Nel buddhismo uno dei fattori più importanti da sviluppare è la saggezza ( prajna). Senza saggezza non c'è liberazione dal samsara e quindi dalla sofferenza insita nel divenire. Ma è possibile ottenere saggezza senza sviluppare la meditazione? Senza almeno raggiungere il primo jhana? Viceversa , è possibile accedere al jhana senza saggezza? Nel Dhammapada si dice:"Non c'è jhana senza saggezza".
Ma cos' è il jhana? Sviluppare il jhana non è semplice. Spessissimo molte persone che si dedicano alla meditazione non riescono nell'impresa. L'identificarsi troppo con il corpo crea agitazione e questo è un problema in meditazione. Quando ci si invischia nei cinque sensi, i problemi aumentano e la quiete diventa un autentico miraggio. Se si 'lascia andare' il fattore percezione, i sensi si pacificano. Se la meditazione procede come deve procedere, dopo un pò di tempo, il corpo tende a 'scomparire'. Si abita uno stato in cui non ci sono più le mani, le gambe, la schiena...( ovviamente ci sono sempre, quel che viene a cessare è la percezione da parte della coscienza di queste parti...). Non si avvertono più gli acciacchi della mezza età
, nè i dolori e nemmeno piacere fisico...alè...sparisce tutto! Il corpo si 'raffredda', si calma, le onde percettive si acquietano... A questo punto molti provano paura ( in fin dei conti non è molto piacevole sentire svanire il corpo...), una sensazione come di 'affogamento' ed escono dal samadhi ( concentrazione). Se però si impara a 'lasciar andare' il corpo, oltre alla possibilità di approfondire la meditazione, ci si abitua presto ad una cosa che ritornerà molto utile nella vecchiaia e nella malattia...
La liberazione che si prova nel lasciar andare nella meditazione è bellissima. E' un piacere con un gusto diverso e più profondo dei normali piaceri della vita quotidiana. E' più 'sottile'...
Spesso, in meditazione, passa inosservato perché la mente cerca sempre qualcosa di familiare, di vicino alla nostra esperienza ordinaria. Bisogna prestare attenzione, ma questo dovrebbe essere un aspetto normale del samadhi...Nel Majjhimanikaya, Siddhartha paragona il piacere dei sensi a quello di un cane che rosicchia un osso sporco di sangue: ha il gusto del cibo...ma è privo della carne che nutre e sazia.Il piacere del jhana, del frutto della meditazione, dà 'sostanza' e reale soddisfazione. Non è un gusto superficiale ed effimero, è qualcosa di autentico.
A questo punto della meditazione, con la quiete gioiosa data dal jhana, sorge un primo barlume di prajna (saggezza); si incomincia a intuire l'inizio della fine della sofferenza, di dukkha.
Uno dei problemi di questi stati di beatitudine consiste nel pericolo della loro seduzione . La mente cerca la meditazione e il jhana per volerne sempre di più. E' di nuovo all'opera il desiderio, la brama che porta a nuovo attaccamento all'esistenza nel divenire. Allora bisogna rammentare ciò che ci ha portati fino a quel punto, ossia la capacità di 'lasciar andare'...
Si incomincia a capire che la brama è veramente la causa della sofferenza, lo si constata di persona, in noi stessi , nella dinamica stessa della meditazione che ci porta di fronte alla visione di questo attaccamento al mondo. La paura spesso ci fa preferire l'osso sporco di sangue, da rosicchiare, purché ci si possa illudere che sia 'nostro'...
La meditazione profonda è realmente intensa e piena di 'carne' nutriente. Una sola esperienza di jhana può cambiare una vita, può farci sentire appagati per molto tempo, forse anche per l'intera vita.
Può sembrare una cosa strana e insolita, ma chi l'ha avuta capisce il perché.
La vera meditazione fa toccare una dimensione interiore straordinaria ( senza voci, visioni o altro...quelle aspettano sul ponte).
Ma cos' è il jhana? Sviluppare il jhana non è semplice. Spessissimo molte persone che si dedicano alla meditazione non riescono nell'impresa. L'identificarsi troppo con il corpo crea agitazione e questo è un problema in meditazione. Quando ci si invischia nei cinque sensi, i problemi aumentano e la quiete diventa un autentico miraggio. Se si 'lascia andare' il fattore percezione, i sensi si pacificano. Se la meditazione procede come deve procedere, dopo un pò di tempo, il corpo tende a 'scomparire'. Si abita uno stato in cui non ci sono più le mani, le gambe, la schiena...( ovviamente ci sono sempre, quel che viene a cessare è la percezione da parte della coscienza di queste parti...). Non si avvertono più gli acciacchi della mezza età
, nè i dolori e nemmeno piacere fisico...alè...sparisce tutto! Il corpo si 'raffredda', si calma, le onde percettive si acquietano... A questo punto molti provano paura ( in fin dei conti non è molto piacevole sentire svanire il corpo...), una sensazione come di 'affogamento' ed escono dal samadhi ( concentrazione). Se però si impara a 'lasciar andare' il corpo, oltre alla possibilità di approfondire la meditazione, ci si abitua presto ad una cosa che ritornerà molto utile nella vecchiaia e nella malattia...La liberazione che si prova nel lasciar andare nella meditazione è bellissima. E' un piacere con un gusto diverso e più profondo dei normali piaceri della vita quotidiana. E' più 'sottile'...
Spesso, in meditazione, passa inosservato perché la mente cerca sempre qualcosa di familiare, di vicino alla nostra esperienza ordinaria. Bisogna prestare attenzione, ma questo dovrebbe essere un aspetto normale del samadhi...Nel Majjhimanikaya, Siddhartha paragona il piacere dei sensi a quello di un cane che rosicchia un osso sporco di sangue: ha il gusto del cibo...ma è privo della carne che nutre e sazia.Il piacere del jhana, del frutto della meditazione, dà 'sostanza' e reale soddisfazione. Non è un gusto superficiale ed effimero, è qualcosa di autentico.
A questo punto della meditazione, con la quiete gioiosa data dal jhana, sorge un primo barlume di prajna (saggezza); si incomincia a intuire l'inizio della fine della sofferenza, di dukkha.
Uno dei problemi di questi stati di beatitudine consiste nel pericolo della loro seduzione . La mente cerca la meditazione e il jhana per volerne sempre di più. E' di nuovo all'opera il desiderio, la brama che porta a nuovo attaccamento all'esistenza nel divenire. Allora bisogna rammentare ciò che ci ha portati fino a quel punto, ossia la capacità di 'lasciar andare'...

Si incomincia a capire che la brama è veramente la causa della sofferenza, lo si constata di persona, in noi stessi , nella dinamica stessa della meditazione che ci porta di fronte alla visione di questo attaccamento al mondo. La paura spesso ci fa preferire l'osso sporco di sangue, da rosicchiare, purché ci si possa illudere che sia 'nostro'...
La meditazione profonda è realmente intensa e piena di 'carne' nutriente. Una sola esperienza di jhana può cambiare una vita, può farci sentire appagati per molto tempo, forse anche per l'intera vita.
Può sembrare una cosa strana e insolita, ma chi l'ha avuta capisce il perché.
La vera meditazione fa toccare una dimensione interiore straordinaria ( senza voci, visioni o altro...quelle aspettano sul ponte).

lo confesso...ma è così. La Bellezza e l'intuizione autentica di un grande spirito cristiano o musulmano o hindu mi commuovono profondamente, mi sento veramente come un bambino di fronte a queste profonde sensibilità e tanto più se questo coincide con la coerenza di vita.
).