", un' ulteriorità che incide sui vissuti dell'Io, a dispetto dalla libera attività di questo, in controtendenza con ciò che l'Io produrrebbe come soggetto pienamente autonomo (ulteriorità, non necessariamente esteriorità, in quanto potrebbe darsi anche ulteriorità interiore, realtà psichica interna al soggetto delle percezioni ma distinta dall'Io ,verso cui si "divertirebbe" a infondere sensazioni fisiche in assenza di un'effettiva realtà fisica posta al di fuori del corpo: già parlare di "mondo esterno" sarebbe un riempimento non necessariamente valido dell'idea generica di una realtà oggettiva extracoscienziale, che però in questo senso generico sarebbe invece riconoscibile in modo certo)
#96
perché la materia sia causa sufficiente della formazione dello spirito, dovremmo intenderla come dotata di una potenza causale consistente nella spinta verso una determinata direzione che sia già necessariamente correlata alla potenza causale stessa. Cioè, sarebbe necessario ammettere per una certa tipologia di materia (esempio, il marmo) una e una sola possibile forma (la statua o il blocco di marmo). Se invece, come è evidente, non esiste alcun nesso di necessità fra un determinato tipo di materia e una sola determinata forma, un solo determinato stato qualitativo delle cose, come può essere, tra gli altri, la vita razionale dell'uomo, allora lo stato qualitativo non può ridursi a mero effetto del tutto necessitato dalla causalità materiale. Altro esempio, il corpo vivente e il cadavere condividono il fatto di essere un corpo, di avere un determinato tipo di materialità, eppure la vita è presente nel primo e non nel secondo, segno che ammettere una certa tipologia di materia non è ragion sufficiente per dedurne la forma, la qualità ontologica, in un'ottica di causa-effetto, bensì che le forme, nei diversi livelli di complessità che assumono, consistono in tendenze causali autonome rispetto a quelle consistenti nella pura materia, in quanto rendono ragione di aspetti delle cose per i quali l'individuazione del tipo di materia è insufficiente a riconoscerli. Dire che un certo oggetto è fatto di marmo non mi dice nulla del fatto che si tratti di una statua invece che un blocco appena estratto da una cava, o una colonna dorica, così come dire che un certo corpo umano sia fatto di carne e ossa non mi dice nulla riguardo al fatto che si tratti di un corpo morto o vivo. L'autonomia delle forme degli oggetti nei confronti della materia, il loro non derivare necessariamente da quest'ultima, segna anche l'irriducibilità dello spirito ad essere pure effetto necessario della materia, dato che ogni forma è sempre un fattore ontologico immateriale, cioè spirituale. Intendendo la materia come estensione spaziale, l'individuazione della forma, cioè di ciò per cui un certo oggetto viene distinto dal resto dello spazio circostante, e considerato come interno di un confine entro cui si caratterizza per delle proprietà distinte dal resto degli oggetti posti al di fuori del confine, implica l'ammissione di un aspetto spirituale nelle cose, che ne determina l'emergenza e la riconoscibilità rispetto a tutto il resto, in quanto, essendo la forma interruzione del continuum spaziale, cioè materiale, la sua natura è necessariamente immateriale, cioè spirituale, anche al livello di forma più elementare, quasi meramente geometrico, e poi a maggior ragione quando si parla di vita razionale. Ecco perché, giustamente, si dice che ha più senso dire che sia l'anima a contenere il corpo che viceversa, essa è la forma che separa la materia vivente dal resto dell'ambiente circostante, attribuendo a essa delle proprietà del tutto distinte da quelle caratterizzanti gli oggetti posti al di fuori del "confine". L'errore classico logico in cui cadono gran parte dei materialisti è dedurre dalla necessità, empiricamente rilevabile, del darsi di certe condizioni inerenti la realtà materiale per il prodursi di fenomeni spirituali come la coscienza , l'idea di un rapporto causa-effetto, per cui il fenomeno spirituale sarebbe solo effetto della condizione materiale causa necessaria. Questa inferenza è in realtà scorretta: dal fatto che un cervello danneggiato (e ora lasciamo andare il fatto che ogni materia, compreso un sasso, esiste solo come materia formata, cioè avente già un livello per quanto elementare di spiritualità, ora vorrei cercare di argomentare accettando una definizione di spiritualità che metta forse meno in difficoltà un punto di vista materialista, cioè spiritualità limitabile solo al livello di complessità della vita cosciente, accettando che si parli del cervello come oggetto puramente materiale, senza che già a questo livello si debba riconoscere la presenza di uno spirito, per quanto per me questo riconoscimento sarebbe necessario...) derivi la perdita, totale o parziale, definitiva o provvisoria, della coscienza, si può dedurre che l'efficienza materiale sia condizione NECESSARIA all'attivazione della facoltà spirituale della coscienza, ma non che sia anche SUFFICIENTE. Per dimostrare che lo spirito sia mero effetto della materia non basta ammettere la necessità per una certa facoltà spirituale di giovarsi di un supporto materiale adeguato, ma occorrerebbe anche ammettere la totale autosufficienza di tale supporto nel produrre la facoltà, autosufficienza che sulla base di quanto detto sopra, ritengo non sia concepibile. Non sia concepibile, appunto, per l'assenza di una corrispondenza necessaria e automatica tra determinata tipologia di materia e determinata tipologia di attività spirituale, e l'esempio del cadavere può essere la lampante conferma empirica di tale assenza: non basta che il corpo mantenga le sue caratteristiche strettamente inerenti la sua natura materiale perché si dia vita, perché si dia quest'ultima occorrono condizioni ulteriori. Se la vita cosciente fosse solo effetto del corpo nella sua accezione di stretta materialità, al suo scomparire nell'istante della morte dovrebbe istantaneamente scomparire anche il corpo, anziché rimanere, anche solo provvisoriamente, come cadavere. Via l'effetto, via, automaticamente, anche la causa, così non è

