una delle interpretazioni principali della religione da parte dell'ateismo è quella di intenderla essenzialmente come "proiezione", proiezione di attributi realmente umani, in una realtà trascendente superiore all'uomo. Esempio classico di tale impostazione è Feuerbach. Gli attributi che il teismo attribuisce a Dio, sarebbero proprietà umane, che l'uomo infinitizza collocandoli in una realtà trascendente, come necessità per fronteggiare i propri limiti nei confronti della natura esteriore, cioè la sua finitezza. Cioè, l'uomo cogliendo l'impossibilità, nell'immanenza mondana, di superare i limiti naturali delle proprie potenzialità (direi, prima di tutto, l'angoscia di fronte all'idea del nulla dopo la morte), chiede a un'entità trascendente di sostenerlo nel tentativo di superamento di tali limiti, e perché tale sostentamento sia efficace tale trascendenza dovrà essere da un lato sovrannaturale, trascendente cioè i limiti naturali, ma dall'altro la sua azione di trascendimento dovrà realizzare i valori tipicamente umani: amore, sapienza, potenza... Tale prospettiva mi ha sempre lasciato perplesso. La ragione di fondo del mio non convincimento è la pretesa del concetto di "proiezione" di risolvere alla questione dell'origine del concetto di "trascendenza" nella mente umana. La proiezione è un meccanismo mentale che necessita di essere fondata da ciò che, nella prospettiva atea, presume di poter fondare, cioè la formazione dell'idea di trascendenza nella mente umana. infatti la proiezione, ogni percezione, presuppone un soggetto che PRIMA di proiettare abbia già in mente lo "sfondo" entro cui proiettare le cose, cosicché la percezione dello sfondo, cioè l'idea di Dio, non può essere la conseguenza della proiezione, ma all'inverso, ciò che renderebbe possibile la proiezione stessa, in quanto costituisce l'oggetto verso cui il movimento proiettivo mira. Per proiettare sulla trascendenza determinati attributi ho bisogno di un'intuizione a priori dell'idea di trascendente, come substrato da "riempire" con tali attributi, e pretendere che la "proiezione" spieghi la formazione di tale idea sarebbe cadere in un circolo argomentativo vizioso, dove ciò che vi è da spiegare, l'idea di Dio, è al contempo ciò che fonda la possibilità stessa di ciò che viene introdotta come causa esplicativa (la proiezione). Dunque la proiezione non rende ragione della formazione in noi dell'idea di trascendente, cioè di Dio, al massimo può renderla riguardo le determinate proprietà che una certa tradizione religiosa, come il teismo cristiano, attribuisce a Dio. Non ha tutti i torti Feuerbach quando sostiene che l'idea di Dio, intesa come vuoto substrato al di là degli attributi che la specificano e concretizzano, ha davvero poco senso. In questo modo riteneva di squalificare l'idea di un residuo, l'idea di Dio, al di là degli attributi prodotti dalla percezione umana, cosicché l'individuazione degli attributi (a questo punto, secondo lui, riconosciuti come "umani solo umani") bastava a risolvere il problema teologico. Eppure proprio l'indissolubilità tra substrato e accidenti può essere lo spunto non per negare, ma per approfondire le implicazioni della critica al proiettivismo ateo. Questo approfondimento va posto a questo punto in direzione opposta alle intenzioni feurbachiane e in generale atee: non, se gli attributi sono umani, anche il substrato di fatto lo è, ma, se l'idea di trascendente non è spiegabile con una proiezione psichica, neanche gli attributi fondamentali possono esserlo.
Tutto ciò riapre l'interesse circa il discorso cartesiano, poi perfezionato da Rosmini, riguardo il fatto che proprio il senso delle categorie con cui il teismo descrive Dio sono il miglior argomento per risalire razionalmente alla sua esistenza. O quantomeno la presenza alla mente umana di tali categorie resta irrisolta fintanto che le ragioni le ci ricercano nell'ambito della dimensione mondana e immanente, perché concetti come "eternità", "totalità", "perfezione" hanno un senso che non si identifica con nessuno degli oggetti della nostra esperienza mondana ordinaria. A mio avviso, occorrerebbe capovolgere l'assunto ateo di risolvere il tema dell'origine del senso religioso al tentativo umanissimo di rispondere psicologicamente a dei bisogni umani. Non sono cioè le categorie teiste a originarsi da dei bisogni, ma sono i bisogni a essere determinati dalla presenza nella nostra mente di tali categorie, non storicamente o psicologicamente derivate, ma originarie e strutturali nell'uomo, al di là delle sue proiezioni arbitrarie. Non sarebbe ad esempio la paura della morte a indurre l'uomo a immaginare un'anima immortale o un Regno di Dio eterno, bensì la paura della morte è solo l'altra faccia della medaglia della speranza della vita eterna, paura impossibile da provare senza la presenza nella sua mente di tale idea, l'idea dell'eternità, presenza dunque non spiegabile a partire da questa paura, ma che la precede, o quantomeno non la segue come conseguenza. Resta dunque intatta la questione della ragion d'essere di tale originarietà della presenza del senso religioso e delle sue categorie nell'interiorità umana come questione indipendente dai livelli dell'esperienza umana immanente a cui si fermerebbero psicologia, antropologia, sociologia, colte nei loro oggetti e metodi di ricerca empiristi e positivisti, questione che mantiene un solido e autonomo carattere metafisico, e dunque filosofico
Per dare un contributo al tuo interessante spunto mi verrebbe da aggiungere un'altra possibilità che può aver dato la stura all'idea nell'uomo di una realtà trascendente il dato sensibile. Questa può aver origine da quel tipo di esperienze mistiche che definiamo come trascendentali in quanto si presentano alle persone che ne fanno esperienza come qualcosa di "totalmente altro" al pensiero, all'emozione e al sentimento quotidiano. E' possibile ipotizzare che questa sia stata una possibilità ampiamente alla portata di molti uomini e donne dei tempi antichi. Nella tradizione buddhista si parla dell'incapacità , per la maggior parte degli uomini moderni, di raggiungere persino il primo jhana di assorbimento, mentre era comune ai tempi del Buddha arrivare tranquillamente al quinto. Da questo tipo d'esperienze può esser sorta o intuita la possibilità di una realtà trascendente il dato empirico e, la differenza esperienziale così profonda con la normale percezione, può aver creato i presupposti per le categorie di assoluti che si sono attribuiti a questa realtà "trascendentale". Per es. , tentando di non banalizzare, la gioia profonda e di natura totalmente diversa dalla normale gioia esperibile nel quotidiano, può esser intesa anche come gioia dell'Unione con qualcosa di indescrivible, di totalmente altro per l'appunto. Da qui l'idea , sviluppata dal pensiero, della Somma Gioia che è Dio. L'idea di divinità non è a priori e poi , le varie esperienze, ne sono state ricondotte per darne una spiegazione, ma è a posteriori, cioè nata sulla base di queste esperienze trascendentali . In Genesi abbiamo proprio la visione simbolica di questa realtà., a mio parere:"Dio camminava nel giardino dell'uomo". Questa amicizia era la visione quotidiana del trascendente che poi , via via, l'uomo ha allontanato per volontà di dominio sul reale e sul bisogno della sfera fisica e sensitiva. Si è preferito abbandonare il paradiso e la visione per conoscere e assoggettare, cioè per sete di dominio del "giardino" che però, a quel punto, essendo troppo "fragile" per esser visto in maniera così "grossolana"...è sparito dall'orizzonte della visione umana!
Citazione di: davintro il 06 Agosto 2017, 19:35:08 PM
proprio il senso delle categorie con cui il teismo descrive Dio sono il miglior argomento per risalire razionalmente alla sua esistenza. O quantomeno la presenza alla mente umana di tali categorie resta irrisolta fintanto che le ragioni le ci ricercano nell'ambito della dimensione mondana e immanente, perché concetti come "eternità", "totalità", "perfezione" hanno un senso che non si identifica con nessuno degli oggetti della nostra esperienza mondana ordinaria.
Forse più che di "proiezione", in quei casi, è opportuno parlare di "sublimazione", "gradazione ontologica" (come facevano i medievali, se non erro) o semplicemente "astrazione", secondo differenti modalità: se sperimento la caducità, mi basta pensarne la negazione (non-caducità) per ottenere il concetto d'eternità; se osservo la parzialità posso astrarne il concetto di totalità come suo contrario; se individuo graduali imperfezioni (più o meno rilevanti), posso arrivare a supporre un'ideale assenza di imperfezioni...
A farla breve, se penso a tutto ciò che è passeggero, parziale, imperfetto, materiale, in una parola sola "immanente", posso poi sublimarlo, anche
via negationis, in qualcosa di grado sommamente superiore... ed ecco il
concetto di trascendente partendo dall'
esperienza dell'immanente.
Citazione di: Sariputra il 06 Agosto 2017, 21:45:23 PM
L'idea di divinità non è a priori e poi , le varie esperienze, ne sono state ricondotte per darne una spiegazione, ma è a posteriori, cioè nata sulla base di queste esperienze trascendentali
Concordo, anche se "esperienze trascendentali" è un po' un ossimoro (esperisco l'immanente, se esperissi il trascendente diverrebbe subito immanente al mio percepirlo/esperirlo ;) ), tuttavia dipende se parliamo di "trascendere" in senso (neuro)cognitivo o in senso mistico (oppure facciamo magari coincidere le due istanze).
La comprensione degli uomini nei tempi antichi andava davvero lontano! Quanto? Al punto che alcuni di essi credevano che le cose non erano mai esistite - così lontano, verso quel termine, dove niente può essere aggiunto. Quelli al livello subito inferiore pensavano che le cose esistevano ma non avevano confini tra di loro. Quelli ad un livello subito inferiore a questi ultimi ritenevano che i confini c'erano ma non c'erano "giusto" e "sbagliato". Siccome giusto e sbagliato apparirono, la Via (il Tao) fu ferita... (Chuang Tzu, capitolo 2 - tradotto dall'inglese da https://terebess.hu/english/chuangtzu.html)
Oggi riteniamo che "esperienze mistiche" come quelle di sentirsi "uno con l'universo", esperienze ineffabili, oltre il linguaggio ecc siano cose o eccezionalmente rare oppure cose addirittura patologiche. Allo stesso modo noi guardiamo al presente come ad un netto progresso rispetto al passato, mentre 2000 o 3000 anni fa guardavano al passato con nostalgia, ad indicare che un qualche tipo di "disastro" ci ha fatti "cadere" in questo mondo. Per esempio si può confrontare il racconto dell'Eden con la citazione di Chuang-Tzu che ho riportato sopra: la caduta è avvenuta quando Adamo ed Eva hanno per voler diventare come Dio conoscere il "bene" e il "male" (nel taoismo questa distinzione significa la caduta dall'accordo con la Via). In sostanza sembra che tutte queste fonti siano concordi nel dirci che più va avanti il mondo più è peggio nel senso che più ci è difficile vivere in un certo modo. In particolare Chuang-tzu sembra dire la stessa cosa di Buddha quando dice "gli antichi dicevano che le cose o non esistevano o non avevano confini tra di loro" (vedi "anatta" nel buddismo, ossia l'assenza di un'identità "distinta"...) e guarda abbastanza malinconicamente la corruzione dei suoi tempi: ai suoi tempi - secondo lui - confuciani, mo-isti ecc cercavano in ogni modo di controllare l'uomo e la natura, di conoscerla ecc e proprio per questo scrisse (o lui o chi per lui) un'opera in cui proprio la logica usata dai suoi "rivali" per far vedere quanto essa sia pericolosa, quanto sia inutile cercare di conoscere, possedere tutto ecc. Eppure tutte queste tradizioni ci suggeriscono una cosa strabiliante in quanto il confronto del "mondo caduto" è fatto con una realtà che è "senza confini", "oltre il tempo", "senza morte", "oltre ogni comprensione" ecc. Ossia per dirla in poche parole ci suggeriscono che è come se in noi, nel nostro più profondo essere, fossimo per così dire a contatto con questa dimensione e che nella nostra ossessione a distingerci e a distinguere (e discriminare) quello che facciamo è allontanarci sempre più da tale dimensione anche se ironicamente con questa nostra ossessione miriamo proprio a raggiungere uno stato "senza morte"! In sostanza è come se veramente noi abbiamo una "reminiscenza" (anamnesi... Platone) o qualcosa di simile che ci fa mirare al trascendente. In sostanza questa "reminiscenza" noi finiamo per applicarla a "questo mondo" e cerchiamo l'infinito nel finito, il "senza morte" nel mortale, l'eterno nel tempo, l'indeterminato in ciò che è determinato, l'universale nel particolare. Ma questa impresa, secondo queste tradizioni, è dettata da una pretesa che ci auto-condanna perchè cerchiamo una cosa che non possiamo trovare. E così arrivano questi "maestri" dell'antichità che ci consigliano di "avere fede", "di abbandonare la ricerca e i desideri", "di abbandonare l'io", "di non restare aggrappati all'io, al mio e a tutti i concetti" perchè in questa nostra ossessiva ricerca siamo destinati a fallire... in realtà secondo questi saggi quello che dobbiamo fare è fermare tutto questo, ritornare ("il ritorno è il movimento del Tao" Tao Te Ching, capitolo 40) indietro. Nel buddismo nonostante la concezione ciclica del samsara ci viene consigliato di "ritornare indietro prima dell'idea dell'io" in quanto anche qui tutto il "dukkha" è iniziato quando si è iniziato a distinguersi e distinguere tra le cose (avidya). Quindi davidintro e Sariputra, quando vedo più o meno TUTTI questi antichi maestri dicono questo mi domando: e se hanno ragione? Probabilmente davvero i "maestri dei tempi remoti" "accedevano" più facilmente a questa realtà proprio perchè a quei tempi erano davvero meno "sconnessi" dalla "realtà" - ossia in altri termini erano meno ossessionati con le discriminazioni, con la volontà di controllare e così via. Perchè una volta si arrivava al quinto jhana con facilità e oggi non arriviamo manco al primo? Forse perchè invece di "tornare" e "rinunciare" oggi vogliamo "imporre"?
Quindi sì secondo me davidintro c'è davvero in noi una sorta di "reminiscenza" che ci fa confrontare in "automatico" la realtà finita, limitata, mortale, transitoria con l'eterno, l'illimitato ecc. Inoltre più si va avanti nel tempo più forse ci allontaniamo da questa reminiscenza e ne abbiamo un ricordo così vago che non sappiamo proprio nemmeno "squarciare il Velo di Maya" nemmeno per un attimo... Che tristezza :(
Una citazione piuttosto interessante di Jaspers sulla trascendenza che si trova su Wiki:"La trascendenza non è esistenza. L'esistenza infatti sussiste solo in quanto c'è comunicazione; la trascendenza invece è se stessa senza bisogno d'altro". Se parliamo di "esperienze di trascendenza" vediamo infatti che la loro più precipua caratteristica è l'incomunicabilità ( la citazione ovviamente non ha nulla a che fare con questo,la sto strumentalizzando ai fini del mio discorso... :) ). La possiamo ricordare con terminologie simboliche, con paragoni, ecc. ma tutto questo non ha nulla a che fare con l'esperienza in sé. C'è l'esperienza e poi c'è il tentativo del pensiero di inquadrarla nelle definizioni. "Dio" appare quindi, a mio avviso, come una definizione di un'esperienza incomunicabile . Chi ha fatto esperienza di stati "mistici" conosce perfettamente il limite invalicabile che pone il linguaggio. Chi tenta di superarlo spesso scade nel ridicolo, se non addirittura nell'infantile. Si fa l'esperienza e poi... la si definisce come "mistica" perchè non si sa che parola usare. Tutto questo si presta ovviamente all'errata interpretazione. Essendo uno stato incomunicabile è anche uno stato d'esperienza della morte (del pensiero). Nel momento in cui si sperimenta questo morire e pertanto vengono a cessare tutte le formazioni mentali che sostengono la differenziazione non è più possibile sostenere una distinzione di qualsivoglia tipo. Se non c'è più chi sperimenta la trascendenza non ha nemmeno senso parlare di trascendenza o immanenza, essendo l'esperienza in sè al di là delle definizioni di trascendenza o immanenza, oppure di vita o morte, di essere o non-essere, io e Dio, ecc.. Spesso si parla di "essere visitati". Quindi non più "Io ho visto" ma, nel mio morire al pensiero, "sono stato visto". E' interessante ...ma è ovviamente sempre e solo una definizione a posteriori che assume un senso solo per chi ha già vissuto un certo tipo d'esperienza. . Simbolicamente è l'Adam che non vuole esser visto e si nasconde, che si "copre" con la conoscenza ( "Sono nudo"). Questo sembra indicare che, solo se mi denudo o ritrovo la mia originaria natura di totale nudità, posso uscire dall'inferno della differenziazione ( della "cacciata"...che ho voluto per poter dominare), differenziazione che è il nostro abito mentale, la nostra foglia di fico.
Già Sariputra... il problema dell'incomunicabilità. Ma aggiungo che oltre al problema dell'incomunicabilità queste esperienze hanno una seconda caratteristica. La "sensazione" (invero non è più una sensazione, piuttosto assomiglia all'assenza di sensazione) che si ha è che si è avuto contatto con una "dimensione" più "elevata". Parlare solo di incomunicabilità rischia di sottovalutare l'importanza di questa "elevazione", così infatti il Totalmente Altro (qualsiasi "assoluto" esso sia) non solo è "altro" ma è anche elevato, perchè non c'è niente che possa essere paragonato ad esso neanche nella nostra immaginazione, la quale pur essendo un interessante modo di "trascendere" la realtà empirica è pur sempre costretta ad essere ancorata ad essa. Quindi la "nudità" di Adam, ossia lo stato "pre-Caduta", non possiamo nemmeno immaginarla perchè anche con l'immaginazione non vediamo altro che "vestiti". Quello che facciamo è con le parole indicare nel miglior modo possibile tale "stato", ma con le parole non riusciamo a far nulla: il Totalmente Altro e Superiore ci sfugge perchè è "Superiore" ad ogni "altro" che ci può capitare nell'esperienza "ordinaria" o che possiamo immaginare e allo stesso tempo è "Altro" rispetto ad ogni "superiore" che possiamo concepire. Per questo motivo quando leggiamo gli scritti di questi mistici ci sembrano assurdi: cosa vuol dire che "per gli uomini antichi le cose non esistevano o esistevano ma senza confini" (parafrasi della citazione di Chuang-tzu)? Nulla perchè d'altronde l'albero e la sedia sono due cose diverse (quindi esistono e sono ben confinate, ben distinte). Eppure quando sentiamo queste parole mettiamo in discussione il nostro distinguere, il nostro "principium individuationis" come un errore, un "peccato", che ci allontana da uno stato al contempo "superiore" ed "altro". Per esempio Buddha nel descrivere il Nirvana disse: "Vi è quella dimensione dove non c'è terra, né acqua, né fuoco, né vento; non vi è la dimensione dell'infinità dello spazio, né la dimensione dell'infinità della coscienza, né la dimensione del nulla, né la dimensione di 'né-percezione-né-non-percezione'; non vi è questo mondo, né un altro mondo, né sole, né luna. E lì, io dico, non vi è giungere, né andare, né rimanere; né scomparire né sorgere: non è fisso, né si evolve, senza sostegno (oggetti mentali). Questa, solo questa, è la fine della sofferenza." Non c'è né Sole nè Luna, né fissità né evoluzione, non vi è né giungere, né rimanere, né andare. In poche parole ogni concettualizzazione (ossia ogni "confine", ogni distinzione, ogni discriminazione) è una sorta di ostacolo, un "allontanamento" da questa "dimensione" - che siccome non è ni-ente, nessun ente, nessuna "cosa" è invero per la nostra ragione il "nulla". Ma quando ascoltiamo queste parole sappiamo che l'errore non è di questi visionari bensì è proprio della nostra limitata ragione.
Tuttavia tra di noi dobbiamo comunicarci anche questo tipo di esperienze e quindi dobbiamo "concettualizzare" ciò che non può essere concettualizzato, altrimenti saremmo completamente smarriti, saremmo senza speranza, saremmo completamente "caduti". Così ci tocca "tradurre" con il nostro linguaggio anche queste esperienze e spesso tutto ciò produce affermazioni senza senso che servono come "indicazioni"... Il positivismo sbaglia proprio quando afferma che è la nostra ragione a creare la "trascendenza" non rendendosi conto che la trascendenza per la ragione è proprio il niente visto che la nostra ragione è basata sull'esperienza ordinaria. Infatti è proprio dal collasso di ragione e linguaggio che possiamo "intuire" che c'è davvero l'Oltre...
Citazione di: davintro il 06 Agosto 2017, 19:35:08 PM
Non sono cioè le categorie teiste a originarsi da dei bisogni, ma sono i bisogni a essere determinati dalla presenza nella nostra mente di tali categorie, non storicamente o psicologicamente derivate, ma originarie e strutturali nell'uomo, al di là delle sue proiezioni arbitrarie.
Citazione di: davintro il 06 Agosto 2017, 19:35:08 PMQuì stà il punto.Non penso che l'uomo, un neonato, nasca con già delle categorie mentali ma nasce "predisposto a..."
Nasciamo già con un programma nel cervello ,ma il neonato ha una tabula rasa in termini di esperienza.
Per quello che conosco di neuroscienza e cognitivismo, le percezioni sensoriali che vengono prelevate poi dai nervi sensoriali per deporli fisicamente nel cervello come neuroni e sinapsi sono forme fisiche di network di collegamento comunicativo di informazioni che costituiscono anche le memorie.Ma via via che il bebè cresce il suo cervello diventa "mentale", perchè comincia a correlare le esperienze e quindi significa che quella iniziale tabula rasa avendo ora più informazioni, quando si trova a correlare la stessa informazioni in tempi diversi comincia a scegliere ed è questo procedimento che è il mentale.Significa che le percezioni sensoriali trasmesse dai relativi nervi al cervello prima ancora di depositarsi nel cervello vengono mediate dal mentale. Il problematico del cognitivismo e soprattutto neuroscienze è proprio quel "mentale" perchè è il trascendente del cervello.Allora significa che il programma iniziale insito nella nascita dell'uomo prevede la formazione di un trascendentale mentale ed è quì che si formano tutti i concetti logici ordinativi ,le categorie che hanno appunto il compito di organizzare il mondo dell'esperienza e di poterne a sua volta interagire vivendo. Unisce la prassi e la teoria.
La teologia del Dio a cui l'uomo attribuisce i superlativi assoluti e relativi alle facoltà e comportamenti umani, la ritengo infantile e debole. Basta solo la teodicea per metterla in discussione.Vale a dire "perchè provo dolore e sofferenza se Dio è assoluto, santissimo, onniscente......cosa ho fatto di male per ricevere questo?" La risposta è "il mistero" nella dogmatica. ma allora sarebbe stato più utile dire ,per negazione ciò che non può essere Dio, vale a dire non può essere gli attributi umani.
L'errore umano è prendere la sua parte "buona", che quindi sa che è buona e proiettarla in un Dio, per nascondere quella "cattiva".
Tutto ciò che è mentale trascende in qualche modo l'esperienza, e il mondo anche attuale, seppur focalizzato culturalmente sul materiale e sulle prassi , è colmo di figure e concetti trascendenti il dominio fisico naturale in cui si muove l'uomo come esperienza mondana.
Dio è spiegabile come Essere incommensurabile, come origine.
Molte tradizioni argomentano di un uomo più antico più prossimo a Dio,direi quasi tutte,
Perchè le prassi vivevano nella prossimità divina, l'uomo non aveva ancora diviso il cielo e la terra attribuendo a loro ciò che avrebbe attribuito a Dio (il cielo così lontano) e all'uomo la sofferenza terrena.
Si arriva fino a Platone e quel periodo che fa da spartiacque nella storia dell'umanità , il sesto e quinto secolo prima di Cristo, in cui vivevano Buddha, Socrate, Pitagora,LaoTzu, Confucio, e infine Platone. Perchè quel fiorire di personaggi così determinanti in così poco tempo?
Platone viene da una spiritualità orfica-pitagorica che credeva nel metempsicosi, nella reincarnazione e in cui la reminiscenza era il fondamento della forma intellettiva.........ma questo è un'altra storia.
Quella reminiscenza è paragonabile al programma insito nel cervello umano fin dalla nascita.
Concordo con te paul11 che si dovrebbe parlare di predisposizione più che di "reminiscenza". Ma appunto l'uomo di oggi è lontano dalla natura e con questo è sempre più "mondano" perchè ora la sua giornata è piena di burocrazia, tasse, tv, telefonini... e appunto in questa "mondanità" si è completamente staccato dalla "realtà naturale" nel senso che si è scisso dalla "base". E più si scinde più l'io si "gonfia" e aumenta d'importanza e più ci è difficile di contrastare questa tendenza. Ma proprio per questa difficoltà siamo costretti a gonfiarci sempre di più: facciamo progetti, siamo pieni di aspettative, guardiamo il riccone di turno e confrontiamo il suo "benessere" col nostro "malessere", ci interessiamo di politica e vogliamo capire tutti i vari intrighi, spesso studiamo per "accumulare conoscenza" invece di "istruirci". Perchè l'antico era più incline ad avere esperienze "mistiche": semplice aveva meno possibilità di "gonfiare" l'io, meno possibilità di creare discriminazioni e concettualizzazioni per il semplice fatto che la sua vita era a tutti gli effetti meno "complicata della nostra". Perciò non è che la natura dell'uomo sia cambiata: anche allora infatti l'uomo era ossessionato dal controllo e dalla tendenza a discriminare, distinguere ecc. Ma adesso è molto più facile per l'uomo cavalcare questa ossessione. E più "progrediamo" nella tecnologia più siamo al contempo "padroni" delle cose (perchè dopotutto le "possediamo" e le controlliamo) e "schiavi" di esse (visto che il possesso ci lega e più cose possediamo più siamo dipendenti dalle cose stesse) e così più limitiamo la nostra libertà. Questo è il paradosso del nostro progresso: ci sembra un progresso e un'affermazione del nostro vero "io" quando in realtà tutto questo è un colossale auto-inganno (così come è sbagliato ritenere che l'uomo di 3000 anni fa era più "saggio"... era più facile essere "saggi" perchè le cose che potevano "distrarre" erano meno).
Citazione di: paul11 il 07 Agosto 2017, 12:26:40 PM
le percezioni sensoriali trasmesse dai relativi nervi al cervello prima ancora di depositarsi nel cervello vengono mediate dal mentale. Il problematico del cognitivismo e soprattutto neuroscienze è proprio quel "mentale" perchè è il trascendente del cervello.
Gli impulsi che do sulla/dalla tastiera, prima di
apparire come lettere sullo schermo, vengono mediate da Windows (nel mio caso); eppure Windows stesso non è forse localizzato e "caricato" nel computer? Anche se non tutti sappiamo dove, e magari pensiamo che Windows
sia il computer che si interfaccia con l'esterno, il computer invece
contiene Windows (e potrebbe contenere altri sistemi operativi ;) ), proprio come contiene i programmi, il browser, etc. per i quali risulta più palese che siano "caricati" e contenuti.
Per la distinzione mente/cervello, in tutta la mia ignoranza in materia, suppongo sia lo stesso: si "salva" la mente dall'essere solo immanente al cervello (quanta malinconia e frustrazione esistenziale ne deriverebbero?!) dichiarandola trascendente rispetto al suo mero substrato biologico; tuttavia ci sono cervelli senza mente (quelli dei morti), ma menti senza cervello? Non saprei... quindi, se la condizione necessaria e sufficiente per avere una mente è avere un cervello vivo, non mi stupirebbe (opinione gratuita :) ) se essa ne facesse semplicemente,
immanentemente parte come "sistema operativo" attivato dalle esperienze (seppur "localizzato" e "programmato" secondo modalità che ancora, credo, non sono chiare ai famigerati "addetti ai lavori").
P.s.Lascio fuori dal discorso anime e spiriti, che invece rendono più che legittimo ridurre il cervello a "carnale processore", alimentato dalla "corrente vitale" di un soffio trascendente.
Citazione di: paul11 il 07 Agosto 2017, 12:26:40 PM
Allora significa che il programma iniziale insito nella nascita dell'uomo prevede la formazione di un trascendentale mentale ed è quì che si formano tutti i concetti logici ordinativi ,le categorie che hanno appunto il compito di organizzare il mondo dell'esperienza e di poterne a sua volta interagire vivendo.
La
capacità di astrarre formalizzando è probabilmente innata nella mente umana e connaturata alla ragione "standard" dell'uomo, ma se riduciamo il trascendentale all'astrazione cognitiva (dubito tu intenda farlo, anche se le tue suddette affermazioni ben si presterebbero: se sostituiamo "astrazione" a "trascendentale", il discorso fila a meraviglia ;) ) forse scivoliamo
off topic...
Citazione di: paul11 il 07 Agosto 2017, 12:26:40 PM
Molte tradizioni argomentano di un uomo più antico più prossimo a Dio,direi quasi tutte,
Perchè le prassi vivevano nella prossimità divina, l'uomo non aveva ancora diviso il cielo e la terra attribuendo a loro ciò che avrebbe attribuito a Dio (il cielo così lontano) e all'uomo la sofferenza terrena.
La prossimità è non a caso una categoria dell'immanenza; se prima si era più "vicini" a Dio e, ipotizziamo senza alcuno scherno, fosse possibile persino parlarci, sarebbe stato pur sempre un rapporto immanente del mortale con la divinità (
ritenuta trascendente).
La trascendenza, in quanto tale, è un concetto-limite, fuori dalla nostra portata di vissuto, perché se anche entrassimo in relazione con qualcosa di trascendente, lo faremo nell'immanenza del nostro essere immanenti (
pardon per il gioco di parole!) e non potremmo nemmeno
capire con certezza di essere in contatto con qualcosa di trascendente (ribadisco: il
sentire del mistico lo lascerei da parte, poiché,
en passant, dire "ho incontrato il trascendente solo che non riesco a descriverlo..." porta alla domanda "come fai a sapere che era davvero trascendente? Perchè lo hai
sentito tale? Sentito con i sensi o con il sentimento?" In entrambi i casi, l'appellativo di "trascendente" resta piuttosto opinabile... come già scrissi, anche l'orgasmo potrebbe essere un'esperienza trascendente, e magari per secoli è stata davvero ritenuta tale, ma oggi sappiamo che non c'è nulla di trascendente in neurotrasmettitori, pressione sanguigna, etc.).
Per ripetere un esempio banale, la trascendenza è
come il triangolo: non mi relaziono mai al triangolo trascendente, alla triangolarità, ma solo a triangoli immanenti... la triangolarità è un'astrazione mentale costruita dall'esperienza. Parimenti, se avessi modo di contemplare la divinità faccia a faccia, la sua trascendenza sarebbe comunque immanentizzata dal mio sguardo, dalla mia retina, dalle mie sinapsi, etc.
Con ciò non affermo che la trascendenza non sia da considerare o non esista, anzi, proprio in quanto ha la
funzione di
concetto-limite, c'è; ma c'è anche ben poco da dirne (forse non sapremo mai interpretare il genitivo del titolo del topic, ovvero se lui è la nostra proiezione o noi siamo la sua ;D ).
Ci sono ricerche neurologiche che hanno evidenziato la predisposizione istintiva dei neonati a riconoscere agenti occulti. E' una cosa comprensibile, il riconoscimento serve per difendersi dai nemici e il nemico si nasconde alla tua vista. Si tratta di un'argomento che può aiutare a spiegare il concetto di divinità nella mente umana (Il Dio è infatti un agente invisibile) molto più delle tesi del superamento del limite sui cui limiti concordo con davintro.
Solo che non basta, se si vuole avere una valida spiegazione fisiologica del concetto di Dio è necessario dimostrare l'utilità di questo. Utilità non in termini di piacere prodotto (Perché in realtà il dolore, che ci avverte delle situazioni pericolose, è più utile del piacere) ma di vantaggio sul fitness.
Notiamo che il concetto di Dio è un concetto astratto, carente di riferimenti fisici, per tale ragione il suo mantenimento in mente è energeticamente costoso. L'uomo infatti cerca strumenti oggettivi che oggettivizzino tale concetto, a questo servono gli idoli, le immagini di Dio, che favoriscono certamente il fitness. L'Idolo (Ma anche la Chiesa) poi permette di spiegare la continuità dell'idea di Dio, ma non può spiegarne l'inizio.
Una situazione particolare l'abbiamo nel caso in cui un essere vivente, quindi un referente fisico, dopo la sua morte diventa Dio, come nel caso del Dio Quirino (Non ricordo se venga da Romolo o da Giulio Cesare). In realtà anche in questo caso il problema è l'idea di dividità che deve essere aggiunta e che non si sa da dove provenga, intuitivamente va associata a un'idea di "vita oltre la vita", ma quale origine può avere quest'idea e in che modo può incrementare il fitness?
Intuitivamente la convinzione di continuare a vivere dopo la morte riduce la paura di morire e questo può portare a prendere maggiori rischi aumentando il rischio di morire, quindi riduce il fitness.
Volevo poi riportare la situazione particolare del Dio ebreo. In molteplici situazioni nella Bibbia è riportato questo contrasto tra il popolo che cerca di farsi degli idoli e questo Dio che impone di non avere alcuna immagine fisica (Cioè il contrasto tra un comportamento umano perfettamente spiegabile, e qualcos'altro che non ha spiegazioni)
Considerando che quel Dio è alla base del 70 % delle forme religiose moderne, il mistero di questo contrasto è ancora più forte.
per Sariputra
in premessa mi scuso per la mia totale ignoranza di buddismo e spiritualità orientali. Provo come sempre a dire due cose in base alla logica
Penso che il punto sarebbe quello di chiarire meglio l'idea di questi "esercizi" (non so se il termine scelto è adeguato) mistico-trascendentali che permettono di raggiungere un'esperienza "totalmente altra" rispetto ai vissuti del vivere ordinario. Se le persone che hanno volontariamente approcciato questi percorsi erano coscienti (ovviamente in senso generico) del fine a cui tali esperienze erano finalizzate allora mi pare che la formazione dell'idea di trascendente non sia stata solo il risultato finale del percorso, ma qualcosa in un certo senso di già presente in partenza nella mente di questi iniziati. Altrimenti come avrebbero potuto prefiggersi uno scopo, se l'idea dello scopo, cioè il raggiungimento di un vivere "totalmente altro" non fosse già a-priori presente nella loro mente e nelle loro inclinazioni?. E se anche ipotizzassimo un'acquisizione del tutto "ex novo" di tale idea di trascendente al termine di queste esperienze, resterebbero ancora dei problemi. Il senso religioso è un dato comune a tutte le culture, a qualunque latitudine geografica si siano sviluppate, mentre la matrice buddista della tesi di esperienze mistiche-trascendentali, dovrebbe vincolare la possibilità di attingere il sommo livello di contemplazione maggiormente nel contesto geografico di diffusione del buddismo, mentre invece l'avvertimento dell' idea di Dio appare un dato piuttosto trasversale, al di là della molteplicità dei luoghi e delle epoche. Si potrebbe dire che i buddisti possono "pro domo loro" pensare di aver individuato un livello esperienziale più elevato degli altri, dove il vero trascendente si rivelerebbe, mentre altrove ci si fermerebbe a livelli inferiori. Tuttavia nel mio discorso ponevo il tema dell'origine della presenza dell'idea di Dio (o trascendente) nella mente umana intesa nella sua estrema generalità, al di là delle particolari determinazioni con cui le tradizioni spirituali storiche ritengono di poterlo descrivere e definire, per le quali ciascuna di esse ritiene di considerare più adeguata delle altre. E se ipotizzassimo che un nucleo di uomini abbia potuto apprendere a-posteriori e per via mistica l'idea di trascendenza per poi progressivamente comunicarla attraverso le epoche a tutto il resto dell'umanità, ciò ancora non escluderebbe l'originarietà e apriorità della presenza di trascendenza nell'uomo, a meno di considerare la mente come completa tabula rasa su cui si può riversare qualunque contenuto esteriore. Ma se è possibile insegnare a un uomo a leggere e scrivere, ma non lo si può con una pianta o un animale, è perché la mente umana è predisposta, e la conoscenza non è mai puro assorbimento passivo di nozioni, ma interazione tra un oggetto e una coscienza soggettiva che possiede in sé le strutture adeguate a cogliere il senso delle informazioni che riceve. Per poter comunicare, anche se in modo indiretto e imperfetto, l'esperienza del trascendente occorre che la mente che riceve la comunicazione possieda già in sé le categorie corrispondenti ai caratteri del vissuto che si vuole comunicare, cosicché si operi un raffronto fra il contenuto della comunicazione e le categorie interpretative in relazione a cui quel contenuto acquisisce un senso e un certo grado di comprensione di esso. Conoscere è sempre questa interazione, confronto soggetto-oggetto, il cui il primo termine della relazione non può mai essere del tutto passivo nell'urto con il secondo. E così si può salvare un livello trascendentale e aprioristico di senso religioso nella mente umana, che le permette di aprirsi alla ricezione delle rivelazioni, anche se non direttamente sperimentate. Poi magari nel pensare questo sono condizionato dal mio essere "occidentale" che mi porta ad ammettere al di là della via esperienziale-mistica verso la trascendenza, anche una via dialettico-concettuale, per cui anche in assenza di esperienza diretta del divino, è possibile un avvicinamento alla luce della spinta astrattiva dovuta al nostro sistema di concetti, struttura comune a tutte le menti
Per Phil
Credo che fondamentale sia non cadere nella confusione tra l'idea di "caducità" e l'esperienza di particolari cose caduche. Noi non abbiamo un'esperienza "ordinaria" della caducità. La caducità è l'idea generale che si riferisce a tutte le cose caduche, mentre noi abbiamo solitamente esperienza non di tale idea generale ma di singole cose caduche, non considerate in quanto tali. Un conto è avere un'esperienza di singole cose caduche, alberi, case, esseri umani, un conto pensare all'idea di caducità. L'esperienza esterna ci dà l'idea delle prime, formiamo il concetto di alberi, case ecc. per astrazione sulla base dei singoli atti esperienziali dei singoli alberi e case. Diverso è il caso dell'idea di "caducità" non ricavabile per astrazione (come invece le particolari cose caduche), in quanto per astrazione si ricavano solo concetti di enti sensibili, mentre l'idea di caducità, pur riferibile a enti sensibili, ha un significato intelligibile. Infatti l'astrazione consiste nel passaggio da percezioni sensibili a concetti generali alla luce del progressivo rilevamento di somiglianze tra un molteplicità di singoli dati sensibili, fino ad individuare una forma comune riferita a tutti gli enti possedenti quel tipo di somiglianze. Ciò non può invece avvenire nel caso di concetti aventi significato intelligibile come "caducità". Il coglimento del significato unitario di questi concetti non può essere la conseguenza di un'approssimazione tra le somiglianze sensibili, perché, mentre nel caso delle immagini sensibili è possibile scorgere delle somiglianze nelle forme, nei colori, al punto di poter generalizzare formando concetti comprendenti una molteplicità avente in comune tali somiglianze, per quanto riguarda gli intelligibili, questi sono tra loro distinti in uno "stacco" qualitativo ben distinto dei loro significati. Un concetto intelligibile non è mai una generalizzazione di somiglianze, ciascuno di essi possiede un nucleo di significato ben definito che permane identico in ogni individuazione, senza che una individuazione "somigli" più o meno a un'altra. Cioè, il concetto generale di "caducità" non è dato dal rilevamento di somiglianze tra le diverse forme di caducità, la caducità ha un proprio senso peculiare coglibile già in una propria singola determinazione individuale. L'astrazione è il passaggio da una molteplicità di percezioni alla generalità di un concetto. Nel momento in cui colgo la caducità di un ente finito come l'albero o la vita umana, io non sto solo percependo, ma già giudicando, ma il giudizio è una struttura costituita da concetti, dunque il concetto di caducità è già presente nella mia mente sin dall'inizio, avvertibile sin da una singolo atto esperienziale, senza bisogno di una molteplicità percettiva da cui astrarre. Dunque il concetto di caducità è originario, non il prodotto a-posteriori dell'astrazione, e non ha senso porlo come antecedente del concetto di eternità, o viceversa. Pensare un concetto implica anche pensare il suo opposto, dunque eternità-caducità sono una coppia semanticamente interdipendente che fa parte della struttura essenziale e originaria della mente umana
davintro,
non mi ritengo nemmeno io un esperto di "buddismo", però ritengo che anche il buddismo sia compatibile con questa tua teoria della predisposizione (provo a rispondere al posto del Sari :) ). D'altronde nel Canone Pali (senza scomodare le sutra più recenti) si parla del Nirvana (letteralmente "estinzione") come Incondizionato (o libero dalle condizioni), Senza Fine, Senza Morte,la Pace Suprema, Libertà, Rifugio, l'Oltre, l'Altra Riva, la Cessazione, (ciò che è) Senza Afflizioni ecc. Per esempio nella citazione che ho riportato prima il Nirvana viene definito come quella "dimensione" in cui non ci sono determinate cose - in particolare dove non ci sono "cose condizionate". L'utilizzo di questi termini suggerisce che ai tempi del Buddha chi ascoltava capiva, quindi secondo me concetti come "infinito", "eternità" sono centrali anche in questa tradizione: non a caso Buddha critica proprio la tendenza ad aggrapparsi alle cose mondane e al sé come se questi fossero eterni, non soggetti alla morte ecc e continua a far notare l'impermanenza e l'inevitabile declino delle cose in modo da creare nell'ascoltatore o nel lettore un senso di "shock" che dovrebbe fargli terminare la brama. Ma allo stesso tempo Buddha (o chi per lui) ancora più dei taoisti e dei vedantini continua a far notare che questa "dimensione" è completamente "altro" oltre che completamente "superiore" e quindi per evitare che ci si aggrappi ad un'idea errata di "Nirvana" rifiuta qualsiasi definizione precisa dello stesso perchè ogni concetto che abbiamo nella mente ci viene dall'esperienza del samsara e quindi necessariamente è inadeguato per esprimere il Nirvana.
