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Messaggi - 0xdeadbeef

#931
Citazione di: Phil il 07 Marzo 2018, 22:27:57 PM

mi viene in mente, per quel poco che so, che la politica è andata sempre a braccetto con il "mercato": oltre alla supremazia militare, il potere politico si (auto)legittima anche economicamente.
Le azioni di un popolo per ottenere risorse da sfruttare economicamente, scandiscono la storia politica dell'uomo, basti pensare alle rotte pioneristiche degli esploratori (Marco Polo, Colombo e compagnia... e non intendo solo "compagnia delle Indie"), ai colonialismi-imperialismi vari (fino all'"esportazione della democrazia"), hanno sempre viaggiato sulle due "ali" dell'economia e della politica.
La globalizzazione è forse solo una questione di unità di misura (il globo), ma se definita come "politica mercatocratica" mi pare sia da sempre un movente cardine delle dinamiche inter-culturali (ovvero fra culture, popoli, stati e nazioni).


Una "comunità plurale" o "globalizzata", con differenti legami culturali radicati fuori dal suolo della patria, non è necessariamente in difficoltà nella difesa del debole sul suo territorio,




Nel precedente post, avevo definito la globalizzazione come il processo per cui il mercato tende sempre più a diventare
potere politico.
In realtà, come dicevo nel poscritto, rilegggendo quel post mi ero accorto di aver omesso una parte importante, e cioè
quella per cui il mercato necessita di una espansione continua (la qual cosa, evidentemente, porta alla globalizzazione).
Dunque correggo così la definizione: la globalizzazione è la dimensione massima dell'espansione del mercato (che tende
sempre più a diventare potere politico).
Che il mercato tenda sempre più a diventare potere politico mi sembra palese.
Da dove viene la perdità di sovranità degli stati di cui tanto si parla se non da un potere economico che gli stati ormai
sovrasta? Di esempi ve ne sono a bizzeffe; dal caso della Grecia alle continue ingerenze della tecnocrazia di Bruxelles
verso i nostri governi, come si suol dire, "democraticamente eletti" (laddove la suddetta tecnocrazia non lo è affatto,
ma è appunto espressione della "tecnica" mercatistica).
Che poi questa "tecnica mercatistica" non favorisca la parte contraente forte su quella debole è una affermazione che
mi lascia sbigottito (probabilmente devo inforcare un buon paio di occhiali quando vado a leggere certi dati sulla
povertà che avanza, visto che allora ci vedo male...).
La politica non è andata "sempre" a braccetto con il mercato. Se proprio devo individuare un periodo storico che somiglia,
sotto questo aspetto, alla contemporaneità direi proprio il Rinascimento; periodo in cui, e non certo per caso, il
potere politico fu preso dai mercanti e dai banchieri.
Intendiamoci, il potere politico non ha mai disdegnato la ricchezza (e ci ha spesso "flirtato"...), ma un conto è un
potere politico che regola (e magari sfrutta anche) la ricchezza; un altro è un potere politico che DALLA ricchezza è
deposto (come deposti furono i Comuni italiani medievali dal mercante (poi "signore") rinascimentale, e come tutto
sommato deposto fu il governo Berlusconi dagli omologhi "signori" della tecnocrazia europea e dei mercati finanziari
mondiali).
Ma, dicevo, bisogna spendere qualche parola sulla globalizzazione come dimensione massima dell'espansione del mercato.
Personalmente (ma non sono certo il solo...), definisco "mercatismo" la dimensione quasi "ontologica" che ormai hanno
assunto l'economia e le sue "leggi". Una dimensione che sta spazzando via ogni altro "potere" ad esse concorrente.
Per una fondamentale legge economica (detta "di scala"), vi è una intima relazione fra la dimensione e la produzione
di un impianto aziendale e la sua capacità di diminuire il costo medio unitario di produzione.
In parole povere (ma già quelle lo sono assai...), più una azienda è grande minore è il costo della merce
che essa produce (con grande beneficio della competitività, ovviamente).
Questo è, in radice, il motivo per cui al mercato stanno stretti i confini nazionali (e questo è anche il motivo per
cui l'economia si è "trasferita" dal piccolo reale al più grande virtuale...).
Non è certo per caso che la globalizzazione così come la intendiamo ha una precisa data di nascita. Nel 1989 infatti, a
"muro" non ancora crollato, R.Reagan e M.Thatcher firmarono la celebre intesa sulla libera circolazione di capitale,
cui presto seguirono le aziende "fisiche" (nel 92 nella sola città rumena di Timisoara vi erano 5000 aziende italiane)
e, da ultime, le persone.
saluti
#932
Provo un pò a rispondere a tutti gli interventi (cosa non facilissima...).
Gli ultimi due interventi, di Phil e di Lou, mi pare pongano l'accento sulla globalizzazione; e allora vi invito a
chiedervi: "cos'è la globalizzazione?"
A parer mio, la globalizzazione NON E' quell'interscambio di popoli e di culture che, in fondo, c'è sempre stato.
No, la globalizzazione è, ritengo, il processo per cui la "tecnica" tende sempre più a diventare potere politico
(da cui "tecnocrazia").
Oggi, il "mercatismo" (che personalmente preferisco al vetusto -e fonte di frantendimenti- "capitalismo") è lo
strumento più efficace di cui la volontà di potenza dell'individuo (il cui emergere caratterizza più di ogni altra
cosa la modernità) può servirsi. Per cui con il termine "tecnica" si intende particolarmente la tecnica mercatistica
(o capitalistica, se proprio si vuole).
Di conseguenza, la globalizzazione è il processo per cui il "mercato" tende sempre più a diventare potere politico.
Ma se il mercato tende sempre più a diventare potere politico, questo vuol dire che il potere politico come lo si è
sempre inteso si sta progressivamente obliando. Nel nostro caso e in molti altri, questo potere politico che va
obliandosi è quello della democrazia.
Se nella democrazia (tanto per restare al nostro caso), i rapporti di forza sono stabiliti "ab-solutum" (cioè vi sono
leggi valide per tutti), nel mercato i rapporti di forza sono necessariamente subordinati al "contratto" fra privati
individui, per cui la parte contraente "forte" (ad es. una multinazionale) predomina su quella "debole" (un precario).
Questo vuol semplicemente dire che nella globalizzazione i diritti dei deboli vengono necessariamente subordinati alla
"compassione" (o, come quasi sempre, alla prepotenza) della parte contraente forte.
L'oblio del potere politico come lo si è sempre inteso è dovuto principalmente all'emergere dell'individuo (che, abbiamo
sommariamente visto, è alla base dell'avvento del mercato come "tecnica" - e quindi potere politico- più efficace che esso,
l'individuo, ha a disposizione allo scopo di soddisfare la propria volontà di potenza); un emergere che travolge dunque
lo stato, la democrazia, come ogni altra organizzazione di tipo collettivo.
Naturalmente la "classe" marxiana, quale organizzaziobe di tipo collettivo, ne è anch'essa travolta.
In questo preciso punto si inserisce la mia proposta (mia per modo di dire...). Se (SE...) l'unica organizzazione di tipo
collettivo che ancora mostra segni di resistenza alla travolgente emersione dell'individuo è la "comunità", allora è solo
su di essa che può fondarsi la possibilità di una restaurazione del potere politico "ab-solutum", cioè in possibilità
fondato su leggi di giustizia valide per tutti.
Naturalmente, la strada "ideale" sarebbe un'Unione Europea coesa, "dei popoli" (come qualcuno usa dire). Ma una Unione
siffatta è molto là da venire, e anzi non si vede all'orizzonte nessuno che abbia seriamente l'intenzione di procedere
su quella strada.
Come ben sottolinea l'ottimo intervento dell'amico InVerno.
saluti
PS
Rileggendo, mi sono accorto di non aver risposto sul rapporto fra il mercato e l'espansione di cui esso necessita (per
cui oggi abbiamo la globalizzazione). Mi riprometto di farlo appena posso (oltre che rispondere all'ultimo intervento di
Paul11)
#933
Citazione di: InVerno il 06 Marzo 2018, 10:57:35 AMMelenchon in Francia ha proposto proprio questo, con una spruzzata populista di "rivoluzione francese", una sinistra a-la Robespierre, che per me ha molto a che fare con il nazionalismo (infatti la stessa casella in Italia è occupata dalla Lega) , liberale e civile, ma pur sempre quello è. Buttarla però su un ragionamento binario, stato - non stato, non è che sia molto più serio. Innanzitutto converrebbe alla sinistra diradare un conflitto semantico, se la globalizzazione sia quella del capitale o quella dei popoli, perchè mi pare che da questo punto di vista a sinistra ci sia un equivalenza tra le due incomprensibile. Va da se, che gran parte dei poteri necessari a questo tipo di operazione è già stato ceduto all'EU (che per esempio, è l'unica a poter imporre eventuali dazi) e riprenderselo significa uscire dall'EU. L'Italia che esce dall'EU è la morte dell'EU, sia dal punto di vista meramente simbolico, sia dal punto di vista di un eventuale (mai nata) allenza degli stati mediterranei contro lo strapotere mitteleuropeo. Consiglio di osservare bene Brexit, per rendersi conto di quanto questa opzione sia una zappata sui piedi micidiale (e gli inglesi son forti dei "cugini" oltre atlantico, noi no).