#97
Tematiche Spirituali / Re:L'illusione dell'io
01 Maggio 2020, 18:39:45 PM
personalmente faccio una netta distinzione tra oggettività (che indica il non essere fittizio dei fenomeni, cioè l'essere corrispondenti alla realtà in sè) e intersoggettività, indicante la concordanza dei fenomeni, ma da cui non si può dedurre con certezza la corrispondenza di questi circa la realtà oggettiva. L'autenticità, il non essere fittizio, dei fenomeni dipende dall'efficienza qualitativa dei nostri strumenti percettivi, la loro capacità di ricavare dati dalla realtà per come è, senza distorsioni. Questa efficienza è una condizione inerente la qualità dei singoli soggetti, non è qualcosa determinato quantitativamente dalla condivisione intersoggettiva dei fenomeni. Se un'eventuale stato di inefficienza degli apparati percettivi fosse un dato comune alla specie umana, tutti i fenomeni vissuti dai soggetti sarebbero fittizi. Sintetizzando, la verità non è democratica, non è data dalla frequenza quantitativa con cui i fenomeni sono vissuti da più soggetti, ma dall'efficienza qualitativa, che può essere tale indipendentemente dal riferirsi a singoli soggetti, minoranze o maggioranze. Per quanto riguarda il punto di dissenso con Giopap riguarda l'impossibilità di una realtà coincidente con i fenomeni soggettivi, senza alcun necessario riferimento a cose in sè, penso che, forse, potrebbe derivare da differenti impieghi della terminologia, in particolare riguardo la definizione di "realtà". Per me reale è ciò che esiste indipendentemente dall'essere pensato (quantomeno pensato attualmente da qualche mente, sull'indipendenza riguardo la pensabilità della cosa come potenzialità in generale, vorrei rifletterci meglio...), e dunque va da sè che i fenomeni, in quanto contenuti del pensiero, dunque dipendenti da esso, non possano essere identificati con la realtà. Ma chiaramente, mutando le definizioni sarebbe possibile esporre discorsi diversi, non più insensati
#98
Tematiche Spirituali / Re:L'illusione dell'io
29 Aprile 2020, 19:05:38 PM
Citazione di: giopap il 28 Aprile 2020, 19:06:24 PM
Citazione di: davintro il 28 Aprile 2020, 17:56:30 PM

la necessità di un passaggio logico verso il riconoscimento di una realtà extrafenomenica sta proprio nella definizione di "fenomeno", cioè "ciò che si manifesta". "Ciò che si manifesta implica l'esistenza di un soggetto dotato di coscienza che riceve la manifestazione (come si può parlare di manifestazione senza nessuno a cui la manifestazione è data?), avente una propria realtà sostanziale. Nessun fenomeno sussiste di per sé, come sostanza reale, ma solo come accadimento,evento psichico il cui essere è tale come interno alla coscienza, non trascendente questa. Per negare la necessità logica della realtà extrafenomenica, dovremmo ammettere come sensata l'ipotesi che il complesso dei fenomeni abbia in se stesso la sua ragion d'essere, la sua causa come immanente ad esso, senza bisogno di postulare una realtà ulteriore ad essi che sia la causa che li produce. Ma se accettassimo questo autofondarsi dei fenomeni, dovremmo escludere in assoluto proprio la possibilità dell'illusione, dell'inganno, di fenomeni che non corrispondono al reale, come nel caso dell'allucinazione o del daltonismo. Essendo i fenomeni l'unica realtà possibile, il loro coincidere con la verità sarebbe una proprietà essenziale ad essi, senza possibilità di deviazioni, dato che un giudizio vero è definito come quello che predica un contenuto fenomenico corrispondente alla realtà oggettiva. Ogni fenomeno, come tale esprimerebbe sempre il vero. Questa ipotesi è assurda, dato che resta sempre la possibilità di immagini sulla realtà tra loro contrastanti, che non possono dunque tutte essere vere, ma che dovrebbero porsi a diversi livelli di distanza rispetto a un riferimento extrafenomenico, in relazione a cui le idee (fenomeni) sarebbero più o meno rispecchianti la verità. Inoltre, lo stesso Giopap (come chiunque altra/o) ogniqualvolta esprime una sua opinione, come in questa discussione, in opposizione ad altre considerate erronee, sta implicitamente e necessariamente affermando questa realtà extrafenomenica, come criterio regolativo in relazione a cui la sua opinione sarebbe vera, cioè aderente ad esso, mentre le opposte, essendo nel torto, divergerebbero. Negando questa trascendenza del reale rispetto ai fenomeni, anche solo a livello generico-formale, questi rimarrebbero l'unica realtà possibile e avrebbero in se stessi, nelle coscienze di cui sono il contenuto, in quanti tali il criterio di verità, rendendo impossibile che alcuni possano contravvenire al criterio, scadendo nel torto, o anche ad un livello di verità inferiore o meno "centrata" rispetto ad altri. La possibilità dell'illusione, dell'errore è ciò che dimostra che il criterio di verità dei fenomeni non è ad essi immanenti, ma consiste in una realtà oggettiva extrafenomenica, di fronte a cui i fenomeni possono assumere livelli di maggior o minor concordanza, ma sempre in relazione a un principio non da essi posto


