Esiste già una vecchia discussione, ma ho preferito accogliere il suggerimento della scritta rossa dopo aver velocemente scorso i post in gran parte di utenti non più presenti.
Apro la discussione per questo fatto di cronaca che segna un punto significativo nell'evoluzione culturale verso la buona morte:
Una coppia di anziani triestini, di cui uno solo dei componenti grave in salute, sceglie l'eutanasia in Svizzera e lo fa con l'aiuto delle figlie residenti (saggiamente) all'estero. Tanto più marcato è il divario tra queste morti e quello inumano dei defunti covid in un paese che ha ostacolato con ogni mezzo il diritto all'eutanasia.
Credo che questo evento rilanci la discussione sul diritto all'autodeterminazione della morte e forse in altri momenti avrebbe riempito le prime pagine dei giornali, solitamente invase dalle ciullarate politichesi, animandole non poco.
Salve. Al di là degli aspetti etico-moral- fideistici (circa i quali si aprirà il solito colossale tormentone da parte di altri utenti), pur essendo personalmente favorevole all'autodeterminazione eutanasica (la quale però dovrebbe pure evitare di doversi avvalere di contributi (cooperazione) altrui..........risolvendosi non in un intervento mortifero (iniezioni od altro), ma più linearmente nell'ASTENSIONE, da parte altrui, di intervenire a sostegno della vitalità dei soggetti che scelgano l'eutanasia)..............................pur - dicevo - essendo favorevole, vorrei far notare che la cosiddetta "morte assistita", come istituto rappresenterebbe solo l'ennesimo dispregio fatto non alla vita, ma alla povertà.
Ma ci rendiamo conto che chi vive in ristrettezze economiche.................già discriminato nei confronti delle possibilità di vita...............instaurandosi la facoltà di eutanasia assistita si vedrebbe nei fatti discriminato pure nelle facoltà di morte ??.
Oppure si crede che, pur avendo a che fare con Associazioni prive di fini di lucro, non si debbano sborsare migliaia e migliaia di Euro per accedere al "privilegio" di poter scegliere come e quando morire ?. Oh tempora !!,.....oh mores !!. Saluti.
Comprendo la scelta della coppia, ma non permetterei il suicidio assistito, sottolineo assistito, da parte di privati o del pubblico se non che a precise condizioni, che per me nel caso della donna non c'erano.
L'autodeterminazione suicida è difficilmente comprimibile, preferisco che rimanga un fatto normalmente privato.
Mi sembra che gli svizzeri abbiano trovato una nuova redditizia attività, vedremo se ci sarà concorrenza.
Secondo me l'eutanasia e cioè la morte volontaria di malati terminali o cronici in presenza di assistenza medica è l'unica eccezione possibile a quella che ritengo essere la grande battaglia tra pulsione di vita e pulsione di morte. Laddove, credo sia intuitivo esserlo, io, in compagnia del buon senso stesso, siamo schierati dalla parte della pulsione di vita.
La libertà cioè lo stato di autonomia essenzialmente sentito come diritto, e come tale garantito da una precisa volontà e coscienza di ordine morale, sociale, politico non può andare, sempre a mio avviso naturalmente, contro la ragione. Quest'ultima è rappresentata, non è un ossimoro, dall'istinto di sopravvivenza. In altre parole non si può desiderare la morte se non in presenza di una patologia, magari anche mentale o in presenza di un supremo atto di egoismo (secondo me patologico o, in subordine, malsano).
Nel caso di specie citato dall'autrice del thread penso all'ultima cosa che ho scritto. In buona sostanza non ci sono figli e nipoti che tengano. Figurarsi passioni o attività di volontariato. Men che meno l'appartenenza alla famiglia umana ed il pensare, in qualche modo, di continuare a farne parte nonostante la dipartita del partner.
Quella vena di me, molto romantica, che poi c'è in quasi tutti noi, mi fa tenere i toni bassi e mi esprimo con somma umiltà di fronte a tanto tenero amore. Ma quel che ho scritto lo penso in profondità.
Citazione di: Freedom il 06 Aprile 2020, 18:05:04 PM
Secondo me l'eutanasia e cioè la morte volontaria di malati terminali o cronici in presenza di assistenza medica è l'unica eccezione possibile a quella che ritengo essere la grande battaglia tra pulsione di vita e pulsione di morte. Laddove, credo sia intuitivo esserlo, io, in compagnia del buon senso stesso, siamo schierati dalla parte della pulsione di vita.
La libertà cioè lo stato di autonomia essenzialmente sentito come diritto, e come tale garantito da una precisa volontà e coscienza di ordine morale, sociale, politico non può andare, sempre a mio avviso naturalmente, contro la ragione. Quest'ultima è rappresentata, non è un ossimoro, dall'istinto di sopravvivenza. In altre parole non si può desiderare la morte se non in presenza di una patologia, magari anche mentale o in presenza di un supremo atto di egoismo (secondo me patologico o, in subordine, malsano).
Nel caso di specie citato dall'autrice del thread penso all'ultima cosa che ho scritto. In buona sostanza non ci sono figli e nipoti che tengano. Figurarsi passioni o attività di volontariato. Men che meno l'appartenenza alla famiglia umana ed il pensare, in qualche modo, di continuare a farne parte nonostante la dipartita del partner.
Quella vena di me, molto romantica, che poi c'è in quasi tutti noi, mi fa tenere i toni bassi e mi esprimo con somma umiltà di fronte a tanto tenero amore. Ma quel che ho scritto lo penso in profondità.
la ragione è la facoltà tramite cui possiamo valutare la diversa efficacia dei vari mezzi possibili rispetto a un certo fine, ma non può giudicare in termini oggettivi l'effettivo valore del fine in sé, che resta espressione di una sensibilità morale del tutto soggettiva. Quindi non ha senso dire che l'istinto di sopravvivenza come necessario fine da perseguire sia razionale (così come non avrebbe senso intenderlo come irrazionale), ma che razionale può essere una strategia funzionale al fine che questo istinto indica, ma non il fine in se stesso. E anzi, proprio la ragione, intesa come facoltà di mediare, analizzare, collegare percezioni esprime quella facoltà di astrazione per la quale la vita umana non è mai riducibile alla mera continuazione biologica, ma comprende un livello spirituale/morale indicante un ideale personale di "vita degna di essere vissuta" a cui la vita biologica dovrebbe essere adeguata, come condizione per la sua durata. Questo ideale è ciò tramite cui lo stesso istinto di sopravvivenza finisce con l'essere relativizzato, e col non essere, per tutti, un valore assoluto e incondizionato. Lungi dall'essere espressione di irrazionalità, l'eutanasia è un problema che si pone proprio in quanto siano animali razionali. Che poi per alcune persone la continuazione della vita biologica coincida sempre e comunque con l'ideale della vita degna di essere vissuta non toglie il punto. In questi casi la coincidenza non sarà prodotto di un "istinto", ma di un'adesione a una visione religiosa o morale, che però non è mai oggettivamente più o meno razionale di visioni alternative che ispirerebbero convinzioni diverse
Salve davintro. Citandoti: "............ma comprende un livello spirituale/morale indicante un ideale personale di "vita degna di essere vissuta" a cui la vita biologica dovrebbe essere adeguata, come condizione per la sua durata".
