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Messaggi - Phil

#931
[Riguardo la prima versione del paradosso]
Nel chiedere chi morirà fra B e C, il prigioniero A non considera che se è lui stesso il graziato, il guardiano non può che rispondergli con uno a caso fra B e C, poiché non può rivelare ad A che è lui il destinato a salvarsi (rispondendo «entrambi»); se invece è uno fra B e C ad essere il graziato, il guardiano risponderà indicando il "morituro" della coppia. Da notare che il guardiano infatti non risponde affermando «sarà solo B a morire», ma solitamente svicola con un generico «B morirà» (non sono sicuro che la versione citata da Eutidemo, con il guardiano che risponde «tra B e C morirà B» sia quella originale; quel «tra», infatti si presta anche all'interpretazione implicitamente escludente suggerita da viator e sepa).
Inevitabilmente uno fra B e C morirà e il guardiano non fa altro che confermare tale prevedibile certezza; la coppia B e C ha 2/3 di probabilità di contenere il graziato, ma è il guardiano ad avere un ruolo fondamentale: non potendo rivelare chi si salverà dei due, risponderà sempre indicando l'altro; qualora fosse stato B il graziato, il guardiano non avrebbe potuto che rispondere «C morirà».

Se C chiede al guardiano «chi si salverà fra A e B?», si crea una situazione solo apparentemente simmetrica a quella in cui è A a fare la domanda su B e C: se è certo che B morirà, è anche certo che nel rispondere, dovendo nascondere l'identità del graziato, il guardiano ha possibilità diverse a seconda di chi gli pone la domanda, poiché in un caso potrà scegliere di chi rivelare la morte, in un altro caso, sarà costretto ad indicare l'unica persona che morirà. Ad esempio, supponiamo che il graziato sia C: quando A chiede chi morirà fra B e C il guardiano può rispondere solo «B» (essendo C il graziato); se invece è C a chiedergli chi morirà fra B e A, il guardiano può rispondere sia con «A» che con «B».

Se A avesse chiesto «chi morirà fra me e B?» (oppure «chi morirà fra me e C?») avrebbe forse avuto più probabilità di avere un verdetto chiaro o un po' rincuorante: se fosse stato l'altro, ovvero B (o C) il graziato, il guardiano avrebbe dovuto confessare ad A che sarebbe stato lui a morire (verdetto chiaro); se invece il guardiano avesse risposto dichiarando la morte di B (o C, a seconda della domanda) allora A avrebbe avuto, se non erro, i soliti 2/3 di possibilità di essere il graziato e avrebbe dormito forse un po' più sereno.
#932
Come già spiegato da bobmax, mi pare si tratti di un caso di fallacia dello scommettitore in cui la probabilità di un esito cambia a seconda di come consideriamo gli eventi, ovvero se consideriamo il lancio singolo oppure una serie di lanci nel suo insieme (similmente al problema di Monty Hall, ricordato anche nel link precedente).
Essendo nella sezione filosofica, potremmo affermare (giocosamente, appunto) che la "probabilità ontologica" che esca testa lanciando una moneta è sempre il 50% per ogni singolo lancio, mentre la "probabilità fenomenologica" all'interno di una sequenza di lanci, dipende dal calcolo delle probabilità.
#933
Citazione di: niko il 03 Marzo 2021, 13:50:52 PM
non c'è il mondo esterno da percepire tramite la coscienza, ma la coscienza stessa è contenuto mondano.
Non direi debba esserci necessaria contrapposizione, quel «ma» può essere un «e» (che cancella il «non» iniziale): la coscienza è contenuto mondano, il suo esser-contenuto presuppone (fenomenologicamente) l'esserlo per-qualcuno, per-una-coscienza; quindi l'esser-contenuto-di-coscienza può essere esterno (mondo) o interno (auto-coscienza). Questo mi pare renda più nitido il ruolo di "punto prospettico/insiemistico" della coscienza, intesa come «un limite o un ritaglio passante per il mondo che finché esiste definisce primariamente cosa del mondo sia arbitrariamente interno o esterno per un soggetto»(cit.).

Citazione di: niko il 03 Marzo 2021, 13:50:52 PM
(prima relazione possibile col mondo, abitazione di un corpo, la pelle) [...] (seconda relazione possibile col mondo, abitazione di una parte del mondo che definisce il mondo in quanto conosciuto, il mondo come casa; che poi a ben vedere l'insieme delle nozioni nella mente di un uomo sono micro-modificazioni del suo corpo, soprattutto del cervello
Dal discorso proposto sembra che nella tua prospettiva ci sia anche una (implicita) terza (pseudo?)relazione possibile con il mondo: quella con il mondo supposto come ulteriorità mondana (dissimulato nell'incipit del tuo post), come idea di spazio oggettuale eccedente il mondo circoscritto di ciascun soggetto; nel momento in cui anche ipotesi, possibilità, aspettative e teorie sono pur sempre contenuti di coscienza (con annesse micro-modificazioni), tale terza relazione si invera (per dirla in metafisichese), pur restando priva di un referente oggettuale extra-soggettivo (trattandosi di contenuti di coscienza puramente teorici; il che, se magari non denota una terza relazione autonoma, suggerisce almeno una rilevante dicotomia all'interno della seconda relazione, fra micro-modificazioni che richiamano un oggettualità esterna e micro-modificazioni che sono incentrare sulla soggettività pensante).
Questa relazione terziaria che, seppur prima negata dalla «legge dell'esistenza, l'idea di una ulteriorità della realtà che si possa rivelare in una ulteriorità del conoscibile, non è e non può essere mai attualmente valevole per l'uomo» (cit.), poi si afferma con la postulazione, attuale solo nella sua astrazione, di un "grandissimo" extra-coscienziale, un «arazzo o un quadro astratto grandissimo con una cornice grandissima, quanti sotto-quadri più piccoli ci potresti ricavare sovrapponendoci delle cornici più piccole, sono i viventi ognuno preso nella "sua" visione del mondo»(cit.). Tale "grandissimo arazzo" non può essere, nella sua totalità mondana, contenuto oggettuale di coscienza individuale, tuttavia resta possibile postularlo come teorica proiezione esponenziale del piccolo arazzo oggettuale che è contenuto nella singola coscienza.
Questa implicita terza relazione con il mondo, in quanto mondo-oggettuale-eccedente-la-coscienza e i suoi contenuti mondani (eppure pensato come esistente fuori dalla coscienza con un salto "meta-fenomenologico"), si conferma, pur nella sua problematicità, nel momento in cui «quello che non sappiamo di essere finché resta tale non ci riguarda, e quando ci riguarda è perché in una certa qual misura "entra" nella nostra coscienza, ed è dunque presupponibile che sia contenuto mondano anch'esso, sia nel suo entrare nella nostra coscienza, che nel suo non-entrarvi»(cit.); nondimeno, solo il postulare tale terza relazione con il mondo rende possibile presupporre che anche ciò che "non entra" in una coscienza possa essere comunque un contenuto mondano (pur non entrandovi, pur essendo extra-coscienziale) e non solo contenuto astratto privo di referente oggettuale (detto più in sintesi: il pensare la possibilità d'esistenza oggettuale in assenza di esperienza mondana).

