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Messaggi - Koba

#1
Tematiche Filosofiche / Re: Il filosofo che non sono.
27 Ottobre 2025, 17:26:56 PM
Citazione di: daniele22 il 27 Ottobre 2025, 09:04:40 AM
Da Wp:
"Il noumeno compare anche nella filosofia di Immanuel Kant[7] (dove è anche chiamato cosa in sé, in tedesco Ding an sich). In Kant il noumeno è un concetto dai caratteri problematici che si riferisce a una realtà inconoscibile e indescrivibile che, in qualche modo, si trova "al fondo" dei fenomeni che osserviamo, sullo sfondo, al di là dell'apparenza (di come cioè le cose ci appaiono).
I termini 'noumeno' e 'cosa in sé' non sono in Kant perfettamente sovrapponibili: il noumeno è comunque una rappresentazione o idea della ragione, e come tale risiede nella mente umana; è il modo in cui il pensiero cerca di rappresentare ciò che va oltre la sua capacità di conoscere. La cosa in sé invece è ciò a cui il noumeno si riferisce: è la 'realtà' in quanto esterna alla mente del soggetto, ciò con cui per definizione non si può entrare in alcun rapporto se non tramite il pensiero poiché questo si pone al di là di ogni esperienza possibile".
Io ragiono con la mia testa e quello che ho detto era pure una conseguenza del post in cui dicevi riferendoti a Nietzsche:
"....se Hegel ha portato a termine la dissoluzione dell'oggetto (del realismo ingenuo), ora viene il momento per la decostruzione del polo soggettivo.
Non c'è più un soggetto che pensa il suo oggetto, ma piuttosto un soggetto e un oggetto che emergono insieme nell'ambito di un'attività specifica".
Con tutta la buona volontà, o ti spieghi meglio, oppure faccio fatica a immaginare un'azione "che porti a un "non c'è più un soggetto che pensa il suo oggetto", e vedo inoltre nebbiosa l'immagine di una loro "emersione insieme nell'ambito di un'attività specifica".
Dato quindi che possiedo l'uso della ragione, se Hegel avesse fatto una buona critica a Kant, mi chiedo come mai si siano prodotti in seguito pensieri così astrusi. Di fatto, quello che al limite posso capire è che sia velleitario separare il soggetto dall'oggetto quando il soggetto viva all'interno di ciò che vorrebbe descrivere, la realtà appunto. Posso capire anche che ci si faccia manipolare (instupidire) dall'oggetto (cosa, concetto o persona che sia). Ma è difficile pensare che non vi sia un soggetto pensante. Quello che ho detto non è una fesseria o una ovvietà, e questo fatto del concetto del concetto (sicuramente un problema) l'ha messo in evidenza anche Phil quando mi disse se dovessimo giungere infine a metterci d'accordo su cosa si potesse intendere col termine catastrofe. Prova ora immaginare di aprire un thread dal titolo "Perché la mela è una mela ... astenersi perditempo". O un thread sul noumeno, o sull'amicizia.
Concludendo, io che non sono un filosofo, ma pretenderei di esserlo nei miei limiti, pongo ad altri che pretendano di esserlo questa semplice questione:
Naturalmente, il concetto del concetto genera al più solo confusione, ma non risolve comunque una questione importante.. Che sarebbe, riferendomi alla citazione di cui sopra da Wp ¿vale la pena chiedersi di definire meglio ciò che rende possibile la concezione di "inconoscibilitá" della cosa? O, più direttamente ¿Qual è la natura dell'inconoscibilitá della mela? Se faccio la domanda va da sé che io abbia la mia risposta, ma riterrei opportuno un parere

Quando ho parlato del compito del filosofo non mi riferivo a me naturalmente, ma a autori riconosciuti. Implicitamente mi stavo chiedendo verso quali autori rivolgere la mia attenzione, verso quali orientamenti. Era una specie di riflessione sul "piano di studi" per questo inverno.