Purtroppo il concetto di "vita degna di essere vissuta" non solo è ridicolmente vacuo e relativo (Un giorno da leoni o cent'anni da pecora ?) ma, proprio perchè implica scelte personalissime, diventa semplicemente espressione di un sogno, di un ideale basato sll'egoismo individuale.
La realtà è che noi vorremmo diventare padroni della nostra vita, cioè di ciò che (o di chi) ci ha creato. Se questo non è egoismo, per di più fanciullescamente ingenuo !. Secondo me la vita (o Dio), avendoci creati, si attende che noi si sia un pochetto più umili. Saluti.
Citazione di: davintro il 06 Aprile 2020, 20:40:14 PM
la vita umana non è mai riducibile alla mera continuazione biologica, ma comprende un livello spirituale/morale indicante un ideale personale di "vita degna di essere vissuta" a cui la vita biologica dovrebbe essere adeguata, come condizione per la sua durata.
Raramente mi trovo così in disaccordo in ogni passaggio di un post, come è accaduto in quello che hai scritto. Lo dico anche con un velo di ironia, un pò per il giusto distacco che necessariamente deve accompagnare questo genere di discussioni. Un pò perchè è come quelli che facevano, ai miei tempi, zero al totocalcio. Difficile quasi come fare tredici ;D
Ho citato tuttavia, per brevità e per non discutere sino a notte fonda, ammesso e non concesso che tu sia sveglio, solo il passaggio quotato perchè mi sembra il punto saliente del contendere. Se da un lato è vero quello che dici sul ridurre la vita umana a mera continuazione biologica, è tuttavia irrilevante ai fini delle considerazioni che stiamo facendo sull'istinto di sopravvivenza. Quest'ultimo è automatico. Ed è l'energia più potente ed irriducibile che guida la vita di un uomo. Laddove con "guida" non intendo la vita di un uomo a tutto tondo ma, solamente, quella parte di vita necessaria alla mera sopravvivenza. Noi, "fortunati" partecipanti alla civiltà occidentale moderna, quasi non ce ne accorgiamo più, ma tant'è. Non a caso, penso di poterlo dire con chiarezza in questo sito eminentemente filosofico, non si fa appunto filosofia con la pancia vuota! Nel senso che prima si devono soddisfare gli istinti primari. Quelli che, appunto, sottendono alla mera sopravvivenza. Successivamente si può filosofare.
Questa è l'incontrovertibile regola della vita.
Poi, ci sono le eccezioni: martirio, eroismo, etc.
Questo episodio devo ammettere ha spiazzato anche me e perciò l'ho postato, per sentire altre impressioni e chiarire il mio giudizio. La prima reazione, d'"istinto" è stata di giubilo, della serie "il corpo è mio e me lo gestisco io", ma subito mi sono interrogata sul valore di questo riduzionismo liberistizzante, e ho sospeso il giudizio in attesa che la riflessione e il contraddittorio completi il suo corso.
L'inedito è che in questo caso la componente deliberatamente suicidaria ha prevalso su quella ormai entrata nella legittimità etica abbastanza condivisa della liberazione. L'interrogativo è: fino a che punto è eticamente legittimo il suicidio ?
Non mi sento di sostenere la tesi di Freedom e condivido la posizione di davintro: qui più che rifarci alla coscienza di Darwin la risposta va cercata nella coscienza di Zeno, più che la pulsione alla vita vale l'attitudine alla vita, con il suo corollario evolutivo di tipo culturale, individuale e sociale, che travalica la dimensione darwiniana della sopravvivenza e pone il focus del significato nella vita declinata all'umano. Cui si aggiunge la considerazione che anche la pulsione vitale è calibrata sull'orologico biologico e quella di un anziano non ha la stessa intensità di quella di un adolescente. Aspetto di "benignità naturale" sottovalutato da Leopardi e da Freedom. Ma non dalla coppia di cigni, che obbedisce più a Darwin che a Svevo, la cui triestinità ci riporta alla scelta di Monika.
Perchè alla fine è lei il soggetto di questa storia, il mistero di fronte al quale, come disse saggiamente un prete al funerale di una persona a me cara, bisogna inchinarsi, deinde philosophari. Filosofare che non può fermarsi all'atto di proprietà di un corpo vivente, ma deve inoltarsi nelle proprietà di questo corpo vivente immerso nel contesto sociale che gli dà senso e valore. Per Monika quel senso e valore era lo stesso della coppia di cigni, e se ha convinto le figlie, perchè non dovrebbe convincere anche me ?
La difficoltà di formulare un qualsiasi tipo di giudizio su un caso del genere è data anche dalla 'pochezza' degli elementi in nostra mano. Manca , per esempio, la descrizione del tipo di rapporto che intercorreva tra la madre e le figlie. Non è chiara anche la condizione fisica della donna ( Quanto malata? Patologie che ti portano rapidamente alla morte o "acciacchi" normali per l'età?..). Trovo veramente strano che nell'anziana abbia prevalso l'affetto/attaccamento verso il marito piuttosto che quello, come normalmente avviene, verso le figlie. Una donna con tre figlie non dovrebbe temere la naturale 'partenza' del marito e l'eventuale tempo da vivere in sua assenza. Ma forse nel suicidio della donna c'è una dichiarazione di disperazione rivolta proprio verso queste figlie...non sappiamo, né l'articolo ci illumina in alcun modo su questo punto.Le figlie erano d'accordo? Perché? Per liberarsi del peso dell'anziana madre? ...Tutte domande senza risposta.
In generale una donna sopporta il dolore molto meglio di un uomo. La donna ha una capacità di soffrire superiore e una capacità d'amare più profonda (con le dovute eccezioni...). L'amore verso i figli non è poi paragonabile a quello verso un uomo. Si tratta di qualcosa di viscerale, di natura qualitativamente diversa.
Poi , facendo un tentativo di discorso più ampio, direi che non è salutare proiettare nel futuro le paure del dolore che si vivono. Stare con la propria paura e non immaginare il dolore futuro è cosa utile in questi casi. Il dolore verrà, ma non possiamo 'ora' sapere come, quando e in che modo lo vivremo. Non possiamo immaginarcelo e , in base all'idea che ce ne facciamo, costruita sull'immaginazione ("Non potrò vivere senza di lui/lei"..), tirare la conclusione che la nostra vita futura non varrà la pena di essere vissuta. Non succederà come ce lo immaginiamo. Bisognerebbe avere questa attitudine a non credere sempre alla nostra mente...
Amare qualcuno non dovrebbe, a mio parere, portarci ad un attaccamento tale per cui la nostra vita e il nostro amore abbiano una sola direzione (soprattutto in questo caso, dove c'erano almeno altri tre soggetti a cui poterlo destinare...).Si dovrebbe in generale discernere tra amore e attaccamento. L'amore non ha limiti, mentre l'attaccamento non fa che crearne e ci de-limita. L'amore travalica la stessa presenza fisica dell'amato e anzi , proprio la morte spesso lo approfondisce. Nell'assenza dell'amato si coglie spesso la profondità della presenza dell'altro nella nostra vita, l'importanza che ha avuto, quanto ci ha fatto crescere. E anche questo è amare...
Tornando all'articolo quindi concluderei dicendo che vedo piuttosto il dramma nel rapporto madre/figlie, e forse nella paura della profonda solitudine che questa donna s'immaginava si sarebbe venuta a trovare...Ma sono solo congetture.