Secondo me il fenomeno ("ciò che appare", "ciò il cui essere reale consiste nell' apparire") non necessita necessariamente, oltre all' esperienza cosciente di cui fa parte, nell' ambito della quale accade, di un ulteriore suo soggetto: l' ipotesi che solo i dati sensibili ("ciò che appare e basta") e null' altro di ulteriormente persistente anche in loro mancanza, sia reale non é logicamente scorretta, contraddittoria, insensata; dunque ciò cui allude può ben realmente darsi.
La questione del parlare di "manifestazione -sottinteso: a qualcuno- senza nessuno cui la manifestazione sia data" é puramente "tecnica linguistica": la forma personale si può benissimo sostituire con quella impersonale, "apparenza" come accadimento integrale in se stesso, non bisognoso di alcunché di ulteriore per darsi realmente.

Pretendere che una coscienza sia necessariamente le coscienza di qualcuno (di qualche soggetto) é pretendere che quanto sarebbe da dimostrare sia dimostrato (una petizione di principio).

La questione delle allucinazioni, sogni, ecc. si pone solo una volta ammesso (per fede, indimostrabilmente) l' esistenza di "cose in sé" indipendenti dalle percezioni fenomeniche coscienti.
Infatti un' allucinazione o un sogno non si distingue in alcun modo da un' esperienza "autentica" in sé e per sé (prescindendo da qualsiasi altra considerazione), ma invece solo presupponendo l' esistenza di cose in sé reali che nelle sensazioni fenomeniche, di cui sono "oggetti", si "manifestano" ad altre (o riflessivamente a sé medesime a seconda dei casi), che ne sono soggetti; e in particolare:
ammettendo (indimostrabilmente, per fede) l' esistenza di se stessi come soggetti di esperienza cosciente, di altri soggetti da se stessi diversi e di ulteriori cose in sé che delle esperienze coscienti sono oggetti;
ed accettando per vero (indimostrabilmente, per fede) il carattere autenticamente linguistico di quanto (ci) dicono altri parlanti (fenomenicamente constatabili) e in generale, "di norma" la loro sincerità o veridicità;
date le quali premesse indimostrabili si può verificare empiricamente se i fenomeni miei sono meramente soggettivi (solo io li provo: allucinazioni o sogni), oppure intersoggettivi (analogamente presenti, in condizioni di osservazione appropriate, nell' abito anche di qualsiasi altro soggetto di esperienza fenomenica cosciente oltre a me) in quanto considerabili manifestazioni fenomeniche delle medesime cose in sé, che ne sono oggetti, a qualsiasi soggetto (li può provare chiunque: esperienze "autentiche").

Dunque concordo che "il criterio di verità [mi sembra più corretto dire "autenticità", riservando quello di "verità" a quei peculiari fenomeni che sono le proposizioni o giudizi"] dei fenomeni non è ad essi immanente, ma consiste in una realtà oggettiva extrafenomenica, di fronte a cui i fenomeni possono assumere livelli di maggior o minor concordanza"; solo che penso che non lo si possa dimostrare.

Per me i fenomeni non sono l' unica realtà possibile, ma ' unica realtà empiricamente verificabile, di cui può darsi certezza per immediata constatazione empirica (infatti non ho mai negato l' esistenza reale di me come soggetto né di altre cose come oggetti della mia esperienza cosciente, in certi casi a loro volta soggetti di altre).
Altre realtà extrafenomeniche credo pertanto esistano; solo mi rendo anche conto criticamente che questa credenza é "fideistica", indimostrabile empiricamente né logicamente.





concordo con il fatto che "autenticità" sia un termine più appropriato di "verità" riguardo i fenomeni. Avevo provato a chiarire che quando scrivevo di "verità dei fenomeni", la intendevo nel senso di vedere i fenomeni come già contenuti dei giudizi, già logicamente correlati, e non nella loro datità immediata con cui manifestano, prima di trattarli come qualcosa su cui si possono formulare giudizi oggettivi. Comunque la tua è una precisazione molto opportuna.


c'è un implicazione logica necessaria tra illusorietà dei fenomeni e posizione di una realtà extrafenomenica, ma non nel senso che quest'ultima sia un pregiudizio arbitrario già contenuta nel riconoscimento della possibile illusorietà dei fenomeni, condizione che porterebbe a un circolo vizioso, ma nel senso, se si vuole, inverso, che è la possibile illusorietà dei fenomeni la base da cui dedurre l'esistenza della realtà extrafenomenica, in quanto se i fenomeni fossero l'unica realtà possibile, sarebbe impossibile concepire torti e ragioni, dato che non esisterebbe nessun criterio oggettivo in base a cui giudicare un'opinione corretta o scorretta, e dunque la stessa opinione per la quale non esiste alcuna realtà extrafenomenica, cioè extrasoggettiva, dovrebbe autoinvalidarsi, mancando del riconoscimento del principio logico che ne garantirebbe la correttezza e di converso sancirebbe l'illusorietà della tesi opposta. Resterebbe, a sua volta un fenomeno, un'impressione, non un giudizio in senso stretto, come invece si presenta. E, come logica insegna, se una tesi è autocontraddittoria, cioè falsa, necessariamente sarà vera l'opposta, cioè "esiste una realtà extrafenomenica". Quindi, se i fenomeni sono l'unica realtà verificabile empiricamente (ma io non parlerei di "realtà", ma di vissuti, manifestazioni, i fenomeni sono per definizione i contenuti di esperienza, per cui, come tali, diventa tautologico dire che i fenomeni sono i soli contenuti che l'esperienza ci offrirebbe), la dialettica (verificazione logica di una tesi dopo aver ridotto ad absurdum la tesi opposta) invece comprova l'esistenza di una realtà oggettiva, extrafenomenica ed exstrasoggettiva, come criterio necessario su cui fondare ogni possibile giudizio
#99
Tematiche Spirituali / Re:L'illusione dell'io
28 Aprile 2020, 17:56:30 PM
Citazione di: giopap il 28 Aprile 2020, 09:40:47 AM
Secondo me si deve distinguere (mi rivolgo soprattutto a Davintro, ma mi sembra che anche altri lo seguano in questa che a mio parere é un' errata confusione) fra "intersoggettività" (termine che preferisco ad "oggettività" per ragioni che se spiegassi qui appesantirebbero troppo il discorso) e "realtà in sé" e fra "soggettività" e "realtà apparente o fenomenica" (e inoltre fra "meramente pensato" ed "effettivamente reale").