Chiarisco ciò che ho scritto sul rapporto soggetto-oggetto.
Alcuni studiosi come Havelock hanno detto: a un certo punto in Grecia emerge la figura di un nuovo sapiente capace di rompere con un rapporto di immedesimazione rispetto a quello che fa, a quello che vive, un nuovo soggetto che inizia a domandarsi la definizione di ciò che prima faceva e basta.
L'emergere quindi nello stesso tempo sia di un soggetto logico che di un oggetto da indagare. Due poli che emergono insieme, quindi.
Nei primi dialoghi platonici si vedono questi ateniesi più o meno noti che vengono "molestati" da Socrate che chiede loro – essendo considerati sapienti in quel determinato settore – che cos'è, per esempio, la santità in generale. Naturalmente la santità in generale prima dell'evoluzione di quel dualismo tra mente e mondo (un modo specifico di interpretare l'esperienza) non è mai esistita. Proprio qui inizia a prendere vita il concetto generale di santità. Cioè la possibilità di definirla. Prima c'era il santo, quel determinato santo, ecc. Non la santità in generale.
Ora, la possibilità di porre quella distanza tra sé e le cose del mondo, secondo Havelock nasce con la scrittura alfabetica. È un effetto materiale e tecnico della scrittura. L'effetto del passaggio da una civiltà orale a una civiltà della scrittura.
Così, secondo alcuni autori, la filosofia di Platone avrebbe come base materiale questo passaggio epocale. La scrittura alfabetica non causa direttamente la nascita del soggetto logico, ma crea le condizioni simboliche e materiali perché tale forma di soggettività emerga. Rende possibile l'astrazione.
Quindi rende possibile anche la riflessione sul metodo e sulla natura del sapere.
Il metodo costruito da Platone è quello della dialettica: saper indagare le idee nelle loro relazioni di somiglianza e differenza. Rispetto a Parmenide dirà: un'idea, una forma, è identica a se stessa, e nello stesso è diversa da tutte le altre. L'essere che Parmenide intendeva come uno, eterno e immobile, diventa con Platone molteplice e ha la struttura di una rete di idee.
Dunque per conoscere la "giustizia", non solo non devo fermarmi a esempi concreti di "uomo giusto", ma non posso nemmeno limitarmi a contemplare l'idea di giustizia: la devo esplorare nelle relazioni che essa ha con tutte le altre.
Fatto questo, stabilito quindi che conoscere significa riuscire a dare una definizione logica, e che la definizione logica consiste nella rappresentazione delle relazioni tra idee, rimane il problema che attraversa tutta la storia della filosofia fino al Novecento: che rapporto c'è tra idea e cosa reale, tra forma generale e cosa sensibile? Cosa c'è in comune tra quella cosa lì e la parola che uso per indicarla?
Problema che ora non può più essere risolto con la fede in un Dio che ha creato il mondo avendo in mente le idee e dando nello stesso tempo alla sua creatura privilegiata, l'uomo, la facoltà naturale di afferrarle.
Problema che in Galileo assume questa versione: Dio ha creato la natura secondo una struttura matematica; l'uomo sa fare matematica. Quindi l'uomo può conoscere la vera struttura del mondo, a patto di seguire il metodo corretto.
Con il collasso dei grandi sistemi metafisici incontriamo per esempio Wittgenstein che cerca di risolvere il problema con la forma logica. L'elemento comune tra concetto e cosa sarebbe la forma logica.
Ammesso che la risposta ci soddisfi, si può chiedere (come hanno fatto alcuni filosofi): ma qual è il contenuto della forma? Proprio il contenuto concreto della forma pura? Non è che questa presunta forma logica pura, questo schematismo, non sia plasmato da qualcosa di più concreto?
Per farla breve: certe ricerche hanno tentato di capire quale sia la base materiale di questo schematismo. Indagini sul costituirsi fisico, pratico della possibilità di significazione del linguaggio. Ricerche su una gestualità originaria, o ricerche secondo cui le lettere dell'alfabeto conserverebbero la traccia di una loro origine figurativa, una stilizzazione di tratti che esprimerebbero immagini e simboli archetipici (Alfred Kallir), ecc.

Venendo infine alla tua domanda "sulla natura dell'inconoscibilità della mela", da quello che ho scritto sopra si potrebbe rispondere che tale inconoscibilità è solo apparente, e legata ai paradossi che vengono dall'emergere di quel dualismo, soggetto da una parte, oggetto dall'altro, e linguaggio come strumento di connessione. Rimanendo all'interno di questa condizione, problematizzandola, salta agli occhi innanzitutto che conoscere la mela significa disporre del suo concetto, ma che tale concetto si definisce a partire da ciò che non è, dalle relazioni con concetti che esprimono ciò che la mela non è. La sua identità rimanda sempre ad altro: e tuttavia è proprio in questo rinvio – in questa rete di differenze – che consiste la possibilità stessa di conoscerla.
#2
Tematiche Filosofiche / Re: Il filosofo che non sono.
26 Ottobre 2025, 14:56:48 PM
Citazione di: daniele22 il 26 Ottobre 2025, 14:14:35 PM
Papale papale. Il compito del filosofo è rispondere alla mia precedente domanda indiretta "mi chiedo come mai Hegel non abbia detto che il noumeno rappresenta il concetto del concetto. Perché si tratta di una fesseria? Perché è un'ovvietà che solo io non conosco? O per quale altro motivo?
Si tratta cioè di rispettare un codice deontologico non scritto a cui dovrebbe attenersi un filosofo che non racconti frottole ben confezionate.. il diavolo veste prada

Ma per "concetto del concetto" che cosa intendi? Una nozione (un concetto) che esprimerebbe la caratteristica generale del concetto? È così?
Se è così non credo che la critica di Hegel vada in quella direzione (per quanto ne so io).
Il "noumeno" è un concetto che vorrebbe rimandare alla realtà in sé, quindi ad una conoscenza (impossibile) che si pone al di là dei meccanismi dell'intelletto. Ma nello stesso tempo è esso stesso un concetto, quindi ancora un prodotto del pensiero. Questo vuol dire che non siamo mai usciti dal pensiero, abbiamo solo immaginato che ci possa essere un'esperienza pura, che infatti abbiamo subito dichiarato come impossibile.
Io quindi posso più o meno risponderti come ho fatto l'ultima volta.