Volendo andare sull'esistenziale di una persona anziana direi che le preferenze del coronavirus e l'uso cinico che di queste preferenze si sta facendo in una società che già di suo vede con insofferenza tutto ciò che non produce plusvalore non va certo a favore di una scelta alternativa a quella di Monika che, anche dalle foto, ha l'aria di una donna intelligente che sa quel che fa e che vuole.
Certo sarebbe interessante che qualche figlia raccontasse la vicenda con la forza di Beppino Englaro o di Valeria Imbrugno, la fidanzata di Fabiano Antoniani, per permettere a noi che da quella storia siamo esclusi di comprendere questo ulteriore tassello da aggiungere alla grande marcia del diritto all'autodeterminazione alla morte, a proposito della quale non ho mai capito tutte le esecrazioni con chiamata in causa dell'egoismo, come se fosse una passeggiata edonistica la scelta di morire. Come se la sofferenza fosse obbligata in nome di non si sa di cosa: di un Dio assente o di una società che lo è ancor più.
Fin dalla maggiore età siamo noi responsabili di noi stessi e la condivisione dovuta di tale responsabilità non va oltre la cerchia di persone che dalla nostra azione è coinvolta. Nel caso specifico la cerchia di persone si riduce a coloro che con noi hanno una relazione affettiva e che solitamente condividono i nostri valori o affettivamente li rispettano. Solo a costoro Monika doveva qualcosa e penso ne abbia tenuto conto.
Citazione di: Ipazia il 07 Aprile 2020, 21:44:35 PM
Volendo andare sull'esistenziale di una persona anziana direi che le preferenze del coronavirus e l'uso cinico che di queste preferenze si sta facendo in una società che già di suo vede con insofferenza tutto ciò che non produce plusvalore non va certo a favore di una scelta alternativa a quella di Monika che, anche dalle foto, ha l'aria di una donna intelligente che sa quel che fa e che vuole.
La vecchiaia dà sempre amarezza. A maggior ragione in una società come questa. Ma la reazione è soggettiva. Ci sono anziani che, solo per il gusto di non togliersi dalle scatole, si attaccano alla vita come fanno le cozze alle rocce. ;D
Citazione di: Ipazia il 07 Aprile 2020, 21:44:35 PM
Certo sarebbe interessante che qualche figlia raccontasse la vicenda con la forza di Beppino Englaro o di Valeria Imbrugno,
Qui vai fuori tema. Va bè che il thread si chiama Eutanasia ma si capiva benissimo dalla storia che hai citato che non si trattava di eutanasia ma di suicidio volontario. Addirittura il sottoscritto ha precisato che l'eutanasia si può condividere!
Citazione di: Ipazia il 07 Aprile 2020, 21:44:35 PMa proposito della quale non ho mai capito tutte le esecrazioni con chiamata in causa dell'egoismo, come se fosse una passeggiata edonistica la scelta di morire. Come se la sofferenza fosse obbligata in nome di non si sa di cosa: di un Dio assente o di una società che lo è ancor più.
E infatti qua comincia la confusione che, altro utente ha sagacemente analizzato. E cioè quali rapporti intercorrevano con figli e nipoti? Qua, oggettivamente, sta la chiave di tutto. E noi non possiamo spendere parole risolutive e conclusive perché non abbiamo contezza di questo fatto qua.
Citazione di: Ipazia il 07 Aprile 2020, 21:44:35 PMNel caso specifico la cerchia di persone si riduce a coloro che con noi hanno una relazione affettiva e che solitamente condividono i nostri valori o affettivamente li rispettano. Solo a costoro Monika doveva qualcosa e penso ne abbia tenuto conto.
Hai detto bene: pensi!
Citazione di: Freedom il 06 Aprile 2020, 23:18:11 PM
Citazione di: davintro il 06 Aprile 2020, 20:40:14 PM
la vita umana non è mai riducibile alla mera continuazione biologica, ma comprende un livello spirituale/morale indicante un ideale personale di "vita degna di essere vissuta" a cui la vita biologica dovrebbe essere adeguata, come condizione per la sua durata.
Raramente mi trovo così in disaccordo in ogni passaggio di un post, come è accaduto in quello che hai scritto. Lo dico anche con un velo di ironia, un pò per il giusto distacco che necessariamente deve accompagnare questo genere di discussioni. Un pò perchè è come quelli che facevano, ai miei tempi, zero al totocalcio. Difficile quasi come fare tredici ;D
Ho citato tuttavia, per brevità e per non discutere sino a notte fonda, ammesso e non concesso che tu sia sveglio, solo il passaggio quotato perchè mi sembra il punto saliente del contendere. Se da un lato è vero quello che dici sul ridurre la vita umana a mera continuazione biologica, è tuttavia irrilevante ai fini delle considerazioni che stiamo facendo sull'istinto di sopravvivenza. Quest'ultimo è automatico. Ed è l'energia più potente ed irriducibile che guida la vita di un uomo. Laddove con "guida" non intendo la vita di un uomo a tutto tondo ma, solamente, quella parte di vita necessaria alla mera sopravvivenza. Noi, "fortunati" partecipanti alla civiltà occidentale moderna, quasi non ce ne accorgiamo più, ma tant'è. Non a caso, penso di poterlo dire con chiarezza in questo sito eminentemente filosofico, non si fa appunto filosofia con la pancia vuota! Nel senso che prima si devono soddisfare gli istinti primari. Quelli che, appunto, sottendono alla mera sopravvivenza. Successivamente si può filosofare.
Questa è l'incontrovertibile regola della vita.
Poi, ci sono le eccezioni: martirio, eroismo, etc.
certamente l'istinto di sopravvivenza, come ogni istinto in quanto tale, è automatico, e proprio per questo la razionalità, intesa come filtro per il quale non siamo totalmente abbandonati a un istinto, ma lo sottoponiamo a vaglio critico, dando al soggetto la possibilità di relativizzarlo e limitarlo sulla base di motivazioni concorrenti, non può porsi come oggettivamente legittimante esso. Che l'istinto di sopravvivenza sia in noi l'istinto più potente (ammesso e non concesso, considerando che gli stessi casi di persone richiedenti l'eutanasia di cui si sta discutendo sono la prova empirica che non in tutte le persone questo istinto si conferma come il più potente) sarebbe una constatazione di fatto, non un giudizio di valore, non se ne può dedurre che ogni contravvenire ad esso debba giudicarsi immorale in termini oggettivi. In realtà, anche senza scomodare martiri ed eroi, che sono eccezioni estreme in cui l'istinto di sopravvivenza viene compitamente "sconfitto", la vita della gran parte delle persone comuni mostra come la preservazione della vita biologica, anche se mantenuto, non è mai tendenza totalizzante la psiche, ma convive e resta in conflitto con tendenze alternative che portano condotte potenzialmente non del tutto salutistiche e che nonostante questo sembrano esprimere esigenze non meno rilevanti per la persona, si pensi al piacere dei sensi, la golosità del buon cibo, il fumo, l'alcol, oppure, entrando in ottica più spirituale, la dispersione di energie psicofisiche che richiede l'impegno intellettuale, o ancora il mettere a rischio la vita in certi sport. Ovviamente, non metto tutto ciò allo stesso livello di esplicito rigetto della sopravvivenza che sta dietro l'eutanasia, ma al di là delle differenze evidenti, emerge il dato comune di un istinto di sopravvivenza che non tiranneggia affatto il complesso dei nostri bisogni, ma può essere contrastato a vari livelli, in nome di legittime scale di valori personali.