La materia (la res extensa) può essere postulata (non dimostrata) essere intersoggettiva, cioé in linea di principio interverificabile fra qualsiasi soggetto di esperienza cosciente: chiunque (salvo patologie egregiamente spiegabili), recandosi a Courtmayeur e guardando circa a nordovest in una giornata di cielo sereno, può vedere il monte Bianco.

Il pensiero (la res cogitans) no: i pensieri, sentimenti, "stati d' animo", ecc. di ciascun soggetto di esperienza cosciente possono essere verificati empiricamente solo ed esclusivamente da lui stesso, e gli altri possono credere esistano solo per fede nelle sue parole: "quando c' ho il mal di stomaco ce l' ho io, mica te, o no? Ce l' ho io, mica te, o no?" (Vasco Rossi).

Ma entrambe le cose, i fenomeni materiali e i fenomeni mentali, la res extensa e la res cogitans, sono reali solo e unicamente in quanto tali: fenomeni ovvero insiemi e successioni di sensazioni coscienti, realmente accadenti solo e unicamente nell' ambito di un' esperienza fenomenica cosciente "e basta"; quando non accadono non ci sono (ancora o più)


Un' ulteriore realtà in sé, persistentemente reale anche in assenza di fenomeni o sensazioni coscienti é bensì postulabile, credibile esserci (e ci sono "buoni motivi" per essere propensi a credere che ci sia) ma non é dimostrabile: l' ipotesi che non ci sia non é autocontraddittoria o insensata; né tantomeno, per definizione, é empiricamente verificabile. Ergo: in teoria potrebbe benissimo darsi sia reale.


Ma sia gli oggetti delle sensazioni "esteriori" o materiali, sia l' oggetto - soggetto di quelle "interiori" o mentali, se realmente esistenti, sono (intesi essere come) cose in sé, per l' appunto reali anche allorché (anche se e quando) non sensibilmente, fenomenicamente percepite.

E l' oggetto - soggetto di quelle "interiori" o mentali é quel che solitamente si definisce con il nominativo del pronome personale della prima persona singolare (io) o con l' accusativo di quello della terza (sé) a seconda dei casi.
Dunque l' "io" o il "sé" non é né verificabile empiricamente, né provabile logicamente essere reale.
Si può crederci solo arbitrariamente, indimostrabilmente, per fede (cosa che *a quanto pare* fanno tutte le persone sane di mente).