In ogni caso direi che la predisposizione di cui parli è importantissima anche per i buddisti, almeno "negativamente", ossia nell'affermare che l'esistenza mondana non ha determinate caratteristiche...
rispondo in generale a tutti gli intervenuti.
Non è chiaro un aspetto fondamentale molto probabilmente.
L'uomo "antico" viveva e faceva spiritualità, non separava ancora il concreto e l'astratto, non aveva separato culturalmente i domini.
La natura per lui era spirito che potevano interagire e lui stesso interagiva:era un tutt'uno.
Orfeo, Abaris, erano persone in carne ed ossa, erano culture sciamaniche che venivano dal Nord come accade agli Ari indiani dei Veda. Guardiamo allora prima le collocazioni storiche geografiche.
Orfeo viene dalla Tracia nei pressi del Mar Nero , come il culto di Dioniso, così Abaris, erano sciamani straordinari che interagivano con la natura.
I Magi sono del popolo dei Medi e porteranno lo zoroastrismo si uniranno ai persiani e inizialmente si pongono sotto il Mar Caspio.Vengono tutti dall'interno delle grandi steppe e altipiani del Nord , da quì nasce l'indo europeo, il gruppo linguistico finnico fino alle porte dell'oriente e la razza caucasica bianca.Piramidi sono anche nella penisola balcanica e lo scritto più antico
ritrovato archeologicamente è della Romania o Bulgaria.
Tutti si chiamavano iperborei, ma li chiamavano così gli storici antichi,
Orfeo va in Egitto e quì conosce il culto di Osiride e Iside che si ritrova nelle raffigurazioni e scritte dentro le stanze sepolcrali dei faraoni nelle piramide con perfette sincronie con i punti geografici, tunnell, ecc.
Inizialmente non c'è un concetto astratto di Dio e tanto meno attributi e appellativi perchè il "come" noi "sentiamo" le relazioni fra i domini e noi stessi muta i segni, i simboli e il linguaggio.Quegli antichi conoscevano la geometria e la matematica.
Quando nel culto greco Zagreus fu divorato dai Titani e Zeus che era un dio ne salva il cuore che divora per generare insemnado Persefone, Dioniso e orfeo stesso e ancora Dioniso verranno divorati, c'è allegoria come nella Bibbia, c'è allegoria come nel Libro di Ani, dei morti, delle piramidi, in Egitto, c'è il Mahabharata indiano,come l'epopea di Gilgamesh(sumerico-accadico) Il trio Dioniso, Osiride, Tammuz(sumerico).
E' la narrazione a rivelare il messaggio con i suoi simboli e significati; il passaggio alla filosofia è quando si darà peso alla singola parola, al particolare, perdendo la narrazione e cambia definitivamente il linguaggio.
La singola parola denota il singolo particolare con la descrizione ,proprietà caratteristica annessa ed è quì che inizia l'Uno e il molteplice di Platone.I filosofi greci, procedono ad uno rimescolamento culturale, ma sono ancora all'interno della cultura antica, riclassificano come inventariano i domini in una classificazione che oggi diremmo "logica".
Aperion, il termine "controllo" è molto importante nell'uomo, quando perde qualcosa di sè intimo, cerca il controllo esteriore come un ossessione e questo è una caratteristica che divide il moderno dall'antico. nell'antichità le narrazioni avevano il controllo delle significazioni ,è come dire che ogni cosa stava al suo posto e l osi accettava. Gli umani, sempre nella tradizione greca nascevano dalla polvere dei Titani per cui avevano quella parte di "male" che lo pone come essere ambiguo e inquieto.
Quanado la singola parola e il singolo oggetto diventano importanti ,perchè denotando con un termine un oggetto , lo conosco, me ne approprio conoscendolo e comprendendolo: lo possiedo. Ma lo privo dal contesto, lo tolgo dalla narrazione estrapolandolo per conoscerlo.La geometria era sacra prima di essere oggetto del dominio astratto.
Quindi c'è una dissacrazione perchè scorporo i termini dalle narrazioni, una tiara fuori dal contesto di un luogo di culto, perde la sua sacralità.
Il moderno non ha il controllo di nulla, perchè la tecnica,che deriva dalla scorporazione dei particolari e perdendosi nei particolari, non costruisce nemmeno la forma concettuale dei molteplici che tendono all'unità, all'origine, oggi è stracolmo di immagini, di particolari, di informazioni che gli passano davanti, passivamente come sfondo di un'esistenza che diventa anch'essa particolare fra le moltitudini e quella tecnica stessa è quindi padrona della sua esistenza..
Se il problema del credente, ma direi del filosofo, sarebbe unire il concreto degli oggetti reali ,trascenderli nel astratto concettuale, oggi chi si è perso nell'ateismo o agnosticismo, non sa nemmeno più il significato di trascendere che collega necessariamente a Dio.
Ma quando Kant dichiara il soggetto " io sono" e dichiara anche l'"appercezione trascendentale" non fa altro che coniugare l'oggetto della percezione sensoriale, il sensibile, con la ragione concettuale che lo astrae e quindi lo trascende nel dominio dei concetti in forma logica.
Phil , quando compi un'analisi linguistica è una SOLA astrazione se cerchi la correttezza della verità o falsità nel linguaggio formale, fuori dal contesto reale; ma quando lo colleghi al dato reale quando la parola vuol significare un oggetto, una proprietà e vuoi CONOSCERE, quindi portare (trascendere) l'oggetto sensibile nel concetto logico, fai una doppia analisi .
Se la parola diventa segno e la matematica ha una formula segnica e simbolica linguisticamente propria , dò un concetto conoscitivo universale, ma che ancora non è attinente alla realtà .La "pura"formula segnica è astrazione se la collego alla realtà e al posto dei segni ci inserisco parole, significazioni trascendo il concreto nell'astratto, trascendo da un dominio ad un altro.
Noi non siamo Phil un sistema operativo, siamo un codex, un DNA che a sua volta organicamente predispone un cervello con certe proprietà e facoltà, una scheda madre con tanto di ROM,CPU, un BIOS.Il sistema operativo esperienziale nasce dall'incontro fra la predisposizione innata e l'educazione culturale che collega innatezza e cultura.
La mente non corrisponde al cervello semmai ne è condizionata come esistenza e quindi la mente sussiste fin quando vive organicamente un cervello.
Il problema del non credente, dell'ateo, dell'agnostico, è che da significazioni al mondo in forme logico linguistiche e non sa dare significazioni di senso a se stesso. Siamo polvere e torneremo polvere e tutto finisce lì?Veniamo dal nulla e torniamo nel nulla?
Personalmente lo trovo contraddittorio.
Se la difficoltà del credente in Dio, o del filosofo sta nell' unire la molteplicità all'unità originaria in forma logica e con un senso
non solo logico ,ma esistenziale, quella dell'ateo è conoscere, vivere, vedere domini e ordini e fidarsi( perchè ci vuole fede anche quì nell'affermare e nel negare)SOLO di ciò che fisicamente è nel dominio naturale che appare e scompare e riappare per di nuovo sparire ciclicamente.
Non penso Davintro che l'idea di Dio sia innata nell'uomo e nemmeno le categorie.
Semmai è innata "la spinta"a relazionare.E' come se noi avessimo già gli operatori logici per confrontare ,per costruire conoscenza, abbiamo quelle formule "pure" universali.Ma forse è proprio questo che volevi dire, e spero di essermi spiegato.
paul11, dissento sulla questione del controllo (o forse ti fraintendo, quindi provo a spiegarmi meglio). L'uomo costruisce città, progredisce nella scienza, "migliora" la civiltà ecc per un unico fine, ossia per migliorare la condizione dell'umanità stessa, ossia per controllare per quanto possibile la Natura. Se non ci fosse bisogno di ripararci dalle intemperie e dagli animali feroci non ci sarebbero le case, se non ci fosse il bisogno di ripararci dal freddo, dal caldo ecc probabilmente a nessuno sarrebbe venuto in mente di vestirsi, e così via. Facciamo tutto questo perchè desideriamo di controllare la natura, per vivere meglio e così via. Il problema è che questo desiderio di controllo si basa sull'assunzione errata che davvero stiamo controllando le cose. Ma il problema è che le cose, l'esistenza "terrena" è instabile e incontrollabile: la sofferenza, la paura ecc nascono dal fatto che il nostro desiderio di controllo non è soddisfatto dalla realtà. Desidereremo per noi e per i nostri discendenti una vita senza problemi, una vita da "età dell'oro" ma poi guardiamo ai fatti e tutto questo non c'è - quindi spesso finiamo di lottare tra di noi per minime cose, perchè i nostri desideri non vengono soddisfatti. Tutto questo è perchè vogliamo il controllo. Poi vedi la storia di Buddha, di San Francesco e simili che pur vivendo nell'agiatezza (o nel lusso come nel caso del Principe Siddharta) alla fine scelgono la povertà volontaria perchè si rendono conto che l'agiatezza diventa un vincolo e mina la libertà dell'uomo. Così vedi questi uomini che "rinunciano" e cominciano un "cammino spirituale". Un San Francesco si affida completamente a Dio (ossia cerca di smettere di avere pretese di controllo e si abbandona alla "Volontà di Dio") mentre il Buddha rinuncia anche lui a tutte le pretese di controllo e di aggrapparsi ad un sé. In entrambi i casi ci è mostrato che secondo questi maestri è proprio questa nostra volontà di "controllo" che ci "allontana" dalla spiritualità "più vera". Entrambi è come se ci dicessero: troverai quella Pace che cerchi proprio se rinunci tu a volertela creare per te stesso. All'opposto vedi poveri che cercano sempre più ricchezza e ricchi che cercano di diventare sempre più ricchi, ognuno desidera il controllo perchè d'altronde c'è veramente poca gente che è come Buddha o San Francesco. Oserei dire che la maggior parte degli uomini nemmeno si rende conto che le sue brame sono "infinite" o anche se ne è consapevole finisce per continuare a seguire queste brame. Suggerirei una "via di mezzo", ossia seguire le brame (altrimenti la situazione al mondo non migliorerà mai e non potremo mai progredire nella comprensione anche di questi discorsi) ma allo stesso tempo limitarle, contemplando appunto questo discorso della "rinuncia".
E qui torniamo al discorso iniziale: il fatto che ci sia questa predisposizione è allo stesso tempo un "disastro" e un "dono". Un disastro perchè essendo noi umani in grado di pensare sempre al "meglio", "al di più", all'infinito ecc possiamo finire per far di tutto per "conquistare" questo infinito con disastri vari annessi a questo modo di vivere. E un "dono" perchè è proprio questa predisposizione che ci apre alla "trascendenza" e che ci suggerisce quanto in realtà sia sbagliata questa "ossessione di controllo". Siccome il "trascendente", la "realtà suprema", l'"incondizionato" sono fuori dalla nostra portata avviene una sorta di rovesciamento dialettico: ossia se impariamo ad "affidarci", "a smettere di controllare" ecc forse ci liberiamo da questa ossessione e troviamo la "pace". D'altronde se questa "predispozione" ha un qualche senso e non è un semplice "scherzo della natura" forse si riferisce a "qualche" "cosa" di "reale", la quale non può essere "raggiunta" con i nostri sforzi (ma semmai con i nostri sforzi svolti a finire di sforzarci, scusate il gioco di parole ;D ). Ergo...
Un idea a questo proposito interessante potrebbe essere quella kantiana, secondo la quale la nostra mente per sua natura produce idee "incondizionate" (vorrei far notare la somiglianza con la distinzione tra condizionato e incondizionato nel buddismo), tipo quella di "Dio", "Infinito" ecc, le quali non si riferiscono al mondo dei fenomeni. Il problema dell'"ateo materialista moderno" è proprio questo: chiudendosi alla trascendenza tradisce quella sua stessa predisposizione e soprattutto essa risulta una sorta di scherzo beffardo della natura.
Ciao Aperion
stai proiettando le paure dell'uomo post moderno in quello antico che certamente aveva paure, ecc, ma sapeva che facevano parte della vita e le sapeva accettare, oggi non sappiamo accettare un bel nulla perchè abbiamo perso senso e verità.
Non vorrei essere frainteso, perchè su questo spesso lo sono stato.Non sto dicendo che l'antico era perfetto che viveva in un mondo perfetto, diversamente non si capirebbe la spinta culturale a mutarlo.
Tutte le forme e sostanze, compresa paura, timore, vita, morte , erano dentro le grandi narrazioni che davano un senso
( a prescindere dal giudizio che ognuno potrebbe dare che fossero giuste, sbagliate o da cambiare, ecc.), oggi non c'è nemmno un senso, c'è totale mancanza di cosa si fa, del perchè si fa, e dove si va è l astessa tecnica, i rapporti umani dentro le organizzazioni che le tecniche hanno costruito che ci "forzano" ad andare avanti a strattoni.Se la depressione è la malattia del secolo dopo quelle articolari delle ossa ecc, un motivo ci sarà per cui gli psichiatri hanno un manuale sulle demenze che è arrivata alla quinta edizione e che viene riaggiornata.
In termini assoluti il controllo l'uomo non lo ha mai avuto dai suoi albori ad oggi. il controllo come giustamente intendi, nasce dalla paura e la scienza moderna oltre che per epistemologia in sè, è l surrogazione della predizione, perchè noi oggi vorremmo prevedere i cataclismi naturali. Fin quando il sacro era intimamente collegato alla natura e sapeva dispensare il comportamento giusto o sbagliato c'era una forma organizzativa etica e morale che la comprendeva.
Perchè se il controllo vine dalla paura e vine esercitata sul mondo materiale, costruisce dei vincoli esterni che non lo liberano internamente, ma che lo assoggettano. E' come un drogato che deve continuamente "farsi".
Gli esercizi, spirituali, la meditazione fino alla mistica, quanto meno insegnano che l'uomo è plasmabile internamente.
Se libero la paura o mi educo a conviverci accetto il mondo e perdo l'attaccamento esterno che m condiziona, perchè ho rescisso la catena della relazione ossessiva e compulsiva.Quindi sono perfettamente d'accordo con te.
E' vero, forse almeno ogni tanto abituarsi alla rinuncia di qualcosa potrebbe aprirci delle porte. o almeno capire che si può essere felici con poco e che mentalmente possiamo autogovernarci. Ma infatti il digiuno, i riti di purificazione servivano come servirebbero ovviamente "modernizzati".Invece fin quando c'era poco cibo e molta povertà il digiuno era una condizione obbligata, c'è abbondanza allora spreco e rifiuti.Ci manca sempre un equilibrio e viene dall'interiorità.
Il senso del limite è stato perso con questi deliri di onnipotenza che circolano per il pianeta e sostengo che sia un problema culturale ,se si vuole indirettamente anche spirituale nel senso che si deve agire prima dentro di sè.
Se il sacro viene dissacrato e il dominio naturale violentato dalla tecnica, l'uomo, questo essere senziente post moderno, sa in quale posto stare nelle regole dei domini o crede che la tecnica lo salverà dopo che la fabbrica ha superato i cicli agricoli, i suoi stessi cicli circadiani, alienandolo nell'identità, nella coscienza.
Daccapo, quell'antico "ordine" non è detto che in assoluto fosse giusto o sbagliato ,ma c'erano riferimenti che erano segnali ,segni, simboli come il rosso o il verde di un semaforo stradale.
Oggi siamo più "liberi" si dice, e non si capisce nè da cosa e neppure per cosa.
Noi siamo sommersi da entità metafisiche che ontologicamente non sono più quelle antiche ,ma sono nell'informazione post-moderna e che non sono più controllabili e sono: visione aumentata, virtuale, finanza ingegnerizzata, criptovaluta, moneta elettronica, social network, ecc.. Noi non vediamo più a misura di controllo con gli occhi cosa accade attorno a noi ,ma ne siamo letteralmente bombardati,e fin lì c'era chi ingenuamente pensava di poter controllare e credere che ciò che vedeva fosse la verità incontrovertibile dettata e inculcata dalle scienze moderne di secoli fa.
Gli oggetti "metafisici" moderni la nuova ontologia della tecnica ha preso il posto dell'antica sacralità, lo ha surrogata, perchè l'uomo ha scelto culturalmente questa strada.
A mio parere sarebbe un errore dividerci in chi ha più ragione o torto, perchè ci siamo tutti "dentro"
Si tratta di analizzare e vedere se e dove ci sono stati errori culturali e come uscirne, ascoltando "tutte le campane"
Personalmente non credo a Dio per via religiosa( l'avrei forse già perso), ma per via filosofica, osservando e riflettendo di me, del prossimo, del mondo.
C' è uno straordinario ordine universale se si vuole anche caotico, ma con regole.Credo persino poco al dio buono o cattivo, tanto meno al vegliardo con barba, come al Gesù con occhi azzurri, ecc. le lascio alle fantasie psicologiche queste "imago".
Non so cosa sia, ma da qualche parte è venuto tutto questo e se c'è un origine, tutto questo, da verme al virus a noi, deve avere un senso.
Scrive Paul11
"Non penso Davintro che l'idea di Dio sia innata nell'uomo e nemmeno le categorie.
Semmai è innata "la spinta" a relazionare. E' come se noi avessimo già gli operatori logici per confrontare ,per costruire conoscenza, abbiamo quelle formule "pure" universali. Ma forse è proprio questo che volevi dire, e spero di essermi spiegato."
Se l'idea di Dio e le categorie con cui comunemente si descrive fossero provenienti dall'esterno occorrerebbe individuare nel complesso degli oggetti mondani della nostra esperienza esteriore un ente che possiede tali categorie, ma ciò non è possibile, dato che l'idea di trascendenza per definizione, indica ciò che è al di là di ciò che riscontriamo come immanente nella nostra esperienza, e che l'esperienza esterna ci mette sempre in contatto con cose imperfette, finite, manipolabili, nulla di "eterno", "onnipotente", "onnisciente"... Si potrebbe sostenere che l'idea di Dio ci sia comunicata tramite l'apprensione dei contenuti del nostro ambiente culturale di riferimento, famiglia, scuola... Ma la domanda che mi sorgerebbe spontanea in questo caso sarebbe: " e le persone (la società, la cultura al di là delle singole individualità personali che li costituiscono sono solo astrazioni) da cui apprendiamo l'idea di trascendente a loro volta da dove l'avrebbero ricavate?". La realtà è che l'apprensione delle categorie fondamentali della religione è un dato essenziale e strutturale della mente umana, ed è proprio questo che ne permette la possibilità di trasmissione intersoggettiva, la comunicazione e comprensione di senso. A mio avviso il pregiudizio antiinnatista poggia sull'errore di definire come "innato" solo ciò della cui innatezza siamo pienamente coscienti. Dunque se la conoscenza di Dio avviene in un certo momento della nostra vita siamo erroneamente portati a pensare che prima di quel momento in noi non ci fosse nulla. Occorre invece iniziare a familiarizzare con il concetto di "latenza", con l'idea che gli stimoli esterni non siano cause creative "ex nihilo" dei vissuti, ma solo condizioni del loro sviluppo e del loro emergere alla piena consapevolezza, ma alla luce di un emergere interiore proveniente da un nucleo latente e profondo da sempre presente in noi, ma di cui non se ne aveva originaria consapevolezza. Dunque il discrimine fra "innato" e "non innato" va posto non tanto in riferimento alla linea evolutiva temporale delle nostre prese di coscienza del mondo, ma all'ambito al cui interno riconoscere l'esistenza di quegli enti adeguati al significato delle idee che cerchiamo di classificare come innate o meno. Le categorie riferite alla trascendenza religiosa, nel loro riferirsi intenzionale a significati intelligibili e spirituali non hanno alcun corrispettivo negli oggetti dell'esperienza esteriore, che possono solo essere fisici, in quanto li apprendiamo a partire dalla sensibilità corporea. Queste categorie vanno ricondotte al piano dell'interiorità, cioè la dimensione spirituale dell'uomo, che in quanto spirituale è adeguata a comprendere i loro significati, a loro volta intelligibili e spirituali
Citazione di: davintro il 08 Agosto 2017, 01:29:37 AM
Dunque il concetto di caducità è originario, non il prodotto a-posteriori dell'astrazione
Questo "innatismo platonico" non so quanto sia conciliabile con le esperienze personali su cui possiamo riflettere... e anche dal punto di vista cognitivo, questi "concetti intelligibili" mi sembrano indotti, inferiti, costruiti piuttosto che già presenti nella nostra "mente" (
@paul11: "mente" che, a scanso di equivoci, non ritengo corrispondente al cervello, ma semplicemente come una delle sue funzioni, quella più ingombrante nella nostra vita ;) ).
Citazione di: davintro il 08 Agosto 2017, 01:29:37 AM
Diverso è il caso dell'idea di "caducità" non ricavabile per astrazione (come invece le particolari cose caduche), in quanto per astrazione si ricavano solo concetti di enti sensibili, mentre l'idea di caducità, pur riferibile a enti sensibili, ha un significato intelligibile.
La cui intelligibilità è tuttavia basata proprio sul suo riscontro sensibile; altrimenti non potremmo nemmeno parlarne... per concetti come la trascendenza, invece, si tratta di "arrivarci" tramite negazione/contrario di una caratteristica esperita, l'immanenza; infatti se non avessimo
concettualizzato l'immanenza, non capiremmo quando qualcuno parla di trascendenza (quindi la priorità logica è nell'
astrazione del sensibile rispetto alla sua negazione concettuale, che apre alla concettualità sovra-sensibile...).
Citazione di: davintro il 08 Agosto 2017, 01:29:37 AM
per quanto riguarda gli intelligibili, questi sono tra loro distinti in uno "stacco" qualitativo ben distinto dei loro significati. Un concetto intelligibile non è mai una generalizzazione di somiglianze, ciascuno di essi possiede un nucleo di significato ben definito che permane identico in ogni individuazione, senza che una individuazione "somigli" più o meno a un'altra. Cioè, il concetto generale di "caducità" non è dato dal rilevamento di somiglianze tra le diverse forme di caducità, la caducità ha un proprio senso peculiare coglibile già in una propria singola determinazione individuale.
L'astrazione non richiede necessariamente una casistica di "conforto", si possono astrarre qualità, caratteristiche (o "accidenti" per dirla alla medievale) anche da un caso singolo... e il concetto che deriva da tale astrazione sarà intelligibile senza essere innato: se osservo qualcuno aprire una porta, anche solo una volta, posso astrarre il concetto di "apribilità"... che poi verrà corroborato, falsificato o meglio strutturato dalla eventuale casistica (imparerò che talvolta serve una chiave, che ci sono differenti tipi di aperture, che posso aprire anche le finestre ma è meglio non entrarci ;D , etc. ).
Citazione di: davintro il 08 Agosto 2017, 01:29:37 AM
Nel momento in cui colgo la caducità di un ente finito come l'albero o la vita umana, io non sto solo percependo, ma già giudicando, ma il giudizio è una struttura costituita da concetti, dunque il concetto di caducità è già presente nella mia mente sin dall'inizio
I concetti sono dunque tutti già presenti dalla nascita senza possibilità di formali
in itinere? Se penso all'apprendimento (e alle teorie connesse), mi viene in mente che possiamo formularne molti, e persino "personalizzati", in base alle nostre esperienze di vita (basti pensare al concetto di "bellezza").
In fondo, di fronte alla caducità dell'albero, osservo, interpreto ed astraggo, producendo un concetto... se avessi già il concetto, sarebbe un'"anamnesi platonica" più che una concettualizzazione (e si porrebbe il problema di tutti i casi in cui le concettualizzazioni si rivelano poi errate: "difetto di fabbrica"? ;D ).
Citazione di: davintro il 08 Agosto 2017, 16:03:35 PM
Occorre invece iniziare a familiarizzare con il concetto di "latenza", con l'idea che gli stimoli esterni non siano cause creative "ex nihilo" dei vissuti, ma solo condizioni del loro sviluppo e del loro emergere alla piena consapevolezza, ma alla luce di un emergere interiore proveniente da un nucleo latente e profondo da sempre presente in noi, ma di cui non se ne aveva originaria consapevolezza
Il concetto (innato? ;) ) di latenza è tanto interessante quanto aporetico. Quando qualcosa balena nella mia coscienza/consapevolezza come faccio a sapere se è (neo)nato o giaceva in latenza? Semplicemente, non posso.
Se poi questo qualcosa è il "trascendentale divino" e chiediamo agli esperti di latenza/inconscio, ovvero agli psicologi, già sappiamo come hanno spiegato il fenomeno (vedi titolo del topic); se chiediamo agli scienziati vari, ci diranno che questo archivio nascosto di latenze innate non l'hanno ancora trovato (almeno credo, genetica permettendo...).
A questo punto, non ci resta che lanciare una moneta fra latenza e produzione-per-astrazione (oppure compiere il "salto della fede").
paul11, ok più o meno siamo d'accordo allora su questo tema anche se direi che anche se è vero che la paura causa in parte il controllo, è anche vero che è proprio la "brama" a generare l'ossessione del controllo (poi questa e la paura si alimentano tra di loro e ciò genera "mostri" ;D ). Infatti se ad esempio sono uno fissato con il potere politico (ossia se ho una brama di potere smisurata) finirò per fare di tutto per controllare questo potere. Nel contempo il pensiero che il mio potere possa venire meno mi genera paura, la quale aumenta la fissazione col controllo, la quale aumenta la paura ecc. Il "rinunciante" ha capito a mio giudizio due cose: (1) che la brama è insaziabile (2) che il fatto che sia insaziabile è paradossalmente un segnale che "qualcosa di meglio ci sia" perchè questa insaziabilità finisce per rendere le "cose mondane" (ossia "condizionate") meno appetibili. La "fede"/"speranza"/"sicurezza" allora deriva dal riconoscere che in un certo senso importante siamo già a "contatto" con questa "dimensione" (trascendente o immanente che sia) e che quindi quello che devo fare è smettere di allontanarmi da essa. Questo è il pensiero del rinunciante e in esso c'è molta verità, oggi completamente ignorata e considerata la verità di chi "nega la vita", del "moralista", del "disprezzatore dell'esistenza" ecc - quando in un certo senso è esattamente l'opposto di tutto questo (non a caso questo tipo di vita è , diciamo, consigliato dagli scritti di moltissimi filosofi e religiosi di ogni tempo). Così il risultato è che oggi la spiritualità sta un po' sparendo dal globo. Ma a mio giudizio la mentalità del rinunciante è in un certo senso anch'essa incompleta, perchè in fin dei conti con essa nessun progresso culturale, tecnologico ecc è possibile. Quindi secondo me bisognerebbe - per chi non sceglie la vita del rinunciante - aspirare alla moderazione, ossia cercare sì di "mutare il mondo", "aumentare il sapere" ecc ma allo stesso tempo ricordarsi che "il ritorno è il movimento del Dao" e che "il saggio desidera di non desiderare" (come dice il "Tao Te Ching" , ma è un discorso che credo accettano moltissimi saggi...).
Sul discorso di Dio... personalmente da "filosofo" credo nell'esistenza di una forma di Assoluto (per noi inconoscibile) o Incondizionato che in qualche modo è la "base" dell'esistenza condizionata (anche se non avrei idea di quale sia il rapporto) - l'esistenza di tale Incondizionato la giustifico proprio dal punto di vista della nostra predisposizione a "produrre" concetti che cercano di "afferrare" l'Assoluto (ossia l'Inafferrabile). A differenza del Sari non ho ancora accettato la filosofia della "via di mezzo" del buddismo (o più precisamente di moltissime scuole buddiste - anche se ritengo che il Buddha semplicemente non parlava dell'Assoluto perchè tutti i nostri concetti in fin dei conti non lo afferrano - parlarne avrebbe dato l'illusione che poteva essere possibile "afferrarlo" con qualche nostro sforzo. Quindi se il "vero messaggio" del Buddha è che "non possiamo "afferrare" nulla di Assoluto" allora sono d'accordissimo.) perchè non vedo la differenza tra tale concezione e una sorta di nichilismo (non a caso, ben pochi buddisti si sono dedicati a discipline come la matematica, la scienza ecc - storicamente infatti nell'India - ma anche altrove - la matematica e la scienza è sempre stata vista come la "prova" di una trascendenza, di una "dimensione" superiore - se non proprio di un Dio personale). Dal punto di vista religioso sono "agnostico" sulla questione del Dio Personale visto che in fin dei conti una posizione su questa questione esce completamente dalla filosofia (la quale al massimo può indicare l'Assoluto...) e rientra nell'esperienza personale. Dell'Assoluto in filosofia si può parlare solo negativamente (ossia chiarendo l'alterità rispetto al non-assoluto) o se proprio si è costretti a parlarne positivamente si usano termini "poetici" o "allusivi" (per chiarire la "superiorità", visto che ci è impossibile "capirlo", possiamo al massimo "averne un'idea distorta"). Di certo non possiamo "stabilire" se è "Persona". La "teologia" invece studia l'Assoluto quando si è già assunto che (1) esiste e (2) è personale. Ma la teologia NON è più filosofia.
P.S. (off-topic) sul discorso del Buddha preciso che: concordo che nega l'esistenza di un IO separato, eterno, "sostanziale" ma questo non significa che non ci sia un Assoluto - come ritiene il Sari. Per me l'assenza completa di ogni Assoluto conduce al nichilismo, se per il Sari questo non è vero, buon per lui ;D. (ovviamente scherzo Sari :) )
ciao Davintro,
come ho cercato di spiegare ad Aperion , questo mondo" materialistico" culturalmente che pensa ingenuamente che la verità sia nel sensibile, nel mutevole e nell'immanente sta mostrando invece la sua immaterialità informativa in cui gli oggetti materiali in realtà sono ancora simboli "ontologici metafisici".
In realtà ciò che relaziona un ateo o un credente è che comunque sono umani e un umano non può fingere a se stesso le problematiche esistenziali e dell'essere-Accade che le culture traspongono, il Dio trascendente è passato nel'immanente, contraddittoriamente, dentro i simboli del possesso per aumentare la propria potenza personale attraverso la tecnica, illudendosi di gestire la tecnica per il proprio benessere e potenza.E' accaduto l'inverso, perchè in realtà l'uomo non ha posizionato se stesso sopra la cultura della tecnica, perchè sa da sempre la sua ambiguità e le sue problematiche esistenziali e ha fede nella tecnica come sua salvezza piuttosto manipolando il dominio della natura.
Ma infatti sono più che convinto che mai come in questo tempo l'uomo cerca le spiritualità, si stancherà pure di reiterare l'impulso ossessivo compulsivo a possedere, consumare ,buttare, possedere, consumare......E' disorientato..
Lo vedo nel malessere esistenziale, Davintro, il segnale che ogni individuo ha necessità di punti di riferimento per orientarsi almeno esistenzialmente e la modernità, la ricchezza, la "grande abbuffata" in realtà ha portato malattie nuove del "progresso
della tecnica" che sono appunto esistenziali. Il rapporto essere/esistenza è da sempre IL problema umano per antonomasia.
Penso che l'uomo abbia innate delle domande come il "perchè?" e le rivolga a tutto ciò che diviene "mentale" e abbiacon esse l'innatismo di facoltà calcolative e relazionali.E' la ragione che tende ad unire il molteplice all'unità e come razionalizzi l'unità in ente, essere, o Dio è religione, filosofia, teologia.Non penso sia quindi innata l'idea o categorie di Dio.
Puoi anche chiamarla "latenza" se vuoi, non cambia a mio parere il problema: è il mondo che mi parla di Dio, è il mondo che mi sollecita domande di senso, è l'esperienza che sviluppa le forme logiche e i linguaggi, ma è la mente relata la materiale organico del cervello che deve necessariamente avere predisposizioni innate ad un suo sviluppo e formazione.
Ribadisco ,sono più credente per filosofia che per religione .Non esiste una tassonomia vegetale, una animale, una classificazione delle rocce? La linea evolutiva e ordinativa delle chiavi tassonomiche sono relazioni sulle anatomie, fisiologie, riproduzioni, ecc.
Se queste sostanze del dominio naturale del sensibile sono a noi intellegibili tanto da poterle classificare e ordinare, i diversi insiemi che compongono i domini, i domini stessi, costruiscono un albero della conoscenza che unisce le molteplicità all'unità originaria. Il mondo stesso come empirico mi spinge a relazionare come un bambino che gioca con i mattoncini del lego.
L'innatezza se vogliamo ridurla ad una unica facoltà è l'intellegibilità analogica che il nostro cervello ha del mondo, può rappresentarlo, può modellarlo.
Se esiste l'ateo o l'agnostico vuol dire che non necessariamente abbiamo un'idea di Dio innata, saremmo tutti credenti relazionandolo con 'intellegibilità, balzerebbe "fuori" dall'innatezza presentandosi come forma logica..Invece il botanico che classifica un vegetale all'interno delle chiavi tassonomiche si ferma,come Phil, teme il salto dicendo che è fede trascendente però intanto contraddittoriamente trascende il sensibile di un fiore dentro una sua chiave che è astratta è mentale e non appartiene al dominio della natura.
ciao Aperion,
l'ossessione del controllo genera infatti compulsioni, perchè è impossibile controllare tutto, e infatti genera un malessere su se stessi. A livello mio personale logico seguirei piuttosto Buddha che un Trump,proprio oggi mi è capitato di osservare in tv (rai scuola) uno psichiatra che argomentava sui disturbi bipolari e infatti diceva che Roosevelt, Churchill, Stalin , vale a dire gli artefici dello storico patto di Yalta, erano tutti affetti da bipolarismo.
La spiritualità ,come ho scritto precedentemente, a mio parere sembra contrastare con la materialistica cultura attuale, in realtà a mio parere l'uomo cerca più che mai proprio oggi di ricongiungersi ad essa.
Sono d'accordo, non riusciamo ad "afferrare " l'Assoluto ,tanto meno a descriverlo.
Quì mi sollecita alla mente Heidegger della "seconda fase " dopo "Essere e tempo" quella cosiddetta della kehre.
Dopo il tentativo di unire l'essere e l'esistenza, di dare senso all'esistenza con il dasein (l'esser-ci) si accorge che sfugge sempre l'essere che similmente potrebbe essere rapportato all'Assoluto e quindi si spinge all'essere non più come senso dell'esistenza, ma come verità originaria.:"Nell'inizio soggiorna ogni cosa,la grandezza del fare si misura valutando la sua capacità di seguire l'intima segreta legge dell'inizio e portarne a compimento il percorso.L'origine è l'essenza di ciò che qualcosa è per come lo è"
Sono tutti veramente molto interessanti questi spunti. Io personalmente mi domando sempre se effettivamente esistono delle verità. Sicuramente la tematica teista è asserita in un contesto antropologico, a seconda dei bisogni della cultura in cui si è inseriti. Di fatto il teismo nasce da dei bisogni che ha l'uomo di rispondere a certi bisogni, necessità e fatti esistenziale. La predisposizione non è altro, a mio avviso, che una risposta a queste mancanze dovute alla propria ignoranza, nel vero senso della parola. In questo senso sono convinto, come gia detto, che queste credenze siano delle proiezioni, o meglio situazioni in cui l'uomo si aliena pertanto si rifugia in certezze che vanno oltre alla propria esperienza, proprio perchè questa richiede delle risposte, creando scompensi a livello psicologico. L'uomo è creatura e cerca costantemente maschere, come dice Nietzsche, che ricoprono l'individuo di vane illusioni. Ma credo, che di fronte a tutti gli scenari di scetticismo riguardanti ciò che trascende la nostra esperienze, ci siano delle verità di fondo. Sono convinto che l'uomo si rifugia costantemente nell'alienazione idolatrando le necessità del contesto sociale e culturale. Ma la risposta, la verità di fondo a mio avvisto sta nell'amore, quel sentimento privo di ogni legame, sciolto dalle catene sociali e dalle implicazione della necessità. E' molto bello il titolo di un libro del poete H.W.Auden che cosi cita "La verità, vi prego, sull'amore". Io credo che questa sia la risposta, e se siamo qui a discutere di filosofia, è proprio perchè siamo mossi da esso( non a caso filosofia significa amore per la sapienza). A riguardo di ciò sono interessanti le letture di Erich Fromm o di Marcuse, ma anche dello stesso Feurbach, il quale era mosso da tanto amore che rifiutava l'idea che esso potesse divenire strumento per legarsi ad una legge teologica e teleologica,scusate il gioco di parole, perchè questo divenne e lo è ancora, un paradosso. Con questo non precludo la possibilità dell'esistenza di un Dio, anzi, ma il rischio secondo me è di idolatrare un dio, veicolato dalle nostre necessità.
Sono tutti veramente molto interessanti questi spunti. Io personalmente mi domando sempre se effettivamente esistono delle verità. Sicuramente la tematica teista è asserita in un contesto antropologico, a seconda dei bisogni della cultura in cui si è inseriti. Di fatto il teismo nasce da dei bisogni che ha l'uomo di rispondere a certi bisogni, necessità e fatti esistenziale. La predisposizione non è altro, a mio avviso, che una risposta a queste mancanze dovute alla propria ignoranza, nel vero senso della parola. In questo senso sono convinto, come gia detto, che queste credenze siano delle proiezioni, o meglio situazioni in cui l'uomo si aliena pertanto si rifugia in certezze che vanno oltre alla propria esperienza, proprio perchè questa richiede delle risposte, creando scompensi a livello psicologico. L'uomo è creatura e cerca costantemente maschere, come dice Nietzsche, che ricoprono l'individuo di vane illusioni. Ma credo, che di fronte a tutti gli scenari di scetticismo riguardanti ciò che trascende la nostra esperienze, ci siano delle verità di fondo. Sono convinto che l'uomo si rifugia costantemente nell'alienazione idolatrando le necessità del contesto sociale e culturale. Ma la risposta, la verità di fondo a mio avvisto sta nell'amore, quel sentimento privo di ogni legame, sciolto dalle catene sociali e dalle implicazione della necessità. E' molto bello il titolo di un libro del poete H.W.Auden che cosi cita "La verità, vi prego, sull'amore". Io credo che questa sia la risposta, e se siamo qui a discutere di filosofia, è proprio perchè siamo mossi da esso( non a caso filosofia significa amore per la sapienza). A riguardo di ciò sono interessanti le letture di Erich Fromm o di Marcuse, ma anche dello stesso Feurbach, il quale era mosso da tanto amore che rifiutava l'idea che esso potesse divenire strumento per legarsi ad una legge teologica e teleologica,scusate il gioco di parole, perchè questo divenne e lo è ancora, un paradosso. Con questo non precludo la possibilità dell'esistenza di un Dio, anzi, ma il rischio secondo me è di idolatrare un dio, veicolato dalle nostre necessità.
paul11, sul nesso tra benessere psicologico e ossessione del controllo si può discutere molto. Ritengo interessante questa cosa sul bipolarismo che hai citato, anche se a mio giudizio mi sarei aspettato che venisse a galla una sorta di disturbo paranoico in quei politici (se non erro Stalin era estreamemente paranoico per esempio, e in teoria se non erro lo era anche Hilter... non ho idea degli altri, ma non mi sorprenderebbe). Mi spiego meglio: chi è assuefatto da questa tendenza, come ben dici tu, vive una vita di costante paura delle altre persone, paura che d'altronde può essere anche "giustificata" da minacce, tradimenti ecc. Poi è anche vero che un "lavoro" di questo tipo espone a molta frustrazione e a un senso di onnipotenza (d'altronde essere il "capo" di uno stato, può far credere di essere la "persona più importante"...), sensazioni che si ritrovano nel bipolarismo (ma anche no).
La cosa interessante è i disturbi psicologici, specie d'ansia e d'umore, si ritrovano non solo nei politici ma anche in artisti, filosofi e personalità religiose. E anzi la religione può essere ricercata proprio per eliminare certi disturbi della psiche: d'altronde il malessere di cui parli è prima di tutto mentale ed è spesso l'incipit della spiritualità. In ogni caso posso essere d'accordo con te che oggi in un certo senso si cerca più la spiritualità di qualche secolo o millenio fa ma se si pone la questione in questi termini: la "massa" cerca sempre di meno, chi invece si stacca da essa cerca probabilmente ancora di più di quanto lo facevano i nostri antenati. Ma anche tra questi pochi molti finiscono per abbandonare la ricerca (e magari considerarla un errore) oppure per praticarla senza un minimo di serietà (vedi ad esempio https://www.riflessioni.it/logos/percorsi-ed-esperienze/l%27insoddisfazione/ sui "giovani bonzi buddisti con la cicca tra le labbra, occhiali da sole e selfie"). Pochi rimangono dei ricercatori e spesso questi ricercatori non seguono nessuna religione organizzata e questo ovviamente li espone all'isolamento, alla frustrazione, al senso di smarrimento ecc. Quindi oggi più che mai il disagio mentale può essere a volte in realtà un "buon segnale", quasi una sorta di sofferenza titanica dovuta sia all'andare contro-corrente sia ad una sincera e libera esplorazione della spiritualità stessa.