"Primum vivere, deinde filosofare" è una regola che penso spesso si tenda a equivocare: non implica che le esigenze della vita biologica debbano essere poste a un superiore livello valoriale rispetto alla vita intellettuale, ma solo che è di quest'ultima il necessario presupposto. Che una certa cosa sia necessaria condizione per il darsi di un'altra non implica che quest'ultima sia meno importante della prima, il soggetto resterebbe libero di considerare la pancia piena, appunto, mezzo in vista del continuare a filosofare, e di pensare che, in un'ottica di una vita vegetativa in cui l'esercizio della vita intellettuale finisse con l'essere compromesso, la pancia piena non sia più obiettivo che meriti di continuare a esser perseguito. Si può non condividere questa posizione, questo ideale di vita degna di essere vissuta, ma non considerarlo illogico sulla base di un rapporto mezzo-fine, per cui ciò che è mezzo dovrebbe per questo presumere di porsi come oggettivamente più prezioso del fine. Sarebbe come, parafrasando De Andre, se dovessimo considerare il letame più bello dei fiori, solo perché questi fanno dipendere da quello il loro esistere. Il mezzo, proprio in quanto tale, vale solo nella misura in cui permette di raggiungere il fine a cui è associato
Citazione di: davintro il 07 Aprile 2020, 23:59:53 PM
certamente l'istinto di sopravvivenza, come ogni istinto in quanto tale, è automatico, e proprio per questo la razionalità, intesa come filtro per il quale non siamo totalmente abbandonati a un istinto, ma lo sottoponiamo a vaglio critico, dando al soggetto la possibilità di relativizzarlo e limitarlo sulla base di motivazioni concorrenti, non può porsi come oggettivamente legittimante esso. Che l'istinto di sopravvivenza sia in noi l'istinto più potente (ammesso e non concesso, considerando che gli stessi casi di persone richiedenti l'eutanasia di cui si sta discutendo sono la prova empirica che non in tutte le persone questo istinto si conferma come il più potente) sarebbe una constatazione di fatto, non un giudizio di valore, non se ne può dedurre che ogni contravvenire ad esso debba giudicarsi immorale in termini oggettivi. In realtà, anche senza scomodare martiri ed eroi, che sono eccezioni estreme in cui l'istinto di sopravvivenza viene compitamente "sconfitto", la vita della gran parte delle persone comuni mostra come la preservazione della vita biologica, anche se mantenuto, non è mai tendenza totalizzante la psiche, ma convive e resta in conflitto con tendenze alternative che portano condotte potenzialmente non del tutto salutistiche e che nonostante questo sembrano esprimere esigenze non meno rilevanti per la persona, si pensi al piacere dei sensi, la golosità del buon cibo, il fumo, l'alcol, oppure, entrando in ottica più spirituale, la dispersione di energie psicofisiche che richiede l'impegno intellettuale, o ancora il mettere a rischio la vita in certi sport. Ovviamente, non metto tutto ciò allo stesso livello di esplicito rigetto della sopravvivenza che sta dietro l'eutanasia, ma al di là delle differenze evidenti, emerge il dato comune di un istinto di sopravvivenza che non tiranneggia affatto il complesso dei nostri bisogni, ma può essere contrastato a vari livelli, in nome di legittime scale di valori personali.
"Primum vivere, deinde filosofare" è una regola che penso spesso si tenda a equivocare: non implica che le esigenze della vita biologica debbano essere poste a un superiore livello valoriale rispetto alla vita intellettuale, ma solo che è di quest'ultima il necessario presupposto. Che una certa cosa sia necessaria condizione per il darsi di un'altra non implica che quest'ultima sia meno importante della prima, il soggetto resterebbe libero di considerare la pancia piena, appunto, mezzo in vista del continuare a filosofare, e di pensare che, in un'ottica di una vita vegetativa in cui l'esercizio della vita intellettuale finisse con l'essere compromesso, la pancia piena non sia più obiettivo che meriti di continuare a esser perseguito. Si può non condividere questa posizione, questo ideale di vita degna di essere vissuta, ma non considerarlo illogico sulla base di un rapporto mezzo-fine, per cui ciò che è mezzo dovrebbe per questo presumere di porsi come oggettivamente più prezioso del fine. Sarebbe come, parafrasando De Andre, se dovessimo considerare il letame più bello dei fiori, solo perché questi fanno dipendere da quello il loro esistere. Il mezzo, proprio in quanto tale, vale solo nella misura in cui permette di raggiungere il fine a cui è associato
Non parliamo della stessa cosa. O meglio non diamo all'istinto di sopravvivenza la stessa valenza. Che per me è la seguente: metti la mano sulla testa di una persona e spingila sott'acqua. Aspetta 30/40 secondi e avrai contezza di cosa sia l'istinto di sopravvivenza. E' immediato, istantaneo. Colui che rischia negli sport estremi pensa che gli vada fatta bene. Ed in cambio riceve soddisfazioni che per lui valgono il rischio corso. Stesso discorso per il drogato o colui che fa sesso in strada senza protezione. Il caso dell'eutanasia è diverso e ricorda il disgraziato torturato per ore e/o addirittura giorni. La richiesta della morte non solo è comprensibile ma, in una certa misura, condivisibile.
Sono però d'accordo con te su un punto e cioè che l'istinto di sopravvivenza è
una constatazione di fatto, non un giudizio di valore, non se ne può dedurre che ogni contravvenire ad esso debba giudicarsi immorale in termini oggettivi.Al contrario io penso che sconfiggere l'istinto di sopravvivenza in favore di un ideale sia l'apogeo dell'esperienza umana.
Citazione di: Freedom il 07 Aprile 2020, 23:53:32 PM
Citazione di: Ipazia il 07 Aprile 2020, 21:44:35 PM
Volendo andare sull'esistenziale di una persona anziana direi che le preferenze del coronavirus e l'uso cinico che di queste preferenze si sta facendo in una società che già di suo vede con insofferenza tutto ciò che non produce plusvalore non va certo a favore di una scelta alternativa a quella di Monika che, anche dalle foto, ha l'aria di una donna intelligente che sa quel che fa e che vuole.
La vecchiaia dà sempre amarezza. A maggior ragione in una società come questa. Ma la reazione è soggettiva. Ci sono anziani che, solo per il gusto di non togliersi dalle scatole, si attaccano alla vita come fanno le cozze alle rocce. ;D
Appunto perchè è soggettiva va rispettata nella sua soggettività relativa al bene più soggettivo di cui disponiamo: la nostra vita.
Citazione di: Freedom il 07 Aprile 2020, 23:53:32 PM
Citazione di: Ipazia il 07 Aprile 2020, 21:44:35 PM
Certo sarebbe interessante che qualche figlia raccontasse la vicenda con la forza di Beppino Englaro o di Valeria Imbrugno,
Qui vai fuori tema. Va bè che il thread si chiama Eutanasia ma si capiva benissimo dalla storia che hai citato che non si trattava di eutanasia ma di suicidio volontario. Addirittura il sottoscritto ha precisato che l'eutanasia si può condividere!
Il confine tra eutanasia e suicidio è assai labile. L'etimo greco non entra nel merito delle motivazioni, ma solo della modalità: bella morte. Io mi attengo all'etimo e con me anche molti paesi che riconoscono alla sofferenza psicologica lo stesso valore della sofferenza fisica nella decisione suicidaria.