Tocchi proprio il punto cruciale; quello per cui, personalmente, non posso più dirmi di sinistra (ma anche quello per cui
penso che le categorie deboli non siano più difendibili con la teoria "classica" della sinistra).
Allora, ricapitolando un pò, io credo che la difesa delle categorie deboli (che per me è scopo primario) possa attuarsi
solo ed esclusivamente all'interno di uno "stato", cioè di una istituzione che, almeno potenzialmente, impone al "forte"
di rispettare i diritti del debole.
Al di fuori dello "stato" non può esservi difesa dei deboli (se non al limite relegandola alla "compassione" dei singoli
individui -come del resto alcuni hanno teorizzato, soprattutto in area anglosassone), in quanto al di fuori dello "stato"
non può darsi "diritto", ma solo libertà individuale (appunto la libertà di avere compassione dei deboli).
Se si condivide questo primo e basilare punto, il passo successivo è interrogarsi su quale forma dovrebbe avere lo stato.
A mio parere, una istituzione di tipo statuale può avvenire solo se vi è almeno una certa omogeneità culturale.
Questo perchè non può darsi alcun "corpus" normativo tra individui che non posseggono almeno un "sostrato" valoriale
e di principio comune.
In altre parole, lo stato può istituirsi solo ed esclusivamente all'interno di una "comunità" (mentre per la teoria
fondativa della sinistra lo stato può istituirsi all'interno di una "classe" materialmente intesa, ed è comunque
inteso come "fase di passaggio" - verso l'anarchia del "comunismo").
Da questo punto di vista, non può darsi uno "stato" nella globalizzazione; perchè in essa manca la comunità, cioè
perchè manca un sostrato valoriale comune.
Mancando necessariamente lo stato, manca di conseguenza il diritto del debole di essere difeso dalla prepotenza del
forte.
Per quanto riguarda il cosiddetto "feticismo marxiano" (per rispondere all'amico Green Demetr), non vedo cosa c'entri
con le mie osservazioni lungo tutto questo post (che, fra l'altro, "grondano" dappertutto di ammirazione per Marx...).
Per quanto riguarda il voto, il nazionalismo o la Lega, non credo di stare facendo un discorso di "trita" politica.
O almeno me lo auguro...
saluti

PS
Pwe quanto riguarda il "melting pot" che l'Italia sarebbe stata (e, tutto sommato, lo è ancora), vogliamo allegramente
dimenticare che, insomma, qualche "guerricciola" c'è stata, o mi sbaglio?
O vogliamo derubricare tutto ad "incidente di percorso" verso un comunque fulgido e radioso avvenire?
#934
Citazione di: InVerno il 05 Marzo 2018, 11:06:55 AM). Detto ciò, tutti i ragionamenti massimalisti che si possono fare sono invalidati se poi la proposta risultante è il ritorno al nazionalismo. Abbiamo già vissuto un periodo simile con il gold standard, sappiamo cosa vuol dire giocare la carta nazionalista, non ci penserebbe nemmeno un bambino che si è appena scottato, inutile assurgere a stratificazioni del pensiero altisonanti se la risultante (di sinistra) è questa.