Citazione di: niko il 03 Marzo 2021, 13:50:52 PM
c'è il mondo con tutta la verità in se stesso e la sovrapposizione delle varie coscienze al mondo come spazi visibili e vivibili di mondo, le "intersoggettività" che in questo gioco di disegni e sovrapposizioni ben possono darsi, sono solo sovrapposizioni doppie, triple, ennesime che determinano una conseguente intersezione, gli spazi condivisi da più di una vita che cadono sullo stesso tratto di mondo e lo mettono in particolare evidenza, dando ad esso un visibilità condivisa
Riguardo alla intersoggettività come mera intersezione fra quadri e ritagli, mi pare sia una rappresentazione spaziale bidimensionale a cui va aggiunta una tridimensionalità dinamica, ovvero la "profondità" del tempo (di tale sovrapposizione) in cui tali intersezioni producono ulteriorità, altro da ciò che sono, non limitandosi a coincidere nel medesimo spazio bidimensionale come l'intersecazione di due insiemi. Un esempio di tale terza dimensione (che a suo modo presuppone la terza relazione con il mondo, la presupposizione del non-ancora-noto, non-ancora-"oggettivato"-eppure-teorizzato), può essere il tuo stesso post: non si tratta di una parte di mondo pre-esistente in cui ci incontriamo (intersecando le nostre coscienze), ma di una tua produzione che diventa un mio contenuto di coscienza che a sua volta genera una mia produzione (questo post) che diventa tuo contenuto di coscienza (se lo stai leggendo), etc. nella parte di mondo in cui ci intersechiamo, ovvero questa pagina di forum, avviene non la mera «messa in evidenza»(cit.) di ciò che già è, bensì la creazione (oltre che di dati digitali prima non esistenti nel server del sito, etc.) di una "fetta di mondo" che prima non c'era e che ora entra a far parte nei nostri rispettivi mondi di coscienza, oltre ad essere ormai disponibile anche ad altre coscienze (neonata parte del mondo che innescherà differenti vissuti a seconda che si tratti della mia coscienza, della tua o di quella di un terzo lettore).
#934
Tematiche Filosofiche / Re:I paradossi del linguaggio.
24 Febbraio 2021, 12:42:20 PM
Citazione di: Gyta il 24 Febbraio 2021, 07:36:29 AM
penso invece che la discriminazione sensoriale cammini pari passo col linguaggio [...] è reale -purtroppo o semplicemente- che "i limiti del mio linguaggio siano i limiti del mio mondo"
Secondo me, linguaggio e discriminazione sensoriale camminano assieme, ma non di pari passo, poiché c'è un duplice scarto (inteso come gap non come «rifiuto») fra linguaggio individuale e mondo individuale, soprattutto alla luce dell'interiorità; il primo è quello dell'esattezza, con cui mi riferivo nell'esempio della tribù: il linguaggio con-forma la nostra visione del reale (reale che a sua volta spesso de-forma il linguaggio, nella suddetta dialettica linguaggio/mondo), tuttavia l'esattezza del linguaggio non sempre è l'esattezza del sentire, come confermano le quantificazioni della tribù citata (non sono esatti nel dire ma lo sono nel discriminare i due mucchi di frecce) e i ricordi dell'adolescenza (l'esperienza di un sentire confuso, non descrivibile, è segno che c'è un mondo fuori dal linguaggio seppur, appunto, linguisticamente "fuori fuoco"), periodo in cui tale gap riguarda anche l'interiorità, mentre nell'infanzia lo scarto era forse soprattutto verso l'esteriorità, ovvero la scoperta dei nomi delle "cose" (che vengono già distinte sensorialmente). Il secondo gap, spesso correlato al primo, è temporale: c'è un mondo che pre-esiste al linguaggio che vi si addentra; per cui, pur stando nel mio mondo linguistico so che c'è una parte del mio mondo esperenziale che è non ancora linguisticizzato (quello per cui non ho parole, ma è comunque una zona del mio mondo che esperisco, che magari in un'altra lingua è già associato ad una parola intraducibile nella mia).