Citazione di: Freedom il 07 Aprile 2020, 23:53:32 PM
Citazione di: Ipazia il 07 Aprile 2020, 21:44:35 PMa proposito della quale non ho mai capito tutte le esecrazioni con chiamata in causa dell'egoismo, come se fosse una passeggiata edonistica la scelta di morire. Come se la sofferenza fosse obbligata in nome di non si sa di cosa: di un Dio assente o di una società che lo è ancor più.
E infatti qua comincia la confusione che, altro utente ha sagacemente analizzato. E cioè quali rapporti intercorrevano con figli e nipoti? Qua, oggettivamente, sta la chiave di tutto. E noi non possiamo spendere parole risolutive e conclusive perché non abbiamo contezza di questo fatto qua.
Che è quello che avevo premesso nella citazione precedente. Sarei curiosa anch'io di sentire la versione delle figlie e non ho risposto nel merito al "sagace utente" sari perchè non ho elementi per parlarne aldilà di illazioni infondate. Come voi del resto. Egoismo è incatenare qualcuno ai propri desideri.
Citazione di: Freedom il 07 Aprile 2020, 23:53:32 PM
Citazione di: Ipazia il 07 Aprile 2020, 21:44:35 PMNel caso specifico la cerchia di persone si riduce a coloro che con noi hanno una relazione affettiva e che solitamente condividono i nostri valori o affettivamente li rispettano. Solo a costoro Monika doveva qualcosa e penso ne abbia tenuto conto.
Hai detto bene: pensi!
... ergo sum. Le succinte cronache giornalistiche non rivelano che una delle figlie si sia sentita lesa dal gesto della madre. Anzi. E le capisco pure: amare è lasciar andare chi si ama verso il suo desiderio. Anche se quel desiderio non sei tu.
L'istinto di sopravvivenza si sconfigge in favore della vita (e quindi di altri istinti), non di un ideale.
Come insegna Schopenauer ci si può suicidare al limite contro la vita, non mai contro la volontà di vivere: la disponibilità del suicidio come opzione tra le opzioni è l'intenzionalità della vita umana stessa, che va (o non va) riscelta quotidianamente perché non siamo bestie, perché il nostro vecchio (incrinato) istinto non la sostiene più in tutti i membri della specie dall'inizio alla fine in modo assoluto, e tutto questo è coscienza, è un dato di coscienza: poeticamente è la Morte che ci accompagna, lo scheletro con la falce e il volto della persona amata; filosoficamente ci accompagna -quantomeno- la disponibilità del suicidio. E continuerà a farlo, che ci piaccia o no.
Naturalmente l'intenzionalità della vita non prova (e non sconfessa) il valore della vita, è solo indice di una volontà di vivere che si fa conscia nella mente del vivente, e quindi in assoluto si affievolisce, contempla le prima incontemplate alternative: proprio perché la morte non è una soluzione, perché non esiste una felicità negativa, ci vuole auto dominio assunto come valore fine a se stesso, introiezione dell'istinto proprio e altrui, per suicidarsi. Chi si suicida vuole un'altra vita, protesta contro la sua, di vita, e quindi l'atto definitivo del suicidio è un modo con cui una vita solo virtuale e desiderata, che sta solo nella mente del suicida e magari negli archetipi e nelle priorità della sua comunità, agisce su una vita reale e materiale, distruggendola. Mai come in questo caso la morte "scende" come un fulmine da un mondo spirituale a colpire una vittima corporea, materiale. La vita desiderata e mancante, il vero io.
Si pretende che il nulla sia esperibile, e, se resta inesperibile, allora per frustrazione si nega il tutto.
La storia della de-animalizzazione, della civiltà dell'uomo.
Essendo le due situazioni fatalmente intrecciate - in particolare nella vicenda da cui ha origine la discussione - chiederei agli amministratori di modificare il titolo in "Eutanasia e suicidio".
Citazione di: niko il 08 Aprile 2020, 11:56:56 AM
L'istinto di sopravvivenza si sconfigge in favore della vita (e quindi di altri istinti), non di un ideale.
Come insegna Schopenauer ci si può suicidare al limite contro la vita, non mai contro la volontà di vivere: la disponibilità del suicidio come opzione tra le opzioni è l'intenzionalità della vita umana stessa, che va (o non va) riscelta quotidianamente perché non siamo bestie, perché il nostro vecchio (incrinato) istinto non la sostiene più in tutti i membri della specie dall'inizio alla fine in modo assoluto, e tutto questo è coscienza, è un dato di coscienza: poeticamente è la Morte che ci accompagna, lo scheletro con la falce e il volto della persona amata; filosoficamente ci accompagna -quantomeno- la disponibilità del suicidio. E continuerà a farlo, che ci piaccia o no.
Naturalmente l'intenzionalità della vita non prova (e non sconfessa) il valore della vita, è solo indice di una volontà di vivere che si fa conscia nella mente del vivente, e quindi in assoluto si affievolisce, contempla le prima incontemplate alternative: proprio perché la morte non è una soluzione, perché non esiste una felicità negativa, ci vuole auto dominio assunto come valore fine a se stesso, introiezione dell'istinto proprio e altrui, per suicidarsi. Chi si suicida vuole un'altra vita, protesta contro la sua, di vita, e quindi l'atto definitivo del suicidio è un modo con cui una vita solo virtuale e desiderata, che sta solo nella mente del suicida e magari negli archetipi e nelle priorità della sua comunità, agisce su una vita reale e materiale, distruggendola. Mai come in questo caso la morte "scende" come un fulmine da un mondo spirituale a colpire una vittima corporea, materiale. La vita desiderata e mancante, il vero io.
Si pretende che il nulla sia esperibile, e, se resta inesperibile, allora per frustrazione si nega il tutto.
La storia della de-animalizzazione, della civiltà dell'uomo.
penso di concordare nel punto fondamentale. Non è un ideale di vita degna a confliggere direttamente con l'istinto di sopravvivenza, facendolo soccombere nel caso del suicidio o richiesta di eutanasia, l'ideale indica un modello regolativo in rapporto a cui valutare il livello di adeguazione della vita biologica attualmente vissuta. Oltre un certo livello di inadeguatezza, l'istinto di vivere (che non cessa mai, dato che la prospettiva del Nulla dopo la morte, al di là delle possibili diverse credenze in tema, non può mai essere realmente oggetto di un'aspirazione, dato che ogni attribuzione di un valore positivo ne implicherebbe un qualunque livello di positività ontologica, incompatibile con l'idea di puro Nulla) non coincide più con l'istinto di sopravvivenza, in quanto il vivere a cui fa riferimento è altro rispetto al vivere nella modalità dell'attuale sopravvivenza, che viene rigettata, non perché la vita cessi di essere un valore in generale, ma perché la morte è ammessa come male minore, rispetto a una "vita" che non è più quella che viene reputata sufficientemente degna. Si potrebbe sintetizzare il discorso dicendo che la psiche è, materialmente, il complesso degli istinti/tendenze che implicano la vita e la orientano verso determinate sue modalità, e un sistema di valori/ideali che la strutturano come forma, come una scala di valori entro cui gli istinti assumono diversi livelli di intensità, consentendo di gestirli in libere scelte. La componente razionale della persona non consiste nella repressione e cancellazione degli istinti, ma in una loro gerarchizzazione sulla base di quel sistema di valori entro cui l'Io è unità organica, e non solo spazio vuoto riempito solo dal gioco meccanicistico degli istinti, che lo ridurrebbe a mero somma caotica delle parti (gli istinti, appunto)
I giudizi appartengono alla vita, soprattutto quelli legati al verbo «volere» (sia esso morale, culturale o altro): «non avrebbe dovuto...», «doveva spiegazioni a...», «se si ama allora si deve...», etc. e poter pensare alla morte solo finché si è vivi, è piuttosto inevitabile; quello che si può (non «si deve») evitare è il pensare alla morte con le categorie della vita (e anche questa è una scelta, non una necessità).