la necessità di un passaggio logico verso il riconoscimento di una realtà extrafenomenica sta proprio nella definizione di "fenomeno", cioè "ciò che si manifesta". "Ciò che si manifesta implica l'esistenza di un soggetto dotato di coscienza che riceve la manifestazione (come si può parlare di manifestazione senza nessuno a cui la manifestazione è data?), avente una propria realtà sostanziale. Nessun fenomeno sussiste di per sé, come sostanza reale, ma solo come accadimento,evento psichico il cui essere è tale come interno alla coscienza, non trascendente questa. Per negare la necessità logica della realtà extrafenomenica, dovremmo ammettere come sensata l'ipotesi che il complesso dei fenomeni abbia in se stesso la sua ragion d'essere, la sua causa come immanente ad esso, senza bisogno di postulare una realtà ulteriore ad essi che sia la causa che li produce. Ma se accettassimo questo autofondarsi dei fenomeni, dovremmo escludere in assoluto proprio la possibilità dell'illusione, dell'inganno, di fenomeni che non corrispondono al reale, come nel caso dell'allucinazione o del daltonismo. Essendo i fenomeni l'unica realtà possibile, il loro coincidere con la verità sarebbe una proprietà essenziale ad essi, senza possibilità di deviazioni, dato che un giudizio vero è definito come quello che predica un contenuto fenomenico corrispondente alla realtà oggettiva. Ogni fenomeno, come tale esprimerebbe sempre il vero. Questa ipotesi è assurda, dato che resta sempre la possibilità di immagini sulla realtà tra loro contrastanti, che non possono dunque tutte essere vere, ma che dovrebbero porsi a diversi livelli di distanza rispetto a un riferimento extrafenomenico, in relazione a cui le idee (fenomeni) sarebbero più o meno rispecchianti la verità. Inoltre, lo stesso Giopap (come chiunque altra/o) ogniqualvolta esprime una sua opinione, come in questa discussione, in opposizione ad altre considerate erronee, sta implicitamente e necessariamente affermando questa realtà extrafenomenica, come criterio regolativo in relazione a cui la sua opinione sarebbe vera, cioè aderente ad esso, mentre le opposte, essendo nel torto, divergerebbero. Negando questa trascendenza del reale rispetto ai fenomeni, anche solo a livello generico-formale, questi rimarrebbero l'unica realtà possibile e avrebbero in se stessi, nelle coscienze di cui sono il contenuto, in quanti tali il criterio di verità, rendendo impossibile che alcuni possano contravvenire al criterio, scadendo nel torto, o anche ad un livello di verità inferiore o meno "centrata" rispetto ad altri. La possibilità dell'illusione, dell'errore è ciò che dimostra che il criterio di verità dei fenomeni non è ad essi immanenti, ma consiste in una realtà oggettiva extrafenomenica, di fronte a cui i fenomeni possono assumere livelli di maggior o minor concordanza, ma sempre in relazione a un principio non da essi posto
#100
Tematiche Spirituali / Re:L'illusione dell'io
27 Aprile 2020, 15:35:22 PM
quando si parla di illusione dell'Io andrebbe preliminarmente chiarito di quale Io si sta parlando, o meglio, in quale accezione intenderlo. Lo si può intendere in senso reale-empirico, Io inteso come individuo esistente "in carne e ossa", inserito nel mondo dei fatti e in un complesso di relazioni di causa-effetto con altri enti costituenti il suo ambiente. Inteso in questo senso, consiste in una realtà che presume di esistere come extramentale, trascendente rispetto alla coscienza che ne si ha, oggettivo. Solo intendendolo in questo senso si può parlare di "illusione", la possibilità dell'illusione è data dalla mancanza di identità necessaria tra pensiero e cosa, di fronte alla pretesa di attribuzione di realtà di qualcosa di ulteriore rispetto alla coscienza che ne si ha. La possibilità dell' illusione dell'Io riguarda tutte quelle proprietà del soggetto che si presume reali al di là del loro essere contenuto fenomenico, riguarda ad esempio l'effettiva realtà del mio essere davvero nato in Italia, la misura della mia altezza, del mio peso, anche certi meccanismi psichici che colloco ad un livello psicologico al di là di ciò che l'autocoscienza registrerebbe (come l'inconscio della psicanalisi), non riguarda invece l'ambito rigidamente trascendentale e fenomenologico. Intendendo l'Io come ciò che l'autocoscienza rivela come suo contenuto, al di là della pretesa di far corrispondere questo contenuto con una realtà extramentale, non sussiste possibilità di illusione o di inganno. Se rifletto su me stesso e sulla possibilità che ciò che di me si riferirebbe a una realtà oggettiva (non inganni l'abituale, secondo me erronea, identificazione che spesso si fa "oggettività" ed "esteriorità": oggettivo può anche riferirsi alla propria realtà personale da indagare tramite introspezione, l'oggettività comprende qualunque cosa si ponga come reale, foss'anche interiore e psichica, comunque reale indipendentemente rispetto la coscienza che ne si ha, la complessità del Sé, che non coincide necessariamente con l'Io, intesa come insieme di fattori psichici reali in quanto dotati di potere causale performante, tale al di là del fatto di essere pensata, rientra nell'oggettività non meno che gli oggetti fisici che riconosco nel mondo esterno) sia un'illusione, riconosco sempre implicitamente il mio atto di riflessione, come eventualmente vittima di illusione, ma che comunque esisterebbe come soggetto che si illude. Esiste dunque un livello dell'Io, che resta in atto, al di là che si illuda o meno rispetto alla realtà del contenuto fenomenico che recepisce, e questo restare in atto è una certezza al di là di ogni inganno. Non ha senso parlare di "illusione dell'Io", intendendo l'Io come punto di scaturigine di atti coscienti di esperienza vissuta, che, anche ammesso non rispecchiano la realtà oggettiva, esistono certamente come contenuti di un soggetto, che, anche riconoscendosi come potenzialmente illuso, si riconosce comunque come esistente, per quanto fallibile. La possibilità dell'illusione cade nel momento in cui si parla di un ente il cui essere coincide per definizione con la stessa esperienza  vissuta che si ha di esso, questo ente è l'autocoscienza, da non confondersi con l'introspezione psicologica, che invece è in atto mirando a illuminare livelli empirici di soggettività che esistano come indipendenti dalla coscienza
#101
Tematiche Filosofiche / Re:Putrefazione, la vita
20 Aprile 2020, 20:37:00 PM
Citazione di: Jacopus il 20 Aprile 2020, 17:23:47 PM
CitazioneDiceva giustamente Kierkegaard che l'uomo è l'animale in cui il singolo prevale sulla specie.


Toh, un classico esempio di citazionismo intimidatorio.  :) . Scherzo, Davintro.
In realtà  homo sapiens è uno fra gli animali più prosociali attualmente esistenti, fra i mammiferi. Il nostro successo ecologico è proprio dovuto al nostro essere prosociali e collaborativi, fin dalla notte dei tempi. J. Diamonds racconta in "il terzo scimpanzé" che già i primi homo sapiens di cui si è trovata traccia fossile si portavano appresso i più anziani, i malati, gli zoppi.
Questa nostra attitudine molto naturale si scontra però contro due ostacoli. Il primo è la necessità di innovazione, che è un"altra nostra caratteristica, che premia chi si distingue innovando. In questo senso c'è un equilibrio instabile fra singolo e collettività.  Da 400 anni a questa parte il capitalismo invece ci ha inculcato in testa questa ipotetica supremazia del singolo sulla collettività.  Il che, entro certi limiti, va anche bene, ma che superati quegli stessi limiti (e direi che siamo oltre) ha solo una funzione strumentale e propagandistica, per fissare l'egoismo e la singolarità  libera come tratti naturali dell'uomo. Niente di più sbagliato.



eh difatti ero parecchio combattuto sull'aggiungere o no il richiamo a Kierkegaard, proprio per evitare eventuali accuse di incoerenza coi miei pensieri sul citazionismo nell'altro topic... (nessun problema comunque, ho inteso lo scherzo!)


