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Messaggi - The Eater Of Dreams

#1
Scusa, leggo solo adesso un tuo post precedente in cui affermi che l'essere pagati per quello che si fa rappresenta la modalità imprescindibile di riconoscimento del proprio "valore" di individuo, da parte della società in prima battuta e quindi a seguire da parte di sé stessi.
Che dire, qui non ho molto altro da argomentare, se non che mi sembra un'affermazione con caratteristiche di pura soggettività che tu hai elevato a considerazione oggettiva. O meglio, che la società e il giudizio sociale attualmente funzionino, su larga scala, secondo questi criteri, è innegabile, ma è proprio la fondatezza di questi criteri che io contesto; e d'altra parte mi colloco ben lontano da questo tipo di "sensazioni", riuscendo a svincolarmi con discreti risultati da questo meccanismo aprioristico di auto-riconoscimento di "dignità" esclusivamente in funzione del costume sociale vigente.
#2
Citazione di: maral il 01 Dicembre 2016, 23:10:59 PM

Certo, ognuno di noi dipende sempre e comunque dagli altri per il proprio riconoscimento identitario, non siamo autarchici, l'identità in cui ci riconosciamo non è qualcosa che ci appartiene come innata e la natura non riconosce nessuna dignità agli individui che in essa esistono per il puro fatto di essere (l'essere non conferisce senso), occorre sempre la possibilità di un riconoscimento sociale prodotto dal nostro modo di fare e da quello che sappiamo fare, non nasciamo con dentro un'identità innata, in sé e per sé. La differenza sta nella misura in cui il mondo sociale nel quale ci si trova a esistere ci mostra o ci nega questa identità conferendole o negandole dignità. Identità che, come dicevo, è sempre limitata e parziale, è sempre un processo in corso, non un'essenza stabilita. Nel momento in cui il prodotto del nostro fare è riconosciuto noi possiamo riconoscerci in esso, sentire in esso la nostra identità  in via di definizione senza che una compiuta definizione appaia mai stabilita.

Molto banalmente, uno può "saper fare" anche senza che il prodotto del suo saper fare sia retribuito (=lavoro), no?


Anche in questo caso la dignità riguarda un riconoscimento sociale per quello che fai rispetto a quello che non fai. Il disporre di risorse economiche implica che qualcuno, lavorando al posto tuo, dia un significato d'uso a quelle risorse economiche, qualcuno di cui, vivendo di rendita, comunque utilizzi il lavoro.

Ma se quel qualcuno è d'accordo con me, dov'è l'indegnità? A questo punto sospetto anche io che la controversia si riduca un po' a una questione di "invidia" nei confronti di chi può eventualmente permettersi di non lavorare (sempre senza sottrarre ad altri quelle risorse in assenza del loro consenso), sentimento che va a inquinare il discorso "morale" andando di fatto a costituire un "moraleggiamento", più che altro...come d'altra parte accade per tanti altri temi sociali.


Quanto a passare il proprio tempo a fissare il muro credo che sia un lavoro che solo pochissimi possano permettersi di fare senza ritrovarsi dopo poco tempo psichicamente distrutti (passare giornate in cella di isolamento senza fare nulla è devastante quanto e più che essere condannati ai lavori forzati).

Può darsi, ma ancora una volta, che c'entra con la dignità? Se uno vuole devastarsi psichicamente, nel rispetto dell'incolumità altrui, puoi consigliargli di fare altrimenti per il suo bene, ma poi stop

E' interessante comunque come al diventare del lavoro umano sempre più superfluo e meno autonomo corrisponda una sottrazione di valore al lavoro stesso in quanto tale. Il problema è che si riesce sempre meno a trovare senso in qualsiasi cosa si faccia, cosicché non resta davvero più niente da fare, solo sperare di crepare prima possibile per eliminare la noia irrimediabile e insopportabile di esistere in totale disimpegno.

Non riesco a cogliere come sei giunto all'ultima conclusione, per cui se uno non ritiene che il lavoro rappresenti la fonte della dignità, dovrebbe svuotarsi di senso la sua intera esistenza; né ho capito da dove deduci che la persona "disimpegnata" si annoi necessariamente; magari invece si annoia di più l'uomo costretto a stare sul posto di lavoro 40+ ore a settimana perché qualcuno lo ha convinto che ciò farà di lui un essere degno (e magari di quel lavoro non gliene frega molto perché mica tutti a questo mondo, già, hanno la possibilità di accedere ad un'attività lavorativa che rappresenti quello che sentono di essere o di "voler fare"). 

In conclusione posso dirti che personalmente trovo che la vita non abbia senso - ma a prescindere da quello che uno fa o non fa. Si tratta di passare il tempo come uno meglio crede, sostanzialmente (e sempre tenendo a mente il precetto piuttosto intuitivo del "non nuocere alle altre individualità", per quanto possibile).  La pretesa che tutto questo abbia un significato più grande, o forse proprio un qualche tipo di significato, mi sembra una delle classiche risposte adattative messe in atto da una creatura scagliata nell'esistenza, dotata di coscienza e costretta fisicamente a chiedersi "perché?".
#3
Citazione di: maral il 29 Novembre 2016, 11:44:04 AM
La dignità che offre il lavoro è quella di non dovere dipendere da altri (altre persone o organizzazioni) per il proprio mantenimento, di sentirsi individui adulti e autonomi in grado di procacciarsi da soli quanto necessario per vivere e quindi di sentirsi liberi in quanto capaci. Detto questo non vi è dubbio che il lavoro possa esercitare l'effetto contrario soffocando anziché promuovere la propria autonomia, soprattutto da quando, con l'affermarsi della visione economica dell'esistenza, della produzione industriale e del conseguente consumismo, è stato identificato con il lavoro salariato e con l'alienazione da esso prodotto.

Non dover dipendere da altri? Lavorare al massimo significa rendersi indipendenti dai propri genitori, ma sempre "dipendente" in senso assoluto rimani. Dipendente dallo Stato, dipendente dalla clientela che ti paga se lavori in privato, ecc.; comunque la tua sopravvivenza è subordinata ad "entità" altre.

Concordo con chi sostiene che la dignità appartiene "di natura" ad ogni essere umano per il semplice fatto di essere una creatura esistente, cosciente e in varia misura sofferente; e allargando il concetto, come già scritto da altri, degno potrebbe essere definito chi "è cosciente delle coscienze altrui" e vive di conseguenza, cercando di non arrecare danno agli altri, nei limiti del possibile.

Esempi terra terra: se il mio stile di vita prevede che io per sostentarmi scippi le vecchiette, è difficile pensare di poterlo definire un modo di vivere degno. Ma se invece dispongo di risorse economiche la cui fruizione non crea problemi a nessuno, e dedico il mio tempo alle mie passioni o semplicemente a fissare il muro, che problema c'è?

Il postulare l'esistenza di questa concatenazione indissolubile lavoro/dignità onestamente mi mette un po' i brividi, mi evoca istintivamente immagini come lo yuppie di American Psycho o peggio ancora certi slogan visti su certi cancelli in tempi passati.