La sospensione del giudizio esterno, da parte dei non coinvolti "carnalmente" al suicidio, è ovviamente un pallido sfondo, superfluo come lo è ogni giudizio di fronte alla "interruzione perenne" della vita, delle cure che la mantengono o della volontà di restare vivi (sia per malattia o altro).
Aveva già lasciato andare le figlie nel mondo, ma non voleva lasciar andare il marito nell'al di là? Aveva optato per la plausibile sofferenza minore, fra l'esser vedova e il non-esser-più? Aveva i suoi principi morali ad accompagnarla fieramente nella scelta e nel valicare la frontiera? Narrazioni, trame, interpretazioni, ricerca di un senso in una scelta altrui, di un valore simbolico, magari di un eroe e uno o più antagonisti, di una "morale della favola" in cui lieto fine (se c'è) s'intreccia con il funerale del protagonista, etc. fra voyerismo mediatico e ideologizzazione, si direbbe che nemmeno il suicidio compiuto può essere una questione strettamente personale... e non direi che "in fondo non lo è mai stato", dai tempi (verosimili) di Socrate o da quelli narrativi di Antigone, Giulietta e Romeo, etc, perché in questo caso, nonostante l'indubbia tonalità romantica (nel senso letterario del termine), il narratore ha raccontato solo l'epilogo della loro storia, che staccato dai "capitoli" precedenti risulta un mero fatto di cronaca da esporre a velleitari giudici (dire "informare" sarebbe piuttosto fuori luogo), a cui pare mai abbia fatto appello chi, volendo, avrebbe potuto attirarne molti, da "vivo aspirante-morto". Oltre a voler morire, qualcuno ha anche l'occasione di poter scegliere se e quanto baccano fare prima di andarsene, e qui mi sembra (ma non ho approfondito) che l'intenzione dei protagonisti lasci poco all'interpretazione. Fare del loro caso uno spunto di riflessione forumistica è cogliere la palla al balzo, e i rimbalzi sono certamente interessanti e persino filosofici; la mia perplessità è infatti piuttosto il considerare come "notizia" un evento tale che, nelle intenzioni dei protagonisti, forse non intendeva diventare tale (e qui sicuramente pecco di ingenuità nel considerare il rapporto fra l'esser "mediaticamente schivo" del/i protagonista/i e l'esser "deontologicamente impiccione" del narratore, o la scelta di "elaborazione in buona fede" fatta dalla figlia o da chi ha informato la stampa).
A mio giudizio direi che, alla possibile (non necessaria) sospensione del giudizio dei vivi, ben corrisponde la discrezione nel volontario spegnersi dei morituri in questione. Il problema di assegnare un senso (a momenti di vita vissuta, a storie o scelte di vita, alla vita in toto) credo riguardi chi è ancora al di qua, mentre al cospetto del desiderio di passare al di là, per chi lo contempla "sulla soglia", suppongo (e generalizzo impropriamente) tutti i sensi "narrativi" si sbriciolino, venendo meno la condizione di possibilità di porne la questione... sebbene per i vivi, desideranti restare nel loro al di qua (anche se non si fanno "autenticamente" carico di tale scelta ogni mattina), anche questa può suonare come una assegnazione di senso, o di dissenso.
Di fronte alla scelta solipsistica del suicidio (solipsismo esistenzial-filosofico, non quello ideal-caricaturale dell'«sono l'unico ente dell'universo»), non vedo nemmeno come sensata, almeno per i miei parametri, la questione del "rispettare le scelte altrui", dove "rispettare" significa qualcosa di misto fra il condividere, il non-criticare e il disinteresse, oppure della "vita come bene prezioso", affermazione quasi sarcastica se detta a un aspirante suicida (e a cui corrisponderebbe la "morte come male", in una visione al contempo fantasiosa ed istintiva dell'esistenza, in cui "il bene" trascende l'esistenza, come raccontano in coro schiere di vivi, anziché restare immanente ad essa).
Chiaramente se la morte in gioco non è la propria, i parametri cambiano nettamente e, non a caso, scende anche in campo il diritto a regolamentare i rapporti fra i cittadini (il diritto regolamenta anche eutanasia e casi simili, ma non mi pare questo il mood del topic). Se invece sto per avvelenarmi ed arriva qualcuno a "salvarmi", ci vedo più una sua palese incomprensione del mio gesto o/e autoritaria ingerenza nella mia scelta individuale, piuttosto che un atto di eroismo o benevolenza (come sarebbe invece salvare chi non vuole morire). Giustificare il proprio intervento pensando che, se mi sto per avvelenare, non so quello che faccio e ho bisogno di essere aiutato, è forse più una questione di proiezione (da parte di chi alla sua vita ci tiene) e pregiudizio culturale (la vita come "bene", dono di un dio, etc.). Anche appellarsi all'istinto di sopravvivenza, non terrebbe presente che tutta la nostra "evoluzione", tutta la nostra "intelligenza", tutte le nostre "culture", si fondano perlopiù sul non ascoltare, o quantomeno addomesticare, gli istinti; se a quello di sopravvivenza concediamo la deroga, condannando moralmente la "eterodossia del seppuku", è per me solo una contingenza storico-culturale.
P.s.
Ciò non vuole essere un giudizio né sul tema in generale dell'eutanasia (che non è semplicemente un suicidio), né sul suicidio (che in quanto gesto individuale mal si presta a ragionate categorizzazioni da studio statistico), né sul taglio datogli da questo topic (proficuamente riflessivo), ma solo un commento "terra terra" strettamente sull'"evento di cronaca" che ha funto da spunto per la discussione.
No (wo)man is an island. Non lo è quando permette un approdo attuale o postumo alle sue coste pubblicandone la foto sui giornali. Lo è ancor meno quando la didascalia alla foto entra a gamba tesa in quella che un tempo si sarebbe chiamata pubblica opinione e che i filosofi chiamano il senso della vita. E della morte che ne è suggello o sigillo estremo. Non per impudica e morbosa impiccioneria ho postato questo evento ma per saggiare la coscienza del forum su una questione che mi investe avendo quella campana suonato per me. Con tutta l'empatia che l'analogon, il sensibile, suscita quando una corda risuona con le tue. Una corda nel registro basso, che tutte le armonie sorregge. Con una sua etica ed estetica radicali, consegnate alla critica dell'umano. Il quale non è istruzioni per l'uso e marcatura CE, ma errabonda animula vagula blandula che si incontra con altre animule aperte alla critica dei loro fondamenti ogniqualvolta qualcosa di inusitato accada. Come in questo caso, gettato nel mondo. Dei vivi, s'intende. I morti hanno già detto la loro. E raggiunto il loro nirvana, da cui del nostro silenzio o chiacchericcio poco si curano.