Non ti è venuto in mente di documentarti per conto tuo, risolvere l'enigma e poi metterci al corrente delle conclusioni a cui sei arrivato?
O ti aspetti che qualcuno passi la domenica pomeriggio sui libri così da poterti dire se la tua intuizione è sensata oppure no?
#3
Tematiche Filosofiche / Re: Il filosofo che non sono.
26 Ottobre 2025, 10:28:53 AM
Alla fine le domande filosofiche non possono che suscitare una ricerca che, se rigorosa, si spinge fino al fondamento, all'origine.
Per esempio Cartesio con il suo cogito che senza un Dio garante si perde nei suoi stessi dubbi iperbolici. Deve arrivare fino a Dio, fino alla fede nella natura buona di Dio, per poter uscire dal suo incubo e iniziare a costruire la nuova enciclopedia del sapere.
Si può partire da una semplice domanda attinente una virtù, ma poi da lì – se si prende sul serio il domandare – non si può che essere trascinati al fondamento del sapere. Una definizione di cos'è la generosità ci cattura nel gioco spietato della filosofia. Platone lo ha mostrato in modo esemplare. Se si vuole fare filosofia bisogna rispondere, accettare di andare fino in fondo, non si può dire che va bene A ma anche B e perché no, mettiamoci pure C, tanto per non sbagliare.
E però il fondamento non c'è. Il gioco sta in piedi proprio perché mancando, si è spinti a cercarlo, a definirlo, a esplorarne i confini.
Esempio: il ritorno di Heidegger sul pensiero dell'essere. Per quanto lo si barri, per quanto ci si affatichi a parlarne al di fuori e contro la storia della metafisica, la cosa puzza (o profuma, a seconda dei gusti) di teologia. Inevitabile.
Ma allora qual è esattamente il compito del filosofo?
#4
Alcuni elementi fanno pensare allo gnosticismo (sofferenza della vita, natura aliena, demiurgo maligno o pasticcione, divinità superiori), ma mancano del tutto riferimenti ad un viaggio di ritorno dell'anima...
Allora provo a rispondere: uno gnosticismo senza salvezza + una forma di satanismo senza ribellione (cioè Dio si comporta come un Lucifero melanconico).
Ma no... Rileggendo il testo mi sembra tutt'altra cosa... Mi arrendo.
#5
Tematiche Filosofiche / Re: Il filosofo che non sono.
24 Ottobre 2025, 10:59:38 AM
[Sul fare filosofia e sulla divulgazione]
Io sono convinto che fare filosofia sia essenzialmente stare nella domanda più che conoscere e soppesare le varie risposte che via via i pensatori hanno dato.
Ma certamente una volta capìta a fondo la domanda è inevitabile valutare anche le risposte.
Comunque, una debolezza ricorrente sta nel dare troppo peso alle risposte, fino al punto di trasformare l'analisi di esse in vera e propria disputa.
Per quanto le risposte dividano, c'è pur sempre il lavoro, che può essere svolto in comune, di capire a fondo la domanda.
Penso che una comunità filosofica avrebbe già solo senso dandosi questo obiettivo.
Il problema storico dell'oscurità dei testi di filosofia dipende in parte dalla mancanza da parte dei divulgatori di una comprensione chiara di quello che ho scritto sopra – per cui entrano direttamente nelle risposte, che così sembrano campate in aria, si fa fatica a capire a che cosa rispondano – e in parte dal fatto che chiarire i problemi, riscriverli, tradurli significa esporsi.
E se è difficile che qualcuno si esponga fino in fondo anche in un forum filosofico i cui utenti sono anonimi, figuriamoci nell'ambiente della cultura in cui ciascuno degli attori campa sulla propria reputazione.
È per questo motivo che gli interpreti di un determinato filosofo tendono a ripetere la sua terminologia: per non rischiare di sbagliare. Anche se di solito i critici non dicono: hai sbagliato! Piuttosto: non hai capito la profondità della faccenda, hai semplificato ecc.
Questo timore si scontra però con il dovere di chi fa filosofia, che consiste appunto nell'abitare la domanda e nel renderla abitabile anche ai propri lettori o ascoltatori: quindi nel chiarirla fino in fondo prima a se stessi e poi a tutti gli altri attraverso una ricerca quasi ascetica della migliore espressione possibile e nello stesso tempo senza voler trattenere nulla per sé. Essere generosi, insomma, cosa rara nell'ambiente della cultura.
Quindi, in qualsiasi posto si stia trattando la filosofia (scrivendo un libro, un post, parlando in un'aula scolastica o a un amico), bisogna chiarirsi con onestà se si sta facendo veramente filosofia o se si sta semplicemente facendo un po' di cultura (per paura appunto di esporsi).
#6
Tematiche Filosofiche / Re: Il filosofo che non sono.
23 Ottobre 2025, 17:38:14 PM
Citazione di: daniele22 il 23 Ottobre 2025, 08:03:31 AM
So poco o nulla di storia della filosofia. Ho sempre trovato difficoltà a comprenderne il linguaggio.. troppo sofisticato, troppe distinzioni. Mi è rimasto qualche, ma proprio qualche brandello dai tempi del liceo. Le tre domande kantiane sono buone.
In merito alla tua domanda direi di getto che le esternazioni sul panorama di due persone che viaggiano in automobile dialogando di questo possa dare l'idea dell'attendibilità delle nostre descrizioni. C'è da considerare, allargando per un attimo il campo, il valore del "testimone oculare" nella letteratura giuridica.
Essendomi concentrato più che altro nello "studio sul campo" del linguaggio umano, sarei tuttavia curioso di sapere con quali premesse e come si sia svolto il pensiero che ha messo in crisi la "cosa in sé". Io ci sono giunto attraverso un giudizio sull'inconsistenza del sostantivo (inteso come oggetto grammaticale)
Saluti