Semmai la cosa interessante è che mai come oggi l'investire su questa nostra predisposizione finisce per causare senso di smarrimento, crisi esitenziali e altre cose spiacevoli perchè da una parte la si affronta con un forte scetticismo e un forte senso del dubbio (cosa ovviamente che ha degli ovvi risvolti positivi perchè combatte la superstizione o cose simili...) e d'altro canto la maggior parte delle persone è completamente disinteressata a questo tipo di domande (perchè letteralmente pensano che questa trascendenza sia un errore della nostra natura umana). Semmai possiamo dire che sta continuando quel processo di distacco dalla spiritualità già evidenziato in altri post e oggi il fatto che chi cerca lo fa con un'intensità maggiore (talvolta patologica) è dovuto al fatto che ci sentiamo sempre più "sconnessi" e quindi "smarriti".
ciao aperion,
sul rapporto mente/cervello sono vicino alle posizioni di J. Eccles ,postato altrove da Carlo Pierini.
Sostengo anche che vi sono malattie del cervello e malattie della mente e la psicosomatica è l'influsso di un disturbo mentale sull'organismo fisico.C'è un'interdipendenza "misteriosa", ma è la stessa interdipendenza che da sempre soprattutto gli orientali, vedasi la loro medicina, i loro esercizi yoga che non sono solo fisici, con le asanas, la loro meditazione.
Quì avviene che corpo/mente/spiritualità sono intimamente connessi, ed è diverso già dal nostro modo di vivere culturale.
L'occidentale ha preso ad esempio i training autogeni, i problem solving, lo stesso yoga e arti marziali, troppo spesso estraniandolo dalla sua originaria spiritualità, dalla intime connessione mente/corpo.Noi occidentali cerchiamo di primeggiare, mentre quella cultura cerca equilibri e armonie.
Ho come l'impressione che la cultura occidentale si sia persa nel logos si focalizzata troppo sulla parola, sul dominio, sulla potenza, perdendo quelle originarie forme di "sospensione della coscienza" perchè il problema dell'equilibrio e armonia non è il "forzare", ma spesso è il contrario "il lasciarsi andare". E' come se l'occidentale volesse possedere Dio, gli ebrei non lo nominano neppure invece e per l'orientale è qualcosa di interno a sè non esteriore.
L'occidente ha strutturato la religione seguendo un logos, ma si è autocondizionato almeno in parte, con le dogmatiche, con una costante idea di dover "provare" sempre qualcosa nell'idea di Dio.Così oggi un ateo occidentale chiede la "prova di Dio" come se fosse un fungo del bosco.
La dimostrazione è che la filosofia della mente che comprende neuroscienze e cognitivismo se non ha una prova"fisica" della coscienza, della mente, non ci crede, ma come fa allora quello stesso scienziato ad avere psiche, spiritualità, innatezza, linguaggio e riesce a trascendere il mondo emperico nell'astrazione di una tesi o ipotesi, come se le scienze non fossero fondate su enunciati, su postulati, assiomi, che sono il dominio astratto e concettuale del mentale?
L'uomo occidentale ha permeato questa cultura materiale della prova fino a negare se stesso, non solo Dio.
Perchè non si può negare l'esigenza di una spiritualità nell'uomo, ma sono convinto che il "muro" è linguistico, nel senso che termini come religione e spiritualità sono visti o come costrizione, condizionamento. o come soggettivazione individualistica, o
come favolette per bambini, qualcosa di poco "serio". Invece e quì sarei d'accordo con Davintro, non è tanto l'idea di Dio che è innata, ma il concetto logico che lega il mondo del sensibile, la moltitudine della natura, a quello di una primordiale unità originaria ,da cui è scaturito tutto, perchè tutti e ne sono convinto, abbiamo questo concetto che è un punto interrogativo indefinibile, un "qualcosa" che la mente mostra , ma che la parola non sa dire e definire e nessuna scienza può dimostrare fisicamente con beute e provette.. Ma negare questo è negare parte della nostra natura direi quella fondamentale ,quella che ci permetterebbe di non essere una "cosa" insignificante dentro il meccanismo perverso dell'economico-politico-sociale, ma di riavere quell'umanità con quel sentimento d'amore(come scrive anche Daniele Bragagnolo) che ci permette di riconoscerci, di viverci.
ciao paul11,
Molto interessante questa tua riflessione sul "Logos", la "parola" o meglio la "ragione". Il rapporto nostro con "Dio" o l'"Assoluto" d'altronde è proprio questo, noi vogliamo una comprensione concettuale a tutti i costi. Così siamo convinti di comprendere "Dio" - quasi che "Dio" non solo si è "fatto" uomo ma è l'uomo. Così come dice Bragagnolo il rischio è che "umanizzando" "Dio" finiamo per proiettare noi stessi in "Dio" in modo che risulti una sorta di versione "onnipotente" di noi stessi, con le nostre caratteristiche. Questa tendenza la vedo nell'uomo "ideale" propinato dalla modernità ossia l'uomo sempre sorridente, pieno di amici, di successo sia nel lavoro che nella famiglia ecc. Come sapientemente dici tu ciò avviene perchè dimentichiamo che la nostra "ragione", il nostro "logos", è limitata e non riusciamo ad accettare che ci sia qualcosa che non può davvero essere capito. Quindi visto che la nostra esperienza e i nostri ragionamenti ci dicono ad esempio che la si sta meglio quando si è in salute, quando non si è tristi ecc allora proiettiamo l'uomo ideale come la somma di tutte queste caratteristiche. E poi finisce che "lasciandosi andare" si entra completamente in questo meccanismo, dimenticandosi in toto che quel prototipo di uomo ideale è "costruito" sulla base di come è impostata la società in un certo periodo (per esempio allo stesso modo nall'antica Grecia l'eroe era il "guerriero perfetto" - e gli dei dell'antica grecia erano di quanto più "umano" ci potesse essere nel senso che estremizzavano sia i pregi dell'uomo che i difetti. Su questo punto due diversi teologi che conosco mi hanno fatto notare che molte "idee" a loro giudizio errate che ci facciamo sul cristianesimo [ad esempio sul Giudizio Universale] deriva proprio dal fatto che noi abbiamo una mentalità molto "greco-romana" e non "ebraica" [mentre ovviamente i primi cristiani erano molto più vicini a questa mentalità ebraica]).
Quindi sì "lasciandosi andare" alla nostra tendenza di ritenerci "superiori" ecc provoca guai, in primo luogo a noi stesso perchè finiamo di non renderci conto che stiamo creando un "idolo" ad hoc.
Ovviamente il mio "lasciarsi andare" non voleva dire questo ma hai fatto bene a dirmi che è un'espressione ambigua e che può portare al contrario di quanto voluto. Concordo bene o male col tuo ultimo paragrafo.
Sul discorso "mente-corpo" non ho ancora sviluppato una "teoria" stabile. Al momento ritengo che mente e corpo sono due aspetti della stessa realtà (quindi bisognerebbe considerare - per capire questo problema - sia il corpo e la mente presi singolarmente sia il "corpo-mente", la loro unione) ma non ho raggiunto una posizione vera e proprio. Concordo poi il discorso che fai sullo yoga ecc. Sono stato ad una seduta di training autogeno e l'hanno "venduta" come "tecnica di rilassamento". Non che sia sbagliato ma è estremamente riduttivo. Questo tipo di tecniche aiutano davvero a comprendere sé stessi ossia hanno davvero un ruolo "conoscitvio" oltre che di "aiuto psicologico". Idem per i "disturbi mentali" e anche qua devo dire che l'oriente ci supera di molto perchè per noi sembra inconcepibile che la mente influenzi il corpo (e viceversa) mentre per loro niente affatto: basti pensare quanto per esempio si da importanza alla posizione del corpo nella meditazione ;D per esempio l'atto del digiuno per noi sembra un "moralismo contro la vita", ma in oriente addirittura ti dicono che ha effetti positivi sul corpo (e non solo sulla mente) ::) - perfino il taoismo che è la più "affermatrice" del mondo tra le "vie di liberazione" consiglia varie tecniche di digiuno sostenendo che esso porti al benessere mentale e fisico (oltre che la longevità). Per natura cerchiamo il "meglio", ossia cercare il "meglio" è per noi il "modo naturale di vivere".Appreso questo concetto, quando quei saggi orientali dicono che la vita di "rinuncia" è "migliore" è chiaro che affermino che è "la via naturale" e che dicano che chi vive nella pienezze anche se segue gli istinti apparentemente naturali venga bollato come "folle" o "ignorante della propria natura" o "come persona che non segue la Via della Natura ma la Via degli uomini". La nostra mentalità ora è così distante da questi principi che ci sembra totalmente assurdo che un uomo viva con poco e niente e che sostenga che il suo stile di vita è "naturale". Finiamo per glorificarlo, per metterlo in un piedistallo e lui direbbe: "ma scusatemi, cosa mi mettete sul piedistallo che sto vivendo nel modo più "normale" possibile?". Così come è "naturale" per loro entrare nel samadhi, nelle jhanas e "folle" o "innaturale" non farlo :)
Citazione di: paul11 il 09 Agosto 2017, 00:19:52 AM
il botanico che classifica un vegetale all'interno delle chiavi tassonomiche si ferma,come Phil, teme il salto dicendo che è fede trascendente però intanto contraddittoriamente trascende il sensibile di un fiore dentro una sua chiave che è astratta è mentale e non appartiene al dominio della natura
Se distinguiamo bene il "trascendentale" dall'"astratto", non colgo la contraddizione: creare delle strutture astratte per identificare e comprendere parte della
realtà esperita non mi pare in contrasto logico con il dubitare di astrazioni che trascendono
autonomamente la realtà come vissuto.
Se, tramite astrazione, identifico
arbitrariamente "la margherita" come una certo fiore con determinate caratteristiche, basandomi sull'
esperienza che ne ho avuto (io o altri), perché dovrei di conseguenza ammettere che esista anche una trascendenza
necessaria, che non è una semplice astrazione dell'esperienza, ma ha "vita" propria, scardina tutte le categorie dell'immanenza ed è persino la spiegazione di tutto ciò che sembrerebbe essere ignoto ed inspiegato (ma forse non inspiegabile)?
Sono due astrazioni ben differenti, e limitarsi alla prima non credo contraddica il rifiutare la seconda... sarebbe contraddittorio solo se si negasse la capacità cognitiva di astrarre, ma, ribadisco, secondo me è un meccanismo innato nella ragione umana.
D'altronde quando astraggo, sono consapevole che il risultato è
solo un'astrazione, magari personale; se invece si parla di trascendenza divina, solitamente, non si parla di un mero costrutto mentale (o addirittura proiezione ;) ), ma di qualcosa di ben più rilevante per la storia dell'esistenza del cosmo e, soprattutto, di non-solo-mentale e non-solo-personale (dunque si confonde il risultato di un'astrazione, ovvero di un processo mentale, con qualcosa che si suppone invece esistente indipendentemente dall'uomo, su un altro piano, quello della trascendenza divina).
La differenza fra il "passo dell'astrazione" e il "salto della fede" è tutta qui, fra l'essere-prodotto-umano (identità tassonomica della "margherita") e l'essere-motore-immobile (divinità trascendente).
Quando ci poniamo di fronte all'idea di trascendenza o di immanenza dovremo credo lasciar andare ogni concetto su di essa che ci siamo fatti o ci hanno insegnato. Dovremo proprio dimenticare persino il significato di questi due termini. In primis perchè non ci servono e poi perché rischiano sempre di essere fuorvianti. Dobbiamo per prima cosa essere "vergini" spiritualmente. Non siamo "occidentali" o "orientali"...siamo semplicemente noi, con tutta la nostra forza interiore e la nostra debolezza psicologica. PercHè c'è una grande forza interiore in noi. C'è, è sempre là, presente ma noi ci soffermiano spesso solo sulle nostre debolezze e non vediamo che queste non sono insuperabili, non ci impediscono di camminare, se lo vogliamo. La "trascendenza" ( uso questo termine per favorire la comprensione ma in realtà non lo condivido...) è una ricchezza, non un impoverimento come ritenuto dalla mentalità corrente. Una persona che cerca di seguire un sentiero spirituale non è un frustrato che pone limitazioni al godimento della vita, ma anzi ..ne ha in sovrappiù! Il fallimento che vediamo in molte persone che hanno seguito un particolare sentiero spirituale non dimostra l'inefficacia del sentiero ma la mancanza di autentico vigore spirituale del viandante. L'uomo che continua a confrontare la propria vita con quella degli altri e soffrirne per la sensazione di non essere all'altezza; l'uomo che non ha stima di se stesso e della propria capacità di amare veramente; l'uomo che dubita in continuazione di ogni cosa e anche delle proprie ricchezze interiori, non è adatto ad un sentiero spirituale. Bisogna lasciar andar tutta questa massa di incertezze, lasciarle sullo sfondo della nostra vita. Smetterla di confrontarci e di ritenerci "spirituali" o " materialisti". Essere autenticamente nudi e poveri, come un Siddharta che si nutre del letame dei vitelli di bufalo per sopravvivere. Non possiamo farlo? Non possiamo denudarci da tutta la catasta senza fine di idee che ci siamo fatti sulla "spiritualità"? Su Dio, Allah, Nirvana o qualunqua altra cosa? Non possiamo metterci soli e nudi di fronte a "Dio"? Non possiamo farlo perchè siamo esseri culturali e socievolmente sociali? AH... ma siamo anche altro. Lo siamo, e quando siamo stanchi di tutto, alla sera nel nostro letto, non c'è qualcosa che frugna nel nostro profondo e che ci fa dire:" Non me ne frega niente del mondo e della sua cultura: Vorrei solo...essere amato per quello che posso dare"?
Ecco perché la "rinuncia" è essenzialmente un dono che facciamo, a noi stessi e agli altri che ci circondano. La rinuncia diventa l'atto di fare spazio nel nostro cuore e lasciar spazio agli altri. Si parla spesso di rinuncia al "sè" ma poco di una altrettanto importante, ossia al "Mio". Il mio sapere. la mia cultura, la mia posizione, le mie infelicità, il mio benessere materiale...abbiamo un'infinità di "mio" che guidano la nostra vita. Ci aspettiamo che il "trascendente" sia una cosa meravigliosa, un'esperienza ineffabile, totalmente "altra" ad ogni altra esperienza e non ci accorgiamo che è sempre il solito gioco del "mio" in azione. Come pensiamo di accorgerci della presenza di "Dio" o dello stato del "Nirvana" se non ci accorgiamo nemmeno dell'infelicità e del dolore di quelli che diciamo di amare? Solo se incontriamo lo sguardo dell'altro e guardiamo nel colore del suo animo possiamo capire se ha un senso la parola "trascendenza".
Scusate il predicozzo... :)
Citazione di: Sariputra il 09 Agosto 2017, 16:07:59 PMQuando ci poniamo di fronte all'idea di trascendenza o di immanenza dovremo credo lasciar andare ogni concetto su di essa che ci siamo fatti o ci hanno insegnato. Dovremo proprio dimenticare persino il significato di questi due termini. In primis perchè non ci servono e poi perché rischiano sempre di essere fuorvianti. Dobbiamo per prima cosa essere "vergini" spiritualmente. Non siamo "occidentali" o "orientali"...siamo semplicemente noi, con tutta la nostra forza interiore e la nostra debolezza psicologica. PercHè c'è una grande forza interiore in noi. C'è, è sempre là, presente ma noi ci soffermiano spesso solo sulle nostre debolezze e non vediamo che queste non sono insuperabili, non ci impediscono di camminare, se lo vogliamo. La "trascendenza" ( uso questo termine per favorire la comprensione ma in realtà non lo condivido...) è una ricchezza, non un impoverimento come ritenuto dalla mentalità corrente. Una persona che cerca di seguire un sentiero spirituale non è un frustrato che pone limitazioni al godimento della vita, ma anzi ..ne ha in sovrappiù! Il fallimento che vediamo in molte persone che hanno seguito un particolare sentiero spirituale non dimostra l'inefficacia del sentiero ma la mancanza di autentico vigore spirituale del viandante. L'uomo che continua a confrontare la propria vita con quella degli altri e soffrirne per la sensazione di non essere all'altezza; l'uomo che non ha stima di se stesso e della propria capacità di amare veramente; l'uomo che dubita in continuazione di ogni cosa e anche delle proprie ricchezze interiori, non è adatto ad un sentiero spirituale. Bisogna lasciar andar tutta questa massa di incertezze, lasciarle sullo sfondo della nostra vita. Smetterla di confrontarci e di ritenerci "spirituali" o " materialisti". Essere autenticamente nudi e poveri, come un Siddharta che si nutre del letame dei vitelli di bufalo per sopravvivere. Non possiamo farlo? Non possiamo denudarci da tutta la catasta senza fine di idee che ci siamo fatti sulla "spiritualità"? Su Dio, Allah, Nirvana o qualunqua altra cosa? Non possiamo metterci soli e nudi di fronte a "Dio"? Non possiamo farlo perchè siamo esseri culturali e socievolmente sociali? AH... ma siamo anche altro. Lo siamo, e quando siamo stanchi di tutto, alla sera nel nostro letto, non c'è qualcosa che frugna nel nostro profondo e che ci fa dire:" Non me ne frega niente del mondo e della sua cultura: Vorrei solo...essere amato per quello che posso dare"? Ecco perché la "rinuncia" è essenzialmente un dono che facciamo, a noi stessi e agli altri che ci circondano. La rinuncia diventa l'atto di fare spazio nel nostro cuore e lasciar spazio agli altri. Si parla spesso di rinuncia al "sè" ma poco di una altrettanto importante, ossia al "Mio". Il mio sapere. la mia cultura, la mia posizione, le mie infelicità, il mio benessere materiale...abbiamo un'infinità di "mio" che guidano la nostra vita. Ci aspettiamo che il "trascendente" sia una cosa meravigliosa, un'esperienza ineffabile, totalmente "altra" ad ogni altra esperienza e non ci accorgiamo che è sempre il solito gioco del "mio" in azione. Come pensiamo di accorgerci della presenza di "Dio" o dello stato del "Nirvana" se non ci accorgiamo nemmeno dell'infelicità e del dolore di quelli che diciamo di amare? Solo se incontriamo lo sguardo dell'altro e guardiamo nel colore del suo animo possiamo capire se ha un senso la parola "trascendenza". Scusate il predicozzo... :)
Macché predicozzo, direi che non ho mai letto nulla di più vero di quello che dici (sinceramente non ho mai trovato una persona con cui sono d'accordo più di te Sari :) ). Ecco più che una "rinuncia" al sé a mio giudizio è molto più interessante il pensiero della rinuncia al "Mio", come dici tu (ovviamente la mia posizione sull'Assoluto può essere pericolosa perchè diventerebbe un "mio" assoluto con cui vanagloriarmi). Infatti quando io parlavo di "rinunciare"e portavo l'esempio di San Francesco e Buddha volevo far cadere l'attenzione proprio su questo aspetto della "rinuncia". Rinunciare a pensare le cose (cultura compresa, teorie sulla realtà comprese) e gli esseri come "miei" libera sia me che l'altro. In particolar modo l'altro perchè se amo un altro senza considerarlo "mio" vuol dire amarlo per quello che è lui, non per le mie aspettative o i miei interessi. Questo secondo me significa "rinuncia" (è una bella cosa!). E da qui si capisce anche perchè alcuni dicono che è uno stato "naturale": semplicemente perchè contiene una verità: ossia che
nessuna cosa o essere è di mio possesso. In fin dei conti tutta questa rinuncia è facile eppure mi pare che pochi lo mettono in pratica. Tra quelli che se ne accorgono ci sono alcuni che finiscono per parlare secondo astrazioni, di parlare di "Nirvana" o di "Assoluto" cadendo nell'errore di creare di nuovo una scappatoia a quel sempre presente senso di Mio.
" Non me ne frega niente del mondo e della sua cultura: Vorrei solo...essere amato per quello che posso dare" Questa citazione racchiude una profonda verità: ci metteremo veramente a cercare, a costruire astrazioni, a cercare avventure ecc se fossimo davvero capaci di amare e se ci sentissimo davvero amati? Forse sì ma con una "foga" e un'ansia molto minore perchè non sentiremo che in noi "manca" qualcosa (o che siamo "sconnessi" dalla "realtà"). Quanto è vero quello che dici Sari: il tuo "predicozzo" esprime una semplice verità. La mancanza di spiritualità è certamente legato proprio a questo senso di "sconnessione", di "smarrimento" e di "mancanza". Quando questa "mancanza" è presente e non se ne è consapevoli il MIO diventa enorme, totalizzante ecc. Chi ne è consapevole invece cerca in tutti i modi di "riconnettersi" ma in questo tentativo a volte si comporta peggio con gli altri e con sé stesso di chi non è consapevole. Ma d'altronde è proprio questo che muove la filosofia, l'arte ecc. Questo senso di "sconnessione"... Purtroppo alcuni di questi sanno solo dare astrazioni, pensieri ecc. Sconnessi come sono finiscono per staccarsi da tutti e da tutto, compresa la loro stessa filosofia di vita (e talvolta finiscono di essere anche ipocriti). Se uno può dare solo astrazioni e nient'altro che astrazioni come....?
Come si può smettere di parlare della
Via se non trovando la Via? E una volta che la Via si è perduta come è possibile
ritornare? Come è possibile smettere di "allontanarsi" dalla Via se non si riesce a trovare una risposta che
davvero spegne questo "fuoco"?
P.S. Sono d'accordo con te che il termine "trascendenza" è improprio, perchè dopotutto parliamo di qualcosa di cui si può "avere esperienza" in un certo senso. Il trascendente per definizione è "fuori" (idem per l'immanenenza perchè l'immanente è qualcosa che si può "afferrare"). Sarebbe più corretto un termine che da solo richiude sia la trascendenza che l'immanenza ma non riesco a trovarlo.
Edit: con questo non voglio dire che tutti questi discorsi sono inutili o modi per "dimenticarsi" della realtà mascherati (e non penso che ciò era il messaggio del Sari, se non ho capito male). Ma volevo "mettere in guarda" (prima di tutto me stesso) che questa ricerca dell'"Assoluto" può finire o per creare un isolamento orribile (ossia preferire questa ricerca sulla capacità di amare) o ipocrisia (ossia non rendersi neanche conto di non amare chi si dice di amare, perchè si è troppo "immersi" nella ricerca). Purtroppo ahimé non è così facile (come diceva il Tao Te Ching: "
le mie parole sono semplici, ma nessuno le intende e nessuno le mette in pratica") come "sembra". Piuttosto è meglio usare l'Assoluto per "costringersi" ad amare o per riconoscere la propria incapacità (che non è altro che un sano esercizio di umiltà). Come le altre cose anche le "posizioni" sull'Assoluto possono avere effetti opposti sulle persone. Ecco: non intendevo dire che queste discussioni sono di per sé un "male" (anzi a volte è forse proprio l'unico modo per trovare il bene - o sforzarsi seriamente di trovarlo).
Rispondo a Phil
l'intelligibilità dei concetti non è basata sul riscontro sensibile, ma sul loro significato non riconducibile a entità materiali, anche se sono riconducibili a proprietà appartenenti a cose materiali. L'esperienza sensibile non è l'origine della formazione nella mia mente di questi concetti, ma offre "solo" un contesto particolare entro cui formulare un giudizio costituito da quel concetto, il cui significato ho però già presente al di là dell'esperienza sensibile, oppure può offrire l'occasione e lo stimolo per focalizzare l'attenzione e la riflessione sul senso di quel concetto, ma va ricordato che la complessità della struttura mentale-coscienziale non coincide con ciò che è attualmente oggetto di attenzione, ciò in virtù dell'inadeguatezza di ogni sguardo riflessivo-introspettivo. Ciò che l'esperienza esterna può creare dal nulla può solo essere una sintesi, una combinazione di proprietà appartenenti a una molteplicità di enti, mentre se una proprietà viene esperita all'interno di una singola esperienza individuale, allora la sua apprensione non può essere la conseguenza di una sintesi, ma una scoperta che presuppone la presenza di una categoria mentale atta a recepirla. Quindi l'astrazione intesa come processo mentale di formazione di concetti presuppone sempre un movimento di unificazione, di sintesi dal particolare, mentre l'atto in cui si coglie una categoria da un singolo fenomeno dovrebbe piuttosto essere definito come "intuizione intellettuale", non costruzione di un nuovo concetto, ma emersione di una proprietà dal significato intelligibile facente parte di una realtà sensibile, da cui però non fa derivare il suo significato. Questa intuizione non forma concetti, ma lascia emergere qualcosa che già c'è, dunque non va confusa con l'astrazione. L'esempio del concetto dell'apertura della porta effettivamente è un po' ambiguo, perché se da un lato condivide con i concetti intelligibili come "caducità" un ben definito significato che possiamo cogliere già in una singola esperienza come può essere quella di una porta che si apre, dall'altro si riferisce pur sempre a un significato sensibile, osservabile dall'esterno, non intelligibile, quindi il fatto che l'apprensione di un tale concetto necessiti di un'esperienza esterna non indica in generale la non-innatezza dei nostri concetti in generale.
Non ho affatto mai sostenuto che tutti i nostri concetti siano innati, quello che volevo mettere in evidenza (che poi stava di base alla mia modestissima critica all'idea di religione come proiezione umana dell'ateismo) è la corrispondenza fra il significato dei nostri concetti al modo d'essere delle cose a cui quei concetti corrispondono. Dunque i concetti di enti sensibili sono originati dall'esperienza sensibile delle cose a cui quei concetti si riferiscono (del resto se non pensassi così dovrei solo ipotizzare metempsicosi o reincarnazioni, dove l'anima ha innate le idee di cose sensibili perché già esperite in vite precedenti, ma non sono platonico fino a sto punto), mentre i concetti intelligibili sono presenze originariamente presenti nella coscienza, che come complesso intelligibile non spazializzabile è sede adeguata della ricezione di tali idee. Poi potremmo anche ipotizzare una "terza classe" di concetti, quelli riferibili a vissuti psicologici come "gioia", "tristezza", "bellezza", che essendo riferiti a vissuti presuppongono per la loro formazione che il soggetto provi storicamente tali esperienze, e in ciò in parte incide anche l'esperienza del mondo esterno. Effettivamente anche la bellezza, come l'apertura della porta, è un esempio ambiguo, in quanto non la classificherei come "innata", dato che coincidendo con la sensazione di piacere di fronte all'apprensione di cose belle, la sua formazione in noi dovrebbe presupporre l'esperienza di queste cose belle. D'altra parte però la bellezza ha a che fare con qualcosa di innato in quanto riteniamo bello ciò che di sensibile cogliamo come riflesso simbolico dell'idea di bene in ciascuno di noi, cosicché un certo colore o una certa forma la troviamo bella perché in qualche modo scorgiamo in essa il simbolo di qualcosa di piacevole perché congruente con i nostri valori personali (capisco comunque che questo punto meriterebbe un approfondimento in una discussione a parte). Quindi la bellezza è un concetto di confine: presuppone l'esperienza esterna per formarsi in noi, ma al tempo stesso rimanda alla presenza di idee interiori, come i nostri valori morali personali che incidono in un certo senso nei nostri giudizi estetici.
Hai ragione sul fatto che affermare la presenza di una "latenza", inteso come livello di coscienza potenziale, ma ancora non attuale, possa apparire effettivamente un controsenso, in quanto si affermerebbe l'esistenza di qualcosa che dovrebbe essere al di fuori della coscienza attuale, cioè del concretamente pensabile. La latenza sarebbe assurdamente da un lato coscienza solo potenziale, e dall'altro presenza attuale della nostra riflessione su di essa. Ma non penso che la conseguenza di tutto ciò sia la caduta in un fideismo totalmente arbitrario che riguarderebbe l'esistenza di questa latenza: accanto alla via esperienziale-diretta si può arrivare al riconoscimento di un livello cosciente latente in cui si faccia esperienza di idee intelligibili attraversano un via indiretta-deduttiva: se gli oggetti fisici del mondo esterno sono inadeguati a formare in noi l'esperienza dei concetti intelligibili, e al contempo tali concetti come "caducità" o "eternità" non sono mai stati oggetti di riflessione e attenzione cosciente, allora l'unica soluzione è scindere il concetto di "coscienza" tout court da quello di attenzione attuale e far comprendere nella coscienza tout court uno strato profondo in cui i concetti non ricavabili dall'esterno "giacciono" come disponibili ad essere in futuro oggetti di un movimento attuale dell'Io verso tale interiorità profonda, movimento che può essere deciso alla luce della sua libertà
rispondo ad Apeiron
l'esperibilità del trascendente non lo immanentizza negandolo in quanto tale e rendendo la nozione di "trascendenza" assurda. Ciò sarebbe cadere nell'errore dell'idealismo moderno che intende l'esperienza come atto fondativo della realtà dell'oggetto esperito da parte del soggetto esperiente. In realtà, l'esperienza andrebbe vista non come atto causativo-esistenziale dei suoi oggetti, ma come una "luce" coscienziale attraverso cui rispecchiamo in noi stessi il darsi dei fenomeni del mondo, del nostro complesso di relazioni tra il nostro Io soggettivo e il mondo oggettivo. Questa luce permette di cogliere come gli atti con cui facciamo esperienza del mondo sono sempre articolati all'interno di una polarità duale, attività-passività. L'immanenza comprende gli oggetti dell'esperienza nella misura in cui tali oggetti dipendono nel loro modo d'essere da noi, cioè dal nostro essere attivi, la trascendenza ne considera il loro carattere di autonomia, per la quale noi possiamo solo restare passivi nell'apprensione dei fenomeni. Ma questa passività è un carattere interno alla relazione esperienziale, quindi non ha senso pensare che l'esperibilità di qualcosa ne contraddica l'autonomia, cioè la trascendenza. Trascendenza per me vuol dire "ulteriorità", ed anche la percezione, atto esperienziale prevalentemente (anche se non integralmente) passivo (dato che non è la nostra libera volontà a decidere quali contenuti entrano nella mia percezione e quali no), mi offre il fenomeno di enti di cui non sono il creatore, ma con un modo d'essere indipendente dal mio arbitrio soggettivo. Quindi qui l'esperibilità non contraddice la trascendenza ma la rivela. La trascendenza come ulteriorità non è esclusivamente di tipo verticale-religioso, ma anche per questo tipo possiamo considerare una dinamica analoga a quella della trascendenza orizzontale che la percezione rivela. La mistica, nella sua autenticità, cioè nel suo porsi come autentico coglimento di Dio, non è la creazione arbitraria della fantasia del mistico, ma apertura dell'anima ad un rivelarsi che l'Io umano non può decidere autonomamente di produrre dentro si sé, ed anche la via razionale-speculativa delle prove dell'esistenza di Dio non sono finalizzate ad affermare che l'esistenza di Dio è prodotto della ragione umana che assorbe tutto nella sua immanenza totalizzante, bensì in questa via la ragione si limita a riconoscere uno stato di cose oggettivo non deciso da essa, cioè che l'esistenza di Dio è un'ipotesi adatta a dei rispondere a dei problemi insiti nella conoscenza della realtà. Sia la via mistica che la speculativa sono contrassegnati da un certo livello di passività, che. al di là del giudizio di validità che si può formulare su di esse, mostra come la pretesa di vedere nell'arbitrio creativo dell'Io umano la causa dell'esistenza delle realtà a cui le vie tendono sia una pretesa infondata
Lasciando fra parentesi le paradigmatiche divergenze di vedute sull'innatismo e sul fatto che l'"intuizione intellettuale" sia "reminiscenza" piuttosto che invece "
poiesi" cognitiva (in fondo, come accennavo, non possiamo saperlo ;) ), vorrei provare ad entrare nella tua prospettiva (con discrezione, spero), per capire meglio l'interessante questione di come
Citazione di: davintro il 09 Agosto 2017, 19:46:49 PM
accanto alla via esperienziale-diretta si può arrivare al riconoscimento di un livello cosciente latente in cui si faccia esperienza di idee intelligibili attraversano un via indiretta-deduttiva: se gli oggetti fisici del mondo esterno sono inadeguati a formare in noi l'esperienza dei concetti intelligibili, e al contempo tali concetti come "caducità" o "eternità" non sono mai stati oggetti di riflessione e attenzione cosciente, allora l'unica soluzione è scindere il concetto di "coscienza" tout court da quello di attenzione attuale e far comprendere nella coscienza tout court uno strato profondo in cui i concetti non ricavabili dall'esterno "giacciono" come disponibili ad essere in futuro oggetti di un movimento attuale dell'Io verso tale interiorità profonda
Lo stato profondo della coscienza in cui tali concetti giacciono, in attesa di essere "incontrati", è un'eredità primordiale o si è evoluta con l'uomo? Detto semplicisticamente, come fanno a starsene lì, chi ce li ha messi ;D ?
Se non può averli "inaugurati" un uomo per astrazione, poichè sono innati, allora hanno una radice genetica, oppure sono l'impronta del divino che ci accompagna sommessamente durante l'evoluzione?
Inoltre, tali concetti sono da ritenere necessariamente sempre sensati e funzionali? Intendo, è possibile che qualcuno di questi concetti sia inutilizzabile o addirittura ingannevole (come scherzo di un "genio maligno" cartesiano)? Il concetto di "eternità", ad esempio, richiede fede ma potrebbe essere, per quel che comprendiamo, anche fallace... più pragmaticamente, anche il concetto di "bene" richiede fede e dovrebbe essere (se ho ben capito il tuo approccio) innato, ma le sue differenti declinazioni in tanti "beni" differenziati, spingono a chiedersi come mai ci siano dei concetti innati differenti... dunque (dovendo escludere, per provare a restare nella tua prospettiva, che le categorie di "bene" e "male" siano prodotte dall'astrazione di esperienze vissute o dall'apprendimento emulativo nella società educante d'appartenenza): combinazione genetica (che spiegherebbe le differenze e le imperfezioni) oppure differenti "anime" (alle cui differenze qualitative è sottesa una certa "predestinazione")?
Tuttavia, forse anche "anima" è un concetto innato, che rimanda al concetto innato di "divinità" e... concetto innato dopo concetto innato, rischiamo di avere "carta bianca" per giustificare persino ogni superstizione o mitologia, ogni "verticalità" (ogni congettura che sfugge a verifica), fino a poter alimentare un'ontologia in cui tutto esiste nella "circolare" trascendenza della latenza, come traccia già segnata nella stanza più recondita della nostra (in)coscienza.
Citazione di: davintro il 10 Agosto 2017, 17:07:52 PM
La trascendenza come ulteriorità non è esclusivamente di tipo verticale-religioso, ma anche per questo tipo possiamo considerare una dinamica analoga a quella della trascendenza orizzontale che la percezione rivela. La mistica, nella sua autenticità, cioè nel suo porsi come autentico coglimento di Dio, non è la creazione arbitraria della fantasia del mistico, ma apertura dell'anima ad un rivelarsi che l'Io umano non può decidere autonomamente di produrre dentro si sé, [...] in questa via la ragione si limita a riconoscere uno stato di cose oggettivo non deciso da essa
Concordo sulla trascendenza da poter intendere come "ulteriorità gnoseologica", come oggetto-in-sè,
noumeno o altro tipo di
fondamento dell'esperienza
vissuta... tuttavia, l'analogia (secondo me un po' "scivolosa"), che innalza tale ulteriorità al di sopra dei vissuti terreni, stringe il campo umano in modo elitario, confinando l'esperienza autentica del mistico a pochi soggetti, con il resto degli umani a doversi "accontentare" della fede "cieca", ovvero senza esperienza mistica diretta (e nell'esperienza mistica della trascendenza si riaffaccia il tema
off topic della predestinazione ;) ).
Esperienze mistiche spesso definite "incomunicabili", nel loro essere puro attingimento alla trascendenza della divinità, attingimento che sarebbe (correggimi pure se sbaglio) un riattivare la memoria latente di cui siamo "portatori sani", in un processo che, per quanto esplicativo, risulta difficilmente falsificabile (e quindi con un discreto margine di inattendibilità intersoggettiva).
Citazione di: davintro il 10 Agosto 2017, 17:07:52 PM
l'esistenza di Dio è un'ipotesi adatta a dei rispondere a dei problemi insiti nella conoscenza della realtà.
Concordo anche su questo, e tale funzione (sociale, esistenziale e talvolta persino) epistemologica, ricalca il ruolo di concetto-limite che ascrivevo alla trascendenza:
Citazione di: Phil il 07 Agosto 2017, 19:06:53 PM
Con ciò non affermo che la trascendenza non sia da considerare o non esista, anzi, proprio in quanto ha la funzione di concetto-limite, c'è; ma c'è anche ben poco da dirne (forse non sapremo mai interpretare il genitivo del titolo del topic, ovvero se lui è la nostra proiezione o noi siamo la sua ;D ).
davidintro,
avevo in mente a quanto pare un concetto un po' diverso di trascendenza. Per me infatti mentre l'immanente è ciò di cui abbiamo esperienza sensibile (faccio notare che per "esperienza sensibile" ci metto anche le particelle subatomiche perchè ritengo che i rivelatori che si usano negli esperimenti siano in un certo senso paragonabili a "nuovi organi di senso"), il trascendente è ciò che non può essere "contattato". Per esempio il mondo delle idee di Platone è "trascendente" perchè se mi va bene la mia anima lo raggiunge quando schiatto - ma adesso non posso in alcun modo "sperimentarlo". Un Assoluto come quello che sta uscendo dai nostri discorsi non è immanente e nemmeno trascendente secondo le mie "definizioni". Diciamo che "trascende" entrambi i concetti (d'altronde è "oltre ogni concettualizzazione" :P ) - il tuo concetto di trascendenza è una buona "approssimazione".
In realtà il rapporto Assoluto-mondo è davvero impossibile da concettualizzare per quasi tutte le religioni e le filosofie - e questo devo dire che è molto interessante (ad esempio quando si dice che "L'Assoluto è onnipresente" è errato dire che "l'Assoluto si "trova" in questo tavolo" ma anche "l'Assoluto si trova in tutto lo spazio" perchè d'altronde "essere ovunque" è abbastanza simile all'"essere da nessuna parte" ;D ).
La cosa interessante è che noi abbiamo una ovvia tendenza a creare concetti, ad estremizzarli fino a quando diventano quasi contraddittori. Come ben faceva notare Cusano con un bellissimo esempio di "coincidentia oppositorum" quando diceva che una circonferenza di raggio infinito non ha centro da nessuna parte (e quindi non è più una vera e propria circonferenza, visto che la circonferenza è definita come il luogo geometrico dei punti equidistante da un punto). Sono d'accordo nel dire che i concetti non sono innati ma mi pare abbastanza "innata" questa tendenza.
rispondo a Phil
intanto volevo dire che apprezzo molto il considerare seppur a livello ipotetico come valida la mia sgangherata e ancora confusa (anche per me) posizione. Al di là dei normali dissensi che inevitabilmente sorgono in queste questioni, la volontà di capire provando a entrare in sistemi di pensieri anche differenti da quelli che riteniamo essere i più convincenti è sempre un ammirevole segno di apertura mentale
Direi che il punto fondamentale sia che, se si parla di concetti, se ci si pone il problema di ammettere una presenza originaria dei concetti nella nostra mente, ci si pone su un piano in cui parlare di "inganno" o di "fede" non ha senso. I concetti non sono mai ingannevoli, perché ingannevole può essere una percezione, che porta a motivare un giudizio erroneo sulla realtà, ma mai un concetto. I concetti, tutti i concetti, non sono mai validi o invalidi, veri o falsi, la loro presenza è un dato di fatto che è assurdo negare, al di là dei giudizi circa la corrispondenza di tali concetti con realtà effettivamente esistenti. I concetti ascrivibili al discorso religioso sono necessariamente utilizzabili da tutti, atei e teisti, anche l'ateo per negare l'esistenza di Dio deve pur sempre partire da una certa definizione, da un'idea di Dio che ha in mente, e ritenere quell'idea di Dio valida in relazione al suo giudizio circa la non-esistenza di una realtà corrispondente a quell'idea. I concetti di qualcosa sono sempre il punto di partenza necessario per discutere e speculare sul loro riferimento alla realtà concreta ed esistenziale. Le categorie della trascendenza sono utilizzabili perché di fatto lo sono anche da chi nega loro un correlato reale, senza alcun bisogno di fede. il compito della ragione filosofica sarebbe appunto quello di provare a dedurre alcune implicazioni logiche a partire da questo dato, la presenza mentale di tali categorie. L'ipotesi che ritengo più ragionevole si fonda sul principio della proporzionalità tra soggetto e oggetto della conoscenza. Per conoscere qualcosa occorre possedere a livello soggettivo le potenzialità, delle categorie corrispondenti all'oggetto conosciuto, conoscere in fondo è sempre un "riconoscere" nel quale l'oggetto ha un senso in relazione al senso che intuiamo negli schemi soggettivi che corrisponde all'oggetto. Mi pare si possa dedurre che quanto più sarà alto il livello di corrispondenza tra categorie interpretative soggettive e dati oggettivi tanto più soggetto ed oggetto della conoscenza finiranno con il coincidere o comunque l'oggetto sarà dipendente nel suo modo d'essere dal soggetto. Non si può dire che nell'uomo la corrispondenza tra i suoi concetti sia piena e perfetta. Possiamo avere un'idea generica e formale del senso dell' "eternità" o della "perfezione" ma l'esperienza concreta e autentica di qualcosa di eterno o di perfetto, dato che poi di fatto la nostra spinta a perfezionarsi o ad aspirare ad una vita eterna provando angoscia al pensiero della morte sono sempre raffrontabili con la nostra esperienza mondana di cose caduche e imperfette. Se le categorie della trascendenza fossero non solo innate ma anche strutturalmente immanenti l'uomo credo che quest'ultimo potrebbe averne un sapere perfetto e pieno, in quanto lui stesso sarebbe il soggetto produttore di tali idee in modo autosufficiente. Queste idee invece pur presenti in noi restano nascoste da un velo di opacità che mi fa pensare che la ragione di tale presenza nell'uomo non sia l'uomo stesso (altrimenti ci sarebbe proporzione e corrispondenza piena tra soggetto pensante e idee pensate), ma conseguenza di un atto di ricezione da parte di una mente che può "produrre" da sé quei concetti essendo pienamente adeguata ad essi, cioè una mente divina, a sua volta eterna e perfetta come le idee di eternità e perfezione che comunica in noi
Stando così le cose, la via mistica, nel suo elitarismo, non è l'unica forma di relazione immanenza-trascendenza, ma si pone accanto alla via razionale, quella appunto impegnata ad argomentare sulla base della dialettica tra limiti della mente umana e presenza all'interno di essa di concetti riferibili a cose senza limiti, come ho maldestramente provato a sintetizzare sopra in due righe, e la razionalità del procedimento starebbe non in un atto di fede circa l'esistenza di qualcosa, ma dall'innegabile presenza mentale di concetti, presenza che è presupposta anche da chi ne nega ipotetici correlati esistenziali. Del resto gli stessi mistici non erano privi di ragione e linguaggio, già solo il fatto che ne stiamo parlando deriva dal fatto che tanti di loro non si sono limitati a vivere una certa esperienza, ma le hanno trascritte e narrate in testi e memorie. Ciò consente un certo livello di comunicabilità anche per quanto riguarda noi e loro, che permette di distaccarci da un elitarismo estremo. Comunicabilità enormemente limitata e inadeguata, ovviamente, ma non a causa di uno speciale elitarismo che caratterizzerebbe la mistica, ma dovuta alla strutturale inadeguatezza del linguaggio sensibile, che resta, nella sua convenzionalità simbolica, sempre "un passo indietro" rispetto alle cose stesse, alla qualità dei modi in cui si manifestano concretamente nella nostra esperienza vissuta cosciente, siano tali "cose stesse" attinenti ad un livello di trascendenza "teologico-verticale" oppure orizzontale
Citazione di: davintro il 14 Agosto 2017, 20:26:56 PM
I concetti non sono mai ingannevoli, perché ingannevole può essere una percezione, che porta a motivare un giudizio erroneo sulla realtà, ma mai un concetto. I concetti, tutti i concetti, non sono mai validi o invalidi, veri o falsi, la loro presenza è un dato di fatto che è assurdo negare, al di là dei giudizi circa la corrispondenza di tali concetti con realtà effettivamente esistenti.