Citazione di: InVerno il 24 Febbraio 2021, 10:31:43 AM
quello che dovremmo aspettarci se fossimo in grado di scandagliare universi linguistici dove i sensi non forniscono immediate risposte, non quantitativi, nemmeno qualitativi (coi colori si è già giocato aiosa), ma totalmente astratti, come gli orizzonti emotivi o politici. Che sono anche il fulcro della questione, perchè quando si parla di funzionalità introspettiva si parla di "quel tipo di codice" non delle numero di sassi in una bisaccia. Perciò ciò che realmente possiamo fare è limitarci a delle inferenze speculative
Concordo ovviamente sul fatto che quanto più ci si addentra in astrazioni, tanto più i sensi cedono il passo al linguaggio concettuale, e quanto più il linguaggio si fa concettuale, tanto più diventa una questione di saper (o meno) decifrare la settorialità di tale linguaggio astratto (matematico, estetico, politico, etc.) a partire dai codici nella propria "cassetta degli attrezzi". Indubbiamente il poeta che scrive una poesia o il matematico che risolve una disequazione o il musicista che compone una canzone, non lo fanno primariamente per comunicare qualcosa a qualcuno, ma fuori da questi linguaggi specifici, credo che quantitativamente una funzione fondante della lingua comune risulti il suo impiego per comunicare con il prossimo, con tutte le dinamiche di autoaffermazione, narcisismo, conflittualità, etc. messe in mostra dal successo quantitativo dei social (e direi ciò valga anche nel forum: personalmente, se sapessi che nessuno legge ciò che scrivo qui, o che gli altri utenti sono in realtà solo dei bot, smetterei di scrivere; il che non significa che mi aspetti ogni volta una risposta a ciò che scrivo, ma mi cullo nella supposizione di aver almeno comunicato qualcosa a qualcuno).
Nondimeno va riconosciuto che per l'uomo medio non-tribale, la funzione del linguaggio irrinunciabile (quindi ben oltre il «primario» e il suddetto «fondante») è quella del discorso interiore (con tutte le categorie linguistiche e concettuali che comporta, ovvero la mappa di cui parla Jacopus), come ben sanno gli eremiti che si allontanano dalla società più facilmente di quanto si possano allontanare dal loro linguaggio, o meglio, dal loro mondo linguistico (che essi sanno bene non essere il limite del loro mondo, essendo spesso il sentire un'eccedenza extra-linguistica a spingerli all'eremitaggio). In fondo, anche in tempi di pandemia, forse si usa (quantitativamente) il linguaggio più per parlare con noi stessi che con gli altri anche se, ironicamente, forse il linguaggio è nato e si è sviluppato per parlare più con gli altri che con noi stessi (e gli effetti dell'astinenza, o almeno della riduzione, della comunicazione in presenza credo saranno un fertile terreno di studio socio-antropologico).
#935
Tematiche Filosofiche / I paradossi del linguaggio.
23 Febbraio 2021, 15:08:25 PM
Citazione di: InVerno il 22 Febbraio 2021, 00:49:18 AM
tutti nasciamo con una pressochè identitica capacità di linguaggio, al di là del fatto che essa sia poi sviluppata o meno dall'iterazione sociale
Questa mi sembra una considerazione importante, da affrontare standone "al di qua": se è innegabile la predisposizione neurologica al linguaggio, credo sia altrettanto innegabile che tale predisposizione fisiologica vada poi attivata e "alimentata" adeguatamente per essere vincolante; cosa potrebbe attivarla più della (serie di input della) comunicazione? Può essere attivata anche in altro modo (domanda non retorica)? Viene attivata soprattutto dalla comunicazione, ma la sua funzione/utilità principale è poi altro dal comunicare?
La dialettica fra le strutture del linguaggio che condizionano la visione del mondo e l'esperienza del mondo che (ri)struttura le categorie del linguaggio (e del pensiero e dell'inconscio), suppongo si basi sulla pratica della comunicazione, piuttosto che primariamente sullo sviluppo cerebrale dell'individuo a prescindere delle sue esigenze e pratiche comunicative. Per esserne certi bisognerebbe forse far crescere un "Mowgli" nella giungla e poi studiarne l'attivazione neurologica dell'area del linguaggio, ma non credo ci sia un comitato etico disposto ad approvare tale esperimento (che fra l'altro richiederebbe molti tentativi, considerando l'alto tasso di mortalità di un neonato abbandonato da solo nella foresta).
Una prova di quanto la (esigenza della) comunicazione inneschi le potenzialità neurologiche del linguaggio, senza che, parodiando Wittgenstein, "i limiti del mio linguaggio siano i limiti del mio mondo", potrebbe essere forse proprio il caso della tribù citata: ha numeri fino al 5 e quantificatori generici per il resto, ma scommetto sia un'organizzazione linguistica solo per scopi comunicativi, non perché l'individuo non sappia cogliere realmente la differenza fra 5 frecce, 10 frecce e 100 frecce. La differenza non è comunicabile con esattezza (causa linguaggio limitato), ma individualmente la differenza è, suppongo, comunque registrata e individuata dai sensi (la vista principalmente): posto di fronte a due mucchi, uno con 10 frecce e l'altro con 100 frecce, credo che egli li indicherà, comunicando, con lo stesso nome (poiché non ha un quantificatore linguistico univoco, meglio noto come «numero», per distinguerli), tuttavia non credo che cognitivamente e interiormente egli non ne colga la differenza quantitativa (quindi, in questo caso, non sarebbe il linguaggio a strutturare la sua "esperienza interiore" dei due differenti mucchi di frecce, bensì la vista e il concetto astratto di quantità, pur non accuratamente linguisticizzato come il nostro).

Secondo me, se viene meno la necessità di comunicare con esattezza, può venir meno la formazione di un linguaggio esatto, senza tuttavia che ciò infici necessariamente le discriminazioni sensoriali e concettuali del soggetto, plausibilmente perché la funzione prioritaria del linguaggio è comunicare: se tutti i parlanti usano le stesse approssimazioni, può esserci comprensione reciproca (a prescindere da quanto rimanga nelle loro interiorità in forma non linguisticizzata); se tale funzione non fosse addirittura nemmeno necessaria, non credo servirebbe un linguaggio per identificare ciò che i sensi già distinguono (come nel suddetto caso dell'ortolano-chef solitario; il caso dell'eremita è invece differente perché solitamente egli nasce e cresce in una società che attiva appieno la suddetta predisposizione al linguaggio, per cui quando se ne allontana l'eremita deve "disimparare a linguisticizzare" la realtà e il proprio pensiero).
Ciò non significa che il linguaggio, una volta appreso e "attivato" nelle sue strutture e categorie linguistiche, non prestrutturi la nostra esperienza del mondo a prescindere dalla comunicazione (come avviene per l'eremita), ma soltanto, secondo me, che è la comunicazione (tramite modalità apprese contestualmente e culturalmente) a sviluppare le innate potenzialità, neurologiche e semantiche, del linguaggio dell'individuo senza che tale linguisticizzazione rifletta esaustivamente le dinamiche interiori dell'individuo (pur condizionandole innegabilmente).
#936
Tematiche Filosofiche / Re:I paradossi del linguaggio.
21 Febbraio 2021, 18:59:09 PM
Citazione di: InVerno il 21 Febbraio 2021, 08:01:30 AM
E se invece la comunicazione fosse una funzione secondaria del linguaggio?
Con il tempo mi sono piuttosto convinto che il linguaggio e le sue modalità d'uso strutturino cognitivamente la nostra visione del mondo e il nostro modo di pensare (solitamente ad un vocabolario scarno corrisponde una prospettiva scarna, ad un determinato uso del linguaggio corrisponde una determinata interpretazione della realtà, etc.), almeno tanto quanto la nostra esperienza del mondo, compresa quella del rapporto con i nostri simili, struttura il nostro linguaggio (apprendiamo spesso per imitazione e ricombinando ciò che abbiamo appreso, idee o abilità che siano, possiamo "approntare linguisticamente" ciò che ci serve per interpretare, dar senso e utilizzare il mondo, il che comprende neologismi, mutamenti diacronici della lingua, invenzione di nuovi stili, etc.).
Indubbiamente, in questa dinamica dialettica, la comunicazione (e l'esser compresi che essa ha come scopo) non è una scienza esatta, né per come è strutturata, né per come si rapporta al mondo; anche perché il numero e le caratteristiche dei giocatori è così elevato che inevitabilmente accadono fraintendimenti ed incomprensioni: in fondo la comunicazione, più che una partita a scacchi, è un gioco di squadra e come in tutti i giochi di squadra può capitare che i compagni, pur accomunati dal medesimo obiettivo (ovvero capirsi), non abbiano una buona intesa reciproca oppure finiscano addirittura con il litigare fra loro (in una sorta di logomachia).