La "confutazione" del criticismo svolta dall'idealismo consiste nel mostrare che la nozione della cosa in sé essendo appunto una nozione, cioè pensiero, non può indicare nulla di veramente esterno all'intelletto umano. Dunque si tratta di un elemento aporetico nel sistema.
L'attacco può venire anche – ed è la stessa cosa – sul versante dello schematismo trascendentale con cui Kant cercava infine di collegare esperienza del mondo e concetti dell'intelletto. La debolezza della soluzione dello schema lasciava spazio agli idealisti per lavorare dal suo interno, diciamo così, ad un superamento del criticismo.
#7
Tematiche Filosofiche / Re: Il filosofo che non sono.
23 Ottobre 2025, 17:37:41 PM
Citazione di: iano il 22 Ottobre 2025, 17:46:01 PMDi base c'è una dualità osservatore/ osservato le cui nature si può solo provare a desumere indirettamente dai risultati della loro interazione. Uno di questi risultati è che diversi osservatori interagiscono fra loro, e ciò è possibile se fra i loro solipsismi, mettendosi nella condizione più svantaggiosa, come fossimo nati ieri , privi di qualunque eredità, ci sono fattori comuni, che costituiscono il mondo in cui viviamo, e che impropriamente diciamo realtà, un intersoggettivo  fatto di condivise relatività e di comunicazioni intessute su basi comuni.

Una soluzione è vedere il dualismo tra soggetto e oggetto, tra mente e mondo – da cui viene poi il problema della conoscenza – come l'effetto di una costruzione filosofica specifica, quella della metafisica greca. Che Platone istituisce quando si chiede che cos'è l'universale, l'idea. Abbiamo un albero, questo albero: ma che cos'è l'albero in sé, il concetto di albero?
La conoscenza, l'episteme, è la forma stabile. Il concetto astratto. E conoscere significa sapersi muovere nella rete delle idee che complessivamente costituiscono il sapere.
Da quel momento ecco lo sdoppiamento: il mondo sensibile da una parte, le idee dall'altra. Che poi da Cartesio in poi prende la forma del dualismo mente-mondo.
Dopodiché il problema continuerà ad essere questo (sotto varie forme e sfumature): com'è possibile che le nostre ipotesi dicano qualcosa di vero del mondo? Dov'è il collegamento?
Per essere sicuri che ci sia effettivamente una corrispondenza avremmo bisogno di un terzo punto di vista così da poter confrontare le cose del mondo con le rappresentazioni che di esse ci facciamo.
Uno sguardo panoramico, insomma.
Lo schematismo di Kant. La forma logica di Wittgenstein.
Oppure, anziché tentare di risolvere il problema per come è stato posto per così tanto tempo, fare un'altra mossa e dire: così com'è questo problema non ha senso! Mondo e mente si costituiscono insieme e proprio per questo c'è corrispondenza, un armonioso intreccio: solo quando guardiamo l'uno come l'opposto dell'altro nasce il problema.
Ma se l'uno e l'altro sono due facce della stessa medaglia, allora la parola, nel suo essere segno della cosa, deve avere un'origine naturale, gestuale, diciamo così, non puramente rappresentativa.
#8
Tematiche Filosofiche / Re: Il filosofo che non sono.
22 Ottobre 2025, 15:19:08 PM
Citazione di: iano il 29 Agosto 2025, 16:12:41 PMNon sono un idealista, ne un materialista, ma uso le idee e maneggio la materia.
Toccare la realtà è descriverla con le sensazioni.