Hai ragione, mi sono espresso in modo decisamente impreciso: un concetto, in quanto tale, non può essere affrontato con le categorie che applichiamo all'esperienza... ciò a cui mi riferivo è tuttavia proprio quell' "al di là dei giudizi circa la corrispondenza di tali concetti con realtà effettivamente esistenti"(cit.).
Si tratta, secondo me, di valutare le conseguenze del restare
al di qua di quella corrispondenza, per indagarne il fondamento: l'eternità è un concetto, come la caducità, ma potrebbe essere un concetto non applicabile a "realtà effettivamente esistenti", risultando un insieme vuoto (a differenza di quanto possiamo dire per la caducità).
Nel momento in cui decidiamo di servirci di un concetto, magari per orientarci nell'esistenza, mi pare cruciale stabilire il suo rapporto con l'esistenza stessa... per fare un esempio (banale, come mio solito), se "impugniamo" il concetto di perfezione quando andiamo alla ricerca di una
partner, forse conviene sapere che, plausibilmente, la
partner "perfetta" non è, come da definizione, quella "priva di difetti" (altrimenti siamo condannati a restare
single a vita), ma quella che ha delle imperfezioni che, ai nostri occhi, non pregiudicano un rapporto "speciale".
La mia perplessità era sul presupposto implicito (se non ti ho frainteso) che ai concetti in questione (eternità, perfezione, etc.)
debba corrispondere anche un'
esistenza non concettuale; detto altrimenti, perché non potrebbero esserci concetti solo teoretici (come ad esempio il nulla)? Se ammettiamo che ci siano idee/concetti che denotano un insieme reale vuoto, cosa ci spinge a "salvare" la trascendenza (pur rispettando la sua storia e il suo influsso sull'umanità) dall'essere un concetto senza relazioni "ontologiche" con il reale?
Mi risponderai (azzardo un'ipotesi!) perché la trascendenza non è un insieme vuoto, poiché è la trascendenza divina che ci fornisce il concetto di trascendenza... ma, chiedo, possiamo indagare davvero la trascendenza se la congetturiamo come auto-giustificante?
Citazione di: davintro il 14 Agosto 2017, 20:26:56 PM
Se le categorie della trascendenza fossero non solo innate ma anche strutturalmente immanenti l'uomo credo che quest'ultimo potrebbe averne un sapere perfetto e pieno, in quanto lui stesso sarebbe il soggetto produttore di tali idee in modo autosufficiente.
L'essere categoria immanente e l'essere oggetto di una conoscenza perfetta e piena, non mi convince molto come legame: pensiamo ai "misteri" della genetica e delle neuroscienze, oppure alle categorie estetiche o politiche, etc. sono "strutturalmente immanenti all'uomo", ma sostenere che l'uomo ne abbia per questo una conoscenza piena e perfetta, suona forse troppo ottimistico...
Citazione di: davintro il 14 Agosto 2017, 20:26:56 PM
Queste idee invece pur presenti in noi restano nascoste da un velo di opacità che mi fa pensare che la ragione di tale presenza nell'uomo non sia l'uomo stesso (altrimenti ci sarebbe proporzione e corrispondenza piena tra soggetto pensante e idee pensate)
L'uomo dovrebbe dunque essere misura di ciò che pensa, ma lo è in base alla sua contingente immanenza, o in base alle sue capacità mentali, che valicano spesso i limiti delle sue possibilità "carnali" (come dimostra la fantasia, che è spesso ancella della ragione quando questa si incaglia in interpretazioni troppo ostiche...)?
Credo che il discrimine sia fra l'"opacità" (la visione non chiara) e la mancata corrispondenza con la realtà (l'insieme vuoto di cui sopra): non riusciamo a esperire la "perfezione" perché è di un livello che ci eccede, oppure perché è solo un concetto-limite che, in quanto tale, delimita il pensiero ma non può essere esperito?
Rifiutando l'ipotesi (che personalmente appoggio) secondo cui tali concetti vengono creati cognitivamente per negazione (perfetto = non-imperfetto) o estremizzazione del "grado" ("perfetto" è maggiore di "meglio") di ciò che esperiamo come vissuto; riconoscendo (e qui sono d'accordo) che questi concetti non fanno necessariamente parte della struttura immanente dell'uomo, almeno fino a prova contraria (e, se anche ne facessero parte, non è scontato che potremmo conoscerli adeguatamente); supponendo inoltre che non siano concetti introiettati per assimilazione/acculturazione nei primi anni di vita (altra "vittima sacrificale" per restare nel tuo orizzonte), allora si può propendere a pensare che ci sia "qualcuno/qualcosa" che ce li abbia instillati, bisbigliandoli all'orecchio interiore della nostra anima.
Tali concetti sarebbero indicazione, o meglio, suggerimento di un'ulteriorità, non biecamente "orizzontale", che mal si presta a essere incanalata nel linguaggio umano; un'ulteriorità che potrebbe lecitamente consistere nel denominatore comune di tutte le esperienze mistiche. Tuttavia, come concludere repentinamente che si tratti di
Citazione di: davintro il 14 Agosto 2017, 20:26:56 PM
una mente che può "produrre" da sé quei concetti essendo pienamente adeguata ad essi, cioè una mente divina, a sua volta eterna e perfetta come le idee di eternità e perfezione che comunica in noi
ovvero perché questo "qualcosa" dovrebbe essere simile ad una mente umana, ma solo in grado di pensare e "comunicare" categorie che la mente umana non coglie, se non per "grazia ricevuta"?
L'arbitrarietà di questo epilogo antropocentrico (quasi antropomorfico!) della ricerca, porterebbe effettivamente a pensare ad una sorta di "proiezione" (come da titolo del topic).
Questo esito trascendentale (a cui si approda dopo aver scartato processi cognitivi, strutture genetiche e dinamiche sociali) ha senso solo se si
presuppone che l'uomo sia una stirpe "eletta" di cui questa trascendenza si cura, si fa carico (escludendo di essere un "giocattolo divino", oppure soltanto dei "conviventi inferiori", come era con dèi e uomini "fianco a fianco" nella mitologia greca...). Eppure, se questo è il presupposto, allora la ricerca ha già da subito una risposta inibitoria: la trascendenza, la perfezione, l'eternità, etc. esistono in quanto attributi divini e all'uomo non resta che sfiorarli concettualmente restandone abbagliato.
Rimane da chiarire se la trascendenza della divinità sia il tacito presupposto, il punto di partenza (esiste per certo una divinità, con determinati attributi, che si relaziona all'uomo anche donandogli tali categorie mentali), oppure sia il risultato, il punto di arrivo (solo una divinità può averci offerto quei concetti, quindi una divinità "deve" esistere). Il peso culturale del concetto di divinità, il modo stesso in cui utilizziamo e "carichiamo" tale concetto, credo svolga comunque un ruolo rilevante nel distinguere il presupposto dal risultato... se ci concediamo che la trascendenza non sia un mero concetto vuoto (solo mentale), se la "sostanzializziamo", allora essa giustifica l'esistenza di una divinità, che a sua volta spiega il concetto di trascendenza (come impronta del divino nell'animo umano). Il meccanismo circolare pare funzionare.
Le altre ipotesi (astrazione, negazione concettuale, introiezione culturale, etc.) sarebbero a questo punto dovute alla fallibilità interpretativa dell'intelletto umano, impossibilitato a ragionare con i concetti alla soglia della "trascendenza verticale", raggiungibile solo abbandonando le categorie del sensibile per fare spazio alla "sproporzione" dell'evento mistico.
P.s.
Spero di esser stato un adeguato "esegeta", per quanto critico, del tuo punto di vista.
P.p.s.
Mi scuso per l'
overdose di domande e per la prolissità del post (dividerlo in due sarebbe stato solo un espediente grafico, non so quanto funzionale...).
Citazione di: davintro il 14 Agosto 2017, 20:26:56 PM
Direi che il punto fondamentale sia che, se si parla di concetti, se ci si pone il problema di ammettere una presenza originaria dei concetti nella nostra mente, ci si pone su un piano in cui parlare di "inganno" o di "fede" non ha senso. I concetti non sono mai ingannevoli, perché ingannevole può essere una percezione, che porta a motivare un giudizio erroneo sulla realtà, ma mai un concetto.
Tu stai parlando di quelli che Jung chiama "archetipi".
Scrivevo qualche tempo fa a un interlocutore:
<<...Una cosa è la similitudine tra gli individui, che rende possibile la comunicazione, e cosa ben diversa è la similitudine dei CONTENUTI delle idee. Infatti gli archetipi, se sono autentici (non distorti o mutilati) sono tutti rigorosamente complementari tra di loro e MAI contraddittori, proprio come tutte le verità che sono autenticamente tali. Mentre le "idee ordinarie" sono prevalentemente conflittuali, spesso anche quando appartengono ad un medesimo pensiero individuale (la coerenza è un bene tanto prezioso quanto raro).>>Conosci Jung?
Citazione di: Carlo Pierini il 22 Agosto 2017, 17:46:03 PMCitazione di: davintro il 14 Agosto 2017, 20:26:56 PMDirei che il punto fondamentale sia che, se si parla di concetti, se ci si pone il problema di ammettere una presenza originaria dei concetti nella nostra mente, ci si pone su un piano in cui parlare di "inganno" o di "fede" non ha senso. I concetti non sono mai ingannevoli, perché ingannevole può essere una percezione, che porta a motivare un giudizio erroneo sulla realtà, ma mai un concetto.
Tu stai parlando di quelli che Jung chiama "archetipi". Scrivevo qualche tempo fa a un interlocutore: <<...Una cosa è la similitudine tra gli individui, che rende possibile la comunicazione, e cosa ben diversa è la similitudine dei CONTENUTI delle idee. Infatti gli archetipi, se sono autentici (non distorti o mutilati) sono tutti rigorosamente complementari tra di loro e MAI contraddittori, proprio come tutte le verità che sono autenticamente tali. Mentre le "idee ordinarie" sono prevalentemente conflittuali, spesso anche quando appartengono ad un medesimo pensiero individuale (la coerenza è un bene tanto prezioso quanto raro).>> Conosci Jung?
per la verità non pensavo agli archetipi junghiani, volevo solo sottolineare come "verità" e "illusione" siano categorie che hanno un senso solo se riferite a giudizi, mentre l'intuizione di idee è un dato fenomenologico antepredicativo, non un giudizio. L'intuizione dell'idea di eternità, trascendenza ecc. non è un giudizio, un atto tetico, posizionale nei confronti della realtà oggettiva, nei cui confronti si può essere d'accordo o in disaccordo, ma un vissuto soggettivo che fintanto che resta nell'immanenza della coscienza è una presenza al di fuori della dubitabilità. Infatti anche l'ateo, come il credente, non può negare di avere nella sua mente un'idea di Dio, di eternità, perfezione... altrimenti a cosa riferirebbe il suo giudizio di non-esistenza? Ciò che cambia non è il riconoscimento della presenza dell'idea, ma solo il giudizio di corrispondenza tra idea ed esistenza fattuale, ed in certi casi, la causalità che determina la presenza, appunto l'idea della "proiezione" è un modello esplicativo solitamente comune nel campo ateo.
Jung è tra gli autori che maggiormente mi piacerebbe approfondire in futuro. Attualmente mi sto concentrando sulla sua teoria dei Tipi psicologici e dell'individuazione delle funzioni cognitive, che prende le mosse dalla fondamentale distinzione tra introversione ed estroversione, teoria che poi ha ispirato la classificazione delle personalità dell'MBTI, molto diffusa negli Usa (specie nell'ambito dell'orientamento professionale), ma che comincia ad attecchire un po' anche da noi
E' vero. Ma l'idea solo intuita, seppur presente in qualche modo in noi, è sfocata, nebulosa. E per coglierne la profondità, l'estensione e la ricchezza ci si deve lavorare sopra, dobbiamo frequentarla e diventarne amici (riflessione). Altrimenti facciamo come gli atei: la crediamo un'illusione, un fantasma irreale, e la neghiamo.
Tradotta in linguaggio junghiano questa stessa riflessione suonerebbe più o meno così (come scrissi successivamente all'interlocutore di cui sopra):
<<Gli archetipi sono sì idee pre-esistenti, ma non sono già formulate o rappresentazioni già scodellate e pronte all'uso, ma sono entità *ordinatrici* delle idee umane, modelli di espressione del pensiero cosciente (quando c'è comunicazione col Sé); cioè, sono degli inosservabili la cui pre-esistenza si può desumere solo a-posteriori dall'osservazione comparata delle rappresentazioni umane sia individuali (sogni, visioni, opere ispirate, ecc.) che collettive (simboli sacri, miti, riti, idee religiose) e della loro tendenza a strutturarsi secondo modelli universali espressi in ogni tempo e in ogni luogo. E nel passaggio dall'archetipo alla sua formulazione come idea o come immagine simbolica, la psiche umana ha un ruolo fondamentale, intanto perché deve "riempire" di contenuti queste strutture originarie e, in secondo luogo, perché la loro proiezione nella psiche sarà più o meno "deformata" a seconda dello stato di equilibrio mentale del soggetto che ne è ispirato. I cosiddetti pazzi, infatti, non "producono" idee archetipiche, ma frammenti distorti e mutilati di idee archetipiche, così come è frammentato e deformato il loro "io". Il "terzo Reich" hitleriano, per esempio, non è altro che una variante mutilata e distorta dell'archetipo del "Terzo Regno". E' per questo che i religiosi considerano assolutamente prioritaria la cosiddetta "purezza dell'anima", che noi chiameremmo "salute mentale".>>
Quindi, tornando all'argomento del thread, non è l'uomo che proietta un'immagine illusoria di Dio, ma è Dio che proietta nell'anima umana un'immagine di sé; e questa immagine sarà tanto più "vera" quanto più "lo schermo" dell'anima sarà "teso" o privo di "macchie" o "strappi".
Citazione di: Carlo Pierini il 23 Agosto 2017, 01:45:16 AME' vero. Ma l'idea solo intuita, seppur presente in qualche modo in noi, è sfocata, nebulosa. E per coglierne la profondità, l'estensione e la ricchezza ci si deve lavorare sopra, dobbiamo frequentarla e diventarne amici (riflessione). Altrimenti facciamo come gli atei: la crediamo un'illusione, un fantasma irreale, e la neghiamo. Tradotta in linguaggio junghiano questa stessa riflessione suonerebbe più o meno così (come scrissi successivamente all'interlocutore di cui sopra): <> Quindi, tornando all'argomento del thread, non è l'uomo che proietta un'immagine illusoria di Dio, ma è Dio che proietta nell'anima umana un'immagine di sé; e questa immagine sarà tanto più "vera" quanto più "lo schermo" dell'anima sarà "teso" o privo di "macchie" o "strappi".
credo che nelle ultime due righe tu abbia ben sintetizzato il senso della tesi che volevo sostenere
Citazione di: Carlo Pierini il 23 Agosto 2017, 01:45:16 AM
E' vero. Ma l'idea solo intuita, seppur presente in qualche modo in noi, è sfocata, nebulosa. E per coglierne la profondità, l'estensione e la ricchezza ci si deve lavorare sopra, dobbiamo frequentarla e diventarne amici (riflessione). Altrimenti facciamo come gli atei: la crediamo un'illusione, un fantasma irreale, e la neghiamo.
Tradotta in linguaggio junghiano questa stessa riflessione suonerebbe più o meno così (come scrissi successivamente all'interlocutore di cui sopra):
<<Gli archetipi sono sì idee pre-esistenti, ma non sono già formulate o rappresentazioni già scodellate e pronte all'uso, ma sono entità *ordinatrici* delle idee umane, modelli di espressione del pensiero cosciente (quando c'è comunicazione col Sé); cioè, sono degli inosservabili la cui pre-esistenza si può desumere solo a-posteriori dall'osservazione comparata delle rappresentazioni umane sia individuali (sogni, visioni, opere ispirate, ecc.) che collettive (simboli sacri, miti, riti, idee religiose) e della loro tendenza a strutturarsi secondo modelli universali espressi in ogni tempo e in ogni luogo. E nel passaggio dall'archetipo alla sua formulazione come idea o come immagine simbolica, la psiche umana ha un ruolo fondamentale, intanto perché deve "riempire" di contenuti queste strutture originarie e, in secondo luogo, perché la loro proiezione nella psiche sarà più o meno "deformata" a seconda dello stato di equilibrio mentale del soggetto che ne è ispirato. I cosiddetti pazzi, infatti, non "producono" idee archetipiche, ma frammenti distorti e mutilati di idee archetipiche, così come è frammentato e deformato il loro "io". Il "terzo Reich" hitleriano, per esempio, non è altro che una variante mutilata e distorta dell'archetipo del "Terzo Regno". E' per questo che i religiosi considerano assolutamente prioritaria la cosiddetta "purezza dell'anima", che noi chiameremmo "salute mentale".>>
Quindi, tornando all'argomento del thread, non è l'uomo che proietta un'immagine illusoria di Dio, ma è Dio che proietta nell'anima umana un'immagine di sé; e questa immagine sarà tanto più "vera" quanto più "lo schermo" dell'anima sarà "teso" o privo di "macchie" o "strappi".
Ecco, quì mi è più chiaro l'archetipo, ma non i dubbi su cosa e come ontologicamente strutturi l'archetipo Jung.
E' un oggetto ontologico preesistente di cui consciamente non lo conosciamo, ma che interviene nel processo conoscitivo e quindi lo potremmo percepire come effetto epistemologico, ma non come apriori.
Non mi è chiaro cosa e come avviene il procedimento secondo Jung della costruzione di uun modello rappresentativo simbolico in funzione di un archetipo originario plasmato dalla psiche. cosa intende quì per psiche? Come si relaziona con altri oggetti come mente, coscienza, e altri oggetti spirituali come anima e spirito? Come a sua volta si relazionerebbe il sistema conoscitivo formale razionale con il sistema psichico/mentale? Anche un malato di mente ha una "sua" rappresentazione, cosa significa allora "normalità" se non convenzione accettata? Insomma da una parte colgo delle sintonie, dall'altra delle perplessità.
Mi sembra, ma non sono sicuro, che i concetti di Jung siano simili ad una "fenomenologia mentale" psichica, nel senso che è inscindibile il processo conoscitivo fra soggetto e oggetto,non essendoci una netta separazione.
Tento di spiegarmi, quando conosco un oggetto in realtà è preesitente la conoscenza(perchè c'è in questo caso un archetipo junghiano), semmai il procedimento conoscitivo conferma l'archetipo e quindi quell'oggetto è ora compreso nel mio mentale/psichico come simbolo conoscitivo acquisito.
Citazione di: paul11 il 23 Agosto 2017, 23:42:15 PM
Citazione di: Carlo Pierini il 23 Agosto 2017, 01:45:16 AM
E' vero. Ma l'idea solo intuita, seppur presente in qualche modo in noi, è sfocata, nebulosa. E per coglierne la profondità, l'estensione e la ricchezza ci si deve lavorare sopra, dobbiamo frequentarla e diventarne amici (riflessione). Altrimenti facciamo come gli atei: la crediamo un'illusione, un fantasma irreale, e la neghiamo.
Tradotta in linguaggio junghiano questa stessa riflessione suonerebbe più o meno così (come scrissi successivamente all'interlocutore di cui sopra):
<<Gli archetipi sono sì idee pre-esistenti, ma non sono già formulate o rappresentazioni già scodellate e pronte all'uso, ma sono entità *ordinatrici* delle idee umane, modelli di espressione del pensiero cosciente (quando c'è comunicazione col Sé); cioè, sono degli inosservabili la cui pre-esistenza si può desumere solo a-posteriori dall'osservazione comparata delle rappresentazioni umane sia individuali (sogni, visioni, opere ispirate, ecc.) che collettive (simboli sacri, miti, riti, idee religiose) e della loro tendenza a strutturarsi secondo modelli universali espressi in ogni tempo e in ogni luogo. E nel passaggio dall'archetipo alla sua formulazione come idea o come immagine simbolica, la psiche umana ha un ruolo fondamentale, intanto perché deve "riempire" di contenuti queste strutture originarie e, in secondo luogo, perché la loro proiezione nella psiche sarà più o meno "deformata" a seconda dello stato di equilibrio mentale del soggetto che ne è ispirato. I cosiddetti pazzi, infatti, non "producono" idee archetipiche, ma frammenti distorti e mutilati di idee archetipiche, così come è frammentato e deformato il loro "io". Il "terzo Reich" hitleriano, per esempio, non è altro che una variante mutilata e distorta dell'archetipo del "Terzo Regno". E' per questo che i religiosi considerano assolutamente prioritaria la cosiddetta "purezza dell'anima", che noi chiameremmo "salute mentale".>>
Quindi, tornando all'argomento del thread, non è l'uomo che proietta un'immagine illusoria di Dio, ma è Dio che proietta nell'anima umana un'immagine di sé; e questa immagine sarà tanto più "vera" quanto più "lo schermo" dell'anima sarà "teso" o privo di "macchie" o "strappi".
Ecco, quì mi è più chiaro l'archetipo, ma non i dubbi su cosa e come ontologicamente strutturi l'archetipo Jung.
E' un oggetto ontologico preesistente di cui consciamente non lo conosciamo, ma che interviene nel processo conoscitivo e quindi lo potremmo percepire come effetto epistemologico, ma non come apriori.
Gli archetipi sono degli a-priori presenti nel Sé. Dopodiché, esistono tre possibilità:
1 - C'è chi - per varie ragioni tutte da approfondire a parte - entra in contatto
SANO più o meno profondo/diretto con la dimensione archetipica (intuizione, ispirazione artistica, esperienza estatica, sogno "mitopoietico", ecc.) - e allora i CONTENUTI delle sue idee saranno influenzati/orientati da essa;2 - c'è chi - per altre varie ragioni tutte da approfondire a parte - entra in contatto PATOLOGICO con la dimensione archetipica (percezione distorta degli archetipi) - e allora avremo dei mistici fanatici e fondamentalisti, cioè degli squilibrati mentali posseduti da archetipi mutilati;
3 - c'è chi - per altre varie ragioni tutte da approfondire a parte - non entra in contatto con la dimensione archetipica (o, se ci entra, la liquida come fantasia irreale e quindi ne resta impermeabile) - e allora avremo la gente cosiddetta "normale" o "razionale" che non esprimerà alcunché di archetipico ma anzi, che respingerà tutto ciò che odora di "simbolico", proprio come te, come me quando ero giovane, e come la maggior parte della gente "...che ha cose ben più serie e ragionevoli a cui pensare...!!"
Citazione
A Davintro (innanzitutto; e anche agli altri amici) Mi sembra che la critica della credenza in Dio di Feuerbach (mi scuso per l' incertezza, ma l' ho letto molti anni fa, anche se con grande interesse ed arricchimento interiore) non consideri esclusivamente una divinità trascendente; anzi, le religioni più diffuse almeno in Europa ai suoi tempi e principalmente oggetto della sua critica consideravano divinità decisamente immanenti, decisamente "interventiste" ed "attive" nel mondo naturale, più o meno universalisticamente (Cristianesimo, Islam) oppure selettivamente e razzisticamente (Ebraismo) interessate a "redimere" l' umanità dalle sue pretese colpe e ad emendarle dai conseguenti mali a cominciare dall' "al di qua", anche se in un cammino di affrancamento che sarebbe stato portato pienamente a compimento nell' "al di là": divinìtà infatti da pregare, da temere, alle quali chiedere aiuto, financo "miracoloso", anche in "questa vita" naturale e mortale Circa le argomentazioni centrali di Davintro, personalmente dissento in toto dalla pretesa che concetti che "trascendono" l' empiria dimostrino l' esistenza reale soggetti "extranaturali" (diversi dagli uomini reali), che soli sarebbero in grado di "confezionarli" e di "immetterli a priori" nella coscienza umana.Il pensiero umano nasce e si sviluppa a partire dai dati empirici (a posteriori), principalmente per distinzione ed astrazione.Dalla conta di numeri finiti di oggetti del tutto naturalmente sorge il concetto di "numerazione infinita", cioè di ipotetica continuazione senza fine della conta stessa, dalla constatazione della durata finita di eventi (come la vita umana) del tutto naturalmente sorge il concetto di "durata infinita" o di "eternità", cioè di ipotetica continuazione senza fine della durata degli eventi stessi; tutto questo senza alcun bisogno di un' impossibile reale esperienza concreta di fatto di conteggi infiniti di oggetti o di eventi di durata infinita, né dell' esistenza di soggetti di pensiero extraumani che li "stabiliscano" (o definiscano) e ce li comunichino, esattamente come non c' è alcun bisogno di vedere realmente un ippogrifo o che Dio o chi per esso ci descriva un ippogrifo: basta "confezionarne" il concetto "rielaborando" o "riassemblando" creativamente ma del tutto umanamente e naturalisticamente le naturalissime esperienze empiriche di cavalli ed uccelli e le rispettive nozioni a posteriori.Lo stesso vale, oltre che per tutte le altre caratteristiche del concetto di "divinità", anche per la sua eventuale "trascendenza": dalla constatazione empirica (o dalla facilissima immaginazione a partire da dati empirici a posteriori) di enti ed eventi reali non aventi di fatto alcun rapporto o interferenza con altri insiemi di enti ed eventi reali (per esempio ciò che sta dentro un contenitore ermeticamente chiuso e termodinamicamente isolato che sia sufficientemente lontano da altri oggetti massivi da escludere apprezzabili reciproci effetti gravitazionali con il suo contenuto) del tutto naturalisticamente a posteriori l' uomo generalizza e astrae il concetto di "trascendenza" senza alcun bisogno di (peraltro logicamente assurde e dunque impossibili) constatazioni empiriche dirette, ma nemmeno di "suggerimenti da parte di entità-soggetti di pensiero e comunicazione verbale extranaturali.Basta immaginare (a posteriori) qualcosa che sia con la realtà naturale da noi esperta e vissuta (ed ulteriormente esperibile e vivibile) in toto nelle stesse relazioni nelle quali sta qualcosa che sia separato e non comunicante, per nulla interferente, pur facendone parte, con il resto della stessa realtà da noi esperibile e agibile.
Citazione di: Phil il 09 Agosto 2017, 16:03:21 PM
D'altronde quando astraggo, sono consapevole che il risultato è solo un'astrazione, magari personale; se invece si parla di trascendenza divina, solitamente, non si parla di un mero costrutto mentale (o addirittura proiezione ;) ), ma di qualcosa di ben più rilevante per la storia dell'esistenza del cosmo e, soprattutto, di non-solo-mentale e non-solo-personale (dunque si confonde il risultato di un'astrazione, ovvero di un processo mentale, con qualcosa che si suppone invece esistente indipendentemente dall'uomo, su un altro piano, quello della trascendenza divina).
La differenza fra il "passo dell'astrazione" e il "salto della fede" è tutta qui, fra l'essere-prodotto-umano (identità tassonomica della "margherita") e l'essere-motore-immobile (divinità trascendente).
CitazioneConcordo.
E' tutto da dimostrare che i concetti (realmente pensati) di "trascendenza" e di "Dio", oltre ad avere una connotazione-intensione (teorica; reale in quanto mentale, unicamente nell' ambito del pensiero), presentano anche una denotazione-estensione reale.
Siamo sempre fermi a paralogismo di Sant' Anselmo d' Aosta!
Per la fondamentale differenza fra essere pensato ed essere reale può benissimo darsi senza alcun problema un pensante reale limitato pensi (e non: crei, causi, condizioni ad essere reali, ma invece solo ad essere pensati, sia pure realmente) concetti illimitati, "perfetti", eterni, trascendenti, ecc.
Citazione di: sgiombo il 01 Settembre 2017, 16:42:15 PMA Davintro (innanzitutto; e anche agli altri amici) Mi sembra che la critica della credenza in Dio di Feuerbach (mi scuso per l' incertezza, ma l' ho letto molti anni fa, anche se con grande interesse ed arricchimento interiore) non consideri esclusivamente una divinità trascendente; anzi, le religioni più diffuse almeno in Europa ai suoi tempi e principalmente oggetto della sua critica consideravano divinità decisamente immanenti, decisamente "interventiste" ed "attive" nel mondo naturale, più o meno universalisticamente (Cristianesimo, Islam) oppure selettivamente e razzisticamente (Ebraismo) interessate a "redimere" l' umanità dalle sue pretese colpe e ad emendarle dai conseguenti mali a cominciare dall' "al di qua", anche se in un cammino di affrancamento che sarebbe stato portato pienamente a compimento nell' "al di là": divinìtà infatti da pregare, da temere, alle quali chiedere aiuto, financo "miracoloso", anche in "questa vita" naturale e mortale Circa le argomentazioni centrali di Davintro, personalmente dissento in toto dalla pretesa che concetti che "trascendono" l' empiria dimostrino l' esistenza reale soggetti "extranaturali" (diversi dagli uomini reali), che soli sarebbero in grado di "confezionarli" e di "immetterli a priori" nella coscienza umana. Il pensiero umano nasce e si sviluppa a partire dai dati empirici (a posteriori), principalmente per distinzione ed astrazione. Dalla conta di numeri finiti di oggetti del tutto naturalmente sorge il concetto di "numerazione infinita", cioè di ipotetica continuazione senza fine della conta stessa, dalla constatazione della durata finita di eventi (come la vita umana) del tutto naturalmente sorge il concetto di "durata infinita" o di "eternità", cioè di ipotetica continuazione senza fine della durata degli eventi stessi; tutto questo senza alcun bisogno di un' impossibile reale esperienza concreta di fatto di conteggi infiniti di oggetti o di eventi di durata infinita, né dell' esistenza di soggetti di pensiero extraumani che li "stabiliscano" (o definiscano) e ce li comunichino, esattamente come non c' è alcun bisogno di vedere realmente un ippogrifo o che Dio o chi per esso ci descriva un ippogrifo: basta "confezionarne" il concetto "rielaborando" o "riassemblando" creativamente ma del tutto umanamente e naturalisticamente le naturalissime esperienze empiriche di cavalli ed uccelli e le rispettive nozioni a posteriori. Lo stesso vale, oltre che per tutte le altre caratteristiche del concetto di "divinità", anche per la sua eventuale "trascendenza": dalla constatazione empirica (o dalla facilissima immaginazione a partire da dati empirici a posteriori) di enti ed eventi reali non aventi di fatto alcun rapporto o interferenza con altri insiemi di enti ed eventi reali (per esempio ciò che sta dentro un contenitore ermeticamente chiuso e termodinamicamente isolato che sia sufficientemente lontano da altri oggetti massivi da escludere apprezzabili reciproci effetti gravitazionali con il suo contenuto) del tutto naturalisticamente a posteriori l' uomo generalizza e astrae il concetto di "trascendenza" senza alcun bisogno di (peraltro logicamente assurde e dunque impossibili) constatazioni empiriche dirette, ma nemmeno di "suggerimenti da parte di entità-soggetti di pensiero e comunicazione verbale extranaturali. Basta immaginare (a posteriori) qualcosa che sia con la realtà naturale da noi esperta e vissuta (ed ulteriormente esperibile e vivibile) in toto nelle stesse relazioni nelle quali sta qualcosa che sia separato e non comunicante, per nulla interferente, pur facendone parte, con il resto della stessa realtà da noi esperibile e agibile.
l'astrazione generalizzante non ha il potere di creare nuovi concetti attraverso una qualitativa trasformazione di concetti preesistenti, ma semplicemente forma concetti universalizzando, o generalizzando da una molteplicità di fenomeni individuali, cioè osservati in un certo particolare spazio-tempo. Ma il senso a cui il concetto che se ne ricava si riferisce non può contenere nulla che non sia nei dati fenomenici da cui l'astrazione ha preso le mosse. Tutte le possibilità ideali di significato a cui si può associare un concetto o una definizione, nella misura in cui si distinguono tra loro qualitativamente, sono apprese dalla mente umana come dati originari, non derivazioni secondarie da altri. Nessuna quantità di oggetti finiti può produrre in noi l'idea qualitativa di infinito, tra l'altro, come detto nella discussione di prima con Phil, il concetto stesso di "finitezza" non è ricavabile dall'esperienza di oggetti finiti, in quanto la finitezza è una proprietà appartenente a oggetti fisici, come alberi o case, ma il suo significato è intelligibile, quindi l'esperienza esterna può tranquillamente offrirmi il contenuto di concetti sensibili come alberi e case, senza darmi il concetto di finitezza, che resterebbe una proprietà di questi enti senza che la mente se ne accorga e formi ad hoc il concetto di "finitezza", se non fosse che la finitezza essendo intelligibile di per sé rientra nel novero delle idee innate nella mente. Per rendermi conto che qualunque (chiedo scusa per l'orribile gioco di parole) conta di oggetti finiti può essere prolungata in linea teorica senza fine io devo già possedere l'idea di "infinito" apriori, per poi applicarla nella situazione empirica nel rilevare come "senza fine" (cioè infinito) può essere il conteggio. In assenza di tale idea di infinito già in partenza dentro di me, io continuerei a contare all'infinito continuando a pensare che prima o poi il conteggio finirà, perché non avrei concezione di qualcosa che possa essere "senza fine". Una cosa infinita è certamente quantitativamente più grande di una cosa finita, ma non si distingue solo quantitativamente, ma anche qualitativamente: l'infinito è il massimo grado dell'estensione di qualcosa, ciò che esclude altro da se stesso, mentre il finito è sempre limitato da altro da sé. Questo scarto qualitativo non può essere colmato da nessuna quantità, quindi nessuna serie, sempre limitata, di esperienza di cose finite può arrivare a modificare qualitativamente il concetto di finito, l'aumento quantitativo dell'esperienza dei finiti può condurre all'idea di estensioni numeriche sempre più ampie, ma sempre finite, mai al punto di raggiungere l'idea limite, quella che esclude un'ulteriorità sopra di sé, cioè l'infinito. Dunque l'apprensione dell'idea di infinito è primitiva e originaria, non ricavata da concetti qualitativamente distinti da esso. L'errore di vedere l'infinito come idea derivata a-posteriori consiste nella confusione tra "coscienza" e "attenzione". L'esperienza esterna può essere lo stimolo, l'occasione che porta la mente a rivolgere l'attenzione su dei contenuti mentali prima ignorati, ma questo non vuol dire che tali contenuti non fossero già in noi presenti prima senza che ne avessimo piena consapevolezza. Il complesso dei contenuti coscienziali non coincide con ciò su cui riflettiamo rivolgendo l'attenzione, perché la coscienza va vista come un insieme di livelli psichici più o meno profondi, più o meno trasparenti o opaci, solo parzialmente "illuminata" dalla riflessione attuale dell'Io che può decidere di prestare o meno attenzione ai vari livelli. Quindi il fatto che un certo concetto divenga oggetto di attenzione in un certo contesto empirico non vuol dire che la sua presenza alla mente inizi in quel momento e non fosse già latente in noi originariamente.