Certamente la socialità, intesa come tendenza a inserirsi in un sistema costituito da relazioni fra ruoli e funzioni, esprime la razionalità definente l'uomo, ma ciò non è affatto in contraddizione con le differenze qualitative delle personalità individuali, anzi, proprio la complessità della struttura sociale coincide con la specializzazione che consente la delineazione di ruoli sempre più differenziati e dunque sempre più combacianti con le differenti vocazioni individuali. La collaborazione sociale ha poco o niente a che fare con una supposta pretesa di omologazione delle personalità, al contrario, trae dalla differenze di carattere, interessi, formazione le sue motivazioni. La motivazione che muove alla collaborazione sociale sta nel riconoscimento di propri limiti, espressioni delle differenze personali, e dunque dal riconoscimento da parte di ciascuno della necessità di delegare ad altri, aventi doti e conoscenze molto più grandi delle proprie, compiti necessari alla vita. Se intraprendo una relazione sociale con l'idraulico che mi aggiusta il rubinetto rotto, è proprio in quanto riconosco in lui una competenza, delle qualità che io non possiedo, proprio in quanto espressioni di una personalità qualitativamente diversa dalla mia (lasciamo andare ora il fatto, pur vero, che non sempre c'è coincidenza tra professione ed effettive inclinazioni personali, il discorso si allungherebbe troppo, fermiamoci pure al margine entro cui tra i due piani c'è un nesso più o meno coerente). Senza una differenza di personalità e di vocazioni tra me e l'idraulico non ammetterei la necessità di spendere denaro per rivolgermi a lui, in quanto avrei in me tutto il necessario per risolvere da solo il problema tecnico, e ciò alimenterebbe l'isolamento sociale (sociale, non comunitario, la comunità attiene a un senso ben diverso, ma, di nuovo, non complichiamo le cose)
#102
Tematiche Filosofiche / Re:Putrefazione, la vita
20 Aprile 2020, 16:11:39 PM
In termini generico-formali, scopo della vita è quello della realizzazione delle potenzialità insite in una sorta di "vocazione" originaria, quella tendenza che fin dal primo istante dello sviluppo muove l'ente, dall'interno verso una direzione predelineata. Questo varrebbe per tutte le diverse forme di vita, dalla pianta all'essere umano. In termini contenutistici, ciò che riguarda il quid, il contenuto specifico con cui riempire la categoria formale di "fine", è invece evidente una differenziazione sulla base dei diversi livelli di complessità in cui la vita si esprime. Quanto più la struttura biologica appare semplice, tanto più il contenuto con cui la vita riempire l'idea di fine è standardizzata, coincidente con la specie collettiva che accomuna le singole individualità, mentre quanto più vi è complessità, tanto più si allargano gli spazi entro cui diversi modelli di realizzazione possono essere concepiti all'interno di una singola specie. La razionalità, che è ciò che definisce, da Aristotele in poi, la vita umana come tale, implica la facoltà dell'astrazione e dell'immaginazione, tramite cui il soggetto non limita l'esperienza del mondo alle cose che di fatto impattano attualmente sulle sue percezioni, ma la apre a pensieri circa possibilità alternative, in quanto se la razionalità lavora su concetti e i concetti indicano diverse possibili determinazioni dello stesso essere a cui il concetto è riferito, il soggetto razionale potrà immaginare diversi modi d'essere della cosa rispetto al modo con cui ne fa esperienza diretta. Questo allargamento di prospettiva consente all'individuo di immaginare anche diversi fini entro cui orientare la propria esistenza, e ciò determina il fatto che nell'animale razionale, la persona, gli individui non sono mere determinazioni di una specie, ma vivono differenziando la specie in varie modalità qualitative di caratteri e condotte esistenziali. Diceva giustamente Kierkegaard che l'uomo è l'animale in cui il singolo prevale sulla specie. Individuo e persona sono categorie che se da un lato vanno distinte, in quanto l'individualità, genericamente intesa, manterrebbe un'idea solo quantitativa di unicità, e sarebbe applicabile anche a ogni singola pietra, ogni singola quercia, ogni singolo animale, anche se nulla differenzia la qualità di questi singoli dalla specie collettiva a cui sono catalogati, mentre la persona segna una differenza qualitativa tra ogni singola persona e le altre, dall'altro si può dire che nella persona l'individualità viene esaltata al massimo grado, appunto perché determina non solo l'esistenziarsi a livello singolare dell'idea di specie, ma anche le differenze qualitative che contraddistinguono ogni singolo dall'altro, e dunque anche le differenze circa ciò con cui intendere il fine delle nostre vite. Tutto questo discorso mi pare possa mantenersi valido indipendentemente dal problema  dell'eventuale prosecuzione della vita oltre la morte come possibilità contrapposta a quella per la quale la putrefazione, non solo corporea ma di tutto l'essere, resterebbe l'esito conclusivo e necessario
#103
sarebbe utile una distinzione tra "libero arbitrio" e "libertà", definendo il primo concetto come l'idea di una totale indifferenza da parte del soggetto nei confronti delle diverse alternative con cui agire, cioè con una condizione in cui assolutamente nulla determina il soggetto a muoversi in una certa direzione anziché un'altra, e la seconda come condizione in cui esiste una causa che determina l'agire del soggetto, che però le sarebbe interiore. Come si nota chiaramente, il primo concetto, il libero arbitrio, potrebbe esistere solo a condizione di pensare un'ontologia totalmente indeterministica, in cui gli eventi sono affidati al caso, senza alcuna logica di causa-effetto. Ritengo questo scenario del tutto assurdo, dato che, in accordo col mio, immagino, omonimo Davide, penso che il caso non esista, ma sia solo un concetto di comodo col quale definire ciò che sta oltre i limiti della nostra conoscenza, che è sempre tale come "sapere di cause" (intendendo il concetto di causa in senso però piuttosto ampio, al di là della "causa efficiente", che è la modalità con cui si è più abituati a concepirla). Cioè, c'è sempre una causa, o, più realisticamente, un complesso di diverse cause, o forze, più o meno armoniche o confliggenti fra loro che determinano necessariamente il corso degli eventi, anche quando i limiti della nostra osservazione spingerebbero a tirare in ballo il caso. A questo punto, l'unica forma di libertà esistente resterebbe quella che il compatibilismo considera, appunto, compatibile col determinismo, cioè libertà come interiorità del principio che determina necessariamente ad agire. Perché questa forma di libertà sia realmente presente nel mondo, dovremmo dunque intendere ogni ente come delimitato da un confine che lo distingue dal resto delle cose, all'interno del quale comprendere le cause che lo spingerebbero ad essere libero, e al di fuori del quale considerare i fattori esteriori che inciderebbero su di esso limitando la sua libertà. Dato che questo confine, questa dialettica interno-esterno coincidente con la dicotomia libertà-non libertà, è ascrivibile ad ogni cosa, occorre definire la libertà superando un modello antropocentrico nel quale l'essere umano avrebbe il monopolio della libertà, in contrasto col resto della natura o degli oggetti, chiusi nel regno della non-libertà. Infatti ogni ente, solo nella misura in cui sarebbe loro ascrivibile un "interno", un'essenza, che lo contraddistingue da tutto ciò che altro da sé, avrebbe una componente di libertà, intesa, non come indeterminismo, come possibilità di poter essere o agire diversamente da come si è si agisce di fatto, possibilità che resterebbe solo mera astrazione immaginaria, ma come "autonomia", espressione della propria natura intrinseca e originaria. Persino il movimento delle lancette di un orologio dovrebbe, in quest'ottica di compatibilismo fra causalità e libertà, avere in sé una componente di libertà, nella misura in cui le lancette si trovano all'interno dell'orologio e divengono sua parte integrante, mentre mancherebbe di libertà per il fatto che il meccanismo è stato inserito da un agente esterno, l'orologiaio. Come si nota, volontà e razionalità non sono criteri di demarcazione tra una condizione di libertà assoluta e una di totale assenza di libertà, il fatto che l'uomo ne sia dotato non lo rende totalmente libero nei confronti dell'orologio che invece non avrebbe nessuna libertà, ma fattori di incremento del livello di libertà, che certo segnano anche il raggiungimento di un livello qualitativo rispetto agli enti che di queste facoltà sono privi, ma non sono gli unici fattori. Ragione e volontà incrementerebbero il livello di libertà dell'ente che li possiede in quanto determinano un'interiorità estremamente più complessa rispetto a quella di un orologio, e dunque estremamente maggiori capacità di resistenza e filtro rispetto agli interventi esterni. L'uomo è più libero di un orologio perché a differenza di questo impone una resistenza non solo fisica ma anche e soprattutto mentale, anche se non illimitata, rispetto a ogni forma di manipolazione o sabotaggio, che poi l'esito di questo conflitto sia necessariamente determinato dalle forze in campo è irrilevante in relazione a questa definizione possibile di libertà, che ho provato ora a tratteggiare
#104