C'è un idealismo di base, descritto nei primi tre capitoli della Fenomenologia dello Spirito di Hegel che tutti quanti coloro che vogliono fare filosofia devono attraversare, ed esattamente come voleva Hegel, superare senza che vi sia un rinnegamento semplice.
Si tratta di un passaggio fondamentale della filosofia moderna che complessivamente è ruotata attorno al rapporto soggetto-oggetto, ovvero il problema della conoscenza.
Come possiamo sapere che le nostre descrizioni del mondo siano attendibili?
Dopo la confutazione della dottrina di Kant – una volta mostrato che la nozione di cosa in sé essendo essa stessa nozione non aveva senso mantenere – ecco quello che io chiamo idealismo di base: la realtà viene fin da subito, attraverso i sensi, "tradotta" dai nostri concetti, dal nostro linguaggio.
Di fronte a ciò che mi è estraneo, da ciò che è straniero, il soggetto necessariamente, indipendentemente dalle sue finalità, avanza mediando il nuovo con ciò che già conosce, con la sua cultura.
Questo è un fatto che anche la psicologia cognitiva e le neuroscienze contemporanee attestano. Noi non accogliamo la struttura della realtà ma interpretiamo fin da subito ciò che viene dai sensi. Creiamo continuamente un mondo partendo dalle fragili tracce dei sensi.
Quindi, questo idealismo di base semplicemente non è confutabile.
Ma non va confuso con una concezione solipsistica alla Matrix secondo cui il soggetto crea letteralmente la realtà. Nell'idealismo la realtà non è creata, la materia non è prodotta dall'attività dell'Io, ma viene "incanalata", tradotta, compresa, dalla soggettività fin dall'inizio del processo conoscitivo.
Ma qual'è la debolezza di questo idealismo di base? È il fatto che pur avendo criticato la possibilità che vi sia un oggetto reale, da conoscere per quello che è, l'altro polo della relazione, il soggetto, non è stato indagato sufficientemente.
Qui inizia il lavoro di Nietzsche, seguito poi dalla filosofia del Novecento: se Hegel ha portato a termine la dissoluzione dell'oggetto (del realismo ingenuo), ora viene il momento per la decostruzione del polo soggettivo.
Non c'è più un soggetto che pensa il suo oggetto, ma piuttosto un soggetto e un oggetto che emergono insieme nell'ambito di un'attività specifica.
Poi a partire da qua, cioè dalla dissoluzione del soggetto (altra figura ineludibile per chi voglia fare filosofia – proseguimento necessario all'iniziazione delineata nella Fenomenologia dello Spirito), le soluzioni sono molte, naturalmente.
#9
Dal momento che i mie tentativi di chiarire il tema hanno suscitato ostilità o derisione (ridurrebbero infatti i termini della questione a macchiette da bar sport), mi fermo qua. Fare così tanta fatica per esprimere il problema in modo che sia chiaro a tutti e poi sentire che l'unico risultato ottenuto è quello di banalizzarlo, direi che è un po' troppo...
 
Per quanto riguarda la reazione di Knox, che continua a chiedere della connessione tra teorie e mondo, e che deride i filosofi davanti all'albero mentre gli scienziati preparano la colonizzazione di Marte, ho già fatto notare che c'è una complessa interazione, ma che l'efficacia di un modello non significa che esso rappresenti la realtà.
Un esempio è il modello classico dell'atomismo. Fino a quando funzionava perfettamente la tendenza era quella di immaginarsi la materia proprio come costituita da particelle ordinate secondo la configurazione del sistema solare. Quindi prima delle anomalie, avresti detto: ma il fatto che funzioni così bene vorrà dire qualcosa, sant'Iddio! Non sarà che il modello coglie la stessa configurazione della realtà?
L'accumularsi delle anomalie e lo sviluppo della teoria quantistica dimostrano che no, quel modello non ricostruiva lo stesso ordine presente nella materia, non era la rappresentazione della stessa configurazione. Indipendentemente dai notevoli successi.
Se ancora non hai capito vai a leggerti Bachelard o Kuhn, io qui ho finito.
#10
Citazione di: iano il 18 Ottobre 2025, 12:26:44 PMQuestione ben posta, ma mi sento di dover precisare e aggiungere qualcosa.
Di progressivo credo ci sia solo l'incremento di uso della coscienza, e direi meglio che la conoscenza valga il nostro adattamento alla realtà.
La conoscenza è ciò che ci separa dalla realtà, e questa separazione c'è sempre stata, se possiamo pensare a una conoscenza inconscia che dia conto dei comportamenti istintuali.
La mancanza di coscienza, o meglio la non ammissione di questa separazione, è il realismo, perchè quando la coscienza manca del tutto si è naturalmente realisti.
Il problema è che il realista e il relativista condividono lo stesso grado di coscienza, e ciò comporta per ognuno una difficolta da superare, con maggior fatica credo per il realista, laddove tende a difendere una condizione non più attuale, mentre al relativista rimane di dar conto del perchè la realtà continui ad apparirgli nella sua evidenza.
D'altronde il linguaggio che lo stesso relativista ancora usa ricorda quella condizione di apparente non mediazione, con termini appunto come evidenza.
Al relativista per lo più resta ancora da capire che non c'è nulla da capire, nella misura in cui  lega  ancora la comprensione all'evidenza, ricavando in subordine  evidenze posticce da possibili analogie, finché è possibile trovarle, e senno getta la spugna, lamentando l'indebita invasione della matematica.
La mancanza di questo passaggio è tradita ancora dal chiedersi se l'AI comprenda ciò che dice, per potersi equiparare a quella umana, quando è la non necessità di comprendere che gli ha dato l'abbrivio.
Sì, credo di capire cosa intendi quando scrivi che al relativista "resta da capire che non c'è più niente da capire": cioè che deve liberarsi definitivamente dell'idea di conoscenza come rispecchiamento dell'oggetto.
Però detta così la frase – e tenendo presente anche ciò che dici alla fine del post sulla IA – sembra che tu ritenga che, una volta abbandonata la vecchia idea di "capire", la conoscenza si riduca ad una specie di elaborazione quasi automatica di segni, un gioco senza soggetto, privo di intenzionalità.
È così?
#11
Citazione di: Alberto Knox il 18 Ottobre 2025, 11:36:28 AM[...] Allora il nostro successo nell'aver mandato un astronauta sulla luna e fatto tornare a casa sano è salvo è stato solo un caso fortunato? abbiamo scelto l ordine naturale azzeccato per puro culo? oppure questo fatto , ovvero il successo ottenuto mediante la scienza e la matematica, mette in evidenza una sintonia profonda e significativa tra la mente umana e l organizzazione che sta alla base del mondo naturale?