Trovo che ridurre il discorso al nazionalismo sia, come dire, alquanto riduttivo...
Per quel che mi riguarda, dicevo in una precedente risposta che bisogna vedere quanto sia plausibile l'idea di "nazione"
così come essa si è venuta a formare negli ultimi secoli ("plausibile è però certamente l'idea di sovranità politica",
aggiungevo).
La proposta risultante non è dunque affatto il nazionalismo (semmai la nazione...); bensì primariamente la sovranità
politica.
Poi, se qualcuno pensa che la sovranità politica non sia indispensabile, beh, per quanto mi concerne può adattarsi a
credere nell'animo buono di un essere umano che, ove non represso dalla forza statuale, vivrebbe in pace ed armonia
con tutti gli altri esseri umani. Che aggiungere? Me ne rallegrerei molto per la buonafede e il "candore"...
Per rispondere all'amico Iano, il quale afferma che bisogna guardare all'Europa, dirò che questo sarebbe l'ideale.
Ma, come spesso avviene, l'ideale ha poco a che fare con il reale. Per cui questa Europa a me sembra più un comitato
d'affari (e nemmeno troppo chiari) che non una "nazione" (come del resto mi sembra pensi anche lui).
Il punto cruciale di quel che ho provato a dire in questo post è che il "diritto", cioè l'intero corpus normativo
che regola i rapporti fra gli individui all'interno di un territorio statualmente definito, può sorgere solo
ed esclusivamente nel contesto di una "comunità" che condivide gli stessi principi e valori fondanti. Cioè di una
comunità che è culturalmente omogenea.
Non mi sembra davvero questo il caso dell'Unione Europea. E allora, che fare?
Si torna agli stati nazionali di ottocentesca memoria? Mah, sarebbe problematico assai (anche per alcuni aspetti
cui lo stesso Iano accenna di sfuggita); ma problematico è anche continuare in questa specie di limbo che l'Europa
è diventata. Perchè se essa non è, prima, comunità, allora in essa manca necessariamente sia la sovranità sia un
"diritto comune" che è il solo antidoto allo strapotere delle forme individualistiche del mercato (che non a caso vi
regnano incontrastate).
L'Europa è una specie di "Godot" (come nella commedia di Beckett); una specie di "orda di tartari", che stiamo aspettando
e che non arriva mai: quando mai si farà, se si farà? E chi la farà?
La si farà nel lungo termine? Ma nel lungo termine saremo tutti morti, come diceva il buon Keynes parafrasando il noto
detto "campa cavallo che l'erba cresce".
saluti
#935
Non c'è alcun dubbio, tanto per rispondere ad Anthony, che nella crisi del pensiero socialista vi sia il fatto che visioni di
stampo liberale si innestino nel pensiero di sinistra sostituendosi al primo.
A questo mi riferivo appunto nella citazione del saggio di Giddens, dove egli propone (mi pare fosse il 1971, ma non vorrei dire
castronerie) la sostituzione dell'egualitarismo con il merito individuale.
Senonchè, ripeto, quella sostituzione (avvenuta fra l'altro acriticamente) è stata "mortale" per la sinistra, che da quel
momento in poi ha cessato di essere tale.
Si poteva fare diversamente? Beh, sulla base di quanto vado dicendo si poteva forse assumere il merito individuale in maniera
diversa, "attenuandolo" con lo strumento del controllo statuale, cioè senza rimmettersi in tutto e per tutto al Mercato.
Questo sarà anche un film già visto, come afferma Jacopus, ma abbondantemente già visto è anche il film dell'assenza del potere
statuale e dell'avvento degli appetiti individualistici (fin dai tempi sumero-accadici, figuriamoci - quindi già conosciamo il
possibile finale...).
Che invece, su quella base, possano sorgere (ma sono già sorte) nuove forme di nazionalismo e xenofobia è un problema che ammetto
reale.
Ma è anche per questo che la sinistra non doveva assolutamente lasciare l'egemonia dell'entità collettiva a quella destra cosiddetta
"storica" che, lasciatemelo dire, in termini elettoralistici la sta facendo fruttare veramente bene.
E' tanto difficile capire che il "diritto"; la "legge"; che potenzialmente può tutelare e difendere i deboli sorge NECESSARIAMENTE
solo all'interno di una entità collettiva ("classe" materiale o "popolo" idealistico che sia)? Cioè che sorge necessariamente
all'interno di un potere politico di tipo statuale?
Fin dai tempi sumero-accadici, tanto per riprendere il "film", abbiamo visto che in assenza del potere politico statuale la sola
forma di "legge" che sorge è quella del "contratto" fra privati individui (e che in tal "contratto" la parte contraente forte
prevale), che è null'altro che lo strumento particolare che poi forma quella categoria generale che siamo usi chiamare "Mercato".
Eppure, a sinistra e nelle immediate adiacenze, non c'è stato nessuno che abbia fatto questa elementare considerazione...
Perchè? In estrema sintesi (poi se qualcuno è interessato posso riprendere il discorso) perchè la sinistra ha assunto il dogma,
l'articolo di fede liberale, secondo cui basta "lasciar fare" al mercato (tanto una miracolosa "mano invisibile" interverrà
per mettere tutto a posto, come nelle parole del Reverendo Adam Smith...).
Per concludere, vorrei dire ad Anthony che, personalmente, su Marx la penso in maniera opposta.
Per me non fu un grande pensatore sociale. Nel rapporto struttura-sovrastruttura, ad esempio, egli diede un'interpretazione
che trovo troppo univoca (anche se, ad onor del vero, definì "in ultima istanza" la determinazione della sovrastruttura da parte
della struttura - ma è, trovo, un'"indebolimento" che non muta troppo la sostanza delle cose).
Viceversa, io penso sia stato un grandissimo economista.
Chiaramente si muoveva ancora all'interno di una economia "classica" (un'economia che non aveva ancora il concetto di valore
economico come valore di scambio), ma certe sue intuizioni sono ancora, fino a prova contraria, inconfutate.
Che dire, ad esempio, della teoria del "plusvalore"? Non spiega forse, essa, le ricorrenti crisi di sovraproduzione
che per il capitalismo sono "struttura" (ieri merci, oggi soldi ma sempre di sovraproduzione si tratta).
Ma non vorrei con questo ridurre questa discussione a una diatriba sul pensiero di Marx...
saluti
#936
Grazie a tutti voi delle gentili ed interessanti risposte.
Chiaramente, l'idea di sovranità nazionale è centrale in questo discorso. Bisogna poi vedere se ancora plausibile è
l'idea di "nazione" così come essa si è venuta a determinare nei secoli passati; plausibile è però certamente l'idea
di sovranità politica; una sovranità che "deve" (...) riprendere il suo posto di guida e di determinazione dei fini
cui l'economia (che, fino a prova contraria, è lo studio dei mezzi più efficaci per raggiungere uno scopo politicamente
dato) è chiamata a condurre.
In altre parole, trovo necessario che sia di nuovo la politica a determinare l'economia, non il contrario come sta adesso
invece verificandosi.
Per passare ad altro, non sono molto d'accordo con l'amico Anthony laddove egli squalifica Marx (non parlerei di "marxismo",
che è stata l'applicazione politica e, soprattutto, "totalitaria" del pensiero di Marx) a "versione del pensiero di sinistra".
A parer mio, Marx è stato l'unico grande pensatore della sinistra; una sinistra che, semmai, non ha mai saputo "storicizzarlo",
e sviluppare le sue teorie alla luce dei mutamenti nell'economia e nella società.
Dico "storicizzarlo" proprio per evidenziare particolarmente un aspetto del pensiero di Marx che gli epigoni non hanno
compreso. Egli parlò infatti del materialismo definendolo come "storico", mentre i successori troppo spesso hanno inteso
la teoria marxiana come "scientifica", arrivando in tal modo a risultati concreti davvero sconcertanti.
A tal proposito, devo dire che certe teorie politiche di Marx sono state davvero molto discutibili. La sua statura di politico