Con tutto ciò non voglio ovviamente sostenere che tutto ciò di cui abbiamo un'idea sia davvero reale, perché dall'esperienza di cose reali dovrebbero derivare i corrispettivi concetti,, il che sarebbe ridicolo. Occorre distinguere. "infinito", "eternità, "perfezione" non possono essere messi sullo stesso piano dell'ippogrifo. Io posso avere un'idea dell'ippogrifo anche se non ho fatto esperienza di ippogrifi reali tramite l'immaginazione, che agisce sinteticamente. La rappresentazione dell'ippogrifo si riferisce a un essere sensibile, fisico, un insieme di parti, che la fantasia assembla fra loro, mettendo insieme l'idea di un corpo di cavallo con l'idea di ali. Un altro esempio può essere l'idea di fantasma, io ho il concetto di "fantasma" anche non credendo alla loro esistenza, perché, suppongo, la mia fantasia associa sinteticamente l'idea di "persona morta" con delle manifestazioni che il senso comune associa a persone ancora in vita. Concetti come quelli di infinito e di perfezione, proprio perché il senso a cui si riferiscono è immateriale, sono nozioni "semplici", prive di parti, originarie, dunque per comprendere la ragione del loro essere presenti alla nostra mente non basta chiamare in causa l'immaginazione sintetica, che è invece sufficiente a giustificare la formazioni di idee di enti immaginari, ma comunque materiali come l'ippogrifo o l'unicorno
Citazione di: davintro il 13 Settembre 2017, 16:19:33 PM
Citazione di: sgiombo il 01 Settembre 2017, 16:42:15 PMA Davintro (innanzitutto; e anche agli altri amici) Mi sembra che la critica della credenza in Dio di Feuerbach (mi scuso per l' incertezza, ma l' ho letto molti anni fa, anche se con grande interesse ed arricchimento interiore) non consideri esclusivamente una divinità trascendente; anzi, le religioni più diffuse almeno in Europa ai suoi tempi e principalmente oggetto della sua critica consideravano divinità decisamente immanenti, decisamente "interventiste" ed "attive" nel mondo naturale, più o meno universalisticamente (Cristianesimo, Islam) oppure selettivamente e razzisticamente (Ebraismo) interessate a "redimere" l' umanità dalle sue pretese colpe e ad emendarle dai conseguenti mali a cominciare dall' "al di qua", anche se in un cammino di affrancamento che sarebbe stato portato pienamente a compimento nell' "al di là": divinìtà infatti da pregare, da temere, alle quali chiedere aiuto, financo "miracoloso", anche in "questa vita" naturale e mortale Circa le argomentazioni centrali di Davintro, personalmente dissento in toto dalla pretesa che concetti che "trascendono" l' empiria dimostrino l' esistenza reale soggetti "extranaturali" (diversi dagli uomini reali), che soli sarebbero in grado di "confezionarli" e di "immetterli a priori" nella coscienza umana. Il pensiero umano nasce e si sviluppa a partire dai dati empirici (a posteriori), principalmente per distinzione ed astrazione. Dalla conta di numeri finiti di oggetti del tutto naturalmente sorge il concetto di "numerazione infinita", cioè di ipotetica continuazione senza fine della conta stessa, dalla constatazione della durata finita di eventi (come la vita umana) del tutto naturalmente sorge il concetto di "durata infinita" o di "eternità", cioè di ipotetica continuazione senza fine della durata degli eventi stessi; tutto questo senza alcun bisogno di un' impossibile reale esperienza concreta di fatto di conteggi infiniti di oggetti o di eventi di durata infinita, né dell' esistenza di soggetti di pensiero extraumani che li "stabiliscano" (o definiscano) e ce li comunichino, esattamente come non c' è alcun bisogno di vedere realmente un ippogrifo o che Dio o chi per esso ci descriva un ippogrifo: basta "confezionarne" il concetto "rielaborando" o "riassemblando" creativamente ma del tutto umanamente e naturalisticamente le naturalissime esperienze empiriche di cavalli ed uccelli e le rispettive nozioni a posteriori. Lo stesso vale, oltre che per tutte le altre caratteristiche del concetto di "divinità", anche per la sua eventuale "trascendenza": dalla constatazione empirica (o dalla facilissima immaginazione a partire da dati empirici a posteriori) di enti ed eventi reali non aventi di fatto alcun rapporto o interferenza con altri insiemi di enti ed eventi reali (per esempio ciò che sta dentro un contenitore ermeticamente chiuso e termodinamicamente isolato che sia sufficientemente lontano da altri oggetti massivi da escludere apprezzabili reciproci effetti gravitazionali con il suo contenuto) del tutto naturalisticamente a posteriori l' uomo generalizza e astrae il concetto di "trascendenza" senza alcun bisogno di (peraltro logicamente assurde e dunque impossibili) constatazioni empiriche dirette, ma nemmeno di "suggerimenti da parte di entità-soggetti di pensiero e comunicazione verbale extranaturali. Basta immaginare (a posteriori) qualcosa che sia con la realtà naturale da noi esperta e vissuta (ed ulteriormente esperibile e vivibile) in toto nelle stesse relazioni nelle quali sta qualcosa che sia separato e non comunicante, per nulla interferente, pur facendone parte, con il resto della stessa realtà da noi esperibile e agibile.
l'astrazione generalizzante non ha il potere di creare nuovi concetti attraverso una qualitativa trasformazione di concetti preesistenti, ma semplicemente forma concetti universalizzando, o generalizzando da una molteplicità di fenomeni individuali, cioè osservati in un certo particolare spazio-tempo. Ma il senso a cui il concetto che se ne ricava si riferisce non può contenere nulla che non sia nei dati fenomenici da cui l'astrazione ha preso le mosse. Tutte le possibilità ideali di significato a cui si può associare un concetto o una definizione, nella misura in cui si distinguono tra loro qualitativamente, sono apprese dalla mente umana come dati originari, non derivazioni secondarie da altri. Nessuna quantità di oggetti finiti può produrre in noi l'idea qualitativa di infinito, tra l'altro, come detto nella discussione di prima con Phil, il concetto stesso di "finitezza" non è ricavabile dall'esperienza di oggetti finiti, in quanto la finitezza è una proprietà appartenente a oggetti fisici, come alberi o case, ma il suo significato è intelligibile, quindi l'esperienza esterna può tranquillamente offrirmi il contenuto di concetti sensibili come alberi e case, senza darmi il concetto di finitezza, che resterebbe una proprietà di questi enti senza che la mente se ne accorga e formi ad hoc il concetto di "finitezza", se non fosse che la finitezza essendo intelligibile di per sé rientra nel novero delle idee innate nella mente. Per rendermi conto che qualunque (chiedo scusa per l'orribile gioco di parole) conta di oggetti finiti può essere prolungata in linea teorica senza fine io devo già possedere l'idea di "infinito" apriori, per poi applicarla nella situazione empirica nel rilevare come "senza fine" (cioè infinito) può essere il conteggio. In assenza di tale idea di infinito già in partenza dentro di me, io continuerei a contare all'infinito continuando a pensare che prima o poi il conteggio finirà, perché non avrei concezione di qualcosa che possa essere "senza fine". Una cosa infinita è certamente quantitativamente più grande di una cosa finita, ma non si distingue solo quantitativamente, ma anche qualitativamente: l'infinito è il massimo grado dell'estensione di qualcosa, ciò che esclude altro da se stesso, mentre il finito è sempre limitato da altro da sé. Questo scarto qualitativo non può essere colmato da nessuna quantità, quindi nessuna serie, sempre limitata, di esperienza di cose finite può arrivare a modificare qualitativamente il concetto di finito, l'aumento quantitativo dell'esperienza dei finiti può condurre all'idea di estensioni numeriche sempre più ampie, ma sempre finite, mai al punto di raggiungere l'idea limite, quella che esclude un'ulteriorità sopra di sé, cioè l'infinito. Dunque l'apprensione dell'idea di infinito è primitiva e originaria, non ricavata da concetti qualitativamente distinti da esso. L'errore di vedere l'infinito come idea derivata a-posteriori consiste nella confusione tra "coscienza" e "attenzione". L'esperienza esterna può essere lo stimolo, l'occasione che porta la mente a rivolgere l'attenzione su dei contenuti mentali prima ignorati, ma questo non vuol dire che tali contenuti non fossero già in noi presenti prima senza che ne avessimo piena consapevolezza. Il complesso dei contenuti coscienziali non coincide con ciò su cui riflettiamo rivolgendo l'attenzione, perché la coscienza va vista come un insieme di livelli psichici più o meno profondi, più o meno trasparenti o opaci, solo parzialmente "illuminata" dalla riflessione attuale dell'Io che può decidere di prestare o meno attenzione ai vari livelli. Quindi il fatto che un certo concetto divenga oggetto di attenzione in un certo contesto empirico non vuol dire che la sua presenza alla mente inizi in quel momento e non fosse già latente in noi originariamente.
Con tutto ciò non voglio ovviamente sostenere che tutto ciò di cui abbiamo un'idea sia davvero reale, perché dall'esperienza di cose reali dovrebbero derivare i corrispettivi concetti,, il che sarebbe ridicolo. Occorre distinguere. "infinito", "eternità, "perfezione" non possono essere messi sullo stesso piano dell'ippogrifo. Io posso avere un'idea dell'ippogrifo anche se non ho fatto esperienza di ippogrifi reali tramite l'immaginazione, che agisce sinteticamente. La rappresentazione dell'ippogrifo si riferisce a un essere sensibile, fisico, un insieme di parti, che la fantasia assembla fra loro, mettendo insieme l'idea di un corpo di cavallo con l'idea di ali. Un altro esempio può essere l'idea di fantasma, io ho il concetto di "fantasma" anche non credendo alla loro esistenza, perché, suppongo, la mia fantasia associa sinteticamente l'idea di "persona morta" con delle manifestazioni che il senso comune associa a persone ancora in vita. Concetti come quelli di infinito e di perfezione, proprio perché il senso a cui si riferiscono è immateriale, sono nozioni "semplici", prive di parti, originarie, dunque per comprendere la ragione del loro essere presenti alla nostra mente non basta chiamare in causa l'immaginazione sintetica, che è invece sufficiente a giustificare la formazioni di idee di enti immaginari, ma comunque materiali come l'ippogrifo o l'unicorno
CitazioneConcordo perfettamente con l' empirismo per cui "il senso a cui il concetto che se ne ricava si riferisce non può contenere nulla che non sia nei dati fenomenici da cui l'astrazione ha preso le mosse".
Ma fra questi dati fenomenici da cui l'astrazione ha preso le mosse vi è anche la diversità, ovvero il rapporto di alterità o di negazione reciprocamente intercorrente fra determinati enti-eventi o aspetti di enti-eventi.
E questo basta e avanza per formulare il concetto astratto di "negazione" e per applicarlo a quelli di "finito" onde ottenere del tutto naturalisticamente e umanamente quello di "infinito", o a quello di "immanente" per ottenere parimenti del tutto naturalisticamente e umanamente quello di "trascendente" (d' altra parte se fosse vero il tuo ragionamento nemmeno nessuna quantità di oggetti realmente esistenti potrebbe produrre in noi l'idea del "nulla").
Il concetto di "finito" o "finitezza" è semplicemente il concetto di "commensurabile" o di "commensurabilità" per il quale esiste un rapporto espresso da un numero fra quantità fisiche omogenee (come lunghezza, peso, ecc.) di naturalissimi oggetti reali. Così del tutto naturalisticamente e umanamente la mente umana confeziona i concetti dei numeri (innanzitutto dei numeri naturali); poi si accorge che ad ogni numero naturale se ne può aggiungere sempre un ' altro, senza fine, e così del tutto naturalisticamente ed umanamente si ottiene il concetto di "infinito" per la quantità di tutti i numeri possibili teoricamente, potenzialmente considerabili, senza alcun bisogno di un' aprioristico possesso innato del concetto di "infinito".
D' altra parte, se invece avessimo un' aprioristico concetto innato di "infinito" non si capisce perché non tutti giungano a rendersene conto: bambini morti in troppo tenera età, fanciulli cresciuti, fino ad età avanzata, "nella foresta" con animali e senza imparare il linguaggio (da altri umani che lo conoscessero), ignoranti che vivendo, anche in società umane ma in condizioni di eccessiva miseria e degrado, di fatto non vengono mai a conoscere (pensare) il concetto di "infinito" e affini.
Mentre invece lo si conosce oggi di fatto solo perché qualche adulto ce lo insegna, e anticamente lo si è scoperto (o inventato) perché del tutto naturalisticamente ed umanamente qualcuno l' ha ricavato dalla propria esperienza.
Comprendo benissimo la distinzione dell' esperienza sensibile immediata e la attenzione, considerazione o pensiero dell' esperienza sensibile immediata (ho sempre fortemente criticato la teoria del preteso "mito del dato" di Quine, Sellars, Mc Dowell e altri).
Ma di congenito vi è solo al potenzialità o capacità di focalizzare l' attenzione e di pensare, mentre l' attenzione su sensazioni e concetti è acquisita con l' esperienza: la "tabula" è "rasa", anche se i tipi di scritti che vi si possono imprimere con l' esperienza non sono indiscriminati ma dipendono dal materiale di cui è fatta, dalla sua forma, ecc. (le potenzialità di scrittura di una lavagna, di un vetro liscio, di uno straccio morbido, di un muro ruvido, di una lastra di ghiaccio, ecc. sono diverse fra loro, ma ciò non significa che le cose scritte con gesso siano "congenite alla lavagna" o che quelle dipinte con pittura ad acqua su un muro siano innate nel muro).
"Il complesso dei contenuti coscienziali non coincide con ciò su cui riflettiamo rivolgendo l'attenzione, perché la coscienza va vista come un insieme di livelli psichici più o meno profondi, più o meno trasparenti o opaci, solo parzialmente "illuminata" dalla riflessione attuale dell'Io che può decidere di prestare o meno attenzione ai vari livelli" mi sembra solo un gioco di parole e una petizione di principio: presuppone quel che dovrebbe dimostrare (l' innatezza dei concetti).
Lo stesso dicasi per le considerazioni su concetti che si riferiscono a vagheggiati enti immateriali (del tutto naturalisticamente e umanamente ricavabili dall' applicazione del concetto di "negazione" a quello di "materiale").
"finitezza", "diversità" sono concetti intelligibili, anche se sono proprietà di enti fisici, che conosciamo tramite l'esperienza sensibile. Conoscere, e dunque concettualizzare un ente, non implica la conoscenza di tutte le sue proprietà, motivo per cui io posso conoscere un albero, formare per astrazione il concetto di albero, senza necessariamente conoscere e concettualizzare le sue proprietà, la sua finitezza. Cioè un conto è conoscere cose finite, un'altra l'idea di finitezza. Gli strumenti della percezione sensibile, i campi sensitivi del corpo entrano in funzione quando vengono in contatto con degli oggetti fisici, dei contenuti sensibili che poi ("poi" non da intendersi nel senso di un prima-dopo cronologico), l'intelletto pone come contenuto di un concetto generale, mentre le idee riferite a contenuti intelligibili non avendo un corrispettivo fisico non possono essere appresi dai sensi del corpo, ma sono da sempre presenti nella componente spirituale, o immateriale, dell'intelletto, la cui immaterialità è adeguata all'immaterialità del senso di tali concetti. La conoscenza implica sempre l'adeguatezza del soggetto alla natura dell'oggetto, un soggetto materiale non può adeguarsi a qualcosa di qualitativamente distinto come un'oggettualità immateriale. Per questi motivi trovo inappropriato mettere la formazione sintetica dei concetti riferibili a realtà fisiche (anche se non esistenti), come l'ippogrifo sullo stesso piano della formazione dei concetti intelligibili come l'infinito. L'ippogrifo, qualora esistesse, sarebbe una realtà materiale, cioè occupante uno spazio, divisibile in parti, quindi ha senso che la formazione di tale idea nella nostra mente sia il frutto della sintesi immaginativa, che unisce un corpo di cavallo con delle ali ( tutte immagini apprese nell'esperienza sensibile). Invece l'idea di infinito non può essere la somma di "finito" e "negazione" come se queste fossero delle ripartizioni spaziali, come nel caso delle parti che uniscono l'ippogrifo. L'infinito ha un senso immateriale, non ha spazialità, e quindi non ha parti che possano formarlo e delimitarlo, e la sua immaterialità lo rende una nozione semplice, primitiva, originaria, un'unità qualitativa sempre presente alla nostra mente. In breve, considero innati i concetti aventi un significato intelligibile come "infinito", "libertà", "giustizia", e come derivati dall'esperienza sensibile quei concetti riferibili a realtà materiali, che in quanto tali entrano in contatto con i sensi corporei, "albero", "tavolo" ecc. E il fatto che non tutti arrivino a rendersene conto della presenza in noi di concetti a-priori è un'obiezione che avrebbe una logica proprio non tenendo conto della distinzione tra "coscienza" e "rendersi conto", cioè tra coscienza e attenzione che ho provato a spiegare prima. La psiche è una realtà complessa e stratificata, di cui non possiamo in ogni momento avere una coscienza piena, la nostra attenzione si dirige un momento su un contenuto psichico, ora su un altro, lasciando sempre dei contenuti in ombra provvisoria, ma non per questo interiormente assenti. Quante volte ci capita, anche attraverso un richiamo sensibile esterno, di sentire riemergere alla nostra attenzione un problema, un'idea che avevamo dimenticato, o creduto di aver rimosso completamente? Eppure non ha senso pensare che tale contenuto mentale sia creato ex novo dallo stimolo esterno. Quest'ultimo è solo l'occasione in cui l'Io è stato stimolato a rivolgere l'attenzione su idee che però riconosciamo come già presenti nella nostra coscienza. Questo mostra la non coincidenza fra coscienza e "rendersi conto", in quanto come potrei riconoscere le idee come riemergenti dal nostro interno se queste non fossero già da prima trattenuti dalla coscienza anche se non oggetto di attenzione riflessa? Mostra cioè come il fatto che il "rendersi conto" di qualcosa accada in un certo momento della nostra esperienza non vuol dire che la sua presenza nella nostra mente si realizza in quel momento, ma che è già in atto in noi stessi precedentemente. Questa non è una petizione di principio che presuppone quel che dovrebbe spiegare, ma un dato fenomenologico che può normalmente manifestarsi nel corso dell'esperienza ordinaria, riconoscibile al di là delle varie opinioni che si possono avere sull'origine dei concetti, nelle varie rievocazioni di qualcosa che non ci appare provenire dall'esterno, anche quando si verifica un concomitante stimolo sensibile, ma da una profondità dei livelli psichici
Citazione di: Sariputra il 06 Agosto 2017, 21:45:23 PM
Per dare un contributo al tuo interessante spunto mi verrebbe da aggiungere un'altra possibilità che può aver dato la stura all'idea nell'uomo di una realtà trascendente il dato sensibile. Questa può aver origine da quel tipo di esperienze mistiche che definiamo come trascendentali in quanto si presentano alle persone che ne fanno esperienza come qualcosa di "totalmente altro" al pensiero, all'emozione e al sentimento quotidiano. E' possibile ipotizzare che questa sia stata una possibilità ampiamente alla portata di molti uomini e donne dei tempi antichi. Nella tradizione buddhista si parla dell'incapacità , per la maggior parte degli uomini moderni, di raggiungere persino il primo jhana di assorbimento, mentre era comune ai tempi del Buddha arrivare tranquillamente al quinto. Da questo tipo d'esperienze può esser sorta o intuita la possibilità di una realtà trascendente il dato empirico e, la differenza esperienziale così profonda con la normale percezione, può aver creato i presupposti per le categorie di assoluti che si sono attribuiti a questa realtà "trascendentale". Per es. , tentando di non banalizzare, la gioia profonda e di natura totalmente diversa dalla normale gioia esperibile nel quotidiano, può esser intesa anche come gioia dell'Unione con qualcosa di indescrivible, di totalmente altro per l'appunto. Da qui l'idea , sviluppata dal pensiero, della Somma Gioia che è Dio. L'idea di divinità non è a priori e poi , le varie esperienze, ne sono state ricondotte per darne una spiegazione, ma è a posteriori, cioè nata sulla base di queste esperienze trascendentali . In Genesi abbiamo proprio la visione simbolica di questa realtà., a mio parere:"Dio camminava nel giardino dell'uomo". Questa amicizia era la visione quotidiana del trascendente che poi , via via, l'uomo ha allontanato per volontà di dominio sul reale e sul bisogno della sfera fisica e sensitiva. Si è preferito abbandonare il paradiso e la visione per conoscere e assoggettare, cioè per sete di dominio del "giardino" che però, a quel punto, essendo troppo "fragile" per esser visto in maniera così "grossolana"...è sparito dall'orizzonte della visione umana!
Ritengo, questa tua ragionata idea, una ottima base di partenza per una serie di riflessioni sulla sempre stimolante posizione della coscienza umana nei confronti del fenomeno "FEDE" . Ciò almeno per me.
Grazie
Citazione di: davintro il 25 Settembre 2017, 20:52:22 PM
"finitezza", "diversità" sono concetti intelligibili, anche se sono proprietà di enti fisici, che conosciamo tramite l'esperienza sensibile. Conoscere, e dunque concettualizzare un ente, non implica la conoscenza di tutte le sue proprietà, motivo per cui io posso conoscere un albero, formare per astrazione il concetto di albero, senza necessariamente conoscere e concettualizzare le sue proprietà, la sua finitezza.
CitazionePer conoscere (limitatamente, parzialmente) un ente o un evento non è necessario disporre delle nozioni della totalità delle sue possibili determinazioni, ma di almeno qualcuna sì, altrimenti non se ne sa alcunché, non lo si conosce per nulla (per definizione).
Cioè un conto è conoscere cose finite, un'altra l'idea di finitezza.
CitazioneL' idea di finitezza è semplicemente un' astrazione: di ciò che accomuna enti ed eventi finiti (da ciò che reciprocamente li diversifica).
Gli strumenti della percezione sensibile, i campi sensitivi del corpo entrano in funzione quando vengono in contatto con degli oggetti fisici, dei contenuti sensibili che poi ("poi" non da intendersi nel senso di un prima-dopo cronologico), l'intelletto pone come contenuto di un concetto generale, mentre le idee riferite a contenuti intelligibili non avendo un corrispettivo fisico non possono essere appresi dai sensi del corpo, ma sono da sempre presenti nella componente spirituale, o immateriale, dell'intelletto, la cui immaterialità è adeguata all'immaterialità del senso di tali concetti.
CitazioneInnanzitutto anche le idee (i concetti) derivate da sensazioni (dagli "oggetti fisici"; ed anche da quelli mentali, di pensiero) sono intelligibili (non sono qualcosa di incomprensibile, bensì qualcosa di cui si parla "con cognizione di causa").
Inoltre quelle di esse che non si riferiscono a un corrispettivo fenomenico (fisico-materiale, o anche mentale-di pensiero) non sono affatto "da sempre presenti nella componente spirituale, o immateriale, dell'intelletto, la cui immaterialità è adeguata all'immaterialità del senso di tali concetti": fino a prova contraria è del tutto evidente che nessun neonato o bambino di tre anni (che sa parlare) possiede la nozione di "nulla assoluto" o di "noumeno" (e nemmeno alcun bambino delle scuole elementari, per lo meno per quanto riguarda la seconda"); che invece si acquisiscono (alla "debita" età) del tutto "adeguatamente" per ragionamento, applicando concetti astratti come "diverso" o "contrario" ad altri concetti astratti come "qualcosa (di realmente esistente)" o rispettivamente "apparente", fenomenico", "cosciente", ecc.. Dunque a posteriori, dopo avere esperito in generale non pochi oggetti (enti o eventi; materiali o anche mentali) particolari-concreti fenomenici, ovvero apparenti, ovvero coscienti, e in particolare non pochi oggetti (enti o eventi; materiali o mentali) particolari-concreti reciprocamente diversi o contrari.
La conoscenza implica sempre l'adeguatezza del soggetto alla natura dell'oggetto, un soggetto materiale non può adeguarsi a qualcosa di qualitativamente distinto come un'oggettualità immateriale. Per questi motivi trovo inappropriato mettere la formazione sintetica dei concetti riferibili a realtà fisiche (anche se non esistenti), come l'ippogrifo sullo stesso piano della formazione dei concetti intelligibili come l'infinito. L'ippogrifo, qualora esistesse, sarebbe una realtà materiale, cioè occupante uno spazio, divisibile in parti, quindi ha senso che la formazione di tale idea nella nostra mente sia il frutto della sintesi immaginativa, che unisce un corpo di cavallo con delle ali ( tutte immagini apprese nell'esperienza sensibile). Invece l'idea di infinito non può essere la somma di "finito" e "negazione" come se queste fossero delle ripartizioni spaziali, come nel caso delle parti che uniscono l'ippogrifo. L'infinito ha un senso immateriale, non ha spazialità, e quindi non ha parti che possano formarlo e delimitarlo, e la sua immaterialità lo rende una nozione semplice, primitiva, originaria, un'unità qualitativa sempre presente alla nostra mente. In breve, considero innati i concetti aventi un significato intelligibile come "infinito", "libertà", "giustizia", e come derivati dall'esperienza sensibile quei concetti riferibili a realtà materiali, che in quanto tali entrano in contatto con i sensi corporei, "albero", "tavolo" ecc.
CitazioneNon è vero che "La conoscenza implica sempre l'adeguatezza del soggetto alla natura dell'oggetto";per esempio un soggetto del tutto incapace di nuotare può benissimo avere una più che adeguata comprensione del concetto di "nuoto" o uno che non abbia mai ballato può benissimo avere una più che adeguata comprensione del concetto di "walzer" o di "tango"; nessun critico d' arte che io sappia sa scolpire, ovvero è minimamente "adeguato alla natura delle sculture", ma ciò non impedisce loro di parlare a ragion veduta dei bronzi di Riace o del Mosè di Michelangelo. La conoscenza (teorica), ben diversa dall' operare pratico, non implica necessariamente la capacità pratica di realizzare ciò che si conosce (teoricamente; avverbio pleonastico).
Come ho mostrato nell' obiezione appena più sopra, semplicissime operazioni mentali di astrazione e di "messa in relazione" o "applicazione", "riferimento" reciproco (non di banale "somma" quantitativa -che sarebbe effettivamente senza senso- ma invece di stabilimento di rapporti per così dire "qualitativi") fra concetti consentono benissimo l' acquisizione a posteriori di qualsiasi nuovo concetto, compresi quelli di "nulla", di "infinito", di "Dio", "soprannaturale", "noumeno" e chi più ne ha più ne metta.
Per i concetti di "immateriale" o "mentale" o "pensato", invece, basta semplicemente l' astrazione dalle particolari-concrete sensazioni interiori comunemente esperite. E così pure per i concetti di "libertà" e di "giustizia".
E il fatto che non tutti arrivino a rendersene conto della presenza in noi di concetti a-priori è un'obiezione che avrebbe una logica proprio non tenendo conto della distinzione tra "coscienza" e "rendersi conto", cioè tra coscienza e attenzione che ho provato a spiegare prima. La psiche è una realtà complessa e stratificata, di cui non possiamo in ogni momento avere una coscienza piena, la nostra attenzione si dirige un momento su un contenuto psichico, ora su un altro, lasciando sempre dei contenuti in ombra provvisoria, ma non per questo interiormente assenti. Quante volte ci capita, anche attraverso un richiamo sensibile esterno, di sentire riemergere alla nostra attenzione un problema, un'idea che avevamo dimenticato, o creduto di aver rimosso completamente? Eppure non ha senso pensare che tale contenuto mentale sia creato ex novo dallo stimolo esterno. Quest'ultimo è solo l'occasione in cui l'Io è stato stimolato a rivolgere l'attenzione su idee che però riconosciamo come già presenti nella nostra coscienza. Questo mostra la non coincidenza fra coscienza e "rendersi conto",
CitazioneProva a convincere un neonato o anche solo un bambino di tre anni che sa parlare di rendersi conto che conosce i concetti di cui sopra ma semplicemente non ci sta facendo caso; ovviamente non: insegnandogli a posteriori quale ne sia il significato, ma solo dicendogli di fare bere attenzione a ciò che, sia pure un po' distrattamente, di già conosce, ha già in mente (sia pure in uno stato di "ombra provvisoria", ma non per questo interiormente assenti); dicendogli. "pensaci bene!", come quando si cerca di fargli ricordare qualcosa che conosce ma al momento non riesce a rammentare, per esempio dove ha appoggiato il cappello che attualmente non si trova.
Al concetto di "infinito" (e a tutti gli altri), dopo che lo si è acquisito a posteriori, non si fa caso se, per esempio, si sta guidando in un traffico intenso e convulso che richiede grande attenzione e concentrazione nella conduzione del proprio veicolo; ma basta fermarsi e fare attenzione a ciò che si sa (avendolo imparato a posteriori), ai propri ricordi in proposito, per richiamarlo prontamente alla mente cosciente; se invece non lo si è previamente imparato a posteriori, allora non c' è attenzionamento, "spremitura delle meningi", per quanto poderosa, che tenga: non lo si ricorda. Se prima qualcuno non ce lo ha insegnato o non vi siamo arrivati autonomamente per astrazioni dalla e ragionamenti sulla nostra precedente esperienza (a posteriori!) non c' è alcun modo di rendersi conto di conoscerlo.
La cosiddetta "maieutica socratica" che sarebbe in azione nei dialoghi di Platone in realtà non consiste affatto nel prestare attenzione a cose di già conosciute ma momentaneamente trascurate perché "non ci si fa caso", magari in quanto si sta pensando ad altro; è invece una forma di "insegnamento didatticamente non passivo" (cioè non di nozioni trasmesse verbalmente in quanto "già confezionate"), di "guida didatticamente attiva" all' elaborazione "in prima persona" a posteriori di nozioni e concetti attraverso il ragionamento su concetti astratti a partire da sensazioni particolari concrete (un far "ripercorrere" al discente il "cammino" dell' elaborazione dei concetti più astratti e "lontani" dall' esperienza quotidiana, anziché presentarglieli così come sono stati già in precedenza elaborati -sempre a posteriori- da altri prima di lui).
Ogni volta che "ci capita, anche attraverso un richiamo sensibile esterno, di sentire riemergere alla nostra attenzione un problema, un'idea che avevamo dimenticato, o creduto di aver rimosso completamente", allora contemporaneamente al "sovvenire" di tale idea, al rammentarla, all' esserne attualmente coscienti, inevitabilmente siamo coscienti anche del fatto che già la sapevamo, che già altre volte l' avevamo pensata: la "riconosciamo", non la "conosciamo"!
Non così quando leggendo un libro di filosofia o banalmente un vocabolario veniamo a conoscenza (per la prima volta: la conosciamo; e non: la riconosciamo) di un' idea (fosse pure quella di "infinito", di "Dio", di "nulla", ecc.); oppure quando qualcuno "con (pretesa) socratica maieutica" ci fa ripercorre il "cammino mentale", che a partire dai dati particolari concreti della nostra esperienza conduce all' elaborazione (a posteriori!) di essa: in questi casi ci rendiamo ben conto della novità di tale conoscenza, del fatto che essa è stata acquisita "ex novo" e (direttamente in prima persona o indirettamente per trasmissione linguistica da parte di altri) a partire da "stimoli esterni" (e da astrazioni, ragionamenti) a posteriori.
in quanto come potrei riconoscere le idee come riemergenti dal nostro interno se queste non fossero già da prima trattenuti dalla coscienza anche se non oggetto di attenzione riflessa?
CitazioneMa, come illustrato nelle precedenti obiezioni, esse non "riemergono affatto dal nostro interno" (nel quale non sono mai state), ma invece "vi si introducono" a posteriori.
Mostra cioè come il fatto che il "rendersi conto" di qualcosa accada in un certo momento della nostra esperienza non vuol dire che la sua presenza nella nostra mente si realizza in quel momento, ma che è già in atto in noi stessi precedentemente. Questa non è una petizione di principio che presuppone quel che dovrebbe spiegare, ma un dato fenomenologico che può normalmente manifestarsi nel corso dell'esperienza ordinaria, riconoscibile al di là delle varie opinioni che si possono avere sull'origine dei concetti, nelle varie rievocazioni di qualcosa che non ci appare provenire dall'esterno, anche quando si verifica un concomitante stimolo sensibile, ma da una profondità dei livelli psichici
CitazioneInvece ritengo che si tratti proprio di una petizione di principio, come argomentato nelle precedenti obiezioni.
Citazione di: sgiombo il 26 Settembre 2017, 17:13:30 PM
Citazione di: davintro il 25 Settembre 2017, 20:52:22 PM
in quanto come potrei riconoscere le idee come riemergenti dal nostro interno se queste non fossero già da prima trattenuti dalla coscienza anche se non oggetto di attenzione riflessa?
Ma, come illustrato nelle precedenti obiezioni, esse non "riemergono affatto dal nostro interno" (nel quale non sono mai state), ma invece "vi si introducono" a posteriori.
Secondo me queste due osservazioni ben riassumono l'aporia di fondo, l'indimostrabile divergenza interpretativa: quando ho un'idea, la
genero o la
ricordo? Si tratta di metabolizzare il nuovo input in strutture cognitive già abbozzate (contenenti input simili), di astrarre proprietà e inserirle in processi logico-formali, semplicemente di apprendere dal contesto circostante secondo i processi mentali propri dell'uomo (o anche tutte e tre le attività assieme); oppure è invece l'idea a essere scoperta (non inventata), risvegliata dal sonno dell'inconsapevolezza, finalmente chiamata a manifestarsi alla coscienza dopo essere stata nella "sala d'attesa" dell'inconscio (letteralmente, non necessariamente freudiano) fin dalla nascita?
La consapevolezza di un'idea inizia con l'accadere della sua presenza, e le ipotesi su ciò che è un passo indietro a tale presenza d'esordio (ovvero l'ultimo passo della sua assenza precedente) credo siano di difficile indagine, specialmente se si coinvolge l'imperscrutabile, il non studiabile. Come dimostrare che tali idee non giacciano da sempre sopite nella mia anima, come "dotazione standard" di tutte le anime (per chi crede nell'anima)? Come dimostrare che tali idee non siano "
file nascosti" in una cartella protetta del mio sistema operativo mentale (per gli amanti del cognitivismo "computazionale")? Come dimostrare che tali idee non siano generate per ricombinazione di elementi e processi già improntati in precedenza (per i comportamentisti e i funzionalisti, se non erro), che non accadano per "predisposizione" mentale (per i sostenitori della
gestalt), per pura appercezione logico-astrattiva e trascendente (per gli intuizionisti), o per causazione di un effetto sostanziale eccedente ma non avulso dalla suo substrato causale (per gli emergentisti e i buddisti; e la lista potrebbe continuare...)?
Di sicuro c'è la presenza, la disponibilità, la fruibilità dell'idea (in tutti i suoi limiti), sebbene le sue origini paiono avere molteplici indizi, a seconda dello sguardo che le cerca ;)
Citazione di: Phil il 06 Agosto 2017, 22:29:18 PM
Citazione di: davintro il 06 Agosto 2017, 19:35:08 PM
proprio il senso delle categorie con cui il teismo descrive Dio sono il miglior argomento per risalire razionalmente alla sua esistenza. O quantomeno la presenza alla mente umana di tali categorie resta irrisolta fintanto che le ragioni le ci ricercano nell'ambito della dimensione mondana e immanente, perché concetti come "eternità", "totalità", "perfezione" hanno un senso che non si identifica con nessuno degli oggetti della nostra esperienza mondana ordinaria.
Forse più che di "proiezione", in quei casi, è opportuno parlare di "sublimazione", "gradazione ontologica" (come facevano i medievali, se non erro) o semplicemente "astrazione", secondo differenti modalità: se sperimento la caducità, mi basta pensarne la negazione (non-caducità) per ottenere il concetto d'eternità; se osservo la parzialità posso astrarne il concetto di totalità come suo contrario; se individuo graduali imperfezioni (più o meno rilevanti), posso arrivare a supporre un'ideale assenza di imperfezioni...
A farla breve, se penso a tutto ciò che è passeggero, parziale, imperfetto, materiale, in una parola sola "immanente", posso poi sublimarlo, anche via negationis, in qualcosa di grado sommamente superiore... ed ecco il concetto di trascendente partendo dall'esperienza dell'immanente.
Citazione di: Sariputra il 06 Agosto 2017, 21:45:23 PM
L'idea di divinità non è a priori e poi , le varie esperienze, ne sono state ricondotte per darne una spiegazione, ma è a posteriori, cioè nata sulla base di queste esperienze trascendentali
Concordo, anche se "esperienze trascendentali" è un po' un ossimoro (esperisco l'immanente, se esperissi il trascendente diverrebbe subito immanente al mio percepirlo/esperirlo ;) ), tuttavia dipende se parliamo di "trascendere" in senso (neuro)cognitivo o in senso mistico (oppure facciamo magari coincidere le due istanze).
.
O.K.
Citazione di: Phil il 26 Settembre 2017, 18:44:14 PM
Citazione di: sgiombo il 26 Settembre 2017, 17:13:30 PM
Citazione di: davintro il 25 Settembre 2017, 20:52:22 PM
in quanto come potrei riconoscere le idee come riemergenti dal nostro interno se queste non fossero già da prima trattenuti dalla coscienza anche se non oggetto di attenzione riflessa?
Ma, come illustrato nelle precedenti obiezioni, esse non "riemergono affatto dal nostro interno" (nel quale non sono mai state), ma invece "vi si introducono" a posteriori.
Secondo me queste due osservazioni ben riassumono l'aporia di fondo, l'indimostrabile divergenza interpretativa: quando ho un'idea, la genero o la ricordo? Si tratta di metabolizzare il nuovo input in strutture cognitive già abbozzate (contenenti input simili), di astrarre proprietà e inserirle in processi logico-formali, semplicemente di apprendere dal contesto circostante secondo i processi mentali propri dell'uomo (o anche tutte e tre le attività assieme); oppure è invece l'idea a essere scoperta (non inventata), risvegliata dal sonno dell'inconsapevolezza, finalmente chiamata a manifestarsi alla coscienza dopo essere stata nella "sala d'attesa" dell'inconscio (letteralmente, non necessariamente freudiano) fin dalla nascita?
La consapevolezza di un'idea inizia con l'accadere della sua presenza, e le ipotesi su ciò che è un passo indietro a tale presenza d'esordio (ovvero l'ultimo passo della sua assenza precedente) credo siano di difficile indagine, specialmente se si coinvolge l'imperscrutabile, il non studiabile. Come dimostrare che tali idee non giacciano da sempre sopite nella mia anima, come "dotazione standard" di tutte le anime (per chi crede nell'anima)? Come dimostrare che tali idee non siano "file nascosti" in una cartella protetta del mio sistema operativo mentale (per gli amanti del cognitivismo "computazionale")? Come dimostrare che tali idee non siano generate per ricombinazione di elementi e processi già improntati in precedenza (per i comportamentisti e i funzionalisti, se non erro), che non accadano per "predisposizione" mentale (per i sostenitori della gestalt), per pura appercezione logico-astrattiva e trascendente (per gli intuizionisti), o per causazione di un effetto sostanziale eccedente ma non avulso dalla suo substrato causale (per gli emergentisti e i buddisti; e la lista potrebbe continuare...)?
Di sicuro c'è la presenza, la disponibilità, la fruibilità dell'idea (in tutti i suoi limiti), sebbene le sue origini paiono avere molteplici indizi, a seconda dello sguardo che le cerca ;)
CitazioneIl concetto di "idea o nozione inconscia" può essere inteso come
a) ricordo non in atto ed evocabile con sforzi ("spremiture di meningi") più o meno intensi (o magari grazie all' impiego di strumenti esterni alla coscienza: letture di testi);
oppure:
b) mera potenzialità, nulla di (attualmente, effettivamente) reale, ma il mero fatto ipotetico che se si danno determinate condizioni, allora "appare alla coscienza (id est: comincia ad esistere in quanto tale: idea o nozione).
Nel primo caso si tratta sempre di conoscenze apprese in passato a posteriori, nel secondo di conoscenze eventualmente apprendibili in futuro parimenti a posteriori.
Sostenere l' innatismo (o anche sospendere il giudizio in proposito) in quanto (del tutto ovvia!) potenzialità, capacità, attitudine di acquisire (sic!) dee o nozioni a determinate condizioni, mi sembra un mero gioco di parole retorico, un sofisma: é del tutto ovvio che perché su una "tabula rasa" si possa scrivere qualcosa, innanzitutto tale tabula rasa deve esistere ed essere potenzialmente passibile (a certe condizioni) di essere fatta oggetto di scrittura!
Citazione di: sgiombo il 26 Settembre 2017, 21:03:24 PM
Sostenere l' innatismo (o anche sospendere il giudizio in proposito) in quanto (del tutto ovvia!) potenzialità, capacità, attitudine di acquisire (sic!) dee o nozioni a determinate condizioni, mi sembra un mero gioco di parole retorico, un sofisma: é del tutto ovvio che perché su una "tabula rasa" si possa scrivere qualcosa, innanzitutto tale tabula rasa deve esistere ed essere potenzialmente passibile (a certe condizioni) di essere fatta oggetto di scrittura!
Suppongo che chi sostenga l'innatismo come tratteggiato da
davintro (se non l'ho frainteso :) ), non parli esattamente di "acquisizione" o di scrittura sulla "
tabula rasa", ma piuttosto di far riaffiorare alla consapevolezza/coscienza idee già presenti... personalmente, non sono propenso a questo tipo di spiegazione, tuttavia immagino che in una prospettiva in cui la trascendenza gioca un ruolo fondamentale, in cui il divino è la pietra angolare dell'impalcatura teoretica, in cui forse l'anima è un elemento costituente dell'uomo, in una cornice così metafisica (e non lo dico in modo offensivo) la possibilità di idee innate trascendenti che attendono solo di essere "attivate", non mi pare affatto illegittima ;)
Il fatto che Platone indicasse che vi fosse un sapere "innato" che indicava nella memoria e spiegabile con la reincarnazione, il fatto che kant. da tutt'altra sponda filosofica lo indichi come apriori, il fatto che da tutt'altra scienza che è clinica medica jung si accorge che i pazienti hanno sogni i cui simboli non hanno nulla di attinente cone l'esperienza avuta dal paziente stesso e li trova in molti pazienti, tanto da chiamarlo archetipo e da costruirne una vasta letteratura, significa che qualcosa (sarà l'anima, sarà la trasmigrazione o reincarnazione, sarà nel DNA....?), ma qualcosa c'è di sicuro.
Non può essere la sola esperienza nel sensibile, vale a dire sensoriale percettiva a costruire l'astrazione, il trascendente. Se così fosse tutti gli animali trascenderebbero linguisticamente.
Ritengo che vi sia una preessitente conoscenza o sapere che si confronta esistenzialmente con il mondo naturale e che dal confronto nascano i concetti. Non può esserci una sola astrazione in sé e per sé, e un albero in sé e per sé, se non che entrambi vengono confrontati (c è chi la chiama dialettica, chi dualità, chi complementarietà,ecc).
Il confronto trascende il mondo naturale perché lo porta linguisticamente nel concetto che è una sintesi fra l'astrazione e il fisico naturale,
E' altrettanto razionale chiedersi da dove provenga quella, preesitente alla nascita , capacità di confrontare l'astratto e il concreto;da questo nasce la problematica fra Essere ed Esistenza.
Se si decide che l'essere è prioritiario sull'esistenza, quest'ultima è riconducibile all'essere e necessariamente si astrae concettualmente e razionalmente nella metafisica, fino alla spirtualità e alla sintesi dell'Uno, di Dio, che spiega quindi il rapporto fra essere ed esistenza: perché dà i significati e il senso all'esistenza
Se la priorità è sull'esistenza, l'essere diventa duale,direi antitetico, contraddittorio, perché da sola l'esistenza non spiega se stessa senza richiamare l'essere. Quindi, come certa cultura vuole, l'uomo sarebbe ridotto ad un animale un poco razionale, che viene dal nulla e sparisce nel nulla.
Citazione di: Phil il 26 Settembre 2017, 23:33:36 PM
Citazione di: sgiombo il 26 Settembre 2017, 21:03:24 PM
Sostenere l' innatismo (o anche sospendere il giudizio in proposito) in quanto (del tutto ovvia!) potenzialità, capacità, attitudine di acquisire (sic!) dee o nozioni a determinate condizioni, mi sembra un mero gioco di parole retorico, un sofisma: é del tutto ovvio che perché su una "tabula rasa" si possa scrivere qualcosa, innanzitutto tale tabula rasa deve esistere ed essere potenzialmente passibile (a certe condizioni) di essere fatta oggetto di scrittura!