Stai ripetendo la stessa domanda di qualche post fa.
E la domanda, così come è articolata, continua ad essere sbagliata...
Infatti la domanda presuppone l'indebita identificazione di efficacia e capacità di rappresentare l'oggetto in sé, per cui alla fine, se si rifiuta la soluzione realista, cioè se si rifiuta la corrispondenza tra descrizione e realtà, sembra che ci si trovi nella situazione imbarazzante di dover ammettere la straordinaria fortuna di aver azzeccato la descrizione giusta (tra le infinite possibili) che ci consente di andare sulla Luna.
Ma l'insieme delle conoscenze che hanno permesso l'allunaggio vengono da un immenso lavoro di creazione di modelli e di selezione di essi attraverso l'interazione con il mondo.
#12
Mettiamo che un relativista e un realista stiano passeggiando insieme nel parco e che si fermino davanti ad un albero.

Per il relativista la descrizione che abbiamo dell'albero e che ci viene dalla botanica non dipende dalla realtà, nel senso che i concetti utilizzati per dar conto, per esempio, dell'alimentazione e della respirazione della pianta non vengono da un progressivo adattamento della nostra conoscenza alla realtà.
Il relativista ammette ovviamente che all'esterno ci sia una forza che spinge e con cui noi interagiamo (ciò che chiamiamo appunto "albero"), ma la descrizione che nel corso della storia è emersa dipende dall'evoluzione di concetti, immagini, simboli, interpretazioni, che via via l'uomo ha elaborato stimolato da ciò che c'è là fuori.
Questa descrizione poteva essere quindi anche completamente differente, e nello stesso tempo efficace quanto lo è quella attuale (o meno, o di più). Lo si capisce bene quando nella storia di una disciplina avviene un cambio di paradigma o comunque l'introduzione di un concetto che costringe il ricercatore a guardare lo stesso fenomeno in modo completamente diverso (anche se non ci può mai essere una vera rottura di continuità, ovviamente).

Il realista invece crede che i concetti della botanica siano stati elaborati attraverso un processo di progressivo avvicinamento a ciò che è l'albero. Anche se ammette l'impossibilità di dar conto dell'oggetto in sé, anche se ammette che non può conoscere l'albero se non attraverso concetti, d'altra parte rimane certo che l'oggetto e la rappresentazione hanno qualcosa di realmente simile. Che la rappresentazione sia quindi in grado, per quanto in modo incompleto, di ricostruire la struttura reale dell'oggetto (magari attraverso i suoi fallimenti, attraverso l'esclusione dei tentativi considerati inadeguati).
Ma come può avvenire questo? Se noi siamo sempre dentro al linguaggio, alla cultura, se per noi gli oggetti sono già fin dall'inizio – già a partire dall'esperienza sensoriale – riconosciuti tramite immagini concettuali (che hanno una lunga storia) come possiamo pensare che una nostra costruzione mentale all'improvviso possa varcare questo confine?
Perché ciò che distingue il realista dal relativista è proprio la fede di poter varcare questo confine.
Ciò che li distingue non è – lo ripeto – la convinzione che ci sia qualcosa là fuori che esercita una pressione sul nostro sguardo, che il relativista ammette senza problemi.
Ma sembra che questo aspetto – l'ammissione dell'esistenza della realtà da parte del relativismo – non sia capito nemmeno da tanti filosofi di professione (basta leggere l'articolo proposto da Phil), che quindi sentono di doverlo correggere attraverso il recupero del reale. Sembra che non siano in grado di capire che non è quello il punto. Il punto è la possibilità o meno dello sconfinamento di cui ho parlato sopra.