Citazione di: Ipazia il 09 Aprile 2020, 07:48:59 AM
Non per impudica e morbosa impiccioneria ho postato questo evento ma per saggiare la coscienza del forum su una questione che mi investe avendo quella campana suonato per me.
Speravo d'aver postillato a sufficienza per evitare malintesi, ma pare me ne sia maldestramente lasciato sfuggire uno fra i possibili (e proprio quello che maggiormente volevo scongiurare): quando parlavo dell' «esser "deontologicamente impiccione" del narratore»(autocit.) mi riferivo al cronista/giornalista che per deontologia "deve" impicciarsi dei fatti di cronaca elevandoli a pubbliche notizie che attecchiscono, nel nostro orticello, come spunti di riflessione.
Ribadisco che lo spunto filosofico è per me (e non solo) ricco e interessante, ma volevo anche osservare di passaggio come la sua genesi sia apparentemente non voluta dai protagonisti (e qui, come detto, pecco di ingenuità sociologica e mediatica nel ritenerlo un fattore, forse morale forse estetico, da considerare).
C'era un'ombra di dubbio che mi fa piacere sia stata rimossa. Del resto il tuo post, accurato come sempre, solleva molteplici questioni in replica ad altri interventi sui quali in generale concordo, ma lascio agli interessati la replica. Mi sono premurata di chiarire quanto di mia competenza.
La pentola scoperchiata sulle RSA in fase epidemica porta ulteriore acqua al partito dell'eutanasia e del suicidio consapevole, posto che esiste anche una
qualità della morte. Col senno di poi, quanto fu saggia la scelta di
Oriella Cazzanello!
Gli ospizi hanno una valenza positiva, sono parte della qualità della vita, gli errori commessi sono uno stimolo a migliorarli, non certo a sostituirli con la "buona" morte.
Posso comprendere, rispettare, ma non trovo affatto saggio il suicidio assistito della donna.
Miglioramento dell' assistenza agli anziani ed eutanasia (che può essere decisa unicamente dal diretto -a interessato -a direi "per definizione": solo io so se é per me preferibile morire bene che continuare a vivere male da parte mia) non sono affatto alternative reciprocamente escludentisi.
Distinguerei tra eutanasia e suicidio assistito. L'eutanasia implica una sofferenza fisica o psichica intollerabile del soggetto, il suicidio assistito no; l'eutanasia è assimilabile all'omicidio più che al suicidio.
Sono favorevole all'eutanasia e al suicidio assistito come servizio pubblico in presenza di condizioni fisiche o psichiche dolorose e ineliminabili del soggetto. Al di fuori di questi casi il suicidio rimane una scelta individuale, privata, che rispetto.
Il suicidio rimane un tabù, e non può essere diversamente perchè è un j'accuse contro la vita che chiama in causa tutti i superstititi costringendoli individualmente a interrogarsi sul valore della loro vita e sul patto con essa da dover continuamente sottoscrivere. Il dato quantitativo è un j'accuse pure contro la società, e le norme, nel suo insieme. Questo rafforza il tabù. Liberalizzare la morte è una scommessa importante su se stessa per ogni società umana e l'epidemiologia liberata dovrebbe permettere di interrogarci più a fondo sui dispositivi sociali che abbiamo o no, ratificati, spingendoci a cambiarli. Mettere la polvere sotto il tappeto non può che aumentare la sofferenza sociale e la mistificazione della condizione umana, aggravando la patologia.
Io ci andrei piano a dire che lo stato deve aiutare a morire anche un individuo non malato, non paralizzato, pienamente cosciente e fisicamente in grado di suicidarsi da solo: non ho dubbi che sia giusto aiutare a morire chi è paralizzato o a vario titolo imprigionato nel suo stesso corpo, ma quando si arriva all'individuo sano e deambulante che chiede il bicchiere di veleno allo stato perché "fare da solo" con l'atto pratico del suicidio lo turba in qualche modo, qualche dubbio mi viene, ho l'impressione che la giusta misura sia stata passata, e una pratica di per sé giusta strumentalizzata.
Il suicidio assistito dovrebbe essere un aiuto a morire, idealmente da parte di uno stato che ama così tanto i suoi cittadini da essere disposto a lasciarli andare, nella misura in cui amare è anche saper lasciare andare: ma in amore si aiuta chi non può scegliere, aiutare chi già di suo può (benissimo) scegliere, mi sa più di condizionare la sua scelta, che non di aiutare.
Essere fisicamente non più in grado di suicidarsi per una malattia o un deterioramento fisico avanzato, è una condizione oggettivamente patologica, di un corpo che non funziona più al meglio delle sue possibilità; al contrario voler morire ma essere spaventati da alcune difficoltà pratiche connesse all'atto pratico del suicidio è una condizione interiore ed esistenziale, connaturata alla condizione umana in senso lato, e non certo patologica: lo stato che si immischia in questa seconda condizione (puramente emotiva, mentale) non è come lo stato che si immischia nella prima condizione (fisica, di paralisi) e proprio da un punto di vista liberale mi fa un po' paura: preferisco lo stato che non imponga la vita, criminalizzando il suicidio, ma nemmeno semplifichi la naturale difficoltà della morte quando una volontà disperata sfida l'istinto di sopravvivenza, fornendo veleno ad aspiranti suicidi fisicamente abili.
Io preferisco una società che rimuova all'origine le cause che spingono una persona a scegliere la morte. E che la conceda quando può affermare in buona coscienza di aver fatto tutto il possibile per evitarla.
Citazione di: Ipazia il 13 Aprile 2020, 14:02:39 PM
Io preferisco una società che rimuova all'origine le cause che spingono una persona a scegliere la morte. E che la conceda quando può affermare in buona coscienza di aver fatto tutto il possibile per evitarla.
Le cause per scegliere la morte sono spesso individuali, non è la società che deve indurci a vivere (come se la definizione di voglia di vivere fosse la stessa per tutti...) e il singolo individuo difforme che sceglie la morte e "accusa" la vita ci sarà sempre; per questo dicevo che la morte, in particolare nella forma del suicidio assistito, la si dovrebbe "concedere" caso per caso quando aggiunge qualcosa di utile per l'autodeterminazione e rimuove un ostacolo reale, non a mani basse e non come se fosse un diritto spettante a tutti, perché secondo me non lo è.
Citazione di: Ipazia il 13 Aprile 2020, 11:03:06 AM
Il suicidio rimane un tabù, e non può essere diversamente perchè è un j'accuse contro la vita che chiama in causa tutti i superstititi costringendoli individualmente a interrogarsi sul valore della loro vita e sul patto con essa da dover continuamente sottoscrivere. Il dato quantitativo è un j'accuse pure contro la società, e le norme, nel suo insieme. Questo rafforza il tabù. Liberalizzare la morte è una scommessa importante su se stessa per ogni società umana e l'epidemiologia liberata dovrebbe permettere di interrogarci più a fondo sui dispositivi sociali che abbiamo o no, ratificati, spingendoci a cambiarli. Mettere la polvere sotto il tappeto non può che aumentare la sofferenza sociale e la mistificazione della condizione umana, aggravando la patologia.
Questa, se ho ben capito, è una prospettiva interessante e condivisibile. In buona sostanza, correggimi se sbaglio, sostieni che il fallimento di ogni persona è ANCHE attribuibile al resto della famiglia umana. E dunque ogni persona che desidera e, addirittura, mette in pratica il suicidio, rende una testimonianza negativa alla società nel suo insieme.
