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Messaggi - johannes

#1
Tematiche Filosofiche / Re:I postulanti dell'Assoluto
19 Settembre 2020, 13:59:56 PM
Citazionecome se ancora non ci fosse stata la filosofia analitica, la scienza del novecento, il postmoderno, etc. il che, non volermene, ho già ampiamente argomentato e ripetuto parlando con altri utenti

Be', mi concederai che più che una postulazione (e men che meno di quale che sia assoluto) di senso e riferimenti specifici, la tua sembrerebbe rivelarsi essere una inequivocabile dichiarazione di fin de non recevoir, e per tale non posso quindi che accoglierla astenendomi da ogni possibile inutile replica. Pazienza! Non senza però prima ringraziarti di avermi data tra l'altro occasione di ricordare - e forse indirettamente di risponderti in merito al significato metafisico della negazione (sulla traccia dell'annoso problema dialettico dell'uno e dei molti) - quanto ahimè anch'io (non tu, ci mancherebbe!) devo ad un certo stoico ramingo sefardita e scomunicato ottico olandese (omnis determinatio... ecc. ecc.).
#2
Tematiche Filosofiche / Re:I postulanti dell'Assoluto
18 Settembre 2020, 18:57:15 PM

Citazioneindugiare nel (cercare di) dipanare il fondamento ontologico, come dimostra proprio Heidegger, ostacola la fondazione di un'etica che sappia tradursi in prassi

Anche parlando di prassi linguistica, di etica del discorso, la citazione da SuZ credo riesca a dimostrare l'esatto opposto: è la preoccupazione (autentica) di indagare il fondamento a chiarificare le articolazioni della struttura etica solo presupposte (e rimosse) nel commercio geloso e ciarliero del "Si"; il quale può anche non essere affatto "frivolo", come p. es. nel caso di certe schermaglie accademiche per l'ottenimento di un'eccellenza scientifica esclusiva. Il convito dei pensatori essenziali mantiene invece i dialoganti sullo sfondo di una medesima intenzionalità maieutica (che presuppone quindi una metanoia parificante e vicendevolmente dinamica), costituendone una koiné di commensurazione reciproca. Quindi prassi autentica ("con-essere avente cura degli altri", "essere-assieme autentico") nel senso pregnante di praticabilità del confronto; autenticando nella decisione la determinazione ontologica fondamentale dell'esserci, la Sorge, che è modalità comunque e sempre costituzionalmente pratica dell'attuarsi della vita umana, sebbene ad un livello inferiore il se-Stesso si trovi nel mero esser-presso l'utilizzabile prendente cura.

Mutatis mutandis anche Platone - altro pensatore "essenziale" nel lessico heideggeriano - parla nella Repubblica di un principio anipotetico che, assunto in traccia come criterio, distingue il procedere autenticamente dialettico (filosofico) da quello meramente argomentativo che, senza passare per la confutazione delle ipotesi, le assume come vero principio per poi procedere deduttivamente verso una conclusione inverificata ("kairologica"?). Il principio anipotetico, autenticamente epistematico, è il principio del tutto che mette in questione le ipotesi ponendole dialetticamente in tensione (così l'Aristotele del "procedimento elenctico", di cui Heidegger è acclarato debitore) onde affermare e negare secondo verità.

CitazioneWirkungsgeschichte [...] l'agognata "normatività metaetica a base ontologica" è assente

Dubito che Gadamer avrebbe potuto parlare di storia degli effetti di un testo a prescindere dalla chiarificazione ontologica della struttura della precomprensione compiuta da Heidegger (che quindi ha tutt'altro che impedita), intesa esplicitamente a liberare il circolo ermeneutico dalla sua viziosità irriflessa (cattiva infinità), i.e. dalla sua inautenticità. La struttura ontologica della finitezza importa una finalità ermeneutica solo a patto di coglierne la tensione (o facies) costitutivamente "ascendente" (giusto il criterio assiologico del mitologema descritto anche nel mito platonico della caverna); all'opposto, l'intento di enuclearne la sostanza in certa "storicità pura del comprendere", seguirne cioè negli effetti centrifughi la sua ricaduta negativa, opaco-discendente, non può che infrangere l'ethos in una incommensurabilità insanabile, che se intende ricostituire in negativo l'interferenza produttiva della koiné maieutica perduta variandola di segno, può farlo solo nella potenzialità dinamica di un progressivo avvicendamento sostitutivo e aleatorio, "c(h)orale" (cit.), dei molteplici "ethoi/logoi" (come difatti la matrice di certa teoresi da Deleuze a Derrida, da Sini ad Agamben - sulla scorta della ricerca di una trasvalutazione/trasfigurazione della dialettica storica marxista - credo variamente dimostri). Tornerebbe a proposito ancora il Sofista platonico...