ps.: la conclusione "democristiana" dell'articolo – per altro scritto bene e ben documentato – è irricevibile.
#13
Certamente noi, essendo parte della natura, siamo interconnessi con il mondo.
Le differenze filosofiche dipendono da come questa interazione viene interpretata.
Il punto di vista realista alla Putnam non è conciliabile con il relativismo alla Rorty perché il primo sostiene che nell'interazione tra uomo e natura (interazione che da luogo alla conoscenza) il gioco in ultimo è nella mani della natura (il vincolo ontologico: è la struttura della realtà a decidere infine ciò che è più vero), mentre nel relativismo l'interazione è guidata dalla cultura.
In entrambi i punti di vista c'è la consapevolezza che lo scambio tra il soggetto e ciò che c'è là fuori è continuo e complesso. Così come l'interazione tra il soggetto e la sua cultura.
Ma il relativismo ritiene che lo sforzo conoscitivo di adattamento alla realtà non possa essere pensato nei termini di una riproduzione concettuale di ciò che è la struttura della realtà.
Se così fosse bisognerebbe saper rispondere alla domanda: cosa c'è di comune tra le parole e le cose che permette alle parole di rappresentare adeguatamente le cose?
Per il Wittgenstein del Tractatus è la forma logica. La frase e il fenomeno che viene descritto nella frase avrebbero in comune la forma logica. Che rimane però un concetto misterioso. Da questa aporia il passaggio quindi alle Ricerche filosofiche e ai giochi linguistici.
Ma se non c'è una forma logica comune che garantisce la rappresentazione, allora non c'è nemmeno bisogno di pensare la conoscenza come specchio del mondo (Rorty). Il linguaggio non riproduce la realtà, ma fa parte di essa; la verità è un prodotto della conversazione, non un riflesso dell'essere.

Quindi, tonando alla domanda di Knox ("è davvero così irragionevole supporre che potrebbe essere inevitabile che esseri biologici scaturiti da un ordine cosmico debbano poi riflettere quell'ordine nelle loro facoltà conoscitive?"), la mia risposta (più in linea con Rorty che con Putnam) è che bisogna stare attenti a non confondere le facoltà conoscitive modellate dalla nostra evoluzione con i contenuti di esse. Per quanto non sia irragionevole immaginarsi un rispecchiamento (e infatti la metafisica lo ha fatto), d'altra parte il sostenerlo significa andare a cozzare con la filosofia degli ultimi 200 anni che è stata una lenta e organica confutazione di quell'immagine.
#14
Citazione di: Alberto Knox il 16 Ottobre 2025, 23:36:55 PMSto dicendo che la conoscenza passa necessariamente attraverso il pensiero , pensiero inteso come schemi concettuali . C'è un esempio che ho già fatto più di una volta sul forum, quello della luna. Dire che "sulla luna ci sono montagne alte 4000 metri" sembra una conoscenza, un fatto puro e semplice che non dipende dal nostro pensiero , ma potremmo sapere che sulla luna ci sono montagne alte 4000 metri se non avessimo il concetto di luna, di montagna e di altezza? Non voglio confondere l'ontologia con l'epistemologia , quello che c'è ( e non dipende da schemi concettuali) e quello che sappiamo (che dipende da schemi concettuali).
Se la conoscenza fosse solo  intrinsecamente costruzione , non c'è allora differenza di principio tra il fatto che noi conosciamo l oggetto A e il fatto che noi lo costruiamo e non ci sarebbe più alcuna differenza tra il fatto che ci sia un oggetto A e il fatto che noi conosciamo l oggetto A . E questo sì che sarebbe davvero difficilmente sostenibile.
Non è poi così difficile gridare che "Il Re è nudo!" (cioè l' oggetto A) non è affatto vestito dalla fitta veste di schemi concettuali con cui la costruiamo per ottenere una conoscenza . Ma sta di fatto che il nostro rapporto col mondo passa necessariamente anche attraverso gli schemi concettuali.

Adesso ho capito. La posizione da te espressa è simile a quella di Hilary Putnam, che lui chiamava "realismo interno".
In pratica, nel realismo interno si ammette che nel processo conoscitivo le descrizioni della realtà dipendano dai nostri concetti; ma, nello stesso tempo, si sostiene che la bontà di tali descrizioni – la possibilità cioè di giudicare quali siano le migliori – derivi da un vincolo ontologico: non tutte le descrizioni si adattano bene alla realtà.

Nel relativismo critico, invece, la differenza tra le descrizioni (e quindi la possibilità di stabilire quale sia quella più "vera") non dipende da un vincolo ontologico, bensì da un vincolo culturale: dalle pratiche discorsive, dai contesti storici, dalle convenzioni che ne hanno determinato il senso.