Sulla comunicazione come funzione secondaria del linguaggio sono scettico, perché suppongo che se non avessi nessuno con cui comunicare, non avrei bisogno di dare un nome agli oggetti, alle sensazioni, alle idee, etc. strutturando un linguaggio. Banalizzando: se devo preparare una pietanza con ciò che ho nell'orto, non necessito di dare un nome agli alimenti perché li distinguo già con i sensi (per forma, colore, etc.), né ho bisogno di dare un nome alle quantità dei dosaggi (in passato ci si regolava ad occhio), né di dare un nome alle fasi o alle azioni della preparazione o al risultato finale; raccolgo, preparo, cucino, mangio, senza alcun bisogno del linguaggio. Nel momento in cui voglio comunicare la mia ricetta (non solo insegnarla, poiché basterebbe l'imitazione) a chi non può assistere alla mia preparazione, allora ho bisogno del linguaggio per raccontarla e descriverla.
L'esperimento mentale di proiettarsi nella testa di chi non ha un linguaggio (semmai sia possibile) eccede decisamente le mie possibilità, ma suppongo che nel momento in cui non si è soli la necessità di comunicare sorga spontaneamente (e neurofisiologicamente) mentre, in assenza di altri esseri umani con cui comunicare, non sono sicuro che inventerei un sistema fonetico o segnico (o di discorso interiore) per dare un'identità a ciò che, credo, riuscirei già a distinguere (e gestire) percettivamente, o emotivamente o quantitativamente (salvo che inizi a cimentarmi in questioni teorico-matematiche o molto astratte, sebbene ciò dipenderebbe dal tipo di attività da svolgere e dallo stile di vita).
Questa assenza di linguaggio e di comunicazione porterebbe (sempre per ipotesi) ad una visione del mondo tanto operativa quanto poco teoretica o poetica (da non confondere con «emotiva»: lo stupore istintivo che avrei di fronte all'aurora boreale non necessita infatti di dare un nome, né al fenomeno né all'emozione che suscita), anche perché, per inciso, una delle funzioni del linguaggio è creare orizzonti di senso anche perdendo aderenza con il reale (come ben sanno alcuni filosofi quando guardano indietro nel tempo).
Forse la comunicazione può sembrare una funzione secondaria per il linguaggio per noi che siamo già "dentro" il linguaggio (che ci è stato insegnato per comunicare e che finisce anche per strutturare la nostra visione del mondo) e che, magari, se fossimo l'ultimo uomo sulla terra probabilmente parleremmo comunque da soli (almeno per un po'), tuttavia credo sia possibile vivere e dare un "senso" al mondo anche senza un linguaggio, seppur da eremiti, mentre non mi pare possibile comunicare adeguatamente senza un linguaggio (in questo senso ritengo che la funzione primaria del linguaggio sia comunicare, «primaria» nel senso che è la funzione per cui è più necessario, funzione per la quale non ci sono sostituti migliori e per cui è maggiormente utilizzato).
#937
Citazione di: Kobayashi il 18 Febbraio 2021, 10:00:06 AM
Quindi mi sembra impossibile che il nostro Socrate redivivo si possa mettere a scrivere su un blog: a lui infatti non interessa comunicare (non avendo una dottrina, un sistema da esporre), ma dialogare. Tanto meno me lo immagino a perdere tempo nel cazzeggio da bar...
Eppure, dov'è che oggi si può davvero dialogare di filosofia?
I blogger (ho evitato il campanilismo da forum) possono sperare che qualche loro articolo, più o meno provocatorio, riceverà commenti e quindi innescherà dialoghi, seppur a distanza; più in piccolo, al bar, fra amici e avventori abituali si può dialogare magari partendo dagli articoli dei giornali o da vicende personali; altri luoghi pubblici (quindi escludendo associazioni e circoli culturali) non mi sono venuti in mente; in palestra, oggi, il buon Socrate rimedierebbe solo un occhio nero o una camicia di forza. Scherzi a parte, come professione, oltre che docente al liceo, potrebbe essere anche un consulente filosofico, ma non so se arriverebbe alla fine del mese.

P.s.
Se Socrate non avesse «una dottrina, un sistema da esporre»(cit.) dubito potrebbe ritrovarsi
Citazione di: Kobayashi il 18 Febbraio 2021, 10:00:06 AM
alla testa di quel movimento spirituale (non religioso) di cui tanti, atei e teisti, sentono l'approssimarsi.
almeno se lo intendiamo come movimento coeso; se invece fosse qualcosa come una pratica introspettiva o invito al pensiero critico, avrebbe non poca concorrenza e altrettante difficoltà nel trovare dialoganti (difficoltà che affronterebbe con lo stesso coraggio con cui ha affrontato la cicuta, ovviamente).
#938
Probabilmente, arrendendosi alla necessità di scrivere per comunicare (poiché le agorà sono oggi più frenetiche e meno colloquiali di quelle dei suoi tempi), sarebbe un blogger ironico e iconoclasta, che si mantiene facendo il professore di liceo (non universitario, preferendo i giovani alle accademie). Oppure potrebbe essere uno di quei tipi da bar di paese, amichevoli ed in bilico fra l'indiscreto e il faceto.
Credo che il tenore delle domande, e forse le domande stesse, non cambierebbero di molto rispetto a quello che chiedeva in passato.
#939
Citazione di: davintro il 14 Febbraio 2021, 17:23:55 PM
Le idee non si insegnano, si insegna un linguaggio atto ad esprimerle, funzionale poi ad offrire un supporto fisico al pensiero, necessario per rendere quelle idee oggetto di attenzione e riflessione per una coscienza, il cui legame col corpo la vincola a connettere i propri contenuti con dei segni fisici. La generazione da cui dovremmo aver appreso tramite insegnamento le idee dove le avrebbe apprese a loro volta? Occorrerebbe risalire alla generazione ancora precedente e via di seguito, in un regresso all'infinito che inficia la possibilità di giungere a  una risposta definitiva al quesito.

Nessun regresso all'infinito: come dimostra la storia dell'uomo, filosofica e non, le idee possono anche essere generate partendo dai sensi, dalla fantasia, dalla creatività, dalla suddetta negazione o estremizzazione di idee precedenti, etc. la psicologia e le scienze cognitive trattano di alcune delle dinamiche con cui la mente umana produce idee (sebbene l'idea che tutte le idee possibili e immaginabili siano già dormienti come potenziale della nostra mente, non è escludibile a priori per quanto, a mio umile giudizio, tanto poco probabile quanto affascinante).
Come detto, l'idea di «fantasma» ha una storia e una sua tradizione, tuttavia, per dedurne l'esistenza ontologica, non credo bastino né la sua definizione né riscontrarne l'esistenza in molte culture.