concordo sull'utilità delle citazioni come strumento di formazione di occasioni entro cui approfondire determinati temi, anche se resto dell'idea che la conoscenza degli autori del passato non si dia mai come creazione ex nihilo di contenuti all'interno di una coscienza in cui essi non fossero già in alcun modo presenti, come se la coscienza fosse una tabula rasa, ma piuttosto come stimolo che "risveglia" il soggetto, portandolo a rendersi conto di pensieri latenti già precedentemente in lui, su cui non ci si è mai riflettuto, perché l'abitudine porta a orientare l'interesse mentale verso mete più urgenti pragmaticamente. Negando questo livello di latenza, troverei inspiegabile la possibilità di una ricezione attiva, critica, e non passiva dei contenuti di studio appresi dall'esterno. Se leggo un'opera di un autore e riesco, non solo a comprendere il significato di ciò che leggo, ma anche a formarmi un'opinione di condivisione o meno sui contenuti, è proprio perché opero sempre, più o meno inconsapevolmente, un raffronto tra il contenuto esterno e un'idea di verità preesistente e personale, che diventa la pietra di paragone in relazione a cui valutare la distanza del contenuto esterno, il modello regolativo che ogni giudizio teoretico presuppone. Ecco perché non ha alcun senso considerare la quantità di fonti a sostegno di una tesi come autentico criterio di convalida, il criterio di convalida non è quantitativo, ma qualitativo e consiste nell'intuizione, logicamente rielaborata della realtà in se stessa, che ciascuno di noi ha, più o meno chiara, presente nella nostra esperienza diretta delle cose.