Suppongo che chi sostenga l'innatismo come tratteggiato da davintro (se non l'ho frainteso :) ), non parli esattamente di "acquisizione" o di scrittura sulla "tabula rasa", ma piuttosto di far riaffiorare alla consapevolezza/coscienza idee già presenti... personalmente, non sono propenso a questo tipo di spiegazione, tuttavia immagino che in una prospettiva in cui la trascendenza gioca un ruolo fondamentale, in cui il divino è la pietra angolare dell'impalcatura teoretica, in cui forse l'anima è un elemento costituente dell'uomo, in una cornice così metafisica (e non lo dico in modo offensivo) la possibilità di idee innate trascendenti che attendono solo di essere "attivate", non mi pare affatto illegittima ;)
CitazioneNemmeno io considero offensivo il concetto di "metafisica".
Anzi, personalmente ho credenze ontologiche (anche) decisamente metafisiche (che ritengo conseguentemente razionalistiche e che includono la trascendenza, ma non la divinità).
Ma credo che ci sia metafisica e metafisica.
Una metafisica nella quale "il divino è la pietra angolare dell'impalcatura teoretica" (ma non so se sia il caso di quella di Davintro; anzi, da che ci sono gli chiedo espressamente se lo sia o meno) si può ben comprendere che possa integrarsi con una gnoseologia innatistica (comunque tutta da provare).
E tuttavia, innanzitutto credo di avere argomentato contro la possibilità che "così stiano le cose".
E inoltre non si può sostenere una gnoseologia innatistica facendo leva sul concetto di "inconsapevolezza" delle dee innate e non ancora presenti alla mente cosciente (bensì eventualmente solo a posteriori, in seguito ad esperienze e astrazioni e ragionamenti sulle esperienze empiriche), che può solo significare: o la momentanea "inattenzione cosciente" circa ricordi (= nozioni in passato acquisite a posteriori, di cui si ha memoria momentaneamente implicita, potendola generalmente esplicitare consapevolmente a piacimento per lo meno con l' ausilio di mezzi artificiali exracoscienti, come vari tipi di "promemoria", soprattutto linguistici); oppure la mera potenzialità di future acquisizioni di idee e conoscenze, comunque a posteriori.
Citazione di: paul11 il 27 Settembre 2017, 00:41:53 AM
Il fatto che Platone indicasse che vi fosse un sapere "innato" che indicava nella memoria e spiegabile con la reincarnazione, il fatto che kant. da tutt'altra sponda filosofica lo indichi come apriori, il fatto che da tutt'altra scienza che è clinica medica jung si accorge che i pazienti hanno sogni i cui simboli non hanno nulla di attinente cone l'esperienza avuta dal paziente stesso e li trova in molti pazienti, tanto da chiamarlo archetipo e da costruirne una vasta letteratura, significa che qualcosa (sarà l'anima, sarà la trasmigrazione o reincarnazione, sarà nel DNA....?), ma qualcosa c'è di sicuro.
Non può essere la sola esperienza nel sensibile, vale a dire sensoriale percettiva a costruire l'astrazione, il trascendente. Se così fosse tutti gli animali trascenderebbero linguisticamente.
Ritengo che vi sia una preessitente conoscenza o sapere che si confronta esistenzialmente con il mondo naturale e che dal confronto nascano i concetti. Non può esserci una sola astrazione in sé e per sé, e un albero in sé e per sé, se non che entrambi vengono confrontati (c è chi la chiama dialettica, chi dualità, chi complementarietà,ecc).
Il confronto trascende il mondo naturale perché lo porta linguisticamente nel concetto che è una sintesi fra l'astrazione e il fisico naturale,
E' altrettanto razionale chiedersi da dove provenga quella, preesitente alla nascita , capacità di confrontare l'astratto e il concreto;da questo nasce la problematica fra Essere ed Esistenza.
Se si decide che l'essere è prioritiario sull'esistenza, quest'ultima è riconducibile all'essere e necessariamente si astrae concettualmente e razionalmente nella metafisica, fino alla spirtualità e alla sintesi dell'Uno, di Dio, che spiega quindi il rapporto fra essere ed esistenza: perché dà i significati e il senso all'esistenza
Se la priorità è sull'esistenza, l'essere diventa duale,direi antitetico, contraddittorio, perché da sola l'esistenza non spiega se stessa senza richiamare l'essere. Quindi, come certa cultura vuole, l'uomo sarebbe ridotto ad un animale un poco razionale, che viene dal nulla e sparisce nel nulla.
CitazioneBeh, definire quella di Jung "scienza" e "clinica moderna" mi sembra quanto meno decisamente forzato...
E infatti sostenere "che i pazienti hanno sogni i cui simboli non hanno nulla di attinente con l'esperienza avuta dal paziente stesso" (sottolineatura in neretto mia) mi sembra una mera fantasticheria antiscientifica.
Per me il "qualcosa che c' è di sicuro" è semplicemente la naturalissima rielaborazione onirica gratuita (cioè non legata a e condizionata, non limitata da) esigenze pratiche immediate ma pe così dire "a ruota libera" delle pregresse esperienze da svegli (tutto il resto crede di vedercelo la fervida fantasia non sottoposta al vaglio della ragione e della scienza di Jung e degli altri psicoanalisti).
Gli animali diversi dall' uomo non possono astrarre linguisticamente semplicemente perché non dispongono del linguaggio; se l' avessero potrebbero benissimo dalla "sola esperienza nel sensibile, vale a dire sensoriale percettiva (ragionandoci su) costruire l'astrazione, il trascendente".
Di preesistente c' è solo la capacità di fare confronti fra i dati dell' esperienza, astrazioni, ragionamenti (cioè quella che comunemente si denomina l' "intelligenza umana"): nessuna conoscenza, ma solo la capacità di conoscere (se e quando attuata applicandola empiricamente a posteriori).
E infatti tu stesso scrivi, giustamente, che esiste una "preesistente alla nascita, capacità di confrontare l'astratto e il concreto" (sottolineatura in grassetto mia); nessuna conoscenza, ma solo la possibilità di acquisire a posteriori conoscenza, dell' astratto e del concreto e di confrontarli.
Ma che significa "decidere che l' essere sia prioritario sull' esistenza"?
Che le dee sono eternamente state ed eternamente staranno nel cielo iperuranio?
Oggi mi sembra insostenibile razionalmente, fondatamente (anche se naturalmente si può sempre decidere di credere fantasticamente quel che si vuole).
Ovviamente se si crede in Dio, data la Sua onnipotenza, se ne può dedurre "di tutto e di più"; ma la verità di ciò che se ne deduce è condizionata dalla verità della premessa; e questa non credo proprio sia dimostrabile.
Nella credenza (che ritengo anzi vera) che "l'uomo sarebbe ridotto ad un animale un poco razionale, che viene dal nulla e sparisce nel nulla. " non vedo proprio alcuna contraddizione.
(Oh, finalmente mi ritrovo nuovamente "solo contro tutti".
Cosa che mi impegnerà e mi "costerà del tempo", che peraltro ritengo sarà "bene speso" da parte mia, con soddisfazione intrinseca e soprattutto perché utile a chiarirmi, affinare, correggere ed eventualmente cambiare "in maniera rivoluzionaria", se necessario, le mie convinzioni).
Ma non vedo proprio cosa c'entri l'ontologizzazione (entificazione) con Dio.
La filosofia (quella Grande, non il surrogato con cui mi tocca fare i conti giornalieri, più per sfizio che per altro) il problema della Divinità l'ha risolto già al tempo dei presocratici.
E' bizzarro che Dio abbia le fattezze umane, si dicevano fra loro....
Quindi è ovvio che Dio sia una proiezione umana. Ma veramente dobbiamo rifletterci su?
Ma torniamo al punto di partenza, che tutti ovviamente, hanno dimenticato:
Nella gestalt per prima, ma ormai oggi quasi tutte le filosofie della percezione, si riconosce la distinzione fatta da Locke-Berkley tra Oggetto e Sfondo.
Ovvero l'oggetto che noi percepiamo si percepisce solo tramite uno sfondo da cui emerge.
Innumerevoli a sentire il prof. Spinicci, e in parte li abbiamo studiati, gli esperimenti che lo testimoniano.
E sia pure. Ma il fatto che qualcosa emerga da uno sfondo, ossia da uno spazio aperto a forma di quadrato, non giustifica affatto quando vai cianciando Davintro.
La forma del quadrato è Dio????? (perchè è quello che hai scritto nella tua lunga e pesante introduzione)
Mi pare alquanto bizzarro e senza senso alcuno. (Nè più nè meno che come l'idea folle di Jung che Dio sia il soffio di vento del Sole......)
Sinceramente siamo messi male, e credo che il tutto avvenga per le solite fissazioni ossessive prodotte dal sistema paranoico in cui viviamo. E che mi sembra qualcuno abbia anche notato, salvo poi ripiombare sulle questione dell'ente. ::)
Un ente è un ente dirà Pierini....e chissenefrega! 8)
Ha ragione Phil nel ritenerle tutte delle induzioni, salvo poi NON spiegare perchè le ritenga tali. (da bravo formalista mimetizzato da relativista qual è)
Sono delle induzioni perchè il tessuto sociale, che naviga a vista di palmo dal naso, riconosce solo gli oggetti davanti a sè.
Ma non si interroga sulle relazioni (e di nuovo sono d'accordo con Paul che ha tentato di salvare Davintro parlando di relazioni fra oggetti e non di oggetti, chiara proiezione del sè, non il Sè con la maiuscola).
Figuriamoci riconoscere quelle lontane, come lo Sfondo.
E se dunque esistono solo oggetti allora anche l'uomo è un oggetto e come tale va indagato.
Il cognitivismo, scuola psicologica già presente in Italia, e la sua sorella lo psicodinamismo, sono delle nefandezze, peggio del cristianesimo. E qui mi fermo.
La motivazione sarebbe lunga e fastidiosa da sentire.
Ma almeno per giustificare ricordo solo le parole del poeta Montale: " l'uomo non è solo quello che è, ma è anche quello che sogna".
Che voglio dire basta e avanza. (ma tanto non interessano queste cose...va da sè)
Come dire Umano troppo Umano: come al solito siamo sempre nelle pianure desolate e piene di nebbia nella cittadella "mediocrità" sovrastata dal Monte Nietzche.
++++
No! sul serio! lo spunto iniziale era buono, si può parlare di Dio, ma il massimo che possiamo fare è indicare il limite entro cui svanisce la nostra comprensione di Lui (o Lei che sia ;) ).
Ma questa compresnione non sono i monismi di Eccles e chi per lui, in quanto la dimostrazione di DIO per entificazione, è solo l'ennesima proiezione fantasmatica, dell'entificazione a cui sottoponiamo giornalmente le nostre esistenze (misere, miserrime di uomini, stanchi nel mio caso, d'occidente).
Altri sono i Discorsi, ed è chiaro che sono discorsi! l'aporia sarebbe volere entificare pure quelli.
In poche parole è il senso da rintracciare nella Negatività del suo assunto. (appunto nel suo assoluto, nella sua dissoluzione)
E' nella negatività che va assunto, e ossia nella sua morte.
Che poi la morte abbia spinto l'umanità nel credere che fosse carne (ebraismo) o magia (tutte le scuole orientali, buddismo compreso).
E' un errore trito e ritrito che richiede ben altri orizzonti.
Ma questi orizzonti NON POSSONO avere come presupposto l'obnubilazione della Morte.
E' veramente MOLTO triste. (e che ci può fare la filosofia? oh scusate La (!) FILOSOFIA?)
Sgiombo,
poco per volta diventerai metafisico......per il semplice fatto che il pensiero non può a sua volta come noi come esistenza nascere, sopravvivere biologicamente e morire come un virus: ma non per arroganza o potenza umana, ma è proprio perchè è lo stesso pensiero che non può arrestarsi al dominio mutevole dell'esistenza su cui non può che originariamente esserci un ordine.
Il fatto stesso che praticamente tutti i filosofi i siano comunque posti il duplice problema: se c'è un sapere aprioristico innato ,prima ancora di esperire conoscenza nel mondo; se c'è un pensiero, perchè esiste ,a quale dominio appartiene, a quello fisico naturale?
Green,
la fattezza umana di Dio, io la definisco enfatizzazione dell'ignoranza umana.
Sono un credente filosoficamente per deduzione razionale, sono un cristiano per il messaggio di Gesù.
Che poi si passi per culto il baciare l'immaginetta(il santino) fatta dalla tipografia all'angolo della strada , francamene............
Veramente creo di essere metafisico già da gran tempo...
Non credo che l' esistente debba per forza (necessariamente) presentare un ordine; credo (indimostrabilmente) lo presenti di fatto.
Fra l'altro se così non fosse non sarebbe possibile la conoscenza scientifica.
Secondo me il pensiero appartiene al mondo fenomenico cosciente, come anche la materia (il mondo fisica naturale); ma ne sono due ambiti in divenire "parallelo" ma reciprocamente indipendente, non interferente, trascendente.
Citazione di: sgiombo il 27 Settembre 2017, 09:09:20 AM
(Oh, finalmente mi ritrovo nuovamente "solo contro tutti".
Non sono per nulla "contro" la tua posizione (e infatti condivido gran parte della tua risposta #52 a
paul11), anzi sono decisamente più prossimo alla tua prospettiva che a quella di
davintro (salvo fraintendimenti); tuttavia volevo sottolineare come anche l'innatismo (neo?)platonico (che non m'appartiene), qualora se ne accettino le premesse, ha una sua plausibilità interna ponendo questioni semplicemente indimostrabili.
Quando affermi che,
Citazione di: sgiombo il 27 Settembre 2017, 08:39:13 AM
non si può sostenere una gnoseologia innatistica facendo leva sul concetto di "inconsapevolezza" delle dee innate e non ancora presenti alla mente cosciente [...] che può solo significare: o la momentanea "inattenzione cosciente" circa ricordi [...] oppure la mera potenzialità di future acquisizioni di idee e conoscenze, comunque a posteriori.
tralasci, secondo me, una terza possibilità che è forse l'essenza della posizione innatista: tali idee non sono formate
a posteriori e poi dimenticate, ma, proprio in quanto innate, sono nella mente da sempre, anche se non sempre le attingiamo subito. Come dimostrare che quello che mi sembra un ideare o ricordare
a posteriori, non sia altro che l'innesco di qualcosa che già esiste
a priori nella mia mente, ma di cui non ero ancora cosciente?
Non credo sia possibile... proprio perché è un'ipotesi esplicativa "progettata" per essere inconfutabile.
E' come se chiedessi a qualcuno di dimostrare che sulla spalla di ogni uomo non è appollaiato un pappagallo invisibile e immateriale, che è esistente solo in una dimensione parallela che non possiamo percepire, ma che, al momento della morte del suo "portatore umano", solleverà in volo l'anima del defunto e la porterà nella sua dimensione, in cui uomini e pappagalli sono immortali e vivono in bucolica sintonia, come mi è stato rivelato in sogno da un maestoso uomo-pappagallo ;)
L'ipotesi suona palesemente assurda, ma come falsificarla se è pensata per essere infalsificabile? Potrai dirmi che non ci credi (spero! ;D ), ma non che ci sono prove oggettive della falsità di questa storiella sui "pappagalli funebri"...
Per cui, e qui concordo con te, capisco che tale assunto dell'innatismo delle idee è indimostrabile, quindi non falsificabile, quindi praticamente privo di portata scientifica, ma proprio per questo ricordavo che il suo senso funzionale sta nella cornice teologica in cui viene posto. Con ciò non voglio ergermi ad avvocato dell'innatismo che, ripeto, non è il mio modo di approcciare questa questione (come dimostrano i miei precedenti post di commento a
davintro), ma solo evidenziare come siano possibili differenti interpretazioni a seconda dell'orizzonte da cui si guarda la questione.
Il che ci porta all'osservazione di
green demetr:
Citazione di: green demetr il 27 Settembre 2017, 09:31:21 AM
Ha ragione Phil nel ritenerle tutte delle induzioni, salvo poi NON spiegare perchè le ritenga tali. (da bravo formalista mimetizzato da relativista qual è)
Le ritengo tali perché nessuna di loro mi presenta un'attendibilità che non sia inficiata dal contesto prospettico di appartenenza (così salvo capra e cavoli, formalismo e relativismo ;D ).
Citazione di: sgiombo il 27 Settembre 2017, 14:58:16 PM
Veramente creo di essere metafisico già da gran tempo...
Non credo che l' esistente debba per forza (necessariamente) presentare un ordine; credo (indimostrabilmente) lo presenti di fatto.
Fra l'altro se così non fosse non sarebbe possibile la conoscenza scientifica.
Secondo me il pensiero appartiene al mondo fenomenico cosciente, come anche la materia (il mondo fisica naturale); ma ne sono due ambiti in divenire "parallelo" ma reciprocamente indipendente, non interferente, trascendente.
negli anni in effetti qualcosa hai maturato.
D'accordo: sarebbe impossibile la conoscenza senza un ordine, non ci sarebbe nulla di predittivo e quindi nulla relazionabile come causale. Ma l'esistenza vive dentro questo ordine che si mostra come eventi, enti fenomenici manifesti: ma c'è anche l'immanifesto,ciò che si nasconde.
Ma il pensiero agirebbe termodinamicamente come un' energia? Il mentale, i sentimenti, il ragionare sono energie ed agiscono dentro l'ordine fenomenico? .......sono solo riflessioni.
Phil,
ma cosa significa indimostrabile?
C'è la vita, è evidente. ma non esiste una teoria abiogenetica sulla formazione della vita ,se non una serie di ipotesi.
C'è il pensiero, c'è la ragione, è evidente. ma quale sono le loro origini?
Se andassimo a fondo su ciò che si vorrebbe significare come dimostrabile anche le scienze entrerebbero in crisi.
Ci accorgeremmo che solo gli epifenomeni sono dimostrabili, mai i loro fondamenti se non come sappiamo assiomaticamente.
Tutto si mostra come evidenza,diventa tautologia e grazie alla metafisica (dei numeri) pensiamo che il calcolo sia il dimostrabile e il calcolabile premessa dimostrativa .
Tutto ciò che non rientra nell'epifenomeno calcolabile, a partire dalle nostre premesse innate che ci permettono quel calcolabile sono fuori dalla nostra portata del dimostrabile, del quantificabile.
Mi pare una bella aporia
Citazione di: Phil il 06 Agosto 2017, 22:29:18 PM
Citazione di: davintro il 06 Agosto 2017, 19:35:08 PM
proprio il senso delle categorie con cui il teismo descrive Dio sono il miglior argomento per risalire razionalmente alla sua esistenza. O quantomeno la presenza alla mente umana di tali categorie resta irrisolta fintanto che le ragioni le ci ricercano nell'ambito della dimensione mondana e immanente, perché concetti come "eternità", "totalità", "perfezione" hanno un senso che non si identifica con nessuno degli oggetti della nostra esperienza mondana ordinaria.
Forse più che di "proiezione", in quei casi, è opportuno parlare di "sublimazione", "gradazione ontologica" (come facevano i medievali, se non erro) o semplicemente "astrazione", secondo differenti modalità: se sperimento la caducità, mi basta pensarne la negazione (non-caducità) per ottenere il concetto d'eternità; se osservo la parzialità posso astrarne il concetto di totalità come suo contrario; se individuo graduali imperfezioni (più o meno rilevanti), posso arrivare a supporre un'ideale assenza di imperfezioni...
A farla breve, se penso a tutto ciò che è passeggero, parziale, imperfetto, materiale, in una parola sola "immanente", posso poi sublimarlo, anche via negationis, in qualcosa di grado sommamente superiore... ed ecco il concetto di trascendente partendo dall'esperienza dell'immanente.
Citazione di: Sariputra il 06 Agosto 2017, 21:45:23 PM
L'idea di divinità non è a priori e poi , le varie esperienze, ne sono state ricondotte per darne una spiegazione, ma è a posteriori, cioè nata sulla base di queste esperienze trascendentali
Concordo, anche se "esperienze trascendentali" è un po' un ossimoro (esperisco l'immanente, se esperissi il trascendente diverrebbe subito immanente al mio percepirlo/esperirlo ;) ), tuttavia dipende se parliamo di "trascendere" in senso (neuro)cognitivo o in senso mistico (oppure facciamo magari coincidere le due istanze).
Interessantissime queste considerazioni!
Citazione di: Mario Barbella il 27 Settembre 2017, 22:52:01 PM
Interessantissime queste considerazioni!
Si,
davintro e
Sariputra sanno spesso essere forieri di fertili spunti di riflessione... e
paul11 non è da meno:
Citazione di: paul11 il 27 Settembre 2017, 22:39:18 PM
Phil,
ma cosa significa indimostrabile?
[...]Tutto si mostra come evidenza,diventa tautologia e grazie alla metafisica (dei numeri) pensiamo che il calcolo sia il dimostrabile e il calcolabile premessa dimostrativa .
Tutto ciò che non rientra nell'epifenomeno calcolabile, a partire dalle nostre premesse innate che ci permettono quel calcolabile sono fuori dalla nostra portata del dimostrabile, del quantificabile.
Mi pare una bella aporia
Mi spingerei persino oltre: in principio c'è (e/o il principio è) l'aporia, l'indecidibile (e quindi il principio è "illocalizzato", è u-topia); non mi sembra si possa andare più in là... almeno prima di raggiungere l'aldilà, come forse direbbe Jean ;D
Il punto nevralgico secondo me è questo: se scaviamo nelle teorie scientifiche si può giungere anche ad un indimostrabile che mette in crisi la teoria che lo ospita, ma talvolta l'indimostrabile non richiede
archeo
logia (discorso sull'
archè), poiché coincide semplicemente con un mostrabile privato dalla dimostrazione. Detto altrimenti: ci sono posizioni che si appoggiano su dimostrazioni, fortemente o debolmente opinabili/convenzionali, e ci sono poi posizioni (non inferiori :) ) che non si appoggiano su nessuna dimostrazione, ma su altri tipi di sostegno (come rappresentato dalla scherzosa storia dei "pappagalli funebri", in cui il punto d'appoggio non è una dimostrazione epistemologica o razionale, ma la fiducia/fede nella portata veritativa di un sogno... il che è pur sempre un sostegno "fruibile", ma non propriamente una dimostrazione ;) ).
Citazione di: paul11 il 27 Settembre 2017, 22:39:18 PM
Citazione di: sgiombo il 27 Settembre 2017, 14:58:16 PM
Veramente creo di essere metafisico già da gran tempo...
Non credo che l' esistente debba per forza (necessariamente) presentare un ordine; credo (indimostrabilmente) lo presenti di fatto.
Fra l'altro se così non fosse non sarebbe possibile la conoscenza scientifica.
Secondo me il pensiero appartiene al mondo fenomenico cosciente, come anche la materia (il mondo fisica naturale); ma ne sono due ambiti in divenire "parallelo" ma reciprocamente indipendente, non interferente, trascendente.
negli anni in effetti qualcosa hai maturato.
CitazioneBeh, lo spero bene!
Anche se non capisco a cosa in particolare ti riferisca.
**************************************************************************
D'accordo: sarebbe impossibile la conoscenza senza un ordine, non ci sarebbe nulla di predittivo e quindi nulla relazionabile come causale. Ma l'esistenza vive dentro questo ordine che si mostra come eventi, enti fenomenici manifesti: ma c'è anche l'immanifesto,ciò che si nasconde.
CitazioneNon capisco il "ma".
E ci terrei a precisare che l' esistenza del noumeno, oltre ai fenomeni direttamente constatati, può essere creduta (vera; e personalmente la credo), ma non dimostrata né (per definizione) tantomeno mostrata o constatata.
*********************************************************************
Ma il pensiero agirebbe termodinamicamente come un' energia? Il mentale, i sentimenti, il ragionare sono energie ed agiscono dentro l'ordine fenomenico? .......sono solo riflessioni.
CitazioneEnergia e termodinamica sono aspetti del divenire della res extensa (materia), concetti senza senso a proposito della res cogitans (pensiero).
****************************************************************************************
Phil,
ma cosa significa indimostrabile?
C'è la vita, è evidente. ma non esiste una teoria abiogenetica sulla formazione della vita ,se non una serie di ipotesi.
CitazioneSenza accettare una delle quali ma ricadendo nel vitalismo e contemporaneamente credendo nella (verità della) conoscenza scientifica ci si trova in contraddizione, per la chiusura causale del mondo fisico che di quest' ultima é una conditio sine qua non (a parte l' estrema plausibilità delle ipotesi e l' ' ovvia impossibilità di andare oltre tale estrema plausibilità stanti i dati effettivamente disponibili su cui lavorare).
*******************************************************************************************
C'è il pensiero, c'è la ragione, è evidente. ma quale sono le loro origini?
CitazioneProblema a mio parere insolubile con certezza.
A mio parere originano dal nulla "parallelamente allo (e non in conseguenza causale dello") sviluppo fisiologico del cervello (esperito "dall' esterno" da altri) di chi li esperisce "in prima persona" o " dall' interno".
**************************************************************************************************
Se andassimo a fondo su ciò che si vorrebbe significare come dimostrabile anche le scienze entrerebbero in crisi.
CitazioneSe alludi alla critica humeiana della causalità, e dunque del divenire naturale materiale ordinato secondo modalità generali universali e costanti astratte (astraibili con la conoscenza scientifica dal "rimanete" particolare concreto), ovviamente sono del tutto e assai convintamente d' accordo!
***********************************************************************************************************
Ci accorgeremmo che solo gli epifenomeni sono dimostrabili, mai i loro fondamenti se non come sappiamo assiomaticamente.
Tutto si mostra come evidenza,diventa tautologia e grazie alla metafisica (dei numeri) pensiamo che il calcolo sia il dimostrabile e il calcolabile premessa dimostrativa .
Tutto ciò che non rientra nell'epifenomeno calcolabile, a partire dalle nostre premesse innate che ci permettono quel calcolabile sono fuori dalla nostra portata del dimostrabile, del quantificabile.
Mi pare una bella aporia
CitazioneQui non ci capisco quasi nulla.
Comunque i fenomeni materiali sono misurabili e calcolabili (ed anche per questo passibili di conoscenza scientifica).
Quelli (fenomeni, e non epifenomeni) mentali non lo sono (ed anche per questo non sono passibili di conoscenza scientifica in senso stretto; casomai possono essere oggetto delle "scienze umane", ben diverse alle "scienze naturali" o scienze in senso stretto).
Phil,
hai un intelligenza brillante.
Hai capito che le culture poggiano....su palafitte. Che costruiamo "certezze" sulle incertezze.
Questo fa sì che le culture siano malleabili, trasformabili .
Considero questo il modo in cui l'uomo si comporta e vive, un misto di irrazionalità e razionalità: agisce nella pragmatica con in una tasca una calcolatrice e nell'altra una monetina da testa e croce.L'uno compensa l'altro.
Il dubbio è l'esercizio dell'incertezza di quella componente aleatoria in cui tutto non è mai spiegabile, il luogo dove agisce la fortuna/sfortuna e il destino, quell'imponderabile che è fondamentale per capire le psicologie comportamentali delle persone nella loro quotidianità, studiato da economisti ,sociologi, ecc.
Ma questa è più la pratica dentro questo tipo di cultura che si "fida", anche se si vuole giustamente,di ciò che "vede" e vive.
Questo è anche l'effetto di una cultura che manca di punti referenti "eterni" e non opinabili.
Sgiombo, Phil, e.... tout le monde...
il circuito logico del pensiero deve chiudersi (come un cerchio) se si vuole che ci sia un senso di un ordine fenomenico . di un ordine metafisico: l'uno si mostra, l'altro si nasconde . Ma per esistere il fenomenico è necessario che vi sia il metafisico, affinchè vi sia l'esistenza è necessario che vi sia l'essere.
Dare importanza all'esistenza e negare l'essere significa precarizzare i significati dell'esitenza stessa ,precarizzare la cultura e pensare che alla fine tutto svanisca, corpo materiale, ragione razionale e irrazionale, pensiero, sentimenti. Ma significa anche pensare che veniamo dal nulla se tutto finisce in nulla, perchè il cerchio stesso fisco non si chiude.
E' necessario che qualcosa muoia ,perchè nasca una vita: altrettanto è necessario che qualcosa viva, perchè vi sia una morte.
la stessa logica dialettica, funziona se il processo induttivo e deduttivo a partire dal concreto naturale fino all'astratto metafisco chiuda in un senso tutta la formulazione di procedimenti affinchè ogni cosa, pensiero o fenomeno, siano chiusi.
una formulazione, un algoritmo, è racchiudere il fenomeno dentro un concetto astratto calcolabile matematicamente, logicamente.
Ciò ci permette di predire calcolando costanti e variabili fenomeniche. ma ha chiuso il cerchio di un particolare, di quel genere di fenomeno con caratteristiche di proprietà inerenti a quel particolare fenomeno. allora noi diciamo che quel concetto astratto "funziona", è vero perchè l'astrazione della formula ha racchiuso il significato del fenomeno, rendendo la forma universale per quel particolare tipo di fenomeno. Ma ancora ci fidiamo di ciò che vediamo e viviamo fisicamente. si è stabilito che la giustificazione dell'astrazione è sempre riconducibile al mondo naturale che muta, si trasforma, si riplasma sistematicamente.
ecco allora che tutta l forma metafisica è divenuta funzionale alla giustificazione fisica, come dire che la metafisica del pensiero è serva del mondo naturale, salvo perdere il senso di quello stesso dominio che è la natura fisca e fenomenica.
Se il pensiero fosse riconducibile al dominio naturale, dove va a finire? Che senso ha di esistere ? E' soggetto al nulla si distrugge e tutto si trasforma, a quale regola entropica?
Se il dimostrato fosse il mostrato, noi capiremmo solo dagli effetti. e ciò che si nasconde?
Ma la forza di una verità ,non è quella di sussistere spiegando anche ciò che ancora oggi non è dimostrabile, ma che in futuro potrebbe esserlo? Questa cultura della pratica che poggia sul divenire della natura si conforma solo dopo l'errore, e altro errore, e ancora errore, perchè è sempre con il senno dipoi che può rigiustificare l'adattamento dei suoi principi primitivi, i suoi assiomi.
Predice, ma in verità erra ed erra per predire?
Guardiamo oggi la nostra cultura, la nostra scienza e noi umani che esistiamo in questo spazio/tempo.
Mi si dica i come sarà riconfigurato questo sistema mondiale anche solo fra cinque anni?
Nessuno ha una risposta perchè questa cultura non sa chiudere il cerchio del proprio senso, e in verità vive sull'imponderabile cercando di pensarsi e dicendosi razionale. ma ognuno scompostamente ,come ogni ,scienza, come l'intera cultura come agglomerato di un insieme totalizzante, è una variabile essa stessa con una calcolatrice e con la monetina del testa e croce.
Dio è la figura che chiude il cerchio per dare il senso, ma non è detto che debba essere Dio o una delle tante modalità di proiezione umana, che oltre che essere logiche potrebbero essere psicologiche, sentimentali, emotive,ecc
.Il Dio logico razionale chiude il cerchio affinchè gli infiniti particolari del divenire possano ricondursi ad un originario e in cui tutto il processo che dal quanto di luce a Dio sia riconducibile ad un unico senso che coinvolga il tutto.
La morte e la vita non sorgono più dal nulla per finire nel nulla
Citazione di: paul11 il 27 Settembre 2017, 13:54:30 PM
Green,
la fattezza umana di Dio, io la definisco enfatizzazione dell'ignoranza umana.
Sono un credente filosoficamente per deduzione razionale, sono un cristiano per il messaggio di Gesù.
Che poi si passi per culto il baciare l'immaginetta(il santino) fatta dalla tipografia all'angolo della strada , francamene............
Il messaggio di Cristo è chiaramente ultraterreno come lo concili con la deduzione razionale?
Se non inficiando lo stesso messaggio messianico, e proponendo una bizzarra evoluzione archetipica? Che di fatto sottende una visione razionale di tipo monista?
Ma poi non vedo cosa c'entri con tutto quello che ho scritto.
Io non mi riferisco certo al culto dell'immaginetta dell'ambulante di turno.
Io mi riferisco al fatto che Dio si è trasformato in Uomo.
E che persino un personaggio come Ravazzi ai nasconda dietro alla frase "ma la carne è debole" quando fa capire chiaramente come il messaggio cristico sia tutt'altro che popolare per pochi eletti.
Una captatio benevolentiae ridicola, che testimonia solo come la chiesa sia totalemte addentro al mondo degli oggetti.
Non diciamo sciocchezze: Dio non è un oggetto.
Citazione di: Phil il 27 Settembre 2017, 17:19:16 PM
Il che ci porta all'osservazione di green demetr:
Citazione di: green demetr il 27 Settembre 2017, 09:31:21 AM
Ha ragione Phil nel ritenerle tutte delle induzioni, salvo poi NON spiegare perchè le ritenga tali. (da bravo formalista mimetizzato da relativista qual è)
Le ritengo tali perché nessuna di loro mi presenta un'attendibilità che non sia inficiata dal contesto prospettico di appartenenza (così salvo capra e cavoli, formalismo e relativismo ;D ).
A me sembra solo che confermi il mio sospetto che sei esclusivamente un formalista. ;)
Ma un formalista che idea ha di Dio? questo mi fa veramente ridere.
Ah ah geniale la frecciatina del pappagallo a Sgiombo!
Comunque è vero a livello formale vi trovate d'accordo e pure io con voi. :)
Ma la vita (almeno la mia) non pulsa da quelle parti.
Citazione di: paul11 il 28 Settembre 2017, 14:02:40 PMSgiombo, Phil, e.... tout le monde...
il circuito logico del pensiero deve chiudersi (come un cerchio) se si vuole che ci sia un senso di un ordine fenomenico . di un ordine metafisico: l'uno si mostra, l'altro si nasconde . Ma per esistere il fenomenico è necessario che vi sia il metafisico, affinchè vi sia l'esistenza è necessario che vi sia l'essere.
CitazioneNon capisco bene la differenza fra "esistenza" ed "essere", ma i fenomeni potrebbero benissimo esistere senza alcun noumeno (la cui esistenza spiega molte cose e personalmente vi credo, ma non può in alcun modo essere dimostrata e men che meno -per definizione!- mostrata; id est: perché vi sia il fenomeno non è necessario il noumeno).
********************************************************************************************+
Dare importanza all'esistenza e negare l'essere significa precarizzare i significati dell'esitenza stessa ,precarizzare la cultura e pensare che alla fine tutto svanisca, corpo materiale, ragione razionale e irrazionale, pensiero, sentimenti. Ma significa anche pensare che veniamo dal nulla se tutto finisce in nulla, perchè il cerchio stesso fisco non si chiude.
CitazionePenso che le cose stiano proprio cosi!
***************************************************************************************************************
E' necessario che qualcosa muoia ,perchè nasca una vita: altrettanto è necessario che qualcosa viva, perchè vi sia una morte.
CitazionePerfettamente d' accordo!
*******************************************************************************************************************
Se il pensiero fosse riconducibile al dominio naturale, dove va a finire? Che senso ha di esistere ? E' soggetto al nulla si distrugge e tutto si trasforma, a quale regola entropica?
CitazioneNon credo che il pensiero sia "riconducibile" (riducibile o identificabile; o ne emerga, o vi sopravvenga, ecc.) al dominio naturale (materia, res extensa), bensì che sia tutt' altro.
Ma credo pure, ciononostante, che anche il pensiero nasca e perisca (che, con buona pace di Emanuele Severino,"venga dal nulla e al nulla ritorni").
E questo non mi impedisce affatto di amare la vita: sarebbe preferibile se fosse eterna (almeno la mia personale e tante altre -non tutte- di fatto, ma "a caval donato non si guada in bocca".
***************************************************************************************************************************
Dio è la figura che chiude il cerchio per dare il senso, ma non è detto che debba essere Dio o una delle tante modalità di proiezione umana, che oltre che essere logiche potrebbero essere psicologiche, sentimentali, emotive,ecc
.Il Dio logico razionale chiude il cerchio affinchè gli infiniti particolari del divenire possano ricondursi ad un originario e in cui tutto il processo che dal quanto di luce a Dio sia riconducibile ad un unico senso che coinvolga il tutto.
La morte e la vita non sorgono più dal nulla per finire nel nulla
CitazioneConvinzioni che personalmente ritengo illusorie.
E (per lo meno nel caso mio personale e di tanti altri) nemmeno necessarie per apprezzare la vita e (conseguentemente) accettare (anche) la morte.
cit Paul
"Dio è la figura che chiude il cerchio per dare il senso, ma non è detto che debba essere Dio o una delle tante modalità di proiezione umana, che oltre che essere logiche potrebbero essere psicologiche, sentimentali, emotive,ecc [/font][/size]
.Il Dio logico razionale chiude il cerchio affinchè gli infiniti particolari del divenire possano ricondursi ad un originario e in cui tutto il processo che dal quanto di luce a Dio sia riconducibile ad un unico senso che coinvolga il tutto"
Niente ho perso tutto quello che avevo scritto (un tema praticamente)....ci rinuncio :'(
Ecco almeno la domanda....Ma c'è differenza o no tra originario (inconoscibile) e archetipo (conoscibilie) nel concetto del tuo "ORIGINARIO" devo dire che ancora non ho capito
Citazione di: green demetr il 28 Settembre 2017, 16:39:27 PM
Ah ah geniale la frecciatina del pappagallo a Sgiombo!
CitazioneNon capisco (mi dev' essere sfuggito qualcosa) ...e chiedo spiegazioni, essendo anch' io disposto a ridere della battuta, se la troverò divertente, anche se prende in giro me (non sono così presuntuoso e privo di senso dell' umorismo da non essere capace di ridere anche di me stesso).
Citazione di: sgiombo il 28 Settembre 2017, 17:28:55 PM
Citazione di: green demetr il 28 Settembre 2017, 16:39:27 PM
Ah ah geniale la frecciatina del pappagallo a Sgiombo!
CitazioneNon capisco (mi dev' essere sfuggito qualcosa) ...e chiedo spiegazioni, essendo anch' io disposto a ridere della battuta, se la troverò divertente, anche se prende in giro me (non sono così presuntuoso e privo di senso dell' umorismo da non essere capace di ridere anche di me stesso).
cit Phil
E' come se chiedessi a qualcuno di dimostrare che sulla spalla di ogni uomo non è appollaiato un pappagallo invisibile e immateriale, che è esistente solo in una dimensione parallela che non possiamo percepire, ma che, al momento della morte del suo "portatore umano", solleverà in volo l'anima del defunto e la porterà nella sua dimensione, in cui uomini e pappagalli sono immortali e vivono in bucolica sintonia, come mi è stato rivelato in sogno da un maestoso uomo-pappagallo ;)
L'ipotesi suona palesemente assurda, ma come falsificarla se è pensata per essere infalsificabile? Potrai dirmi che non ci credi (spero! ;D ), ma non che ci sono prove oggettive della falsità di questa storiella sui "pappagalli funebri"...
Non era una battuta era una argomentazione.
Mi ha fatto ridere perchè formalmente è valida. E dunque se la forma è nella res estensa.
Allora poichè tu pensi che le due res siano distinte e vivono di vita loro senza incontrarsi mai.
Anche il pappagallo immaginario esiste.
Si lo so che per te è così a livello formale. Così come esiste l'unicorno.
Mi ha solo fatto ridere. Tutto qui.
E ovviamente continuo a pensare che sei un monista, perchè te ai pappagalli non ci credi proprio......Eh che pazienza!
Green,
innanzitutto penso che tutte le religioni e spiritualità abbiano un nucleo originario, così come ci fu una umanità a sua volta originaria .
Non vedo dove e come il messaggio di Cristo possa cozzare con la deduttività
Tant'è che gli umani hanno interpretato e inserito il messaggio di Cristo all'interno della teologia.
Si tratterebbe semmai di capire se ,come e dove la dottrina teologica ha recepito il messaggio di Cristo, magari
cambiando, adattandolo, oppure inalterandolo.
Sgiombo
l'esistenza è all'interno del divenire fisico e naturale, l'essere no, è un immutabile.
Heidegger è famoso per avere problematizzato l'essere e il tempo(il divenire)
E' la visione lineare e non a cerchio che ritorna e lo chiude uno dei problemi grandi della nostra cultura.
Una visione lineare significa che tutto è proiettato sempre al domani. Ciò che esiste, che si manifesta originariamente è sempre un'incognita perché il problema invece viene focalizzato sull'esistenza e sulla sua fine:la morte, Mai sulla nascita e la rinascita. Il fattore tempo e il futuro del tempo viene visto come possibile svelamento e sparizione già del ieri, figuriamoci della nasacita: non so se riesco spiegarmi. vale quel motto "chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato e scordiamoci il passato.Ogni attimo vissuto è già sparizione nel vuoto se non ricordo, memoria.
Perché sei pregiudizievole sulla figura di Dio e come te molti. perché è una figura usata da chiese, spiritualità per assoggettare materialmente i propri fratelli e sorelle. Ma devi pensarlo in termini logici; semmai è il messaggio di Buddah, di Cristo, del taoismo, ecc. che riempie anche oltre la fredda logica, riempiendo l'esistenza
Io invece penso "che tutto torna",magari sotto "mentite spoglie", non nelle fattezze fisiche, ma persino nella morale penso che tuto alla fine torna come risultato finale= risultato originario.In fondo dal risultato finale matematico non si fanno le controprove oppure la possibilità di poter ritornare all'origine?
la bilancia del segno uguale in logica e matematica deve parificarsi, ciò che è a destra dell'uguale è anche ciò che sta alla sinistra, ma con numeri e calcoli diversi, ma proprietà e caratteristiche simili.