Citazione di: davintro il 14 Febbraio 2021, 17:23:55 PM
Per quanto riguarda l'idea che il principio di corrispondenza semantica tra idea e reale oggetto di esperienza sia smentibile sulla base della non constatabilità di idee come quella di Dio, mi pare che sconti un pregiudizio gnoseologico materialista che limita la constatabilità a ciò che può essere fisicamente esperito. Ma questa limitazione è esattamente la tesi sostenuta dall'ateismo e dall'agnosticismo, che in questo modo, loro sì, cadrebbero nel circolo vizioso di presuppore la loro particolare gnoseologia nella premessa stessa dell'argomento.

Il rapporto fra esistenza, constatabilità e percezione credo sia piuttosto verificabile, in quanto oggetto di esperienza per la coscienza di chiunque, quindi mi pare costituisca un buon punto di partenza (seppur non infallibile) per parlare dell'esistenza e per discriminare le idee con referente reale da quelle con referente fittizio. Non colgo il circolo vizioso che ne conseguirebbe: se con la constatazione (s)oggettiva dell'esistenza del contenuto dell'idea, affermo che il referente di tale idea non è fittizio, bensì reale, mentre in assenza di tale constatazione, e in assenza di ulteriore dimostrazione, sostengo che l'esistenza del referente dell'idea è, fino a prova contraria, solo astratto-concettuale, qual è il circolo vizioso?

Se non abuso della tua pazienza, aggiungo una postilla sull'apofatismo: non c'è sempre speculare reciprocità ontologica e ostensiva fra affermazione e negazione; se è vero formalmente che «ogni negazione di un certo contenuto determinato implica l'affermazione del suo contrario»(cit.) è anche vero che, ontologicamente, la realtà non è così rigidamente binaria da essere fatta solo da contrari. Al di là della constatazione che la negazione è pragmaticamente (non formalmente) un sottoinsieme dell'affermazione (ogni enunciato afferma il suo contenuto, quindi anche la negazione è un'affermazione: negare x è affermare non-x), non è solo una questione di logiche polivalenti o di "gradazioni" intermedie fra il vero e il falso (v. il possibile), ma soprattutto si tratta di considerare che, parlando di esistenza e identificazione, talvolta mille negazioni non valgono un'affermazione, soprattutto se si mira a strutturare una dimostrazione.
L'affermazione che tu sei Davintro (affermazione di verità) e l'affermazione che tu non sei Tizio o sei non-Tizio (affermazione di negazione di falsità, equivalente a negazione di falsità) non hanno lo stesso valore ontologico, perché la prima afferma la tua vera identità (e non è neccessario affermare altro al riguardo), mentre la seconda nega una tua falsa identità, ma non ci dice ancora chi sei veramente, e potrebbe infatti essere affiancata da altre mille negazioni di tue false identità, senza che questo comporti "gnoseologicamente" sapere quale sia il tuo nome. Banalizzando come sempre per amor di chiarezza: per dimostrare che non ti chiami Tizio, basta che quando ti incontro per strada ti chiamo alle spalle dicendo «ciao Tizio», se non ti volti (o reagisci con distacco), allora ho plausibile conferma che non ti chiami Tizio; tuttavia per farti voltare non sarà sufficiente che io ti chiami dicendo «ciao non-Tizio».
Se formalmente x e non-x sono speculari (contrari), ontologicamente e argomentativamente l'esistenza di x richiede la sua affermazione, che non può essere supplita dalla semplice somma di negazioni di ciò che x non è (somma potenzialmente infinita). Negando ciò che è non affermo ontologicamente l'esistenza di qualcos'altro (ovvero il referente contenutistico dell'apofasia), ma solo la possibilità formale dell'esistenza di qualcos'altro, che finché non assume una connotazione affermativa positiva, priva di negazioni, potrebbe anche essere solo un'idea fittizia (affermare apofaticamente che esiste un elemento che non è nessuno di quelli presenti nella tavola periodica, non produce conoscenza, non dimostra che tale elemento esista davvero).
In campo strettamente dimostrativo la questione è infatti decisamente "asimmetrica": dimostrare che l'idrogeno, l'elio e lo zinco non sono la cura per il Covid, non dimostra cosa lo sia, né, soprattutto, che davvero esista ontologicamente qualcosa che lo sia; viceversa, dimostrare che x è la cura per il Covid non dimostra che y non lo sia (potrebbero infatti esserci più cure possibili, supponiamo x e y, ma non idrogeno, elio e zinco).
Tornando quindi all'apofatismo religioso: affermare cosa o come Dio non sia, non implica affermare nemmeno che esso sia davvero "qualcosa", perché negando che esso sia percepibile, verificabile, etc. non è logicamente equivalente ad affermare che esso sia ontologicamente qualcosa, poiché potrebbe essere anche solo un'idea fittizia, che in quanto tale non ha un referente e quindi risulta certamente non visibile, non verificabile, etc. In fondo, negando a Dio tutte le caratteristiche di un ente, più che a l'Essere, lo approssimiamo a un nulla (connotato appunto dalla negazione), oltre a lasciare aperta la questione di quanto siano vincolanti i pregiudizi che abbiamo "ereditato" su Dio quando proviamo a descriverne le proprietà o ne postuliamo l'esistenza (deismo e apofatismo, a mio giudizio, sono due differenti residui fenomenologici dell'idea religioso-teologica di Dio, depurata dalle aporie culturali e soteriologiche; tuttavia togliere un'idea dal suo humus originario rischia di comportare la sua "tutela" senza che ve ne sia adeguato fondamento fideistico, che nel contesto originario poteva essere la rivelazione della divinità, la testimonianza di profeti o altro; procedere solo per via logica, oltre a perdere di aderenza con l'ontologia, rischia di incappare nella circolarità fra conclusioni e presupposti, come dimostrato da Gödel e altri).
Affermare «x esiste ma sappiamo solo cosa o come non è» , quindi riempiendo solo l'insieme delle non-proprietà di x, ha senso ontologico solo se consideriamo aprioristicamente vero, come presupposto indimostrato, che x esista (e quindi siamo in un circolo vizioso, poiché di fatto potremmo riferirci, seppur in buona fede, solo ad un insieme vuoto, che in quanto tale soddisfa la negazione delle proprietà degli enti che invece esistono ontologicamente). Farne una questione di "misura", di estremizzazione, non giova a dimostrarne, né ontologicamente né logicamente, la necessaria esistenza (come proposto dalle dimostrazioni ontologiche): ad esempio, partendo dalla constatazione della parzialità della conoscenza umana, non è affatto necessario che vi sia qualcuno/qualcosa che invece sia onnisciente, proprio come la mortalità umana non comporta che ci sia un vivente immortale, o l'essere alto al massimo 2 metri e mezzo non comporta che ci sia un essere infinitamente alto, etc. l'onniscenza, l'immortalità, l'infinita altezza (e l'infinito matematico) possono giustamente essere concetti teorizzabili, magari anche necessari (nel caso dell'infinito matematico), ma non danno adito, fino a prova contraria, alla necessaria esistenza di un "ente" reale che abbia ontologicamente tali proprietà.
#940
Ci avevo pensato, ma l'intenzione del coccodrillo non credo sia uccidere il bambino, piuttosto mangiarselo, che è infatti "il premio" che egli stabilisce per sé qualora la donna sbagli. Ucciderlo senza mangiarlo sarebbe al massimo una vendetta contro la donna che gli ha negato un pranzo di carne umana (il coccodrillo è ovviamente in una posizione di forza, se non intende ridarglielo vivo, la donna non può comunque far nulla).
#941
Citazione di: davintro il 13 Febbraio 2021, 19:47:38 PM
Il passaggio da una certa definizione di Dio, posta necessariamente in premessa, alla dimostrazione dell'esistenza si realizza tramite un medium gnoseologico non contenuto nella premessa, il principio, che, posso sbagliare ma mi sembra evidente nella sua validità, della necessità di una conformità, di una corrispondenza tra le proprietà qualificanti una certa idea e la natura dell'oggetto reale dalla cui esperienza ricavare l'idea. A meno di voler ignorare la finitezza del pensiero umano, incapace di produrre ex nihilo delle idee in assenza di un oggetto preesistente alla sua attività pensante, conforme all'idea, l'origine delle idee può consistere in una diretta apprensione dell'oggetto corrispondente al suo significato, nel caso di significati a cui attribuire esistenze effettive, oppure assemblaggi fantastici di parti apprese nel mondo reale, nel caso delle idee fittizie.
Non mi sembra ci sia una esperienza o un oggetto reale conforme alle rispettive idee delle proprietà qualificanti positive, né confome a Dio. Quali sarebbero tali "esperienze"? Per le idee delle presunte proprietà di Dio, esse (mi) risultano tramandate ed insegnate di generazione in generazione, senza nessuna apprensione o esperienza oggettuale diretta (né sono innate, altrimenti non sarebbe necessario insegnarle, spiegarle e giustificarle); idee generabili anche tramite semplice negazione concettuale o estremizzazione di proprietà concrete: il finito negato diventa l'infinito, il mortale negato diventa l'immortale, la conoscenza estremizzata diventa l'onniscenza, la potenza parziale estremizzata diventa l'onnipotenza, etc. Siamo sempre nel mondo dei concetti e delle idee, nulla di saldamente gnoseologico. Il principio di corrispondenza fra idea e corrispettivo oggetto è un medium gnoseologicamente ed ontologicamente inattendibile poiché viene smentito fattualmente da tutte quelle idee che non hanno un referente oggettivo constatabile: non solo l'idea di Dio (inteso dalle religioni o come vaga entità indeterminata), ma anche quelle più banali e già citate di «fantasma», di «sorella dispersa», e alte possibili.