non avvicinava neppure da lontano quella da economista; campo nel quale è stato, ritengo, davvero geniale.
Quindi lasciamo perdere, ad esempio, la "dittatura del proletariato" quale fase transitoria verso il "paradiso" rappresentato
dall'anarchismo assoluto del comunismo, e concentriamoci sul Marx economista.
La domanda che dovremmo porci ritengo sia sostanzialmente questa: può una teoria autenticamente di sinistra fare a meno della
devastante critica che Marx ha portato al capitalismo (una critica, per certi versi, ancora inconfutata)?
A parer mio non lo può, naturalmente a meno di perdere ogni sua caratterizzazione "di sinistra"...
In realtà qualcuno ci ha provato, e molto seriamente. Ad esempio Anthony Giddens, padre del "blairismo", nella fondamentale
opera: "Capitalismo e teoria sociale".
In essa (che fra l'altro consiglio caldamente a chi voglia veramente capire cosa e come la sinistra contemporanea sia diventata
quello che è), l'acuto pensatore inglese individua proprio in quel "a ciascuno secondo i suoi bisogni; da ciascuno secondo le sue
capacità" l'essenza del problema (come anche l'amico Viator sottolinea).
La risposta di Giddens è radicale: la sinistra contemporanea deve rigettare quel principio ed abbracciare il "merito" individuale.
Senonchè, quell'abbraccio è stato, per così dire, "mortale". Ed ha portato la sinistra europea intera ad assumere posizioni
politiche ancor più liberali (e dunque liberiste, perchè il liberismo altro non è se non la "libertà" declinata economicamente)
di quelle della destra.
Si poteva fare diversamente? Forse sì, ed il "come" farlo mi sembra di poterlo individuare proprio nel concetto di "identità"; di
"popolo" e dunque di sovranità politica.
Ma la sinistra non ha proprio "visto" questa strada, ritenendo (e, intendiamoci, non completamente a torto) quelle categorie
come patrimonio ed esclusiva della "destra storica".
Dunque miopia politica ed estremismo concettuale non hanno permesso alla sinistra di poter individuare una via d'uscita diversa.
Questa è, seppur in estrema sintesi, la mia opinione.
saluti
#937
Ciao Phil, e grazie per avermi risposto.
Per me (per la mia pratica discorsiva, direbbero i semiologi), non si tratta di "riavvolgere la bobina della storia". Ritengo, anzi,
che coloro che vedono la storia come una marcia incessante nella quale non vi è mai un "ritorno" abbiano, in ultima istanza (direbbe
Marx...), una visione della storia orientata ad un finalismo di chiaro stampo metafisico.
No, credo che la storia offra sempre e solo "eterni ritorni" (anche se, chiaro, mai nelle stesse identiche modalità).
Da questo punto di vista, io vedo la contemporaneità come uno scontro fra l'individuo e l'entità collettiva (con il primo che,
almeno per il momento, risulta vincitore), ove con questo secondo termine io intendo "qualsiasi" entità collettiva; sia essa un
partito politico, un sindacato, uno stato, una religione.
L'individuo porta necessariamente al "mercato", cioè allo strumento più efficace nel dirimerne le controversie con gli altri
individui. Con l'emergere dell'individuo, è ineludibile che il Mercato (lo scrivo in maiuscolo in quanto per me esso ha assunto
una vera e propria portata ontologica) vada a riempire sempre più ogni spazio che prima era deputato all'entità collettiva.
Per cui non fa meraviglia che, letteralmente, vadano scomparendo i partiti politici (sostituiti da una sempre maggiore
personalizzazione della politica); i sindacati; gli stati; persino le religioni (il declino della religione è dovuto, a parer mio,
più all'emergere dell'individuo che non ad una supposta e tutta da dimostrare de-sacralizzazione).
In questo quadro, che ho molto sommariamente e molto semplicisticamente tracciato, la MIA entità collettiva, la "classe", ha
mostrato gravissimi limiti di attuabilità politica, sovrastata da altre entità collettive, quali appunto la nazione, il popolo,
etc.
Marx capi' perfettamente che un "diritto" (inteso come corpus normativo) può sorgere solo ed esclusivamente all'interno di un
gruppo socialmente omogeneo (tant'è che promosse la "dittatura del proletariato"), ma tutto questo è rimasto solo nelle
intenzioni e nella teoria, visto che già con Lenin (poi, macroscopicamente, con Stalin) cominciò ad emergere il "popolo"; la
"patria"; con tutto quel corollario di categorie filosofico-politiche che più estranee al marxismo non potrebbero essere...
Oggi come ieri e più che mai, il "diritto" può sorgere solamente all'interno di una entità collettiva. E, abbiamo visto, la
sola entità collettiva possibile è lo "stato", che si fonda sul popolo e sulle sue tradizioni culturali e religiose (dunque
non sulla "classe", che io avevo invece reputato possibile).
Dunque è per realismo politico che io ho deciso di guardare con simpatia a quelle forze che si rifanno all'identità culturale
e che vengono dette "populiste" (e dico questo pur non condividendone affatto moltissimi aspetti).
La sola alternativa possibile è stare dalla parte delle forze che sostengono il Mercato e il contrattualismo spinto che ne è
a fondamento; cosa che per me non è neanche pensabile.
saluti
#938
Dopo anni (anzi, ahimè dopo decenni...) passati nella militanza attiva in partiti della sinistra (cosidetta "estrema"), e dopo qualche anno di
riflessione "sabbatica", sono arrivato alla conclusione di non potermi più dire "di sinistra".
Sono ancora dalla parte dei più deboli, delle categorie più svantaggiate, degli operai, dei precari, dei pensionati al minimo etc. Il mio "problema",
se così vogliamo chiamarlo, è che non vedo più, nel frastagliato ed ormai ridotto ai minimi termini arcipelago della sinistra, nessuno in grado di
prendere le difese di suddette categorie.
Ma la faccenda è, per me, molto ma molto più grave, visto che sono arrivato a pensare che le suddette categorie non siano più difendibili con la
stessa teoria politica della sinistra: la sinistra, in altre parole, ha per me fallito "storicamente".
Non sto tanto parlando della situazione politica della sinistra nella stretta attualità (che è miserevole a dir poco); sto parlando della stessa
impalcatura "marxiana" della sinistra storica, che nell'attualità sta dimostrandosi totalmente avulsa dalle dinamiche sociali ed economiche in atto.
Il tentativo di Marx (che fino a prova contraria è stato l'unico pensatore "serio" in tutta la storia della sinistra...) di arginare il già montante
individualismo cercando di "surrogare" l'entità collettiva ideologica chiamata "popolo" con la medesima entità collettiva (ma materiale) chiamata
"classe" è fallito laddove il vincolo culturale della tradizione; della religione e financo del "sangue" si è mostrato ben più forte del vincolo
materiale ipotizzato da Marx.
Ciò che è fallita è, in altre parole, la costruzione di una "coscienza di classe"; ma questo, lungi dall'essere un particolare di poco conto, vuol
dire che è fallita la stessa sinistra che sul pensiero di Marx si è fondata.
Non meravigli, dunque, che oggi la sinistra si barcameni fra i liberisti del Partito Democratico (i quali, perlomeno, hanno almeno il buon gusto di
rifiutare l'etichetta di "partito di sinistra"); i liberali di Piero Grasso, ormai totalmente impegnati nella difesa delle libertà classiche dell'
individualismo di matrice anglosassone, e vari gruppuscoli insignificanti nel momento in cui mancano totalmente di una qualsiasi, e seppur debolissima,
analisi del reale (e Marx proprio sull'analisi del reale fondò tutta la sua teoria).
A parer mio, chi come ha coltivato e condiviso quelle tesi e quei valori si deve arrendere al seguente argomento: per opporsi efficacemente all'
individualismo mercatistico oggi dominante ci si deve rivolgere a quella entità collettiva chiamata "popolo".