Nel tuo esempio sulla conoscenza delle montagne della Luna, la differenza tra le due posizioni si può rendere così:

a) Realismo interno: ciò che c'è "là fuori" si esprime meglio attraverso il concetto di altitudine, perché tale concetto – insieme agli altri che appartengono allo stesso quadro descrittivo del mondo – si adatta meglio al reale. La precisione della descrizione nasce da una lunga storia di ipotesi e di creazione di concetti, ma il suo successo dipende alla fine dalla capacità di aderire alla realtà. Senza questo vincolo ontologico non potremmo più parlare di realismo.
Putnam fa l'esempio delle torte: la pasta è la realtà "bruta"; le forme di metallo che la contengono sono i nostri concetti, le nostre descrizioni. Ma non tutte le forme sono adatte a ottenere torte: possiamo essere creativi fino a un certo punto, perché esistono vincoli legati alla natura stessa della pasta che non possiamo ignorare.

b) Relativismo critico: non c'è nessun vincolo ontologico. I concetti di altitudine, montagna, satellite naturale costituiscono una descrizione privilegiata solo perché coerente con una storia culturale complessa, nella quale hanno assunto progressivamente un ruolo centrale. L'interpretazione di ciò che c'è "là fuori" in termini di rilievi e avvallamenti ha senso solo entro una cultura che, nel corso della sua storia, ha sviluppato una predilezione per questo tipo di descrizioni morfologiche, rendendo per noi "naturali" tali concetti.

A questo punto, però, non molliamo il relativista e gli chiediamo: ma ci sarà pure un motivo per cui, nell'evoluzione culturale, si è data priorità alla descrizione morfologica piuttosto che, ad esempio, a mappe olfattive o a trame simboliche?
Da qui può prendere tre strade:
a) avvicinarsi a Putnam, ammettendo che esistano vincoli imposti dal reale;
b) riproporre una versione di Kant, sostenendo che tale priorità dipende da caratteristiche neurobiologiche proprie di homo sapiens;
c) oppure insistere nel suo relativismo e spiegare che si tratta comunque di un lungo processo di elaborazione culturale, un lavoro creativo che, partendo da visioni inizialmente arbitrarie, giunge a descrizioni via via più sofisticate e operative; ma questo non toglie che un'altra cultura, con concetti completamente diversi, avrebbe potuto ottenere lo stesso successo.
#15
Citazione di: Alberto Knox il 16 Ottobre 2025, 12:53:38 PMrientro in carreggiata:
la razionalità del reale costituisce infatti la faccia visibile del logos, ma ne esiste anche una faccia nascosta la cui visione disvela la realtà del razionale , secondo il noto aforisma di Hegel (ciò che è reale è anche razionale) . La giustificazione teorica di questa assunzione ( e quindi dell esistenza di enti di ragione) sta nell osservazione che ci sono verità che si possono conoscere con il solo pensiero. Altrimenti dire che "non ci sono verità che si possono conoscere con il solo pensiero" sarebbe già una verità che si può conoscere con il solo pensiero.  Questo argomento ha come implicazione e mostra che la logica è sufficiente a dedurre l esistenza di verità indipendenti dall esperienza , e costituisce il punto di partenza di un indagine conoscitiva complementare alla scienza. Daltro canto così è stato per una parte eccellente della scienza contemporanea , dalla relatività generale di Einstein alla meccanica quantistica relativistica di Dirac , i cui risultati sono stati ottenuti con analisi puramente logiche, ispirate da considerazioni metafisiche sulla natura ed esteitche sulla matematica . Per quanto  possa apparire irragionevole , l efficacia della logica offre l ultima ancora di salvezza al sapere, e si fonda sulla constatazione che tutto ciò che possiamo conoscere dell universo deve comunque adattarsi al nostro pensiero.

Il fatto che il pensiero puro possa costruire conoscenze senza l'apporto diretto di osservazioni o dati empirici non dimostra che la realtà sia razionale, ma soltanto che la realtà viene letta anche attraverso i linguaggi della logica e della matematica.
Il successo di una teoria scientifica — che vale sempre a tempo determinato, fino a quando non verrà falsificata — non prova che la realtà sia come quella teoria la descrive.

In apertura del tuo post hai citato Hegel sul rapporto tra reale e razionale: ma per Hegel non esistono da una parte la realtà e dall'altra il logos umano, bensì soltanto la realtà pensata.

Poi però sembri tornare a un razionalismo classico, riaprendo la questione del rapporto tra mondo e logos, e suggerendo che le conoscenze provenienti dall'intuizione pura possano dirci qualcosa sulla struttura stessa del reale. Ma così si passa dal piano epistemologico a quello ontologico, compiendo uno sconfinamento che presuppone una concezione filosofica — razionalista e realista — propria di un pensiero pre-hegeliano, oggi difficilmente sostenibile.