Personalmente ritengo del tutto contraddittorio pensare alla morte senza un pensiero "che chiuda il cerchio" logico razionale. Sarei piuttosto un nitzcheano allo stato puro: ma perché mai farmi delle remore, scrupoli se in questo dominio fisico la morale è "tutti contro tutti"? Che senso avrebbe l'etica, la morale, se tutto finisce in nulla?
Green,
non confonderei l'archè filosofico con l'archetipo junghiano.
Penso, ma devo approfondire, che il termine utilizzato da Haidegger e in maniera diversa in Severino, come "svelamento"dell'Essere che subito si nasconde sia in qualche modo corretto, ne abbiamo sentore come sapere, ma non riusciamo a svelarlo nell'esistenza. Sappiamo che c'è qualcosa di indefinibile, ma non riusciamo a catturarlo nella conoscenza.
Per questo sto affondando le mie conoscenze in Platone ed Aristotele sui loro testi originari.
Perché ritengo che la modernità abbia dato per scontato alcuni concetti e abbia soprattutto criticato Platone ,in maniera non corretta, soprattutto da parte di Nietzsche ed Heidegger.
Ho seguito l'esempio di Sini che ultimamente ha scritto che i filosofi attuali non leggono nemmeno i testi scritti dai precedenti filosofi. Era riferito alla " fenomenologia dello spirito" di Hegel e al suo pensiero: ha ragione e lo constato spesso. La nostra cultura rischia di perdere persino le originarie scritture, portando avanti "per sentito dire" degli errori strutturali nel pensiero filosofico attuale......
La stessa cosa è avvenuto con buddismo, cristianesimo, ecc.
Ma questa è un'altra storia......
Citazione di: green demetr il 28 Settembre 2017, 17:38:57 PM
Citazione di: sgiombo il 28 Settembre 2017, 17:28:55 PM
Citazione di: green demetr il 28 Settembre 2017, 16:39:27 PM
Ah ah geniale la frecciatina del pappagallo a Sgiombo!
CitazioneNon capisco (mi dev' essere sfuggito qualcosa) ...e chiedo spiegazioni, essendo anch' io disposto a ridere della battuta, se la troverò divertente, anche se prende in giro me (non sono così presuntuoso e privo di senso dell' umorismo da non essere capace di ridere anche di me stesso).
cit Phil
E' come se chiedessi a qualcuno di dimostrare che sulla spalla di ogni uomo non è appollaiato un pappagallo invisibile e immateriale, che è esistente solo in una dimensione parallela che non possiamo percepire, ma che, al momento della morte del suo "portatore umano", solleverà in volo l'anima del defunto e la porterà nella sua dimensione, in cui uomini e pappagalli sono immortali e vivono in bucolica sintonia, come mi è stato rivelato in sogno da un maestoso uomo-pappagallo ;)
L'ipotesi suona palesemente assurda, ma come falsificarla se è pensata per essere infalsificabile? Potrai dirmi che non ci credi (spero! ;D ), ma non che ci sono prove oggettive della falsità di questa storiella sui "pappagalli funebri"...
Non era una battuta era una argomentazione.
CitazioneEra un' argomentazione che serviva a spiegare che le tesi dei sostenitori delle idee a priori non sono contraddittorie (cosa da me mai affermata, come ammesso anche dallo stesso Phil; dunque non era contro di me).
Se ho ben capito poi, secondo Phil pur non essendo contraddittorie sono indimostrabili (essere ere né essere false); secondo me invece se ne può dimostrare (come ho cercato di fare) la falsità.
Mi ha fatto ridere perchè formalmente è valida. E dunque se la forma è nella res estensa.
Allora poichè tu pensi che le due res siano distinte e vivono di vita loro senza incontrarsi mai.
Anche il pappagallo immaginario esiste.
CitazioneFra l' altro per la chiusura causale del mondo fisico (e la falsificazione empirica delle tesi di Eccles).
Ma non mi sembra fosse la metafora di una presunta identificazione monistica della res cogitans e della res extensa, ma invece delle idee innate (ma qui bisognerebbe chiedere lumi a Phil).
Si lo so che per te è così a livello formale. Così come esiste l'unicorno.
CitazioneNO scusa, eh, ma l' unicorno un corno!!!
Fino a prova contraria le mie tesi ontologiche son ben altro che la pretesa esistenza di uniocorni!!!
Mi ha solo fatto ridere. Tutto qui.
E ovviamente continuo a pensare che sei un monista, perchè te ai pappagalli non ci credi proprio......Eh che pazienza!
CitazioneAi pappagalli invisibili e non percepibili o dimostrabili in alcun altro modo (metafora delle idee innate e momentaneamente inconscie; salvo correzione da Phil) non credo.
Sono un monista del noumeno dualista dei fenomeni.
La pazienza richiesta a me non é certo minore della tua!
Citazione di: paul11 il 28 Settembre 2017, 18:29:38 PM
Sgiombo
l'esistenza è all'interno del divenire fisico e naturale, l'essere no, è un immutabile.
CitazioneFrase per me incomprensibile.
Ma comunque il divenire fisico é dentro l' esistenza (fa parte di ciò che esiste), e non viceversa.
Heidegger è famoso per avere problematizzato l'essere e il tempo(il divenire)
CitazioneMe ne sono sempre tenuto accuratamente alla larga!
E' la visione lineare e non a cerchio che ritorna e lo chiude uno dei problemi grandi della nostra cultura.
Una visione lineare significa che tutto è proiettato sempre al domani. Ciò che esiste, che si manifesta originariamente è sempre un'incognita perché il problema invece viene focalizzato sull'esistenza e sulla sua fine:la morte, Mai sulla nascita e la rinascita. Il fattore tempo e il futuro del tempo viene visto come possibile svelamento e sparizione già del ieri, figuriamoci della nasacita: non so se riesco spiegarmi. vale quel motto "chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato e scordiamoci il passato.Ogni attimo vissuto è già sparizione nel vuoto se non ricordo, memoria.
CitazionePurtroppo non ti ho capito (anche qui!)
.
Ma personalmente credo che la realtà abbia sia aspetti costanti, sia aspetti ripetitivi, sia aspetti di novità nel suo divenire.
Perché sei pregiudizievole sulla figura di Dio e come te molti. perché è una figura usata da chiese, spiritualità per assoggettare materialmente i propri fratelli e sorelle. Ma devi pensarlo in termini logici; semmai è il messaggio di Buddah, di Cristo, del taoismo, ecc. che riempie anche oltre la fredda logica, riempiendo l'esistenza
CitazioneNon ho pregiudizi circa Dio.
Anche perché da molto tempo so bene che (per esempio, fra i tanti altri possibili) oltre alla chiesa di Santosubito Woitila esiste anche la teologia delle liberazione, malgrado il suddetto malfattore dell' umanità abbia cercato di stroncarla.
Personalmente ritengo del tutto contraddittorio pensare alla morte senza un pensiero "che chiuda il cerchio" logico razionale. Sarei piuttosto un nitzcheano allo stato puro: ma perché mai farmi delle remore, scrupoli se in questo dominio fisico la morale è "tutti contro tutti"? Che senso avrebbe l'etica, la morale, se tutto finisce in nulla?
CitazionePerché (anche) in questo dominio fisico la morale non é affatto "tutti contro tutti"!
Ha il senso che molto ben comprendeva il grandissimo Severino Boezio, credente, che in attesa dell' ingiusta morte afferma, nella splendida Consolazione della Filosofia, che (come dicevano gli stoici) la virtù é premio a se stessa e che andrebbe fatto il bene ed evitato il le anche se -per assurdo- la vita umana non fosse eterna e nessun premio o punizione per il proprio operato si avrebbe dopo la morte corporale.
Citazione di: paul11 il 28 Settembre 2017, 18:29:38 PM
Personalmente ritengo del tutto contraddittorio pensare alla morte senza un pensiero "che chiuda il cerchio" logico razionale. [... ]Che senso avrebbe l'etica, la morale, se tutto finisce in nulla?
La genealogia, squisitamente metafisica, di questa esigenza di chiusura del cerchio, di bilanciare i due lati dell'uguale (per inaugurare un'identità dialettica letteralmente de
finitiva), può essere secondo me approcciata con due inclinazioni differenti: quella che vede in tale chiusura la convergenza di
dovere e
volere, in una sorta di "deontologia" del pensare metafisico (il cerchio
deve chiudersi perché
voglio che l'etica il senso della vita siano "stabilizzati" metafisicamente) e quella che invece vede in questa chiusura una contingente proiezione "estetica" delle piccole chiusure immanenti che riscontriamo nella nostra esistenza... c'è il cerchio che si chiude, e chiudendosi si "esaurisce" (lasciando però sempre qualcosa "chiuso fuori" dal suo perimetro ;) ), e il cerchio apparente che non si chiude, ma si apre dipanandosi a spirale all'esterno, e sembra poter avanzare all'infinito (d'altronde, il tempo e lo spazio possono davvero essere pensati come chiusi?).
Da dove inizierebbe tale spirale? Ciò è esattamente l'aporia fondante del pensiero umano a cui mi riferivo... in fondo, dentro e fuori dalla metafora della spirale, siamo sempre e solo noi a porci il problema di trovare la "formula aurea" di quella spirale, conferendole una stabilità eterna; sebbene tale regolarità che renderebbe quasi superfluo il tempo (sebbene non il suo scorrere) può essere solo una supposizione, non una con
clusione risolutiva.
E se il famigerato "nulla" non fosse un meta-luogo dove regna la negazione dell'essere, ma semplicemente un altro modo di intendere il passato e il futuro nella temporalità a spirale?
Citazione di: green demetr il 28 Settembre 2017, 16:39:27 PM
A me sembra solo che confermi il mio sospetto che sei esclusivamente un formalista. ;)
Ma un formalista che idea ha di Dio? questo mi fa veramente ridere.
Un formalista (la metto nella lista delle mie etichette con cui ho fatto ormai una collana ;D ) può avere, appunto, solo l'idea di Dio... quale idea? Tante: l'idea di una possibilità, se parliamo di ontologia; l'idea di un fattore fra i più rilevanti della storia umana, se parliamo di antropologia filosofica; l'idea di un concetto-limite, se parliamo di logica; l'idea di un pilastro teoretico, se parliamo di metafisica; etc. dipende sempre dai discorsi... e dalla prospettiva scelta dal formalista che li affronta...
Citazione di: sgiombo il 28 Settembre 2017, 19:27:27 PM
Ai pappagalli invisibili e non percepibili o dimostrabili in alcun altro modo (metafora delle idee innate e momentaneamente inconscie; salvo correzione da Phil) non credo.
Si, quella dei "pappagalli funebri" era una parodia che alludeva ad alcune ipotesi, come quella in questione delle idee innate, che risultano indimostrabili, non per limiti "esterni", ma per l'intrinseca costituzione formale che è pensata per renderle inverificabili.
@Green Demetr scrive:
Ma poi non vedo cosa c'entri con tutto quello che ho scritto.
Io non mi riferisco certo al culto dell'immaginetta dell'ambulante di turno.
Io mi riferisco al fatto che Dio si è trasformato in Uomo.
E che persino un personaggio come Ravazzi ai nasconda dietro alla frase "ma la carne è debole" quando fa capire chiaramente come il messaggio cristico sia tutt'altro che popolare per pochi eletti.
Una captatio benevolentiae ridicola, che testimonia solo come la chiesa sia totalemte addentro al mondo degli oggetti.
Non diciamo sciocchezze: Dio non è un oggetto.
Caro Green, tra noi è rimasto in sospeso da tanto tempo un bel discorso sulla Paura. Non la pauretta di questo o di quello, del robot da acquistare al super market per i single che vogliono farci l'amore ( che poi sappiamo tutti che gran parte della produzione di quei "cosi" finirà così...) ma la Paura, quella con la P maiuscola, ossia la paura della Morte ( con la M maiuscola ). Che poi, ci si gira intorno intorno, chi con la logica formale, chi con la razionalità , chi con gli archetipi e le visioni solo per cercar di dimenticarsi che corriamo insieme alla nostra compagna, quella che dorme sotto il nostro letto, quella che abbiamo Paura che ci afferri per le caviglie mentre sogniamo e progettiamo cose e vacanze...E quindi...per parlare della Paura e della Morte , e quindi di Dio, quello vero intendo, ci si dovrebbe ritrovar per intendersi dove ci eravamo lasciati: in quella caverna primordiale , in cerchio attorno al fuoco, con i visi anneriti dal fumo. Se ci dimentichiamo della morte...che ci sta a fare Dio? Non è precisamente dentro alla morte stessa che dobbiamo cercarLo?...O abbiamo paura dell'abisso?...Non è anche in questa vertigine d'abisso che lo intuiamo?...Ma cos'è questa vertigine che ha a che fare con la nostra paura e con la nostra morte?...Non so se sbaglio, spiegami tu...ma a me sembra una domanda filosofica questa; che però ha bisogno di metterci dentro Passione, qualcosa pure di angoscioso mettiamo, qualcosa di veramente "umano"...Perchè sento tanta angoscia e paura attorno al fuoco e con il buio che si muove alle mie spalle...è un'"oscuro terrore" di Dio per caso? Perchè lo abbiamo "tradito" e come dei vili traditori adesso ci nascondiamo dietro la logica formale, la razionalità, gli archetipi e le visioni e i nostri volti anneriti dal fumo dell'ipocrisia? ...In questo buio sembra che il fantasma di Dio ci insegua dappertutto...
Mah!...ecco gli effetti di scrivere a un'ora tarda con il silenzio della campagna come unico amico...
P.S. Riletto con la luce dell'alba questo ha tutto il sapore dell'incubo... :(
Citazione di: Sariputra il 29 Settembre 2017, 00:39:39 AM
@Green Demetr scrive:
Ma poi non vedo cosa c'entri con tutto quello che ho scritto.
Io non mi riferisco certo al culto dell'immaginetta dell'ambulante di turno.
Io mi riferisco al fatto che Dio si è trasformato in Uomo.
E che persino un personaggio come Ravazzi ai nasconda dietro alla frase "ma la carne è debole" quando fa capire chiaramente come il messaggio cristico sia tutt'altro che popolare per pochi eletti.
Una captatio benevolentiae ridicola, che testimonia solo come la chiesa sia totalemte addentro al mondo degli oggetti.
Non diciamo sciocchezze: Dio non è un oggetto.
Caro Green, tra noi è rimasto in sospeso da tanto tempo un bel discorso sulla Paura. Non la pauretta di questo o di quello, del robot da acquistare al super market per i single che vogliono farci l'amore ( che poi sappiamo tutti che gran parte della produzione di quei "cosi" finirà così...) ma la Paura, quella con la P maiuscola, ossia la paura della Morte ( con la M maiuscola ). Che poi, ci si gira intorno intorno, chi con la logica formale, chi con la razionalità , chi con gli archetipi e le visioni solo per cercar di dimenticarsi che corriamo insieme alla nostra compagna, quella che dorme sotto il nostro letto, quella che abbiamo Paura che ci afferri per le caviglie mentre sogniamo e progettiamo cose e vacanze...E quindi...per parlare della Paura e della Morte , e quindi di Dio, quello vero intendo, ci si dovrebbe ritrovar per intendersi dove ci eravamo lasciati: in quella caverna primordiale , in cerchio attorno al fuoco, con i visi anneriti dal fumo. Se ci dimentichiamo della morte...che ci sta a fare Dio? Non è precisamente dentro alla morte stessa che dobbiamo cercarLo?...O abbiamo paura dell'abisso?...Non è anche in questa vertigine d'abisso che lo intuiamo?...Ma cos'è questa vertigine che ha a che fare con la nostra paura e con la nostra morte?...Non so se sbaglio, spiegami tu...ma a me sembra una domanda filosofica questa; che però ha bisogno di metterci dentro Passione, qualcosa pure di angoscioso mettiamo, qualcosa di veramente "umano"...Perchè sento tanta angoscia e paura attorno al fuoco e con il buio che si muove alle mie spalle...è un'"oscuro terrore" di Dio per caso? Perchè lo abbiamo "tradito" e come dei vili traditori adesso ci nascondiamo dietro la logica formale, la razionalità, gli archetipi e le visioni e i nostri volti anneriti dal fumo dell'ipocrisia? ...In questo buio sembra che il fantasma di Dio ci insegua dappertutto...
Mah!...ecco gli effetti di scrivere a un'ora tarda con il silenzio della campagna come unico amico...
P.S. Riletto con la luce dell'alba questo ha tutto il sapore dell'incubo... :(
Settembre, andiamo... stagioni, tempoRicordi, emozioni... paureLa vita è un lampoNelle notti scureJ4Y
Citazione di: sgiombo il 28 Settembre 2017, 19:40:38 PM
Citazione di: paul11 il 28 Settembre 2017, 18:29:38 PM
Citazione
Ha il senso che molto ben comprendeva il grandissimo Severino Boezio, credente, che in attesa dell' ingiusta morte afferma, nella splendida Consolazione della Filosofia, che (come dicevano gli stoici) la virtù é premio a se stessa e che andrebbe fatto il bene ed evitato il le anche se -per assurdo- la vita umana non fosse eterna e nessun premio o punizione per il proprio operato si avrebbe dopo la morte corporale. (Sgiombo, purtroppo, e non Paul11)
Citazionemamma mia che erroraccio ! ! !
andrebbe fatto il bene ed evitato il le anche se -per assurdo- la vita umana non fosse eterna e nessun premio o punizione per il proprio operato si avesse dopo la morte corporale.
(Ho il capo cosparso di cenere!).
Citazione di: Sariputra il 29 Settembre 2017, 00:39:39 AM
@Green Demetr scrive:
Ma poi non vedo cosa c'entri con tutto quello che ho scritto.
Io non mi riferisco certo al culto dell'immaginetta dell'ambulante di turno.
Io mi riferisco al fatto che Dio si è trasformato in Uomo.
E che persino un personaggio come Ravazzi ai nasconda dietro alla frase "ma la carne è debole" quando fa capire chiaramente come il messaggio cristico sia tutt'altro che popolare per pochi eletti.
Una captatio benevolentiae ridicola, che testimonia solo come la chiesa sia totalemte addentro al mondo degli oggetti.
Non diciamo sciocchezze: Dio non è un oggetto.
Caro Green, tra noi è rimasto in sospeso da tanto tempo un bel discorso sulla Paura. Non la pauretta di questo o di quello, del robot da acquistare al super market per i single che vogliono farci l'amore ( che poi sappiamo tutti che gran parte della produzione di quei "cosi" finirà così...) ma la Paura, quella con la P maiuscola, ossia la paura della Morte ( con la M maiuscola ). Che poi, ci si gira intorno intorno, chi con la logica formale, chi con la razionalità , chi con gli archetipi e le visioni solo per cercar di dimenticarsi che corriamo insieme alla nostra compagna, quella che dorme sotto il nostro letto, quella che abbiamo Paura che ci afferri per le caviglie mentre sogniamo e progettiamo cose e vacanze...E quindi...per parlare della Paura e della Morte , e quindi di Dio, quello vero intendo, ci si dovrebbe ritrovar per intendersi dove ci eravamo lasciati: in quella caverna primordiale , in cerchio attorno al fuoco, con i visi anneriti dal fumo. Se ci dimentichiamo della morte...che ci sta a fare Dio? Non è precisamente dentro alla morte stessa che dobbiamo cercarLo?...O abbiamo paura dell'abisso?...Non è anche in questa vertigine d'abisso che lo intuiamo?...Ma cos'è questa vertigine che ha a che fare con la nostra paura e con la nostra morte?...Non so se sbaglio, spiegami tu...ma a me sembra una domanda filosofica questa; che però ha bisogno di metterci dentro Passione, qualcosa pure di angoscioso mettiamo, qualcosa di veramente "umano"...Perchè sento tanta angoscia e paura attorno al fuoco e con il buio che si muove alle mie spalle...è un'"oscuro terrore" di Dio per caso? Perchè lo abbiamo "tradito" e come dei vili traditori adesso ci nascondiamo dietro la logica formale, la razionalità, gli archetipi e le visioni e i nostri volti anneriti dal fumo dell'ipocrisia? ...In questo buio sembra che il fantasma di Dio ci insegua dappertutto...
Mah!...ecco gli effetti di scrivere a un'ora tarda con il silenzio della campagna come unico amico...
P.S. Riletto con la luce dell'alba questo ha tutto il sapore dell'incubo... :(
CitazioneMa perché si dovrebbe temere la fine di tutto (almeno per ciascuno di noi), compresi desideri, insoddisfazioni, dolori?
Personalmente vorrei vivere ancora a lungo quando ho in mente qualche progetto da realizzare (per esempio nuovi paragrafi del librone di filosofia che ho "nel cassetto" dove resterà per sempre (alla lettera: nei files del computer e in un paio di chiavette perché non si sa mai...), o qualche "lettera on line" da inviare al sito Riflessioni, che il buon gestore del sito stesso e di questo forum, probabilmente impietosito dal mio proprio "caso umano", finora mi ha sempre dato la soddisfazione di pubblicare.
Ma pensando che la vecchiaia é comunque destinata a darmi, in tempi più o meno lunghi, sempre più acciacchi, tribolazioni e limitazioni, non vorrei in realtà vivere troppo a lungo (vorrei potermi accorgere per tempo che il bilancio della vita potenziale che mi rimane da vivere sia destinato ad essere decisamente negativo per potermi somministrare una bella pera di barbiturici e addormentarmi per sempre e senza sogni ascoltando musiche dolci dopo aver gustato un' ultima tavoletta di cioccolato gianduia alle nocciole italiano e sorseggiato un ultimo bicchiere di buon vino (credo che non ti offenderai se preciso che ritengo più adatto alla circostanza, secondo i miei gusti, un vino dolce da dessert, come un passito di Pantelleria, piuttosto che il pur sempre ottimo prosecco).
Però non ho capito al faccenda del tradimento di Dio.
@Sgiombo scive:
Però non ho capito al faccenda del tradimento di Dio.
Mah! forse non l'ho capita del tutto neppure io. Ho scritto infatti che mi dava l'idea dell'incubo. Come quando litighi con una persona cara...e non sai veramente perchè! ???
Forse 'tradimento' perché un tempo ci si amava e poi...abbiamo voltato le spalle? A volte nella vita si scappa anche da ciò che amiamo, non solo da ciò che odiamo...
Per questo e su questo sono assolutamente d'accordo con Green: Dio non è un oggetto e noi non siamo macchine...
P.S. attento con le "pere"...se sbagli la dose potresti risvegliarti in un bell'ospizio con attaccato un pannolone! Della serie: dalla padella nella brace! ;D
Per come la interpreto io il "tradimento" si riferisce al sapere che "qualcosa non va" ma non sapere nemmno cosa (concordo su questo con l'analisi del Sari). In genere è proprio forse per questa Caduta che abbiamo il "concetto" e il "desiderio" dell'Infinito: d'altronde se ne avessimo "esperienza diretta" probabilmente tali concetti e desideri non ci sarebbero nemmeno. Ma d'altronde chi parlerebbe di Dio, Infinito, Immortalità, Nirvana, Dao, Brahman, Eternità, Pace se non vedessimo nella nostra vita l'Impermanenza, la Morte, la Paura, il Flusso Inarrestabile del Tempo, il "Dao sbagliato", il Conflitto? Eraclito: "Morte è quanto vediamo stando svegli" ;) . Ma viceversa ci sarebbe d'altro canto così tanta preoccupazione con la Morte, l'Impermanenza ecc se non ci fosse alcunché che trascende queste "cose che non vanno"?
Citazione di: Sariputra il 29 Settembre 2017, 09:54:42 AM
@Sgiombo scive:
Però non ho capito al faccenda del tradimento di Dio.
Mah! forse non l'ho capita del tutto neppure io. Ho scritto infatti che mi dava l'idea dell'incubo. Come quando litighi con una persona cara...e non sai veramente perchè! ???
Forse 'tradimento' perché un tempo ci si amava e poi...abbiamo voltato le spalle? A volte nella vita si scappa anche da ciò che amiamo, non solo da ciò che odiamo...
Per questo e su questo sono assolutamente d'accordo con Green: Dio non è un oggetto e noi non siamo macchine...
P.S. attento con le "pere"...se sbagli la dose potresti risvegliarti in un bell'ospizio con attaccato un pannolone! Della serie: dalla padella nella brace! ;D
CitazioneSempre arguto, oltre che profondo!
Citazione di: Phil il 28 Settembre 2017, 23:50:11 PM
Citazione di: paul11 il 28 Settembre 2017, 18:29:38 PM
Personalmente ritengo del tutto contraddittorio pensare alla morte senza un pensiero "che chiuda il cerchio" logico razionale. [... ]Che senso avrebbe l'etica, la morale, se tutto finisce in nulla?
La genealogia, squisitamente metafisica, di questa esigenza di chiusura del cerchio, di bilanciare i due lati dell'uguale (per inaugurare un'identità dialettica letteralmente definitiva), può essere secondo me approcciata con due inclinazioni differenti: quella che vede in tale chiusura la convergenza di dovere e volere, in una sorta di "deontologia" del pensare metafisico (il cerchio deve chiudersi perché voglio che l'etica il senso della vita siano "stabilizzati" metafisicamente) e quella che invece vede in questa chiusura una contingente proiezione "estetica" delle piccole chiusure immanenti che riscontriamo nella nostra esistenza... c'è il cerchio che si chiude, e chiudendosi si "esaurisce" (lasciando però sempre qualcosa "chiuso fuori" dal suo perimetro ;) ), e il cerchio apparente che non si chiude, ma si apre dipanandosi a spirale all'esterno, e sembra poter avanzare all'infinito (d'altronde, il tempo e lo spazio possono davvero essere pensati come chiusi?).
Da dove inizierebbe tale spirale? Ciò è esattamente l'aporia fondante del pensiero umano a cui mi riferivo... in fondo, dentro e fuori dalla metafora della spirale, siamo sempre e solo noi a porci il problema di trovare la "formula aurea" di quella spirale, conferendole una stabilità eterna; sebbene tale regolarità che renderebbe quasi superfluo il tempo (sebbene non il suo scorrere) può essere solo una supposizione, non una conclusione risolutiva.
E se il famigerato "nulla" non fosse un meta-luogo dove regna la negazione dell'essere, ma semplicemente un altro modo di intendere il passato e il futuro nella temporalità a spirale?
Strano che tu che riesci a capire la logica ritieni che l'esigenza di chiudere il cerchio sia un volere o un dovere, un fatto morale. per me è logica se un una cosa è ,non può anche non essere. Se esiste viene da qualcosa e se muore non può sparire. Il problema è che c'è una cultura che ragiona con gli occhi e deve vedere e toccare per dire che possa essere vera. Ho cercato di far capire che ,almeno personalmente, la proiezione di pancia di dio, di sentimenti, di ansie, che fanno parte dell'esistenza, non è logica. I sentimenti, le morali, sono nel messaggio religioso e spirituale, ma non ne sono l'essenza logica. Non intendo dire che siano secondari, ma non si ragiona con i sentimenti o si sentimentalizzano le ragioni. La mente non è asservita agli occhi o alle mani, semmai è il contrario. Se il giudizio lo lascio alla vista e al tatto e a ciò che percepisco perdo la misura fra i domini.
Chi meglio degli animali hanno sensi migliori dei nostri: forse hanno capito meglio la natura, ma non hanno la mente.
E' strano che io credente e metafisico debba dire che cosmologicamente l'universo non è infinito e che lo spazio tempo nasce dalla interazioni delle forze: elettromagnetismo, gravità, forza nucleare debole e forza nucleare forte.
E' "monco" il pensiero che ritiene che nasciamo in uno spazio /tempo per poi svanire nel nulla.
Citazione di: paul11 il 29 Settembre 2017, 18:43:46 PM
Se esiste viene da qualcosa e se muore non può sparire.
Questa continuità la intendo proprio come la linearità che non chiude il cerchio, ma che continua a
dischiudersi "spiralmente": sappiamo che ciò che muore non sparisce e i sensi stessi ce lo dicono... se guardo una persona morta, essa è "spenta", non "sparita"; e se la fissassi per anni, la vederei mutare e decomporsi, e anche quando diventasse così volatile da essere spolverata via da una corrente d'aria, potrei supporre che si è solo frammentata, magari atomicamente, ma non è certo sparita dall'esistenza, semmai è andata solo
aldilà delle possibilità dei miei organi percettivi (ma non nell'aldilà che presuppongono i riti funebri...).
Forse, nel lutto, lo "sparire" è solo un fraintendimento emotivo del "mutare" ;)
Citazione di: paul11 il 29 Settembre 2017, 18:43:46 PM
non si ragiona con i sentimenti o si sentimentalizzano le ragioni.
Si potrebbe anche fare, sebbene, prendendo in prestito l'immagine che usavi in precedenza, non conviene fare calcoli con una monetina, così come non posso far decidere un "
aut aut" ad una calcolatrice...
Citazione di: paul11 il 29 Settembre 2017, 18:43:46 PM
E' strano che io credente e metafisico debba dire che cosmologicamente l'universo non è infinito e che lo spazio tempo nasce dalla interazioni delle forze: elettromagnetismo, gravità, forza nucleare debole e forza nucleare forte.
Eppure la logica si ribella (e anche l'idea di dio mal tollererebbe che ci fosse anche un altro infinito "concorrente" ;D ): se l'universo è finito, cosa c'è fuori dall'universo? Dov'è "contenuta" la finitudine dell'universo finito? Il problema viene così solo spostato oltre...
Domanda: in fisica si discrimina adeguatamente fra il tempo o la
misurazione spaziale del tempo? Lo chiedo davvero (e forse nemmeno per la prima volta, sarà l'età ;D ): non sono pratico di questa scienza, eppure ho il sospetto, seppur da ignorante in materia, che talvolta si confonda il "prima e dopo"
materiale (e non so se sia la parola più pertinente), con il "prima e dopo"
concettuale (che è un ordine logico)... ad esempio, se ora Tizio è qui, poi viaggia nel tempo a ritroso fino al 1500 e poi torna, l'ordine materiale non coincide con quello concettuale: materialmente, la prima traccia
cronologica di tizio è nel 1500, poi alla sua nascita, poi al momento della partenza e poi del suo ritorno; mentre, concettualmente, la prima traccia crono
logica di Tizio è alla sua nascita, poiché se non fosse nato non sarebbe potuto esistere, poi parte per il viaggio nel tempo, poi vive un po' nel 1500, poi ritorna... non so se l'esempio aiuta a spiegare cosa intendo per "tempo concettuale" vs "misurazione materiale del tempo".
Citazione di: paul11 il 29 Settembre 2017, 18:43:46 PM
E' "monco" il pensiero che ritiene che nasciamo in uno spazio /tempo per poi svanire nel nulla.
Forse più che "monco" sarebbe "magico" e anti-scientifico (termodinamicamente inesatto?). Il corpo non svanisce (muta la sua "identità"), tuttavia se postuliamo un'anima o una divinità, allora
dobbiamo (ecco la deontologia metafisica ;) ) affrontare il problema di "localizzarla" o spiegarne le vicissitudini nello spazio/tempo (ma senza poter usare le procedure gnoseologiche del dominio che si occupa dello spazio/tempo... e rieccoci all'aporia di fondo di cui sopra :) ).
Phil,
quando osserviamo un morto, vediamo un corpo fisico, privo di un principio vitale che nessuno è mai riuscito a spiegare nel dominio fisico naturale;il mistero della morte si origina fin dalla nascita, perché siamo nati fisicamente per morire fisicamente. Siamo "progettati" per finire dentro uno spazio/tempo. e pensiamo che questo spazio/tempo sia una verità perché esiste?
Al tuo esempio io direi semplicemente che noi osserviamo il sole otto minuti dopo che il suo raggio di luce è partito, tant'è che vediamo il sole tramontare otto minuti dopo che è realmente ,fisicamente sparito dall'orizzonte.
Guardalo dal punto di vista fisico astronomico quanto la percettività sensoriale fallisce tanto più usciamo dal pianeta Terra.
Noi vediamo stelle che sono già morte, ma la sua luce che viaggia per l'universo ci arriva solo ora e noi vediamo un vivo che invece è morto.
Se qualcuno ad esempio si trovasse su pianeta a duemila anni luce dal pianeta terra, potrebbero vedere con un potentissimo telescopio degli umani e la storia di duemila anni fa, se puntano bene verso la galilea vedrebbero un uomo chimato Gesù che predica alla folla. o se vuoi noi potremmo vedere persone che sono morte qui ed ora, invece ancora in vita in funzione della distanza dal nostro pianeta Più ci allontaneremmo dal nostro pianeta e più vedremmo un nastro temporale che si riavvolge, vedremmo persone e storie paesaggi scomparsi. Perchè le immagini dell'adesso qui ,viaggiano a circa 300 mila kilometri orari e arrivano con un ritardo in funzione dello spazio percorso.
E questo la dice lunga su cosa sia lo spazio/tempo, la relatività e la curva temporale in rapporto allo spazio.
Quando scrivo che le convenzioni sono " a misura d'uomo" intendo l'adattamento fisico alle pressioni temperature tempi di rotazione e rivoluzione del nostro pianeta terra. Ecco perché la fisica è a sua volta adattamento e il concetto invece non segue le regole fisiche. perchè se mi fido del mondo fisco naturale il mio linguaggio è tarato anche logicamente(perché la logica è asservita come strumento in funzione dell'osservato) per descrivere questo dominio.ma se seguo il concetto logico al di fuori del domino naturale ecco che emergono contraddizioni
Ciao Sari
sì il discorso sulla Paura. :-[ Avrei dovuto affrontarlo questa estate nel confronto con Hobbes.
Ma è veramente arduo ricavarlo, Hobbes è un cinico, e non sono nemmeno riuscito ad avvicinarmi a quella lettura.
Ma rimane il vero punto di svolta. E' il tema che mi accompagna fin da bambino.
A differenza degli altri (tutti i bambini pensano la morte in maniera assolutamente radicale, sono gli adulti che si spaventano, e anche questo è materiale clinico psicanalitico e quindi scientifico), non l'ho affatto dimenticato. Si è radicato troppo in profondità.
E la profondità gli appartiene.
Certo in qualsiasi momento facciamo "spallucce". Ne va del nostro vivere quotidiano.
Per quel che mi riguarda (e ovviamente vivendo in un cultura cattolica, ma leggendo solo testi induisti) Dio è proprio ciò che valica la morte.
Ma che sta già dentro la morte. Hai perfettamente ragione a intuirlo.
Qui non voglio fare filosofia, solo raccontare la mia esperienza.
L'esperienza limite dei miei 13 o 14 anni, quando arrivato al quarto livello di meditazione ho cominciato a percerpire gli effetti della tecnica (meditativa), ossia la completa sparizione del mio IO.
Diffido tantissimo di chi ne parla come se fosse qualcosa all'acqua di rose, qualcosa di raggiungibile.
E' l'esperienza più terrificante. Perchè si perde controllo di se stessi.
L'unica cosa che ricordo era il pensiero: "no! io voglio essere vivo."
Quando scrivi dei progetti quotidiani, della nosta routine, e della paura di perderli, mi hai evocato qualcosa della mia angoscia quotidiana.
Ma che come sempre ha evocato i fantasmi dell'inconscio.
E poi quella terribile parola: fantasma di controllo. Non è semplicemente il fatto della routine, c'è veramente qualcosa di oscuro nel depensamento del nostro essere così come siamo, così come la nostra cultura ci ha "informati".
C'è veramente qualcosa "dentro" l'angoscia.
Nel senso che è qualcosa del mito, cioè la sua radice, è rimasto.
E cosa altro non è se non il fantasma stesso. Nel senso proprio di spirito cattivo.
Mi ha sempre fatto ridere l'idea che i fantasmi esistono. Solo con la maturità ho capito quanto questi esistano nella vita reale delle persone. Nel senso che interrogati la paura radicale era proprio quella.
Nei miei vent'anni e gli studi sulla morte, mi è rimasto in mente sopratutto un libro che descriveva le necropoli.
(modo di dissipazione dell'angoscia, che poi tratterò qualche riga più sotto)
Le città dei fantasmi erano veramente delle metropoli al confronto con i villaggi dei vivi.
(a testimonianza della sproporzione tra produzione dell'angoscia di morte e produzione dei vivi)
E' impensabile che non vi sia un meccanismo dietro alla produzione umana.
E' troppo comune, questa visione.
Ma dietro i meccanismi. Vi sono i contenuti.
Dietro il controllo vi è veramente un angoscia che ha a che fare con DIO.
Non ho idea da dove ti venga questa intuzizione, ma è assolutamente visionaria, e ha prodotto una serie di eco a cascata in me.
Non te ne so neanche dire tutta la portata. Dovrei lavorarci sopra per farli emergere tutti.
vado a farlo adesso, piccolo elenco.
Il tradimento....
Il tradimento, mi porta in mente alla "trade" e in effetti in latino tradeo è commercio.
Ossia transitazione da uno stato all'altro.
Non è dunque evidente per tutto quanto scritto prima, che effettivamente noi abbiamo tradito l'angoscia in cui risiede Dio.(l'abbiamo scambiata per un pizzico di sicurezza in più ( vedi anche freud))
Ma Dio lo si percipisce tranquillamento già al terzo stadio. Quando si ha la netta sensazione di essere tutto uno con il cosmo, nel mio caso, nella mia tecnica, trattasi della fissazione con la potenza del suono.
E' nel quarto nel momento della strada del nirvana direbbe Buddha (scusa non sto leggendo il 3d sul buddismo) che arrivano i fantasmi di controllo a impedire al fantasma di Angoscia di prenderci e portarci via. (come canta anche il divino Caposella, cantautore italiano).
Il punto è che è il passo successivo, affrontare questa paura ancestrale.
D'altronde Heidegger ha cominciato la sua filosofia proprio da lì.
La filosofia è però l'analisi dei prodotti mediati dall'uomo, rispetto al confronto con il fantasma ancestrale.
Non è l'indagine del fantasma, perchè non esiste indagine sul fantasma ma sua dissipazione.
l'indagine che vado sostenendo per chi vuole vivere e non morire, è gli effetti relativi a questo fantasma.
Perchè è evidente che DIo abita la Morte e da quella trascendendola ci fa arrivare "messaggi".
Il moto degli antichi Greci era infatti "la natura (Dio) ama nascondersi".
Per loro era ovvio.
Per noi non più.
La scienza è forse il più grande metodo di dissipazione del fantasma, l'umanità proprio a partire dai greci ci ha lavorato tantissimo.
Anche a mio parere è intollerabile far fronte all'angoscia.
Per intendere Dio, e cioè per intendere la sua mediazione tramite noi umani, ci siamo completamente dimenticati di lui.
Il tradimento è il vitello d'oro, credere che il mezzo per la dissipazione dell'angoscia (il vitello) sia d'oro (sia Dio) che invece era il motivo per cui volevamo dissipare l'angoscia.
Perchè noi vogliamo vedere Dio al di là della morte. (è questo che il bambino invariabilmente si chiede).
Il lavoro verso l'origine è quello che dovrebbe garantire il senso di dissipazione delle angosce verso il futuro.
Per chi sa leggere è il leit-motiv della Filosofia.
In questi tempi BUJO PESTO la dissipazione dell'angoscia è solo relativa alla potenza umana di poterlo fare.
Io temo che si cominci a pensare che lo stesso Dio non solo abiti l'angoscia, ma sia l'angoscia stessa, il che è evidentemente, per esperienza vissuta, FALSO.
Per quanto riguarda l'incubo cito solo Montale. (per me massimo poeta dietro solo a Rilke)
Ciao Sari
sì il discorso sulla Paura. Avrei dovuto affrontarlo questa estate nel confronto con Hobbes.
Ma è veramente arduo ricavarlo, Hobbes è un cinico, e non sono nemmeno riuscito ad avvicinarmi a quella lettura.
Ma rimane il vero punto di svolta. E' il tema che mi accompagna fin da bambino.
A differenza degli altri (tutti i bambini pensano la morte in maniera assolutamente radicale, sono gli adulti che si spaventano, e anche questo è materiale clinico psicanalitico e quindi scientifico), non l'ho affatto dimenticato. Si è radicato troppo in profondità.
E la profondità gli appartiene.
Certo in qualsiasi momento facciamo "spallucce". Ne va del nostro vivere quotidiano.
Per quel che mi riguarda (e ovviamente vivendo in un cultura cattolica, ma leggendo solo testi induisti) Dio è proprio ciò che valica la morte.
Ma che sta già dentro la morte. Hai perfettamente ragione a intuirlo.
Qui non voglio fare filosofia, solo raccontare la mia esperienza.
L'esperienza limite dei miei 13 o 14 anni, quando arrivato al quarto livello di meditazione ho cominciato a percerpire gli effetti della tecnica (meditativa), ossia la completa sparizione del mio IO.
Diffido tantissimo di chi ne parla come se fosse qualcosa all'acqua di rose, qualcosa di raggiungibile.
E' l'esperienza più terrificante. Perchè si perde controllo di se stessi.
L'unica cosa che ricordo era il pensiero: "no! io voglio essere vivo."
Quando scrivi dei progetti quotidiani, della nosta routine, e della paura di perderli, mi hai evocato qualcosa della mia angoscia quotidiana.
Ma che come sempre ha evocato i fantasmi dell'inconscio.