Fuori dall'entità collettiva chiamata "popolo", vi può essere solo l'individuo, e quindi quel "contrattualismo" che dei rapporti fra gli individui è
la forma più efficace: vi può cioè essere solo il Mercato, ovvero l'odierna ed estrema forma che il capitalismo classico ha assunto.
Si rende dunque necessaria una ripresa "identitaria"; una ripresa del concetto di "nazione"; perchè quel "diritto" che, solo, può arginare il Mercato
e tutelare le classi svantaggiate, può sorgere solo ed esclusivamente all'interno di una entità collettiva culturalmente omogenea.
saluti
#939
Tematiche Culturali e Sociali / Re:Capitalismo
28 Febbraio 2018, 20:10:07 PM
Beh, si vogliono mutare i principi costituzionali in nome di una attualità storica che con essi confligge esattamente come, tanto per ripetere
l'anedotto da me spesso citato, l'usurpatore accusa quello che, fino ad allora, era stato il legittimo sovrano di aver tradito il "mandato celeste".
Il qual "mandato celeste" ora legittimerebbe proprio lui, l'usurpatore (guarda un pò...).
Quindi no, non mi pare sia cambiata la regola sintattica: in ogni tempo e in ogni luogo chi comanda cerca una legittimazione "superiore" al suo
dominio. Cerca cioè "autorevolezza"; cerca di essere "autorità"; perchè in fondo teme molto che appaia l'"oggetto originario" (o almeno quello che
a me pare l'oggetto originario) del proprio potere. E' secondario che questa supposta autorità sia fondata sulla divinità o su una pseudo-scienza
assunta in maniera assiomatica come l'odierna...
Come ho spesso detto, a parer mio questo "oggetto originario" è la volontà di potenza (o la ricerca del proprio utile, che a mio parere è lo stesso).
Naturalmente, la catena segnica degli interpretanti ha poi dato svariatissimi (e, dicevo, ben faticosamente ricostruibili) significati a quell'oggetto
originario. E non da sottovalutare è comunque il fatto che molti semiologi (come ad esempio U.Eco) ritengano l'oggetto originario, in definitiva, come
non-esistente affatto (in Eco la verità è: "ciò che si dice").
Ecco, la prima interpretazione del primo interpretante è stata, a parer mio, la dichiarazione circa la sacralità del potere politico. Se riteniamo
vero ciò che disse Eco (il quale a mio parere disse questo per provocazione, ma non divaghiamo...) la verità è quella; e successivamente è stato
vero tutto quel che è stato detto, fino ad arrivare alla verità costituita dalla odierna scientificità ed efficienza dell'economia capitalistica.
Ma per me che ragiono, diciamo così, in maniera "kantiana" quell'oggetto originario è esistito ed esiste eccome (pur nella sua inconoscibilità
ultima, perchè è vero che già il pensarlo è interpretarlo), e quella prima e forzata interpretazione ne ha poi condizionato tutte le successive.
Evidentissima, a mio avviso, è quella radicale derivazione dai concetti di "mano invisibile"; di ordine spontaneo "giusto" e di equilibrio perfetto
dei mercati: non occorre certo essere aquile per vederne la chiara derivazione metafisica...
Come Severino, io penso sia necessario riconoscere nitidamente la nullità originaria del sacro (a meno che non si sia credenti, ma questo è tutto
un altro discorso), per riconoscere, poi, altrettanto nitidamente come quella prima interpretazione (il carattere sacrale dato al potere politico)
ne condizioni e ne renda arbitrarie tutte le successive.
saluti
#940
Tematiche Culturali e Sociali / Re:Capitalismo
25 Febbraio 2018, 11:30:42 AM
Trovo che, a questo punto, tutti noi che partecipiamo a questa discussione dovremmo chiederci: cosa voglio dire con tutto ciò?
Secondo me non è mai avvenuto un "disancoramento" totale della physis dal nomos. Sicuramentte c'è stato "spostamento", ma il nomos sacrale
è rimasto sempre ben vivo e presente, tant'è che stiamo appunto parlando di una sacralizzazione inconscia delle dinamiche capitalistiche.
Platone, come interprete del "vecchio ordine", influenza in maniera determinante S.Agostino; il quale è a fondamento (attraverso il basilare
passaggio del Francescanesimo) di quella distinzione fra "ratio" e "fides" che segna, prima, la nascita della filosofia anglosassone, poi
l'avvento della Riforma Protestante.
Specularmente, è Aristotele a fornire la base a Tommaso d'Aquino e a ripercuotersi in maniera assolutamente "forte" nel pensiero dell'odierno
Cattolicesimo. Dunque Platone come "padre" della forma-mentis anglosassone e Aristotele di quella latina?
Tutto ciò è paradossale quanto si vuole, ma le dinamiche a me paiono queste. E dimostrano un "intreccio" fra eventi storici e forma del pensiero
che, davvero, possiamo ricostruire solo parzialmente e con grande fatica.
Che dire poi del problema dell'"essere" (cui mi pare tu accenni di sfuggita)? Esso è forse il problema metafisico per eccellenza, ed è stato forse
risolto in qualche modo? Lo stesso Nietzsche ci avverte che neppure il linguaggio, fuori dall'essere, sarebbe possibile ("nell'eterno fluire
delle cose, di nulla potremmo dire che è").
Dunque, tornando alla domanda iniziale, per quanto mi comcerne quello che voglio dire è che QUESTO capitalismo (omettendo che, per me, sarebbe
opportuno parlare di mercatismo) sta sempre più assumendo i contorni di un vero e proprio fondamentalismo religioso.
E' proprio l'inconsapevolezza circa le dinamiche che abbiamo analizzato (e sulle quali mi sembra ci sia un sostanziale accordo) a rendere possibile
questa pericolosissima deriva.
Lungi da me la proposta di un sistema alternativo al capitalismo. Io penso non sia possibile una "rivoluzione"; ma sia possibile, attraverso l'analisi
teoretica e, vorrei dire soprattutto, attraverso la presa di coscienza pratica, rendersi conto di certe incongruenze di fondo, di certe gravissime
contraddizioni cui porta l'assorbimento acritico, dogmatico, assolutamente non-pragmatico (laddove invece si pretenderebbe fosse l'atteggiamento
pragmatico a guidarci) di certe teorie.
Ciò che sta avvendendo non è e non può considerarsi definitivo (o altrimenti ricadremmo anche noi nella medesima visione finalistica, sacralizzante e
direi escatologica che, invece, stiamo cercando di portare alla luce).
Fin dai tempi di Babilonia, all'indebolirsi del vincolo comunitario è corrisposto l'emergere dell'individuo, e quindi della forma contrattualistica
che ne regola il rapporto con gli altri individui. Ma poi quel vincolo è tornato, e con esso è tornata la sacralità del "nomos" comunitario.
Lungi dal darne un giudizio positivo di valore, la comunità è l'unico "antidoto" al potere dell'individuo. Quale comunità?
Non ho ben compreso di cosa consista quella "comunità di amici" di cui parla l'amico Green Demetr. Per me la comunità è essenzialmente costituita
da un gruppo di persone che posseggono i medesimi valori e principi di fondo (ed è solo con essi che è poi possibile fondare un "diritto").
Chiaramente, ma non c'è nemmeno bisogno di dirlo, la comunità è esposta al medesimo rischio di diventare un fondamentalismo religioso qualsiasi.
Come? Con il mito del sangue; della "razza"; di una pretesa superiorità sulle "altre" comunità (e qui mi piacerebbe che Green Demetr intervenisse
per chiarire il concetto di "altro", come gli chiedevo in una precedente risposta).
In ogni epoca e in ogni "sistema", il problema fondamentale sorge laddove si pretenda (e quasi sempre lo si pretende) di conoscere la verità; e di
conoscerla assolutamente ed in modo indiscutibile per l'"altro".
saluti
#941
Tematiche Culturali e Sociali / Re:Capitalismo
24 Febbraio 2018, 16:17:59 PM
Citazione di: green demetr il 18 Febbraio 2018, 16:28:46 PM
Credo che ti confondi: per Severino la tecnica, il cui scopo è quello di migliorarsi, è la vera volontà di potenza, infatti si autopotenzia, a scapito dell'uomo.