Citazione di: davintro il 13 Febbraio 2021, 19:47:38 PM
Tu stesso, come mi è sembrato di intendere, a un certo punto concedi che, una volta che nella definizione di partenza non è implicita l'attribuzione a Dio di esistenza come causa della presenza dell'idea dei suoi attributi nella mente, cioè quando scrivi, cito,
"Se non lo presupponessi già come esistente, la sua idea sarebbe l'unica prova logica della sua esistenza e dunque potrei dire di Dio solo che è colui che rende possibile averne idea, senza potervi aggiungere altre proprietà, demiurgiche o morali che siano, non potendo provarle logicamente."
quantomeno l'esistenza di Dio come ciò che rende possibile l'idea sarebbe accertata.
La premessa che ho anteposto «se non la presupponessi già come esistente» non è da sottovalutare, perché ho dimostrato in precedenza come tale presupposto sia in gioco sin dall'inizio dell'argomentazione: si presuppone l'esistenza del referente oggettivo dell'idea di Dio e poi gli si assegnano attributi. Ho usato la prima persona per "immedesimarmi" retoricamente in chi ha un'idea di Dio (nello stesso paragrafo dichiaro infatti che personalmente propendo per altre spiegazioni) e se crede che Dio solo possa essere la causa della sua stessa idea nell'uomo, il credente può usare la presenza di tale idea come prova dell'esistenza divina. Sarebbe dunque una prova logica, non ontologica, dell'esistenza di colui che presuppongo sia causa della sua stessa idea in me, quindi in fondo un altro circolo vizioso privo di fondamento gnoseologico: mi "ritrovo" in testa l'idea di x, allora pongo l'esistenza di x come causa della sua idea in me; è un gesto arbitrario, non epistemico (mi "ritrovo" in testa l'idea di elfo, ma dubito che l'esistenza dell'oggetto-elfo ne sia la causa; certo, esistono immagini, modellini, film, etc. sugli elfi, come sugli dei, ma si tratta di un'"ontologia" narrativa, culturale, "ereditata", non oggettiva o gnoseologica).

Citazione di: davintro il 13 Febbraio 2021, 19:47:38 PM
Per quanto riguarda i discorsi apofatici, il "qualcosa" che all'interno di una stanza distinguo dalle sedie e dai tavoli non è mai puro "nulla". Perché riconosca questo "qualcosa" come non identificabile con sedie e con tavoli, devo necessariamente riempirlo di un certo livello minimo di attributi positivi, altrimenti, come potrei sapere che non si sta parlando di sedie o di tavoli ma di altra cosa?
Anche qui il "circolo vizioso" mi pare in azione: presuppongo che ci sia qualcosa che non posso percepire e lo connoto negando che sia ciò che percepisco; se seguissimo tale "deformazione" logica della negazione, dovremmo affermare che in tasca c'è il mio fazzoletto e anche qualcosa che non è il mio fazzoletto ma eppure esiste; che nel palloncino c'è l'aria ma anche qualcosa che non è l'aria eppure esiste, etc. non sono pratico di fisica quantistica, forse per i fisici queste frasi hanno un chiaro senso estensionale, ma non credo nemmeno loro ne possano trarre debite conclusioni teologiche o mistiche.