In tutta franchezza sono d'accordo.
L'altro aspetto del ragionamento, su cui tra l'altro abbiamo già dibattuto e cioè il "liberalizzare" il suicidio assistito.....a me mette i brividi. Non so....secondo me c'è qualcosa di malsano nel rendere di "ordinaria amministrazione" una cosa così straordinaria, intima, personalissima.
Guarda che, non l'ho forse mai espresso così chiaramente come sto per fare, ma io ricordo perfettamente quando, da bambino, appassionato di storia (e dunque usi e costumi) degli indiani d'America, ne leggevo avidamente tutto ciò che trovavo.
E grande fascino, rispetto e ammirazione suscitava in me il sistema usato da molti anziani di diverse tribù che, una volta raggiunta un'età nella quale non erano in grado di provvedere a sè stessi, si ritiravano in luoghi appartati e si lasciavano morire. (e si suscitava dentro di me un fanciullesco ma non meno autentico desiderio di emulazione quando sarebbe venuto il mio momento) Una legge non scritta certamente dura degna conseguenza, di un'esistenza dura. Dura ma libera, dignitosa, naturale. Come, del resto, tutta la vita degli indiani d'America.
Questo per dire che non sono contrario in linea di principio al tema così delicato che hai proposto.
E' solo che avverto stridenti contraddizioni, discussioni sfacciate e strumentali, pregiudizi, che mi hanno fatto prendere "in strino" tutto quanto il tema. (non è questo il caso)
Citazione di: Freedom il 13 Aprile 2020, 15:50:07 PM
Citazione di: Ipazia il 13 Aprile 2020, 11:03:06 AM
Il suicidio rimane un tabù, e non può essere diversamente perchè è un j'accuse contro la vita che chiama in causa tutti i superstititi costringendoli individualmente a interrogarsi sul valore della loro vita e sul patto con essa da dover continuamente sottoscrivere. Il dato quantitativo è un j'accuse pure contro la società, e le norme, nel suo insieme. Questo rafforza il tabù. Liberalizzare la morte è una scommessa importante su se stessa per ogni società umana e l'epidemiologia liberata dovrebbe permettere di interrogarci più a fondo sui dispositivi sociali che abbiamo o no, ratificati, spingendoci a cambiarli. Mettere la polvere sotto il tappeto non può che aumentare la sofferenza sociale e la mistificazione della condizione umana, aggravando la patologia.
Questa, se ho ben capito, è una prospettiva interessante e condivisibile. In buona sostanza, correggimi se sbaglio, sostieni che il fallimento di ogni persona è ANCHE attribuibile al resto della famiglia umana. E dunque ogni persona che desidera e, addirittura, mette in pratica il suicidio, rende una testimonianza negativa alla società nel suo insieme.
In tutta franchezza sono d'accordo.
Sì, penso che in una situazione ideale ciascuno dovrebbe trovare più motivazioni per vivere, che per morire. In ciò si misura il successo di un contesto sociale...
CitazioneL'altro aspetto del ragionamento, su cui tra l'altro abbiamo già dibattuto e cioè il "liberalizzare" il suicidio assistito.....a me mette i brividi. Non so....secondo me c'è qualcosa di malsano nel rendere di "ordinaria amministrazione" una cosa così straordinaria, intima, personalissima.
... e solo la "liberalizzazione della morte" mi dice se il bersaglio è stato raggiunto o se bisogna - epidemiologicamente - aggiustare la mira. Nella libertà non vi è nulla di ordinario; anzi: ogni gesto ha un significato straordinario e gravido di conseguenze.
CitazioneGuarda che, non l'ho forse mai espresso così chiaramente come sto per fare, ma io ricordo perfettamente quando, da bambino, appassionato di storia (e dunque usi e costumi) degli indiani d'America, ne leggevo avidamente tutto ciò che trovavo.
E grande fascino, rispetto e ammirazione suscitava in me il sistema usato da molti anziani di diverse tribù che, una volta raggiunta un'età nella quale non erano in grado di provvedere a sè stessi, si ritiravano in luoghi appartati e si lasciavano morire. (e si suscitava dentro di me un fanciullesco ma non meno autentico desiderio di emulazione quando sarebbe venuto il mio momento) Una legge non scritta certamente dura degna conseguenza, di un'esistenza dura. Dura ma libera, dignitosa, naturale. Come, del resto, tutta la vita degli indiani d'America.
E' anche il mio punto di partenza per la riflessione sulla morte proprio perchè si tratta di un modello sociale in cui mi riconosco totalmente: una società di uguali il cui sostentamento ha un forte carattere comunitario e in cui l'individuo non viene deprivato della sua dignità nemmeno di fronte alla morte che sta a lui decidere quando è giunto il momento. Non per un infantile rivalsa verso la comunità o affermazione di chissà quale velleità individualistica, ma nell'armonia, dura ma perfetta, della conservazione della tribù.
Malgrado la nostra molto meno armonica, omologante, estraniante, realtà sociale, non è che tale atteggiamento di fronte alla morte sia divenuto impraticabile perchè comunque rimane immutato il principio di dignità che ciascun umano ha il diritto di rivendicare nel momento della morte affrontandola, come dice l'imperatore Adriano, con gli occhi bene aperti.
Condivido la posizione di Davintro, secondo cui:
...la ragione è la facoltà tramite cui possiamo valutare la diversa efficacia dei vari mezzi possibili rispetto a un certo fine, ma non può giudicare in termini oggettivi l'effettivo valore del fine in sé, che resta espressione di una sensibilità morale del tutto soggettiva. Quindi non ha senso dire che l'istinto di sopravvivenza come necessario fine da perseguire sia razionale (così come non avrebbe senso intenderlo come irrazionale), ma che razionale può essere una strategia funzionale al fine che questo istinto indica, ma non il fine in se stesso. E anzi, proprio la ragione, intesa come facoltà di mediare, analizzare, collegare percezioni esprime quella facoltà di astrazione per la quale la vita umana non è mai riducibile alla mera continuazione biologica, ma comprende un livello spirituale/morale indicante un ideale personale di "vita degna di essere vissuta"...
Proprio gli individui superiori (come gli umani, non schiavi di sè stessi come gli animali), con la loro razionalità, sono capaci di superare gli istinti (compreso quello di sopravvivenza) e raggiungere un livello sul quale gestiscono e decidono i loro fini e principi.
La vita degna di essere vissuta è senz'altro un buon argomento, un buon fine (molto migliore dell'essere vittima dei propri istinti), ma al limite non è neanche quello: lo spazio delle finalità è ampio, così come le ragioni della scelta di esse.
La scelta del fine si traduce poi in decisione sulla propria vita, che senz'altro può includere la propria morte, o l'accettazione o la negazione della continuazione biologica della famiglia o della specie.
Purtroppo la massa degli individui, in gran parte incapace di questa visione umana superiore e magari schiava degli istinti, determina oggi (e soprattutto ieri) grossi ostacoli alla possibilità di esprimere le diverse finalità che ho citato.
Ma fortunatamente stiamo viaggiando, anche se molto lentamente, verso la loro ammissione, e eutanasia e suicidio assistito (dal mio punto di vista non c'è gran differenza-sono entrambi da ammettere al 100%) sono in qualche modo fattibili, lo saranno sempre più probabilmente.