Dunque la volontà di potenza dell'uomo che tu vedi come problema, in Severino è succube di una potenza più grande.

Al di là del problema della tecnica, che poi diviene il problema dell'inadeguatezza dell'uomo e porta ai deliri, alle fantasie della nuovo cività delle macchine.

Rimane il problema dell'altro, del suo controllo. (a cui mi sembra di conseguenza dovrebbe virare il tuo discorso, se lo volessi approfondire).

Riprendo una tua risposta di qualche giorno fa, che mi era sfuggita e che mi incuriosisce.
Cosa intendi con "problema dell'altro" (e del suo controllo) e, come altrove, "non riconoscimento degli altri"? E come si relaziona questo problema con
quel concetto di "comunità" di cui discutevamo?
In attesa di una tua risposta, faccio qualche considerazione qua e là su quanto scrivi (anche altrove).
La norma è sì teologica, ma solo da un certo punto di vista. Se con "teologica" si intende "assoluta" sì, lo è (in quanto ha validità per tutti).
Teologica dal punto di vista propriamente religioso no, non lo è (in quanto può essere convenzione).
In realtà nel pensiero di Severino vi è una potenza più grande di tutte, e cioè la necessità di rimediare all'angoscia suscitata dal divenire delle
cose. Però una tale considerazione ci rimanda direttamente alla ricerca dell'utile, una ricerca che sotto certi aspetti può definirsi come volontà
di potenza (come spiego nell'ultima mia risposta a Paul11).
Sulla moneta infine vedo che vi riferite (mi pare sia tu che Paul11) spesso ad una produzione sulla base delle riserve aurifere: perchè?
L'attuale produzione non è forse riferita al PIL? Poi, certo, che di fatto si stampi moneta ben oltre il PIL è un altro discorso...
saluti
#942
Tematiche Culturali e Sociali / Re:Capitalismo
23 Febbraio 2018, 14:36:56 PM
Trovo che la disgiunzione del sacro divino dal naturale umano dati ad un'epoca ancora antecedente l'antica Grecia.
Già nei miti mesopotamici (Gilgamesh) o Egizi ritroviamo infatti una divinità che si "sacrifica"; e di cui addirittura l'uomo finisce per cibarsi
(tutto questo sarà poi particolarmente evidente nel Cristianesimo). L'uomo cerca di sanare l'offesa alla divinità; coi sacrifici rituali e col
sacrificio di se stesso: l'uomo è evidentemente "in colpa" per aver profanato in tali modi la divinità, e cerca appunto di espiare questa colpa.
Il sacrifico della divinità permette all'uomo di "vivere da uomo", cioè da semidio (la "comunione" cristiana è appunto l'unione dell'uomo alla
divinità, così come pure la cancellazione del "peccato originale", operata dal sacrificio di Cristo, è la cancellazione dell'animalità dell'uomo
e la sua elevazione a "figlio di Dio").
Ciò che permette all'uomo di "vivere da uomo" è appunto quel sacrificio divino. Con esso, l'originaria "barriera del sacro" è oltrepassata una volta
e per sempre (ogni sua ricostituzione è destinata al fallimento IN QUANTO, con quell'oltrepassamento, è l'uomo stesso ad essere diventato Dio).
Presso quelle culture in cui questa "comunione" dell'uomo e della divinità non è avvenuta o è avvenuta in modi, diciamo, meno espliciti e radicali
la divinità, ponendosi come "assolutamente-altro" dall'uomo, costringe ancora l'uomo in maniera ferrea, appunto impedendogli di "vivere da uomo" (ad
esempio nell'Islamismo).
Trovo che all'ormai millenario processo di emersione dell'individuo non siano estranee queste dinamiche: l'individuo è "monade" e bastevole a se
stesso in quanto divinizzato. E divinizzate sono perciò anche certe sue propensioni: quali?
Dicevo della volontà di potenza come "movente originario", ma la medesima cosa potremmo dire circa la ricerca dell'utile o del piacevole. Ritengo,
anzi, che la ricerca dell'utile e del piacevole non possa essere tanto distintamente disgiunta dalla volontà di potenza (ciò mi porta, in definitiva,
a pensare che anche le persone animate da schietto altruismo abbiano nella volontà di potenza il loro "movente originario").
Tappa fondamentale, per così dire, di questa divinizzazione dell'individuo e delle sue propensioni è stata, naturalmente, la Riforma Protestante
(soprattutto nella sua variante del Calvinismo).
Dunque mi chiedi: "il capitalismo a quale dominio originario appartiene come derivato: al sacro, alla natura o alla cultura?"
La risposta a tal quesito mi è "facile": a tutte e tre; ma non è neanche possibile una loro netta distintione. Il capitalismo appartiene al
sacro in quanto la ricchezza è stata sacralizzata come segno della benevolenza divina; appartiene alla natura in quanto esso fa parte di una naturale
propensione al primeggiare per moltissimi; ed appartiene alla cultura in quanto "tecnica", diciamo, "occidentalmente" intesa.
Date queste premesse, forse il capitalismo "doveva" sorgere, come ben dici.
Ma proprio quel che dicevo a proposito della volontà di potenza come intimamente relazionata al desiderio del piacevole mi offre uno spunto per
riflettere un attimo su quelle che definisci le "pratiche" del capitalismo.
Continuo a pensare che il fatto che non si abbia consapevolezza sulle dinamiche più radicali che reggono l'impalcatura capitalista non impedisca
più di tanto che non se ne abbia una consapevolezza "pratica" proprio circa la loro s-piacevolezza e, in definiva, inutilità.
Occorre forse conoscere la radice assoluta ed originaria del capitalismo per comprendere che, ad esempio, la Embraco chiude lo stabilimento di
Torino per aprirne uno in Slovacchia allo scopo di perseguirne un utile capitalistico maggiore?
Bah, io penso che la gente sia alfabetizzata abbastanza per comprendere che "qualcosa non va" in quelle dinamiche. Poi, certo, capire il "che cosa"
non va è un altro discorso, ben più complesso (ed ancora più complesso è il proporre un modello di sviluppo diverso - cosa di cui neanche mi azzardo...)
Ti chiedo in definitiva: ma perchè voler a tutti i costi ricercare "soluzioni" logiche, razionali, definitive laddove la storia del pensiero ci ha
insegnato che tutto è "finzione", tutto è ideologia, e l'indeterminazione non può quindi che regnare sovrana?
Non ci basta forse "sapere di non sapere"? E se sappiamo di non sapere, cos'altro può restare se non una "scelta"? Una scelta di valore intendo; una
scelta che in definitiva non può che essere irrazionale (ma come tutto lo è necessariamente).
saluti
#943
Tematiche Culturali e Sociali / Re:Capitalismo
21 Febbraio 2018, 20:23:56 PM
Citazione di: paul11 il 18 Febbraio 2018, 16:05:10 PM
ciao Mauro.
Il sacro se si intende relazionato ad un Dio,è più debole visto che pensiamo di essere in una società laica.