Sull'Heidegger "nichilista" ci sarebbe molto da dire, vuoi perché egli stesso scrive che "l'essenza del nichilismo non contiene nulla di negativo, della specie di quel distruttivo che ha la sua sede nelle convinzioni umane e si aggira nell'agire umano"; vuoi perché Severino stesso dimostrò, suffragato ora si sa dall'allora segreto beneplacito dello stesso Heidegger, che il senso della differenza ontologica è metafisico, quindi fondamento, non "sfondamento" se non del limite di incommensurabilità che pone l'esserci nella dimenticanza del come se l'essere non "fosse".
#3
Tematiche Filosofiche / Re:I postulanti dell'Assoluto
17 Settembre 2020, 00:26:48 AM
Citazione di: Phil il 15 Settembre 2020, 18:16:20 PML'essere-per-la-morte è una consapevolezza che rende autentico il vivere, ma una consapevolezza povera di prassi, almeno rispetto all'essere-con-gli-altri, che è il luogo in cui avviene il domandare etico, nella sua performatività sociale e nella sua responsabilizzazione individuale. Della morte ci si può anche non curare, mentre degli altri... è una questione appunto eminentemente etica.

Credo che Heidegger già nel suo capolavoro del 1927 focalizzi bene tale questione: "La decisione, in quanto autentico esser-se-Stesso, non scioglie l'Esserci dal suo mondo, non lo isola in un io ondeggiante nel vuoto. Come lo potrebbe se essa, in quanto apertura autentica, è null'altro che l'essere-nel-mondo autentico? La decisione porta invece il se-Stesso nel rispettivo esser-presso l'utilizzabile prendente cura e lo sospinge nel con-essere avente cura degli altri [...] Soltanto dall'esser se-Stesso autentico nella decisione scaturisce l'essere-assieme autentico; non quindi dall'equivoco e geloso accordo o dall'affratellamento ciarliero nel Si e nelle sue imprese".

A quale tipo di interpretazione sufficiente rimanderebbe cioè una prassi svincolata da ogni previa preoccupazione fondativa? Una prassi "infondata" non sarebbe di fatti già di per sé sufficientemente povera e fin troppo aleatoria? Il fatto che altri ci siano, e che di essi ci si debba curare non è mai posto in questione, giacché "l'egoismo teoretico [...] come convinzione seria potrebbe trovarsi solo in un manicomio: e come tale occorrerebbe contro di esso non tanto una prova quanto una terapia" (Schopenhauer). Il problema dal mio punto di vista credo resti quello di scongiurare proprio quel circolo ermeneutico infinito e abissale (profano-kairologico, "c(h)orale" come tu dici) nel quale convivrebbero nella sua possibilità tanto un Levinas che un marchese De Sade (per i quali l'alterità, sebbene soggetta  a semantizzazioni differenti, sarebbe da dirsi per entrambi radicalmente trascendente ogni logos).
#4
Tematiche Filosofiche / Re:I postulanti dell'Assoluto
15 Settembre 2020, 16:16:44 PM

CitazioneSeppur si tratta di un «nullo-fondamento», la postulazione non sarà nulla o annullata, perché trarrà il suo senso non dall'assolutezza del (fantasma del) suo fondamento, bensì dall'esigenza del suo esser risposta all'interrogazione dell'etica (doppio genitivo).

Un'esigenza che però rischierebbe di rimanere radicalmente inappagata! L'attimo del Kairos (ho nyn kairós), anche se consentisse in immagine di adeguare quella trascendenza etica a cui la volontà prometeicamente tende, sarà sempre fatalmente ricondotto a Chronos dominante se non ottiene il crisma dell'eterno. Così anche per i Benjamin e Kafka cari ad Agamben: sebbene obtorto collo tutto riprecipiterà nella perenne indistinzione di una dynamis caotica e amorfa. Difficile ed ambiguo il percorso che vorrebbe fare di vizio virtù. "[...] Zeus tonante possiede la potenza di condurre ogni cosa a compimento e ne dispone come egli vuole. Gli uomini non hanno capacità di discernimento. Creature di un giorno, viviamo come pecore, senza sapere a che termine dio porterà ciascuna azione" (Simonide). Heidegger nomina di nuovo tale destino nel "Sein zum Tode".

Quale "ethos" quindi? Quello che fa capo al desiderio o quello che lo stabilisce sul fatto? Di nuovo un discrimine. Ma ciò che, senza infrangersi, attraversi quando e come che sia il "meridiano zero" di Dike dovrà dirsi annichilito o non piuttosto inverato (attuato, giudicato)? Sarebbe possibile del resto rimanere nel discrimine, sulla linea d'ombra dominando se stessi? Aion! Da un certo punto di vista ciò assomiglierebbe  in effetti ad un impossibile procedere all'indietro dopo l'attraversamento, prima di ogni detto e di ogni dire, come anche de-contraendo lo spazio apertosi tra presente e passato così da posizionarsi non nell'indeterminato (cfr. ancora Agamben) ma al centro di un chiasmo. La difficoltà e il compito quindi - per richiamare un'antica e problematica immagine di Kairos - quello di rimanere in bilico sulla lama del rasoio, poggiando su di sé in equilibrio i bracci della bilancia, cioè non trascendere (magari inoperosamente, "profanando") ma essere trascesi. Pena il confondersi nell'ombra di chora.
#5
Tematiche Filosofiche / Re:I postulanti dell'Assoluto
11 Settembre 2020, 20:07:19 PM
Così il Wittgenstein della Conferenza sull'etica:

CitazioneQuest'avventarsi contro le pareti della nostra gabbia è perfettamente, assolutamente disperato. L'etica, in quanto sgorga dal desiderio di dire qualcosa sul significato ultimo della vita, il bene assoluto, l'assoluto valore, non può essere una scienza. Ciò che dice non aggiunge nulla, in nessun senso, alla nostra conoscenza. Ma è un documento di una tendenza nell'animo umano che io personalmente non posso non rispettare profondamente e che non vorrei davvero mai, a costo della vita, porre in ridicolo.

Circa nove anni dopo la scrittura del Tractatus con queste parole l'autore della citazione di cui sopra portava un tutt'altro che involontario sostegno all'Heidegger di Che cos'è metafisica? contro le molte critiche - ma sarebbe meglio dire gli sberleffi - rivoltegli tra gli altri da Rudolf Carnap in merito ad ogni deprecabile "nonsenso metafisico ed uso scorretto del linguaggio". Una questione che Wittgen. dichiara di per sé non riducibile ad alcuna idiosincrasia personale, ma che fonda su di un fatto filosoficamente (i.e. "scientificamente", nel senso più lato possibile) basilare, quello del divario, della divergenza tra dicibile ed indicibile, tra meccanica e senso, appunto tra logica ed etica (ethos, nel senso eracliteo di 'qualità umana intrinseca'). La mera ostensione fenomenologica di un tale fatto è ciò che Wittgen. sembra dire essere ciò che in prima istanza conta di più in filosofia, non la sua risoluzione più o meno dialetticamente atteggiata né tanto meno una sua enfatizzazione rapsodica (nella quale, a dire dello stesso Franco Volpi, è caduto invece in pieno proprio l'Heidegger dei Beitrage). Una questione epistemica reale quindi, che fonda su di un fatto reale, cui però sembra per sua natura impossibile rispondere: la differenza posta in qualche maniera da un'intangibilità sciolta (ab-soluta) dal piano degli eventi e del linguaggio, che, sit venia verbo, insiste in ogni punto e ad ogni momento. Rispetto la quale, quindi, non si può che essere perennemente postulanti.

Ma fuori di questa sorta di spettro problematico, si intenderebbe forse qualcosa di quel fenomeno variamente totalizzante che informa di sé in ogni direzione la cristallizzazione epocale in cui viviamo? Che raggiunge massa critica quasi due secoli fa ma che rimanda a propria "evidenza" l'inesausta (perché attuale e dinamica) originalità che precede ogni possibile mitogenesi o conoscenza: diciamolo in qualche maniera "nichilismo". Ora, potremmo negare che ogni possibile riferimento (riempimento) ad un "originario", sia esso buono o cattivo, complesso o semplice, ordinato o disordinato, egoista o altruista, innocente o colpevole, madre o padre, ha prima di sé e da ogni lato un tale atto/evento (ciò che p. es. anche gli stoici nominarono nella differenza "aion/chronos") o non ne ha alcuno?
#6
Se la fede può dirsi adesione dell'intelletto sotto l'influsso della grazia, per cui "credere est cum assensione cogitare", essa non è mai un atto contro ragione ma ad essa conforme entro i propri limiti. Quali sarebbero tali limiti? Quelli connaturati alla finitezza della ragione, alla creaturalità come tale, rispetto la quale ciò che è per essenza infinito non può, di per sé, che esorbitare totalmente. La grazia (della fede) significa quindi una partecipazione gratuita dell'essenza divina - come tale un dono divino - limitatamente recepibile alla maniera delle capacità del recepente. Dono che non toglie la differenza tra finito ed infinito, ma ordina il finito all'infinito nel senso di una partecipazione conforme. Se prendiamo per buona una tale considerazione, dovremmo necessariamente anche ammettere come eccessiva l'idea di una ragione che, nel suo retto utilizzo, possa legittimamente escludere la fede, ma piuttosto riconoscerne l'ambito di sviluppo maggiore proprio nel campo dei cosiddetti preambula fidei. Dimostrata cioè razionalmente l'esistenza di Dio, è del tutto conforme alla ragione che egli si possa anche rivelare nella sua essenza, e che una tale rivelazione possa essere accolta in virtù dell'autorità di colui che si rivela e venire comprovata nella storia (motivi di credibilità). Di certo, ciò obbliga ad una differenziazione tra le varie accezioni di "ragione" : quella che pretenderebbe p. es. di escludere la dimostrabilità dell'esistenza di Dio, non lo sarebbe realmente ma figurerebbe piuttosto come un suo smarrimento. Una ragione che pretenderebbe di escludere la fede, cioè la credibilità della rivelazione divina, non solo sarebbe meno probabile, ma del tutto erronea. In ambito teologico credere è quindi conforme a ragione, il non credere è contrario alla ragione.