Citazione di: davintro il 13 Febbraio 2021, 19:47:38 PM
i fautori della prova ontologica, che fintanto che si limitano a proporre una certa definizione di Dio, non ne stanno suggerendo in questa premessa l'esistenza cadendo nel circolo vizioso.
Ho ricordato il quarto assioma di Gödel in cui egli definisce esplicitamente l'esistenza come una proprietà positiva, di quelle che egli attribuisce a Dio per definizione. Questo circolo vizioso è stato notato anche dai critici della sua dimostrazione, sicuramente più attenti e competenti di me e, per come è stato esplicito lo stesso Gödel, mi pare non ci possano essere troppi dubbi al riguardo (se pongo qualcosa come assioma non sono tenuto a dimostrarlo, e lo considero vero a priori; se provo a farne oggetto di dimostrazione all'interno del sistema che tale assioma determina, sicuramente avrò successo tramite petitio principii, ma non è corretto parlare di dimostrazione, tantomeno ontologica).
#942
Rettifico: non avendo il coccodrillo concordato nulla riguardo la tutela dell'incolumità della madre, meglio che lei non provi a riprendersi il bambino, ma, dopo aver dato la suddetta risposta, vada direttamente a chiamare qualcuno per uccidere il coccodrillo: se al suo ritorno non trova il coccodrillo e il bambino è libero, allora l'animale è stato di parola; se trova il coccodrillo ancora immobile che stringe il bambino, la bestia dovrà decidere se lasciarlo andare o essere ucciso; se invece non trova più né suo figlio né il coccodrillo, significa che l'animale non è stato di parola e quindi probabilmente il bambino era già spacciato (oppure era già "ora di pranzo" per il coccodrillo e quindi lei non ha potuto fare in tempo).
#943
Stando al testo di Diogene, il coccodrillo ha chiesto alla donna di indovinare esattamente cosa egli farà, senza tuttavia specificare quando; è dunque sufficiente, per salvare il bambino, che la donna gli risponda «ti muoverai»: se il coccodrillo apre la bocca per mangiarlo, o compie un qualsiasi altro movimento, la donna ha diritto a riprendersi il bambino, perché ha di fatto indovinato l'azione futura del coccodrillo (ovvero muoversi); se invece il coccodrillo non si muove, per tutelare il suo diritto a far pranzo con il cucciolo d'uomo, allora la donna ha tempo (fino all'ora di pranzo) per riprendersi il bambino dalle grinfie dell'animale inerte (magari faticando un po' per estrarlo dalla sua presa, ma il coccodrillo non può comunque stringere di più perché ciò comporterebbe muovere un muscolo). Se la donna non fosse in grado di estrarre il pargolo, potrà comunque chiamare altre persone in suo aiuto poiché, se il coccodrillo è animale di parola, egli non può muoversi e se si muove (magari per scappare da chi è accorso per ucciderlo) allora non ha più diritto a mangiare il bambino.
#944
Citazione di: davintro il 12 Febbraio 2021, 00:20:18 AM
La definizione indica l'essenza, la traduce in segni grafici, fisici [...], non indica l'esistenza.
Dipende da come viene formulata la definizione: se definisco qualcosa in modo estensionale o basandomi su referenti reali (e non solo su concetti), la definizione potrebbe indicarne, più o meno implicitamente, anche l'esistenza. Se ad esempio definisco Dio come colui che ha (fra l'altro) inoculato nella mia mente il concetto di «dio», la presenza nella mia mente del concetto di «dio» rimanda formalmente (non dimostra) all'esistenza di Dio (come referente concettuale, non ontologico). Tale esistenza è basata sull'accettazione della suddetta definizione, che funge da premessa semantica, oltre che logica, per l'argomentazione che implicitamente ne deriva. Argomentazione che, se intesa come dimostrazione, incappa nella fallacia logica dell'affermazione del conseguente (come ho ricordato più volte): se Dio c'è ed è l'unica causa possibile dell'idea di divinità, allora è possibile avere l'idea di divinità; ho l'idea di divinità; allora Dio c'è (ed è l'unica "causa" dell'idea di divinità).
Se invece non riesco a riscontrare cause mondane per l'idea di «dio» (nonostante per me ve ne siano di più plausibili, ma preferisco non riaprire il discorso) e concludo che deve essere stato Dio stesso a darmela, sto presupponendo Dio già come esistente, ed aggiungo alle sue proprietà anche quella di esser causa della sua stessa idea. Se non lo presupponessi già come esistente, la sua idea sarebbe l'unica prova logica della sua esistenza e dunque potrei dire di Dio solo che è colui che rende possibile averne idea, senza potervi aggiungere altre proprietà, demiurgiche o morali che siano, non potendo provarle logicamente.

Citazione di: davintro il 12 Febbraio 2021, 00:20:18 AM
Pensare che indichi l'esistenza dovrebbe, come scritto prima, condurre anche l'ateo e l'agnostico, che necessitano di una qualunque definizione di Dio, per giudicarne l'inesistenza o l'indimostrabilità, a dover dedurre dalla loro personale definizione anche il giudizio di esistenza, cadendo in contraddizione con le loro tesi. E se una posizione contraddittoria è sempre falsa, e la tesi contraria a una falsa è sempre vera (terzo escluso), allora il tentativo di sconfessare la validità della prova ontologica come petitio principii da parte dell'ateo gli si ritorcerebbe contro come un boomerang, mentre il credente troverebbe in questo modo convalidata razionalmente la sua credenza senza passare direttamente per la prova stessa, bensì nell'autocontraddizione in cui cade la posizione di chi cerca di confutarla.
L'ateo e l'agnostico deducono dalla loro interpretazione ontologica della definizione, l'esistenza solo concettuale-astratta della divinità, mentre il credente, fidandosi del circolo vizioso che ne consegue (v. in seguito), ne deduce l'esistenza ontologica (pur non avendo alcun "accesso" al contenuto ontologico di tale dimostrazione che nella sua formalità autoreferenziale non "aderisce" al mondo dell'esistenza provata). Non è autocontraddittorio sostenere l'esistenza concettuale del concetto di cui si sta parlando (sarebbe contradditorio il contrario), mentre è fallace sostenere che definire e predicare l'esistenza di qualcosa ne costituisca prova dell'esistenza ontologica (vedi esempio della "sorella dispersa" di cui Gödel potrebbe dimostrare l'esistenza usando la sua dimostrazione, basandosi sulla definizione di sorella, passando dalla possibilità alla necessità proprio in virtù di un assioma ad hoc che ontologizza la definizione: l'esistenza necessaria è proprietà all'essere-sorella).