Mi è francamente difficile trovare nel tuo ragionamento qualche motivo di dissenso "forte". Per cui mi scuserai se mi limiterò a qualche
osservazione tutto sommato marginale (o ripeterò sostanzialmente le medesime tue tesi, anche se magari da un punto di vista diverso).
Sicuramente un sacro relazionato al Dio della tradizione è (sarebbe...) oggi più debole. Più debole che in passato trovo sia però il relazionarsi
ad un "assoluto" che era ieri quello della religione, e oggi quello di questo dilagante scientismo dimentico di ogni relatività.
Io trovo, insomma, che la volontà di potenza si serva del mercatismo finchè gli fa comodo; ma che sia pronta ad abbandonare capra (mercatismo)
e cavoli (tutte le teorie pseudoscientifiche ad esso connesse) non appena questo comodo cessa.
C'è a tal proposito una tua affermazione che, a mio parere, merita senz'altro un adeguato approfondimento.
Dici: "la volontà di potenza è l'illusione del disincanto dal sacro" (cui segue un'interessante e profonda disquisizione in merito). A mio parere
questo è vero, ma solo da un certo punto di vista.
Mi pare sia stato Heidegger, se ben ricordo, a definire Nietzsche come l'ultimo ed estremo dei metafisici. Ammetto questa definizione come
plausibile, ma non sono così sicuro che essa esaurisca l'argomento.
Mi ricollego ancora a Severino, il quale in una opera del passato (non ricordo quale) definisce la tecnica come il rimedio che l'uomo escogita
contro l'angoscia suscitata dal divenire delle cose (e, sappiamo bene, per Severino tecnica e volontà di potenza coincidono).
Da questo punto di vista evidentemente si: Severino coincide con Heidegger e, mi pare, con te nel considerare la volontà di potenza come il
pensiero di un uomo-Dio che tenta di sovvertire la morte.
Ma, dicevo, questo per me non esaurisce il discorso. Io credo (e temo...) che Nietzsche abbia, per così dire, individuato il "movente originario";
quell'"essere" dell'uomo che anche Heidegger esplicita dopo la cosidetta "svolta".
Guarda, tanto per riportare il discorso "sulla terra", a quanto sta avvenendo nell'economia mondiale. Ciò cui stiamo assistendo non è quel trionfo
del mercatismo che pensatori come F.Fukuyama teorizzavano solo qualche decennio fa (e che sembrava dilagare a seguito della globalizzazione).
Oggi quello che viene definito "interesse nazionale" sta riprendendo piede; e non solo nelle elucubrazioni elementari di qualche gruppuscolo
dell'estrema destra.
Sta riprendendo piede l'identità culturale; il sovranismo; il valore tradizionale e persino quello religioso. Ed essi si stanno riposizionando
evidentemente come forze contrarie (come volontà di potenza contraria) a quelle del mondialismo mercatista della globalizzazione.
Davanti a questa ripresa ideologica, l'ideologia mercatista cerca di organizzarsi riproponendo i sui "sacri dogmi" travestiti da razionalità
economica, ma a me sembra senza troppo successo.
In realtà, io credo, l'ideologia del mercato ha da tempo mostrato i suoi gravi limiti teorici e pratici. E se sui teorici vi è ancora
inconsapevolezza, sui pratici anche il cosiddetto "uomo della strada" (che sarà ignorante ma non cretino) comincia a vederci chiaro.
Quindi ecco, il sacro è oggi debole come forse non mai (o forse come lo è sempre stato...), e la volontà di potenza se ne serve ai suoi scopi,
ammettendo sacri principi finchè fanno comodo, ma per poi rinnegarli in favore di altri e diversi sacri principi...
Esattamente come dicevo a proposito dell'antica Cina, dove l'usurpatore accusava il sovrano deposto di aver tradito il "mandato celeste" (il qual
mandato aveva designato lui come nuovo legittimo sovrano).
saluti
#944
Tematiche Culturali e Sociali / Re:Capitalismo
18 Febbraio 2018, 14:26:12 PM
Citazione di: paul11 il 18 Febbraio 2018, 12:29:24 PM

ciao Mauro.
Stiamo avvicinandoci ai fondamenti.
Von Hayek sbaglia,  non è "lo stato di natura" ciò che argomenta, è una menzogna.