Sempre a scanso di equivoci, le motivazioni intimidatorie delle citazioni non le riferivo assolutamente a nessun utente di questo forum, ma a situazioni esterne, sempre gravide di rammarico personale, perché vanno a colpire le insicurezze che si hanno verso la nostra preparazione. In questo ambiente ho sempre riscontrato, al di là dei frequenti e anche molto netti dissensi contenutistici, correttezza intellettuale da parte di tutti, e concorderei con Ipazia sull'idea che le citazioni qua utilizzate siano sempre all'insegna dello stimolo alla reciproca apertura culturale e serena condivisione, senza alcun intento di far sentire qualcuno impreparato (magari questa cosa era scontata da dire, ma per scrupolo preferisco evitare che sorga il minimo sospetto riguardo le mie intenzioni riguardo i pensieri espressi in questa discussione)
#105

per Ipazia


"inventare (anche se in filosofia/scienza sarebbe più opportuno parlare di "scoprire") cose già dette da altri" sarebbe un problema solo assumendo l'originalità come parametro di valutazione per la qualità di un pensiero. Se da un lato ciò può avere un suo senso in quanto una scoperta innovativa è sempre un contributo che arricchisce qualitativamente il livello culturale di una società, dall'altro, per quanto riguarda il rafforzare le pretese veritative di un discorso, che questo sia o meno "originale" non dice nulla in proposito, non da alcuna garanzia di aumento delle probabilità che il discorso sia vero. La ricerca forzata dell'originalità finisce con l'essere l'altra faccia della medaglia del principio di autorità: in entrambi i casi l'opinione altrui diventa determinante per legittimar le proprie. Se in un caso la si assume in senso positivo di conformazione, e in un altro, negativamente, per distaccarsene per il gusto di essere bastian contrario, siamo sempre di fronte alla deposizione di un reale autonomo senso critico.




Per Jacopus


Quando parlo di "libero pensiero" o di "pensare con la propria testa", non intendo affatto un pensiero arbitrario o privo di regole, bensì vincolato a dei parametri di oggettività come l'intuizione, tramite cui apprendiamo il contenuto che ci interessa trattare, e la logica tramite cui il contenuto viene rielaborato, analizzato, per rilevarne le contraddizioni o la coerenza del filo logico. La citazione delle fonti è certamente un parametro per quanto riguarda l'obiettivo, filologico, di dimostrare la comprensione del pensiero altrui, che però è un'obiettivo ben distinto da quello, strettamente teoretico di ricercare la realtà delle cose in sé, che è altro rispetto il portato della storia delle opinioni su di esse. Non ha alcun senso pensare che la citazione delle fonti abbia lo stesso peso riguardo questi due diversi obiettivi, dimostrare di aver compreso il pensiero di un autore non vuol dire dimostrare di aver fatto luce sulla verità oggettiva, quando Socrate di fronte ai giudici dice che se avesse insegnato ai giovani a essere malvagi, considerato che i malvagi arrecano danni a chi è loro vicino, sarebbe andato contro i suoi stessi interessi, insegnano la malvagità a persone a lui vicine, non sta facendo alcun richiamo a Democrito o Anassagora, sta portando un argomento di pura logica, efficace a far luce, non sul pensiero altrui sulla realtà, ma sulla realtà in se stessa, nello specifico la realtà della sua innocenza, che non corrisponde certo necessariamente all'insieme delle diverse opinioni. E non ha nemmeno senso parlare di "dilettantismo", dato che l'approccio socratico può essere visto come più o meno esperto o dilettantistico esattamente come esperto o dilettantistico può essere il riferimento alla storia. Non sono due approcci da intendere come uno più o meno avanzato dell'altro, ma validi in relazione ai differenti contesti entro i quali hanno la loro ragion d'essere. Se fosse la conoscenza dei pensieri altrui la chiave fondamentale per accedere alla comprensione del reale, dovremmo intendere quest'ultimo come l'insieme dei contenuti dei molteplici punti di vista parziali, ma se così fosse, allora non si spiegherebbe come alcuni punti di vista siano antitetici tra loro, dato che in questo caso dovrebbero invece essere tutti più o meno veri e complementari tra loro, cosa che non è. Il che non vuol dire che lo studio dei pensatori del passato, non sia anche per il teoreta, e non solo per lo storico, un mezzo utilissimo (avrei più dubbi per parlare di "indispensabile"), ma lo è come spunto, stimolo che porta lo studioso a focalizzare l'attenzione e la riflessione su delle verità che in fondo erano in qualche modo già giacenti nella sua coscienza, senza che ce ne si rendesse pienamente conto. Lo stimolo dello studio non crea la verità, ma aiuta a esplicitarla, a portarla alla luce, per questo ritengo la maieutica, che non consiste nell'aggiungere, ma nel togliere i veli, l'approccio per eccellenza filosofico, e Socrate un fenomenologo antelitteram



A scanso di equivoci, e nel caso qualcuno possa vedermi come incoerente, non sto contestando il citazionismo in generale, nella vita, e anche in questo forum spesso cito autori e correnti, anche ora, sto citando Socrate, e probabilmente continuerò a farlo, ma personalmente non ho mai usato i riferimenti come degli argomenti che dovrebbero meglio garantire la verità delle mie opinioni, né tantomeno per intimorire gli interlocutori, anche considerando che, volendo, ognuno avrebbe questa possibilità nei miei confronti, molto più di quello che potrei fare io con loro. Quando cito è sempre nella misura in cui penso di poter rendere il mio pensiero più chiaro a chi legge, sintetizzandolo, associandolo a delle configurazioni storiche espresse da determinati autori che qualcuno potrebbe aver studiato e compreso molto meglio di come potrebbe comprendere il mio modo di esprimersi spesso tanto difettoso