Citazione di: davintro il 12 Febbraio 2021, 00:20:18 AM
Gli approcci apofatici, tra cui possono comprendersi i diversi orientamenti riconducibili all'ambito della teologia negativa, per i quali Dio sarebbe inconoscibile e indimostrabile per la ragione umana, non possono in realtà esimersi dal definire Dio in qualche modo. La coscienza del limite implica una quantomeno vaga visione di ciò che vi è oltre il limite, l'apprensione del significato di questo "oltre", la sua definibilità. Il limite è la linea di confine tra due dimensioni, riconoscerlo presuppone una minima comprensione di entrambe le dimensioni, riconosco il mio limite in quanto avverto l'esistenza di qualcosa che va oltre.
Sull'apofatismo, sempre da un punto di vista logico, ne è evidente l'inattendibilità: una serie di predicazioni negative non può identificare ontologicamente qualcosa, se non, altro circolo vizioso, presupponendone a priori l'esistenza (per questo ad oriente alcuni usano il nulla come "fattore ontologico di confine", ma il discorso non si presta a facili sintesi, lo indico solo come spunto). Semplificando (come sempre non per sminuire il tema, ma per chiarificare): se sono in una stanza ed affermo l'esistenza di qualcosa che non è il tavolo, non è la sedia, non è nulla di ciò di cui constato l'esistenza, non sto individuando o definendo nulla (tranne forse il nulla), se non l'insieme dei "referenti assenti" che, appunto, non sono nella stanza. L'innegabile possibilità di referenti non rilevabili, andrebbe eventualmente argomentata o dimostrata, e (parodiando Gödel) la definizione di «fantasma» come «entità che può sottrarsi a piacimento ai sensi umani seppur realmente esistente» non credo possa costituire sufficiente fondamento per la prova ontologica dell'esistenza dei fantasmi.

Citazione di: davintro il 12 Febbraio 2021, 00:20:18 AM
ammesso e non concesso, che la prova ontologica si riduca di fatto a una tautologia, ciò non sarebbe altro che una conferma della sua validità apodittica: le tautologie son sempre vere.
Vere formalmente, non ontologicamente. La tautologia spesso (sempre?) non ha valore probante ontologico; usando l'esempio da manuale «ora piove o non piove», ci troviamo di fronte ad una verità inconfutabile che nulla ci dice del fatto che "ontologicamente" stia piovendo o meno, ovvero dell'esistenza attuale della pioggia.
La prova ontologica in oggetto, nel dettaglio, non è propriamente una tautologia, piuttosto una petitio principii (o circolo vizioso) in cui ciò che andrebbe dimostrato è già assunto come vero, seppur implicitamente, nelle premesse (di cui fa parte implicitamente anche il senso delle definizioni). Non credo sia corretto affermare che «nel caso della prova il predicato dell'esistenza ha un significato concettualmente distinto da quello di "grandezza" o "positività" godeliana. Dal punto di vista di chi ha elaborato la prova, l'esistenza è comunque inerente alla grandezza o alla positività, ma in modo implicito, necessitante di essere esplicitato tramite la mediazione logica»(cit.) poichè Gödel pone esplicitamente come assioma (il quarto) che «l'esistenza necessaria è una proprietà positiva»(cit.), per cui il rapporto fra positività ed esistenza è posto come a priori della dimostrazione.
Dunque: se x ha tutte le proprietà positive, l'esistenza è proprietà positiva, allora x esiste. Tale ragionamento è valido (ma non necessariamente vero), sebbene da ciò non consegua l'esistenza ontologica di x, ma solo la necessità logica della sua esistenza a due condizioni: se è vero che x ha tutte le proprietà positive (assunto da dimostrare ontologicamente) e se l'esistenza è proprietà positiva (questione non ontologica, ma di definizioni); la prima assegnazione di verità non può esser fatta convenzionalmente per mera definizione, poiché non è la definizione a far esistere ontologicamente le proprietà di qualcosa (ma serve ad individuarla solo concettualmente, attività possibile anche per ciò che ontologicamente non esiste, v. la mia "sorella dispersa").
#945
Citazione di: Eutidemo il 09 Febbraio 2021, 14:36:37 PM
ritengo che le teorie ontologiche possono risultare valide (critiche su alcune loro impostazioni autoreferenziali a parte), solo dando per scontata la concezione di partenza che i loro propugnatori hanno di "cosa" o "chi" possa definirsi "dio";  però, poichè nè la dimostrazione di Sant'Anselmo nè quella di Goedel possono dimostrare le premesse assiomatiche da cui partono, secondo me entrambe si risolvono in una sorta di "petizione di principio", sebbene, specie la seconda, molto sottile e raffinata.
Il quarto assioma della dimostrazione di Gödel è «l'esistenza necessaria è una proprietà positiva»(cit.) (proprio come Anselmo premetteva l'esistenza come requisito per poter essere "maggiore"), se dunque Dio è stato definito come avente tutte le proprietà positive (o come ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore), la conclusione è tanto logica quanto "circolare": Dio "ha" (anche) l'esistenza. Tuttavia questa circolarità resta irrilevante ai fini ontologici, non essendo un'autentica dimostrazione: l'essere esistente è infatti già attribuito a Dio implicitamente nella sua arbitraria definizione (che funge da premessa semantica), poiché "avere tutte le proprietà positive" (o non essere "minore" ad altro) si esplicita in avere fra esse anche l'esistenza (il "demonstrandum"). Definire Dio come caratterizzato delle proprietà positive equivale, in questo caso, a definirlo già (a priori) come esistente, ma non a dimostrarlo tale, soprattutto se si considera gli oneri che comporta una dimostrazione ontologica. Se seguiamo passo passo la dimostrazione di Gödel, la sua chiave di volta è infatti palesemente la definizione-assioma di divinità in quanto caratterizzata da tutte le proprietà positive (fra cui, appunto, l'esistenza) e, stando ai teoremi di indecidibilità dello stesso Gödel, è logico che un assioma non possa essere dimostrato all'interno del sistema che esso stesso fonda.

Banalizzando a scopo esemplificativo: se definisco mia sorella come quel possibile essere umano di genere femminile che è imparentato con me condividendo la mia stessa madre, etc. seguendo il ragionamento di Gödel (con qualche sostituzione di proprietà, trattandosi banalmente di «sorella» e non di «Dio») da tale definizione si arriverebbe alla "prova ontologica" dell'esistenza di mia sorella... che invece non esiste (almeno che io sappia).
Il salto fra la (infalsificabile) possibilità di un dio (o quella di una sorella "dispersa") e la sua necessità è ciò che andrebbe dimostrato (se proprio ci si vuole rivolgere all'ontologia per una dimostrazione su questo tema), piuttosto che risolto appellandosi ad una definizione il cui referente è già definito implicitamente come esistente, o accettando che la possibilità di esistenza implichi la necessità di esistenza (assioma che potrebbe essere utilizzato anche controfattualmente, come nel caso della mia "sorella fantasma").


P.s.
Per scrivere la «ö» puoi usare la combinazione: tasto «Alt» e 148 (rilasciando il tasto «Alt» dopo aver digitato il numero).