A proposito del "sacro" sono in linea di massima d'accordo, come dicevo in una precedente risposta (non so se ti è sfuggita).
L'unica distinzione che farei è quella circa un "sacro" che io vedo, nella contemporaneità, come debole (il sacro che sempre si ricostituisce manifesta
una sua intrinseca debolezza, come nel pensiero di E.Severino cui accennavo in quella risposta).
Naturalmente la strada da percorrere per arrivare ad una piena consapevolezza della sostanziale nullità del sacro è ancora molto lunga (chiaramente
senza voler con questo darne alcun giudizio di valore, anzi). Ritengo però il processo come già avviato, e gli elementi ed i momenti storici che
mi portano a crederlo sono svariati (ad esempio, dice Camus ne: "L'uomo in rivolta", la decapitazione del Re durante la rivoluzione francese come
la decapitazione dello stesso Dio; o la classica - ed assai malcompresa - nietzschiana "morte di Dio").
Sta di fatto, e ti dò in questo piena ragione, che allo stato attuale delle cose il "sacro" è ancora ben presente.
Sicuramente è presente nel pensiero di Von Hayek, il quale crede di combattere lo "scientismo" ove in verità finisce con l'offrirne uno degli esempi più
estremi. Che dire, inoltre, della sua affermazione (una affermazione che, dicevo, ricorre da secoli nella filosofia anglosassone) per cui le entità
collettive (in definitiva gli arcaici "universali") non esistono? Che vuol dire "non esistono"? Non esiste forse l'influenza della società sull'individuo?
La sacralizzazione che Von Hayek e tutta la filosofia anglosassone fa dell'individuo è poi particolarmente palese nell'idea che essi hanno dello stato. Ma
non mi soffermerò ulteriormente su aspetti dei quali abbiamo sostanzialmente la medesima opinione.
Come nell'antica Cina l'usurpatore denunciava il mancato rispetto del "mandato celeste" da parte del sovrano deposto allo scopo di legittimare la propria
presa del potere, così oggi le elite al potere si servono di una arbitraria e distorta idea di "razionalità scientifica", ammantandosi in tale modo di
una "autorità" che per sua stessa definizione non può che essere "politica".
Detto in altri termini, è la volontà di potenza delle elites dominanti a servirsi "tecnicamente" di una sacralità che è implicita nello stesso concetto
di "autorità".
Questo discorso mi rimanda quindi direttamente al significato che diamo ai termini di volontà di potenza e di tecnica (e qui sono costretto, per non
ripetermi, a rimandarti alla precedente risposta che dicevo).
Tanto per aggiungere qualcosa, dirò che mi sembrerebbe opportuno chiedersi se la volontà di potenza sia un mezzo, uno scopo, o tutti e due
indissolubilmente con-fusi, come nel pensiero di Severino. A parer mio la potenza è, tutto sommato, ancora definibile come uno scopo (sia chiaro
però che, come dicevo, ammetto le buone ragioni di chi ritene questa distinzione non più sussistere). Uno scopo che usa la tecnica come mezzo.
Come dice Severino, oggi il capitalismo (ma io preferisco "mercatismo") è lo strumento più potente di cui la volontà di potenza può servirsi.
Ma perchè lo è? Perchè mai non potrebbero esserlo, ad esempio, le armi nucleari?
In questo preciso punto torna una categoria che a me sembra fondamentale: l'emersione prepotente nella civiltà occidentale dell'individuo.
Un arma nucleare in fondo serve a poco nella contrattazione fra individui (almeno si spera...). A molto serve invece il Mercato così come venuto
a definirsi nella contemporaneità, è evidente.
Lo strapotere del Mercato è allora indissolubilmente legato all'emergere dell'individuo. E ciò vuol dire che il Mercato è lo strumento più
potente di cui la volontà di potenza DELL'individuo può servirsi.
saluti e stima
#945
Tematiche Culturali e Sociali / Re:Capitalismo
18 Febbraio 2018, 11:02:42 AM
Citazione di: paul11 il 17 Febbraio 2018, 18:13:11 PM
So che è un pò ostico l'argomento che ho inserito, ma dovreste chiedervi come mai tutti sono ,almeno a parole, per un
capitalismo quanto meno più umano, intendo anche a chi ha delle redini di comando e non riesce a farne nulla;
come se si avesse un cavallo selvaggio impossibile da domare.
Non bastano le apologie del capitalismo o le sue ideologie antitetiche ,di  essere pro o contro,per dimostrare che è "solo" un problema di volontà.
C'è qualcosa di più profondo quando un sistema organizzato, un modo di procedere è "più forte" di culture che hanno mostrato le contraddizioni sociali, di teorie economiche che avrebbero dovuto guidarla.

Ecco, appunto, a questo quesito è a mio parere possibile rispondere se si considera il Mercato (maiuscolo per sottolinearme la portata di
autentica categoria filosofica) alla luce di ciò che è diventato con il fondamentale pensiero di Von Hayek.
Secondo Von Hayek è il Mercato che fonda ogni relazione che chiamavamo "politica". E' dal Mercato che sorge lo "stato", la legge, ed ogni
organizzazione di tipo collettivo.
Dunque il Mercato che supera il "capitalismo" così come classicamente inteso. Mentre nel capitalismo lo stato aveva un ruolo dirigistico,
nel Mercato è esso stesso che dirige lo stato.
Secondo questa visione, non può esistere un Mercato "più umano", perchè l'umanità non è categoria da potersi applicare "universalmente"
all'interscambio fra individui. Sono essi, semmai, che all'interno del "contratto" che regola il loro rapporti si comportano più o meno
"umanamente", secondo quella che è la loro "natura".
Il Mercato, dunque, come categoria metapolitica, addirittura come dimensione ontologica. Nessun "universale" può applicarsi al Mercato: è
un discorso che viene da lontano. Appunto dalla critica agli "universali" della filosofia anglosassone del tardo medioevo. E non è certo
un caso sia proprio lì, nel mondo anglosassone, che questa forma-mentis si sia sviluppata nei secoli fino a giungere alle attuali, estreme,
conseguenze.
Non capiremo mai il Mercato finchè ragioneremo nei termini di una "volontà" intesa come la "volontà generale" di Rousseau e di quella che
Von Hayek chiamava "filosofia continentale": la volontà anglosassone è la volontà degli individui.
Da questo punto di vista (con il quale, sia chiaro, non simpatizzo affatto) chi ha le "redini di comando" non deve fare assolutamente altro
se non assecondare il "movimento maturale" degli individui (i quali in realtà posseggono, loro, le redini di comando...). Deve in altri
termini (più familiari) "lasciar fare"; liberare da "lacci e lacciuoli" le energie positive che vengono "dal basso"; dall'interscambio fra
gli individui che si concretizza nel "contratto", ovvero nello strumento più efficace nel dirimere e regolare i loro rapporti.
Sulla moneta vorrei dire che, almeno in teoria, la sua produzione dovrebbe avvenire sulla base del PIL (quindi pur sempre sulla base di un
qualcosa di materiale).
Il problema, per come lo vedo io, è che non è più molto chiaro (a dir poco...) cosa si intenda per "produzione".
Una volta si intendeva il "conio". Sulle banconote c'era scritto "pagabile a vista al portatore" sottintendendo che quella banconota era in
ogni momento scambiabile con una merce di ugual "valore" (lasciando per il momento perdere le esatte definizioni di questi termini).
Non credo che, ad esempio, la BCE possa "stampare", o coniare che dir si voglia, quante banconote vuole perchè questo dovrebbe, in teoria,
creare inflazione. Solo che questo problema (mi par di ricordare si chiami "base monetaria" ma non ne sono sicuro) viene facilmente aggirato.
Come? Semplicissimo: "scrivendo" su dei fogli di carta, ad esempio quelli dell'estratto del nostro conto corrente, degli importi...
Insomma (e chiedendo scusa ai lettori per non ricordare più certi termini esatti): non è certo un mistero che alle banche venga concesso
di "muoversi" su importi ben superiori a quello che viene definito "coperto".
Come del resto non è certo un mistero che quando le banche vanno in crisi di insolvenza intervengano gli stati mettendo a debito (pubblico)
i loro ammanchi...
Le banche si stanno muovendo sempre più come soggetti privati; come individui; seguendo in ciò le dinamiche mercatistiche cui prima accennavo.
Sempre più la "garanzia" del deposito effettuato dal risparmio privato è data dalla stessa banca (tralasciando per il momento la "complicazione"
dell'intervento degli stati che prima dicevo).
In questo quadro non deve meravigliare l'avvento delle cosiddette "criptovalute". Seguendo l'individualizzazione (e la conseguente privatizzazione)
di ogni entità collettiva, anche la produzione di denaro avverà verosimilmente sempre più seguendo l'interscambio fra gli individui.
saluti