E poi quella terribile parola: fantasma di controllo. Non è semplicemente il fatto della routine, c'è veramente qualcosa di oscuro nel depensamento del nostro essere così come siamo, così come la nostra cultura ci ha "informati".
C'è veramente qualcosa "dentro" l'angoscia.
Nel senso che è qualcosa del mito, cioè la sua radice, è rimasto.
E cosa altro non è se non il fantasma stesso. Nel senso proprio di spirito cattivo.
Mi ha sempre fatto ridere l'idea che i fantasmi esistono. Solo con la maturità ho capito quanto questi esistano nella vita reale delle persone. Nel senso che interrogati la paura radicale era proprio quella.
Nei miei vent'anni e gli studi sulla morte, mi è rimasto in mente sopratutto un libro che descriveva le necropoli.
(modo di dissipazione dell'angoscia, che poi tratterò qualche riga più sotto)
Le città dei fantasmi erano veramente delle metropoli al confronto con i villaggi dei vivi.
(a testimonianza della sproporzione tra produzione dell'angoscia di morte e produzione dei vivi)
E' impensabile che non vi sia un meccanismo dietro alla produzione umana.
E' troppo comune, questa visione.
Ma dietro i meccanismi. Vi sono i contenuti.
Dietro il controllo vi è veramente un angoscia che ha a che fare con DIO.
Non ho idea da dove ti venga questa intuzizione, ma è assolutamente visionaria, e ha prodotto una serie di eco a cascata in me.
Non te ne so neanche dire tutta la portata. Dovrei lavorarci sopra per farli emergere tutti.
vado a farlo adesso, piccolo elenco.
Il tradimento....
Il tradimento, mi porta in mente alla "trade" e in effetti in latino tradeo è commercio.
Ossia transitazione da uno stato all'altro.
Non è dunque evidente per tutto quanto scritto prima, che effettivamente noi abbiamo tradito l'angoscia in cui risiede Dio.
Ma Dio lo si percipisce tranquillamento già al terzo stadio. Quando si ha la netta sensazione di essere tutto uno con il cosmo, nel mio caso, nella mia tecnica, trattasi della fissazione con la potenza del suono.
E' nel quarto nel momento della strada del nirvana direbbe Buddha (scusa non sto leggendo il 3d sul buddismo) che arrivano i fantasmi di controllo a impedire al fantasma di Angoscia di prenderci e portarci via. (come canta anche il divino Caposella, cantautore italiano).
Il punto è che è il passo successivo, affrontare questa paura ancestrale.
D'altronde Heidegger ha cominciato la sua filosofia proprio da lì.
La filosofia è però l'analisi dei prodotti mediati dall'uomo, rispetto al confronto con il fantasma ancestrale.
Non è l'indagine del fantasma, perchè non esiste indagine sul fantasma ma sua dissipazione.
l'indagine che vado sostenendo per chi vuole vivere e non morire, è gli effetti relativi a questo fantasma.
Perchè è evidente che DIo abita la Morte e da quella trascendendola ci fa arrivare "messaggi".
Il moto degli antichi Greci era infatti "la natura (Dio) ama nascondersi".
Per loro era ovvio.
Per noi non più.
La scienza è forse il più grande metodo di dissipazione del fantasma, l'umanità proprio a partire dai greci ci ha lavorato tantissimo.
Anche a mio parere è intollerabile far fronte all'angoscia.
Per intendere Dio, e cioè per intendere la sua mediazione tramite noi umani, ci siamo completamente dimenticati di lui.
Il tradimento è il vitello d'oro, credere che il mezzo per la dissipazione dell'angoscia (il vitello) sia d'oro (sia Dio) che invece era il motivo per cui volevamo dissipare l'angoscia.
Perchè noi vogliamo vedere Dio al di là della morte. (è questo che il bambino invariabilmente si chiede).
Il lavoro verso l'origine è quello che dovrebbe garantire il senso di dissipazione delle angosce verso il futuro.
Per chi sa leggere è il leit-motiv della Filosofia.
In questi tempi BUJO PESTO la dissipazione dell'angoscia è solo relativa alla potenza umana di poterlo fare.
Io temo che si cominci a pensare che lo stesso Dio non solo abiti l'angoscia, ma sia l'angoscia stessa, il che è evidentemente, per esperienza vissuta, FALSO.
Per quanto riguarda l'incubo cito solo Montale.
Forse un mattino andando in un'aria di vetro
Forse un mattino andando in un'aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.
Poi come s'uno schermo, s'accamperanno di gitto
Alberi case colli per l'inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n'andrò zitto
Tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.
come a dire ovviamente l'incubo è reale.
intanto mi fa piacere che il topic sia decollato, e vi ringrazio, anche se so che qua non ho "alleati" a sostegno delle mie tesi
Rispondo a Sgiombo:
"Per conoscere (limitatamente, parzialmente) un ente o un evento non è necessario disporre delle nozioni della totalità delle sue possibili determinazioni, ma di almeno qualcuna sì, altrimenti non se ne sa alcunché, non lo si conosce per nulla (per definizione)."
L'intelligibilità non la intendo tanto come sinonimo di "comprensibilità", bensì come carattere dei contenuti che apprendiamo attraverso la mente, e non dai sensi corporei. Tuttavia il nesso comprensibilità-intelligibilità è un dato fondamentale per rendersi conto che riducendo la relazione gnoseologica soggetto-oggetto allo stadio della pura esperienza sensibile nessuna conoscenza del mondo sarebbe possibile, perché sono le categorie ideali, cioè intelligibili che permettono alla mente di individuare, dal flusso dei dati sensibili, delle forme distinte che poi permettono la concettualizzazione degli oggetti e la conseguente possibilità di legare tali oggetti in nessi di causa-effetto, rendendo così il mondo comprensibile. E dunque dato che tale concettualizzazione è resa possibile dalla presenza originaria in noi di un sistema di categorie (tra cui rientrano ad esempio la nozione di "causalità" e di "unità"), questo sistema non potrebbe essere il derivato da alcuna dialettica di concetti precedentemente assunti, dato che ogni concettualizzazione la presuppone.
"Non è vero che "La conoscenza implica sempre l'adeguatezza del soggetto alla natura dell'oggetto";per esempio un soggetto del tutto incapace di nuotare può benissimo avere una più che adeguata comprensione del concetto di "nuoto" o uno che non abbia mai ballato può benissimo avere una più che adeguata comprensione del concetto di "walzer" o di "tango"; nessun critico d' arte che io sappia sa scolpire, ovvero è minimamente "adeguato alla natura delle sculture", ma ciò non impedisce loro di parlare a ragion veduta dei bronzi di Riace o del Mosè di Michelangelo. La conoscenza (teorica), ben diversa dall' operare pratico, non implica necessariamente la capacità pratica di realizzare ciò che si conosce (teoricamente; avverbio pleonastico)."
Io non so nuotare e di fatto non conosco la tecnica adeguata per saper nuotare, se la conoscessi, magari dopo averla imparata con delle lezioni, potrei applicarla e nuotare. Ciò che posso sapere del nuoto è qualcosa di generico, come il significato del concetto di "nuotare", ma questa conoscenza generica può solo limitarsi a farmi riconoscere cosa intende dirmi qualcuno se mi dice: "ieri mi son fatto una bella nuotata", cioè so che intende dire di aver attraversato un certo corso d'acqua. Lo stesso dicasi del ballo, in ogni caso ogni livello di conoscenza di una certa cosa coincide con un certo "rendersi simile" all'oggetto. Lo stesso critico d'arte, per quel che ne so, non si occupa delle tecniche di creazione artistica, non è tenuto a conoscerle nel dettaglio, quindi non ha bisogno di essere a sua volta un artista. Il suo lavoro consiste in un'ermeneutica del prodotto finito, un'analisi dei dettagli estetici dell'opera finita che li riconduce alle idee, le intenzioni, le influenze dell'artista, riuscendo così a coglierne il senso. Per far questo il sapere di cui ha bisogno è essenzialmente dato dalla ricostruzione del periodo storico in cui l'opera è stata compiuta, il contesto sociale, culturale, politico, la biografia dell'autore... mentre può sorvolare (fino a un certo punto) sui dettagli tecnici della fabbricazione dell'opera. Il critico d'arte non è un restauratore. Sinceramente ce li vedo poco Sgarbi (laureato in filosofia) o Bonito Oliva come esperti dei processi chimici di conservazione degli affreschi o delle pitture a tempera... Anche qua emerge che la pratica altro non è che applicazione performativa della teoria, e ciò conferma il principio di corrispondenza del soggetto con l'oggetto nella conoscenza: ogni pratica presuppone sempre un adeguarsi del soggetto alla natura dell'oggetto per manipolarlo sulla base dei propri fini, e l'adeguazione presuppone la conoscenza della realtà oggettiva, cosicché la conoscenza teorica di un soggetto nei confronti di un oggetto viaggia parallela rispetto al "farsi simile" del soggetto all'oggetto che conosce, per potervicisi adeguare e dunque agire su di esso pragmaticamente.
"Prova a convincere un neonato o anche solo un bambino di tre anni che sa parlare di rendersi conto che conosce i concetti di cui sopra ma semplicemente non ci sta facendo caso; ovviamente non: insegnandogli a posteriori quale ne sia il significato, ma solo dicendogli di fare bere attenzione a ciò che, sia pure un po' distrattamente, di già conosce, ha già in mente (sia pure in uno stato di "ombra provvisoria", ma non per questo interiormente assenti); dicendogli. "pensaci bene!", come quando si cerca di fargli ricordare qualcosa che conosce ma al momento non riesce a rammentare, per esempio dove ha appoggiato il cappello che attualmente non si trova.
Al concetto di "infinito" (e a tutti gli altri), dopo che lo si è acquisito a posteriori, non si fa caso se, per esempio, si sta guidando in un traffico intenso e convulso che richiede grande attenzione e concentrazione nella conduzione del proprio veicolo; ma basta fermarsi e fare attenzione a ciò che si sa (avendolo imparato a posteriori), ai propri ricordi in proposito, per richiamarlo prontamente alla mente cosciente; se invece non lo si è previamente imparato a posteriori, allora non c' è attenzionamento, "spremitura delle meningi", per quanto poderosa, che tenga: non lo si ricorda. Se prima qualcuno non ce lo ha insegnato o non vi siamo arrivati autonomamente per astrazioni dalla e ragionamenti sulla nostra precedente esperienza (a posteriori!) non c' è alcun modo di rendersi conto di conoscerlo.
La cosiddetta "maieutica socratica" che sarebbe in azione nei dialoghi di Platone in realtà non consiste affatto nel prestare attenzione a cose di già conosciute ma momentaneamente trascurate perché "non ci si fa caso", magari in quanto si sta pensando ad altro; è invece una forma di "insegnamento didatticamente non passivo" (cioè non di nozioni trasmesse verbalmente in quanto "già confezionate"), di "guida didatticamente attiva" all' elaborazione "in prima persona" a posteriori di nozioni e concetti attraverso il ragionamento su concetti astratti a partire da sensazioni particolari concrete (un far "ripercorrere" al discente il "cammino" dell' elaborazione dei concetti più astratti e "lontani" dall' esperienza quotidiana, anziché presentarglieli così come sono stati già in precedenza elaborati -sempre a posteriori- da altri prima di lui).
Ogni volta che "ci capita, anche attraverso un richiamo sensibile esterno, di sentire riemergere alla nostra attenzione un problema, un'idea che avevamo dimenticato, o creduto di aver rimosso completamente", allora contemporaneamente al "sovvenire" di tale idea, al rammentarla, all' esserne attualmente coscienti, inevitabilmente siamo coscienti anche del fatto che già la sapevamo, che già altre volte l' avevamo pensata: la "riconosciamo", non la "conosciamo"!
Non così quando leggendo un libro di filosofia o banalmente un vocabolario veniamo a conoscenza (per la prima volta: la conosciamo; e non: la riconosciamo) di un' idea (fosse pure quella di "infinito", di "Dio", di "nulla", ecc.); oppure quando qualcuno "con (pretesa) socratica maieutica" ci fa ripercorre il "cammino mentale", che a partire dai dati particolari concreti della nostra esperienza conduce all' elaborazione (a posteriori!) di essa: in questi casi ci rendiamo ben conto della novità di tale conoscenza, del fatto che essa è stata acquisita "ex novo" e (direttamente in prima persona o indirettamente per trasmissione linguistica da parte di altri) a partire da "stimoli esterni" (e da astrazioni, ragionamenti) a posteriori."
Il discorso delle rimemorazioni voleva essere un'esemplificazione della non coincidenza fra il raggio degli oggetti sottoposti alla nostra attenzione "attuale", il "rendersi conto" pienamente riflesso, e la totalità dei contenuti interiori della nostra mente, dell'idea per cui non sempre il "rendersi conto" produce dal nulla i suoi contenuti nel momento a-posteriori in cui si pone in atto. Non mi sfugge la differenza tra un procedimento a ritroso che consentirebbe di recuperare all'attenzione delle nozioni già presenti in noi ma comunque derivate da un'esperienza esterna ed un far riemergere contenuti davvero innati. Ma il punto è che per legittimare una posizione innatista (o "apriorista" come sarebbe preferibile dire dato che "innato" rimanda troppo all'idea di nascita, quindi ad un piano biologico di genetica, ereditarietà, riconducibile ad un'impostazione naturalista, certamente interessante e importante, ma che rischia di portarci troppo fuori dal piano strettamente filosofico-trascendentale), non c'è alcun bisogno di negare la necessità dell'esperienza sensibile per la formazione di ogni concetto: perché sia legittimata basta che tale esperienza esterna, pur necessaria, sia riconosciuta come insufficiente alla formazione di certi concetti. Non ho mai negato la necessità dello stimolo esterno, e non mi illudo di poter portare un bambino di 3 anni a fargli pensare a un'idea di infinito o di noumeno semplicemente spingendolo a prestare più attenzione. Ciò sarebbe impossibile, in assenza del raggiungimento della fase di uno sviluppo scandito da eventi esterni che formano le facoltà cognitive astrattive, come l'insegnamento scolastico, ma il punto è che lo "sviluppo" non va visto come creazione dal nullo, ma progressiva attualizzazione di strutture latenti, comunque già presenti in noi. Quando dico che l'esperienza esterna è un' "occasione" per il rinvenimento di nozioni latenti in profondità mica la voglio squalificare o denigrare... ne ammetto la necessità, ma anche l'insufficienza, perché se l'apprendimento esterno fosse sufficiente allora, qua mi ricollego all'osservazione di Paul 11, allora dovremmo porci il problema sul perché un animale non potrebbe raggiungere, a parità di stimolo esterno, gli stessi livelli di sviluppo di una persona. L'unica soluzione è ammettere nella persona un'interiorità distinta da quella degli animali che le consente di non limitarsi ad assorbire passivamente e meccanicamente lo stimolo sensibile, ma a trasformarlo in concetto, oltre che a elaborare idee non identificabili con oggetti dell'esperienza esterna, esperienza che li risveglia in noi ma senza crearli. La pura passività dall'esterno, l'idea della "tabula rasa" sarebbe ammissibile solo presupponendo che a parità di stimolo qualunque soggetto risponda necessariamente allo stesso modo, così non è. Lo stesso concetto di "guida didatticamente attiva" credo testimoni tutto ciò: L'attività è la condizione in cui un soggetto attivo interviene su un oggetto portando qualcosa di sé su di esso, svolge un'attività in un certo modo performativa, foss'anche a livello psichico nel far riafforare, seppur esternamente supportato, alcuni contenuti latenti. Una tabula rasa nella sua vuotezza non potrebbe essere in alcun modo soggetto attivo, anche se non autosufficiente, pura indeterminatezza.
Per Phil
la differenza fondamentale tra l'ammissione di contenuti ideale innati latenti nei livelli profondi della psiche e la pretesa che gli altri credano che ho un pappagallo invisibile sulla spalla consiste nel fatto che mentre l'idea del pappagallo invisibile, pur di per sé infalsificabile, non ha nemmeno alcuna ragione di essere creduta, per il semplice motivo che è una credenza del tutto inutile a risolvere dei problemi teoretici riguardo la realtà: Se conoscere vuol dire "conoscere le cause", allora il pappagallo invisibile è totalmente inutile all'ampliamento della conoscenza razionale del mondo, in quanto pur teoricamente non impossibile, non risolve alcuna questione, non risponde ad alcuna possibile domanda. Non è irrazionale, ma è certamente a-razionale. Diversa è la questione delle idee latenti innatamente. Tale idea di latenza trae una sua razionalità dall'essere una possibile soluzione ad una ben sensata questione gnoseologica: l'origine delle idee dal contenuto intelligibile che non troverebbe adeguazione nei contenuti sensibili dell'esperienza a-posteriori. Se l'esperienza esteriore appare, pur necessaria, insufficiente a produrre in noi contenuti qualitativamente distinti da quelli sensibili, cioè le qualità intelligibili, allora occorrerà rivolgersi all'interno. Messe così le cose non si può dire che la tesi innatista sia infalsificabile in assoluto: sarebbe falsificabile nel momento in cui si riuscisse a dimostrare che l'esperienza sensibile fosse condizione non solo necessaria ma anche sufficiente della forma di tutti i concetti (sensibili e intelligibili), e del contenuto di quelli intelligibili, e questo, nonostante le varie obiezioni, non lo vedo dimostrato, almeno per il momento
Citazione di: davintro il 06 Ottobre 2017, 20:04:39 PM
la differenza fondamentale tra l'ammissione di contenuti ideale innati latenti nei livelli profondi della psiche e la pretesa che gli altri credano che ho un pappagallo invisibile sulla spalla consiste nel fatto che mentre l'idea del pappagallo invisibile, pur di per sé infalsificabile, non ha nemmeno alcuna ragione di essere creduta, per il semplice motivo che è una credenza del tutto inutile a risolvere dei problemi teoretici riguardo la realtà: Se conoscere vuol dire "conoscere le cause", allora il pappagallo invisibile è totalmente inutile all'ampliamento della conoscenza razionale del mondo, in quanto pur teoricamente non impossibile, non risolve alcuna questione, non risponde ad alcuna possibile domanda.
L'esempio era volutamente giocoso e surreale, eppure, a ben vedere, non è che fra l'idea del pappagallo e l'idea di anima ci sia troppa differenza, sia per indimostrabilità che per "utilità teoretica"... ;)
Citazione di: davintro il 06 Ottobre 2017, 20:04:39 PM
l'origine delle idee dal contenuto intelligibile che non troverebbe adeguazione nei contenuti sensibili dell'esperienza a-posteriori. Se l'esperienza esteriore appare, pur necessaria, insufficiente a produrre in noi contenuti qualitativamente distinti da quelli sensibili, cioè le qualità intelligibili, allora occorrerà rivolgersi all'interno.
Si; tuttavia direi meglio se ad un interno verificabile...
Citazione di: davintro il 06 Ottobre 2017, 20:04:39 PM
Messe così le cose non si può dire che la tesi innatista sia infalsificabile in assoluto: sarebbe falsificabile nel momento in cui si riuscisse a dimostrare che l'esperienza sensibile fosse condizione non solo necessaria ma anche sufficiente della forma di tutti i concetti (sensibili e intelligibili), e del contenuto di quelli intelligibili, e questo, nonostante le varie obiezioni, non lo vedo dimostrato, almeno per il momento
Secondo me, la capacità di astrarre sta proprio in questa produzione di concetti intelligibili ispirati (ma eccedenti per grado) al sensibile; così come, ad esempio, la negazione (operazione logica) del finito (sensibile) produce il concetto di in-finito (non-sensibile); e tirerei anche il ballo la comunicazione simbolica dei nostri simili, l'impatto culturale e la narrazione ricevuta (la stessa che ci consente di parlare di "idee innate" ;) ).
Se si crede in questi fattori (cognitivi, logici e culturali), l'innatismo delle idee non è più necessario; se poi queste spiegazioni non vengono ritenute adeguatamente falsificanti l'innatismo, allora certo che resta una posizione più che plausibile :)
Citazione di: davintro il 06 Ottobre 2017, 20:04:39 PM
L'intelligibilità non la intendo tanto come sinonimo di "comprensibilità", bensì come carattere dei contenuti che apprendiamo attraverso la mente, e non dai sensi corporei. Tuttavia il nesso comprensibilità-intelligibilità è un dato fondamentale per rendersi conto che riducendo la relazione gnoseologica soggetto-oggetto allo stadio della pura esperienza sensibile nessuna conoscenza del mondo sarebbe possibile, perché sono le categorie ideali, cioè intelligibili che permettono alla mente di individuare, dal flusso dei dati sensibili, delle forme distinte che poi permettono la concettualizzazione degli oggetti e la conseguente possibilità di legare tali oggetti in nessi di causa-effetto, rendendo così il mondo comprensibile. E dunque dato che tale concettualizzazione è resa possibile dalla presenza originaria in noi di un sistema di categorie (tra cui rientrano ad esempio la nozione di "causalità" e di "unità"), questo sistema non potrebbe essere il derivato da alcuna dialettica di concetti precedentemente assunti, dato che ogni concettualizzazione la presuppone.
CitazioneMa non ho mai sostenuto che la conoscenza sia riducibile alla sola esperienza sensibile.
Ho invece sempre negato (ma qui non ripeto le argomentazioni già in precedenza esposte) che ogni concettualizzazione è resa possibile dalla presenza originaria in noi di un sistema di categorie (tra cui rientrano ad esempio la nozione di "causalità" e di "unità"), questo sistema non potrebbe essere il derivato da alcuna dialettica di concetti precedentemente assunti, dato che ogni concettualizzazione la presuppone.
Per me ogni concettualizzazione presuppone invece (di reale, realmente in atto e non meramente potenziale) solo la capacità di concettualizzare, l' "intelligenza" necessaria a farlo.
"Non è vero che "La conoscenza implica sempre l'adeguatezza del soggetto alla natura dell'oggetto";per esempio un soggetto del tutto incapace di nuotare può benissimo avere una più che adeguata comprensione del concetto di "nuoto" o uno che non abbia mai ballato può benissimo avere una più che adeguata comprensione del concetto di "walzer" o di "tango"; nessun critico d' arte che io sappia sa scolpire, ovvero è minimamente "adeguato alla natura delle sculture", ma ciò non impedisce loro di parlare a ragion veduta dei bronzi di Riace o del Mosè di Michelangelo. La conoscenza (teorica), ben diversa dall' operare pratico, non implica necessariamente la capacità pratica di realizzare ciò che si conosce (teoricamente; avverbio pleonastico)."
Io non so nuotare e di fatto non conosco la tecnica adeguata per saper nuotare, se la conoscessi, magari dopo averla imparata con delle lezioni, potrei applicarla e nuotare. Ciò che posso sapere del nuoto è qualcosa di generico, come il significato del concetto di "nuotare", ma questa conoscenza generica può solo limitarsi a farmi riconoscere cosa intende dirmi qualcuno se mi dice: "ieri mi son fatto una bella nuotata", cioè so che intende dire di aver attraversato un certo corso d'acqua. Lo stesso dicasi del ballo, in ogni caso ogni livello di conoscenza di una certa cosa coincide con un certo "rendersi simile" all'oggetto. Lo stesso critico d'arte, per quel che ne so, non si occupa delle tecniche di creazione artistica, non è tenuto a conoscerle nel dettaglio, quindi non ha bisogno di essere a sua volta un artista. Il suo lavoro consiste in un'ermeneutica del prodotto finito, un'analisi dei dettagli estetici dell'opera finita che li riconduce alle idee, le intenzioni, le influenze dell'artista, riuscendo così a coglierne il senso. Per far questo il sapere di cui ha bisogno è essenzialmente dato dalla ricostruzione del periodo storico in cui l'opera è stata compiuta, il contesto sociale, culturale, politico, la biografia dell'autore... mentre può sorvolare (fino a un certo punto) sui dettagli tecnici della fabbricazione dell'opera. Il critico d'arte non è un restauratore. Sinceramente ce li vedo poco Sgarbi (laureato in filosofia) o Bonito Oliva come esperti dei processi chimici di conservazione degli affreschi o delle pitture a tempera...
CitazioneErgo, Non è vero che "La conoscenza implica sempre l'adeguatezza del soggetto alla natura dell'oggetto".
Anche qua emerge che la pratica altro non è che applicazione performativa della teoria, e ciò conferma il principio di corrispondenza del soggetto con l'oggetto nella conoscenza: ogni pratica presuppone sempre un adeguarsi del soggetto alla natura dell'oggetto per manipolarlo sulla base dei propri fini, e l'adeguazione presuppone la conoscenza della realtà oggettiva, cosicché la conoscenza teorica di un soggetto nei confronti di un oggetto viaggia parallela rispetto al "farsi simile" del soggetto all'oggetto che conosce, per potervicisi adeguare e dunque agire su di esso pragmaticamente.
CitazioneNon mi sembra che la conclusione "principio di corrispondenza del soggetto con l'oggetto nella conoscenza" consegua dalla premessa "la pratica altro non è che applicazione performativa della teoria".
Il discorso delle rimemorazioni voleva essere un'esemplificazione della non coincidenza fra il raggio degli oggetti sottoposti alla nostra attenzione "attuale", il "rendersi conto" pienamente riflesso, e la totalità dei contenuti interiori della nostra mente, dell'idea per cui non sempre il "rendersi conto" produce dal nulla i suoi contenuti nel momento a-posteriori in cui si pone in atto. Non mi sfugge la differenza tra un procedimento a ritroso che consentirebbe di recuperare all'attenzione delle nozioni già presenti in noi ma comunque derivate da un'esperienza esterna ed un far riemergere contenuti davvero innati. Ma il punto è che per legittimare una posizione innatista (o "apriorista" come sarebbe preferibile dire dato che "innato" rimanda troppo all'idea di nascita, quindi ad un piano biologico di genetica, ereditarietà, riconducibile ad un'impostazione naturalista, certamente interessante e importante, ma che rischia di portarci troppo fuori dal piano strettamente filosofico-trascendentale), non c'è alcun bisogno di negare la necessità dell'esperienza sensibile per la formazione di ogni concetto: perché sia legittimata basta che tale esperienza esterna, pur necessaria, sia riconosciuta come insufficiente alla formazione di certi concetti. Non ho mai negato la necessità dello stimolo esterno, e non mi illudo di poter portare un bambino di 3 anni a fargli pensare a un'idea di infinito o di noumeno semplicemente spingendolo a prestare più attenzione. Ciò sarebbe impossibile, in assenza del raggiungimento della fase di uno sviluppo scandito da eventi esterni che formano le facoltà cognitive astrattive, come l'insegnamento scolastico, ma il punto è che lo "sviluppo" non va visto come creazione dal nullo, ma progressiva attualizzazione di strutture latenti, comunque già presenti in noi. Quando dico che l'esperienza esterna è un' "occasione" per il rinvenimento di nozioni latenti in profondità mica la voglio squalificare o denigrare... ne ammetto la necessità, ma anche l'insufficienza, perché se l'apprendimento esterno fosse sufficiente allora, qua mi ricollego all'osservazione di Paul 11, allora dovremmo porci il problema sul perché un animale non potrebbe raggiungere, a parità di stimolo esterno, gli stessi livelli di sviluppo di una persona. L'unica soluzione è ammettere nella persona un'interiorità distinta da quella degli animali che le consente di non limitarsi ad assorbire passivamente e meccanicamente lo stimolo sensibile, ma a trasformarlo in concetto, oltre che a elaborare idee non identificabili con oggetti dell'esperienza esterna, esperienza che li risveglia in noi ma senza crearli. La pura passività dall'esterno, l'idea della "tabula rasa" sarebbe ammissibile solo presupponendo che a parità di stimolo qualunque soggetto risponda necessariamente allo stesso modo, così non è. Lo stesso concetto di "guida didatticamente attiva" credo testimoni tutto ciò: L'attività è la condizione in cui un soggetto attivo interviene su un oggetto portando qualcosa di sé su di esso, svolge un'attività in un certo modo performativa, foss'anche a livello psichico nel far riafforare, seppur esternamente supportato, alcuni contenuti latenti. Una tabula rasa nella sua vuotezza non potrebbe essere in alcun modo soggetto attivo, anche se non autosufficiente, pura indeterminatezza.
CitazioneMa per sostenere una tesi "aprioristica" della conoscenza non basta che si ammetta la necessità dell'esperienza sensibile per la formazione di ogni concetto; perché sia legittimata occorre anche che tale esperienza esterna, pur necessaria, sia dimostrata come insufficiente alla formazione di certi concetti.
Ma a me sembra di aver dimostrato che é sufficiente; oltre ovviamente alla capacità di ragionare sull' esperienza esterna (a posteriori) stessa (che metaforicamente é costituita dal materiale di cui é fatta e dalle caratteristiche fisiche che sono proprie della "tabula rasa" degli empiristi).
Non ho mai sostenuto che lo "sviluppo" delle conoscenze umane sia una creazione dal nullo; ma ho sempre affermato che esso é progressiva attualizzazione di potenziali capacità intellettive (e non affatto di conoscenze aprioristicamente) già presenti in noi (non di strutture latenti intese come nozioni a priori, ma come mere potenzialità, capacità sviluppabili di ragionare).
Un animale (non umano) non potrebbe raggiungere, a parità di stimolo esterno, gli stessi livelli di sviluppo di una persona umana per il semplice fatto che é molto meno intelligente, ha capacità di astrarre, confrontare, collegare, ecc. i dati di esperienza (a posteriori) di gran lunga minori.
In questo consiste nella persona un' interiorità distinta da quella degli animali che le consente di non limitarsi ad assorbire passivamente e meccanicamente lo stimolo sensibile, ma a trasformarlo in concetto, oltre che a elaborare idee non identificabili con oggetti dell'esperienza esterna, esperienza che non li risveglia in noi, né li crea, ma invece consente alle nostre capacità "interiori" intellettive di, per così dire crearli, o meglio ricavarli, elaborarli a posteriori, a partire dall' esperienza.
Per continuare con la metafora della tabula rasa, ricaviamo (attivamente ragionando sull' esperienza, e non certo "passivamente"!) diverse credenze e conoscenze gli uni dagli altri sia (secondo me soprattutto) perché le esperienze di due persone umane non sono mai perfettamente identiche (ovvero sono sempre in qualche misura diverse), sia perché "il materiale" di cui é fatta la tabula rasa di ciascuna persona umana e "le sue caratteristiche fisiche" sono in qualche (secondo me assai limitata!) misura diverse da quelle dalle tabulae rasae di tutte le altre persone umane (soprattutto per diversi fatti intervenuti durante lo sviluppo fisiologico, e poi anche intellettuale, mentale di ciascuno non per cause genetiche, se non in casi decisamente patologici).
Attività che mi pare di aver dimostrato comunque non consista affatto nel far riaffiorare, seppur esternamente supportato, alcuni contenuti (di conoscenza, alcuna nozione, alcun effettivo, reale sapere) latenti.
A parte il fatto che una metafora non é mai una descrizione "perfetta", per filo e per segno di ciò cui allude (non sarebbe più una metafora ma invece una esposizione letterale), ribadisco che il materiale di cui é fatta la tavola, le sua caratteristiche fisiche condizionano "attivamente" le possibilità che l' esperienza (a posteriori) vi scriva certe credenze e certe conoscenze e non certe altre.
Per Phil
la differenza fondamentale tra l'ammissione di contenuti ideale innati latenti nei livelli profondi della psiche e la pretesa che gli altri credano che ho un pappagallo invisibile sulla spalla consiste nel fatto che mentre l'idea del pappagallo invisibile, pur di per sé infalsificabile, non ha nemmeno alcuna ragione di essere creduta, per il semplice motivo che è una credenza del tutto inutile a risolvere dei problemi teoretici riguardo la realtà: Se conoscere vuol dire "conoscere le cause", allora il pappagallo invisibile è totalmente inutile all'ampliamento della conoscenza razionale del mondo, in quanto pur teoricamente non impossibile, non risolve alcuna questione, non risponde ad alcuna possibile domanda. Non è irrazionale, ma è certamente a-razionale. Diversa è la questione delle idee latenti innatamente. Tale idea di latenza trae una sua razionalità dall'essere una possibile soluzione ad una ben sensata questione gnoseologica: l'origine delle idee dal contenuto intelligibile che non troverebbe adeguazione nei contenuti sensibili dell'esperienza a-posteriori. Se l'esperienza esteriore appare, pur necessaria, insufficiente a produrre in noi contenuti qualitativamente distinti da quelli sensibili, cioè le qualità intelligibili, allora occorrerà rivolgersi all'interno.
CitazioneE qui basterà trovarci l' intelligenza umana.
Messe così le cose non si può dire che la tesi innatista sia infalsificabile in assoluto: sarebbe falsificabile nel momento in cui si riuscisse a dimostrare che l'esperienza sensibile fosse condizione non solo necessaria ma anche sufficiente della forma di tutti i concetti (sensibili e intelligibili), e del contenuto di quelli intelligibili, e questo, nonostante le varie obiezioni, non lo vedo dimostrato, almeno per il momento
CitazioneEd é falsificata (oltre che quanto già da me in precedenza argomentato) dal fatto che all'interno di noi le nostre capacità intellettive colmano egregiamente l' insufficienza dell' esperienza a produrre in noi contenuti qualitativamente distinti da quelli sensibili, cioè le qualità intelligibili.
Citazione di: Phil il 06 Ottobre 2017, 20:43:04 PM
Citazione di: davintro il 06 Ottobre 2017, 20:04:39 PMla differenza fondamentale tra l'ammissione di contenuti ideale innati latenti nei livelli profondi della psiche e la pretesa che gli altri credano che ho un pappagallo invisibile sulla spalla consiste nel fatto che mentre l'idea del pappagallo invisibile, pur di per sé infalsificabile, non ha nemmeno alcuna ragione di essere creduta, per il semplice motivo che è una credenza del tutto inutile a risolvere dei problemi teoretici riguardo la realtà: Se conoscere vuol dire "conoscere le cause", allora il pappagallo invisibile è totalmente inutile all'ampliamento della conoscenza razionale del mondo, in quanto pur teoricamente non impossibile, non risolve alcuna questione, non risponde ad alcuna possibile domanda.
L'esempio era volutamente giocoso e surreale, eppure, a ben vedere, non è che fra l'idea del pappagallo e l'idea di anima ci sia troppa differenza, sia per indimostrabilità che per "utilità teoretica"... ;)
Citazione di: davintro il 06 Ottobre 2017, 20:04:39 PMl'origine delle idee dal contenuto intelligibile che non troverebbe adeguazione nei contenuti sensibili dell'esperienza a-posteriori. Se l'esperienza esteriore appare, pur necessaria, insufficiente a produrre in noi contenuti qualitativamente distinti da quelli sensibili, cioè le qualità intelligibili, allora occorrerà rivolgersi all'interno.
Si; tuttavia direi meglio se ad un interno verificabile...
Citazione di: davintro il 06 Ottobre 2017, 20:04:39 PMMesse così le cose non si può dire che la tesi innatista sia infalsificabile in assoluto: sarebbe falsificabile nel momento in cui si riuscisse a dimostrare che l'esperienza sensibile fosse condizione non solo necessaria ma anche sufficiente della forma di tutti i concetti (sensibili e intelligibili), e del contenuto di quelli intelligibili, e questo, nonostante le varie obiezioni, non lo vedo dimostrato, almeno per il momento
Secondo me, la capacità di astrarre sta proprio in questa produzione di concetti intelligibili ispirati (ma eccedenti per grado) al sensibile; così come, ad esempio, la negazione (operazione logica) del finito (sensibile) produce il concetto di in-finito (non-sensibile); e tirerei anche il ballo la comunicazione simbolica dei nostri simili, l'impatto culturale e la narrazione ricevuta (la stessa che ci consente di parlare di "idee innate" ;) ). Se si crede in questi fattori (cognitivi, logici e culturali), l'innatismo delle idee non è più necessario; se poi queste spiegazioni non vengono ritenute adeguatamente falsificanti l'innatismo, allora certo che resta una posizione più che plausibile :)
Tutto dipende da cosa si intende per "anima": se la si concepisce come sostanza spirituale del tutto separata e slegata dalla materia, allora si avrebbe ragione nel pensare che ammetterne l'esistenza, pur non essendo illogico, sarebbe del tutto demotivato dal punto di vista argomentativo. Ciò in quanto l'assoluta separazione anima-corpo condurrebbe la prima alla totale esclusione della prima, dal complesso dei legami causa-effetto che costituiscono la realtà considerata sul piano della razionalità. Se argomentare razionalmente la presenza di un ente vuol dire porlo come principio causale per rispondere a dei "perché", allora l'isolamento dell'anima dai rapporti causali con il resto degli enti ne determinerebbe l'irrilevanza esplicativa delle varie questioni teoretiche sulla realtà, in parole povere la non-razionalità, la non-necessità di legittimare razionalmente la sua esistenza. Lo stesso Cartesio provò maldestramente a correggere il suo radicale dualismo sostanzialista res cogitans-res extensa cercando nella ghiandola pienale una sorta di medium tra le due sostanze. Suppongo, una mia modesta interpretazione, si fosse reso conto che la totale separazione avrebbe reso impossibile qualunque spiegazione razionale dei fenomeni psicofisici costituenti l'unità della persona, in quanto anima e corpo, in assenza di qualunque punto di contatto, sarebbero slegati da ogni interconnessione causale. Accanto a tale concezione c'è però quella classica, soprattutto aristolelica, per cui l'anima non è sostanza separata dal corpo, ma forma immanente ad esso, e questa immanenza (non identità), le restituisce una ragion d'essere come causa formale della materia, principio che attribuisce un senso determinato e delimitato alla materia, costituendola come corpo vivente, "animato" appunto. In questa concezione l'anima torna ad essere concetto dalla dignità razionale, in quanto la sua presenza risponde a una decisiva questione, la ragion d'essere della differenza fra materia inanimata e materia vivente, nonché, grazie alle varie tipologie di "anima" (razionale, sensitiva, vegetativa), delle diverse configurazioni interne agli esseri viventi, le persone rispetto agli animali, gli animali rispetto alle piante... L'impressione personale è che per chi sostiene pregiudizialmente una visione materialista e scientista della realtà (non mi riferisco a Phil o a nessun altro in particolare, ma ad un generale "sentire comune") faccia molto comodo ritagliarsi un "nemico" su misura, facile da sconfiggere, uno spiritualismo della prima concezione, uno spirito del tutto scisso dal complesso della realtà fenomeno d'esperienza, da ogni nesso di causalità, che avrebbe la stessa legittimità razionale del pappagallo invisibile, la cui presenza potrebbe essere testimoniata solo per atto di fede, o che potrebbe manifestarsi non come principio sistematicamente presente, ma come saltuario fenomeno emergente in sedute spiritiche, evocato da santoni, medium, ciarlatani. Uno spiritualismo, che è solo la parodia di se stesso, perché lo spiritualismo autentico, frutto di una solida tradizione metafisica speculativa razionale, potrebbe creare ben più grattacapi ai materialisti.
Certamente l'interno va verificato, ma perché sia davvero "interno" il modo di verificazione non può essere lo stesso dall'esterno, perché altrimenti i risultati non potrebbero divergere rispetto a quelli dell'esperienza esterna, e il metodo d'indagine non potrebbe essere adeguato a cogliere un ambito del reale, l'interiorità, confondendola con l'esteriorità, proprio quella realtà che si era rivelata insufficiente per rispondere a quelle domande, che poi appunto ci hanno portato a rivolgere l'attenzione all'interno. La presenza di nozioni originarie alla nostra mente è ricavabile, a mio avviso, all'interno di una gnoseologia in cui il meccanismo conoscitivo viene considerato astraendo dalle circostanze storiche-fattuali in cui si attua, per considerarlo nella sua essenza, cioè dotato di strutture aprioristiche che reggono la possibilità del processo, e che in quanto aprioristiche sono anche originarie. Escludere la presenza di tali nozioni originarie in quanto non riconoscibili da un modello di ricerca verificazionista valido per la verificazione dell'esperienza esterna (induttivo e osservativo-sensibile) vorrebbe dire dare pregiudizialmente per scontato che l'unico metodo di ricerca razionalmente valido sia di questo tipo, mentre un'affermazione di questo genere sarebbe proprio la tesi che l'antiinnatismo dovrebbe essere chiamato a dimostrare, in quanto presupporrebbe che un'esperienza interiore autonoma da quella esteriore sarebbe impossibile per assenza di contenuti propri: in pratica nel negare concetti innati in quanto non ricavabili dalla verificazione esterna sensibile e nel pensare tale tipo di verificazione come l'unica possibile vuol dire cadere in un circolo vizioso argomentativo
Citazione di: davintro il 13 Ottobre 2017, 01:58:54 AM
l negare concetti innati in quanto non ricavabili dalla verificazione esterna sensibile e nel pensare tale tipo di verificazione come l'unica possibile vuol dire cadere in un circolo vizioso argomentativo
Ma non negarli in quanto non ricavabili dalla verificazione interna.
Citazione di: davintro il 13 Ottobre 2017, 01:58:54 AM
Accanto a tale concezione c'è però quella classica, soprattutto aristolelica, per cui l'anima non è sostanza separata dal corpo, ma forma immanente ad esso, e questa immanenza (non identità), le restituisce una ragion d'essere come causa formale della materia, principio che attribuisce un senso determinato e delimitato alla materia
La "causa formale" dell'uomo, attualizzando la terminologia aristotelica, credo sia la genetica (che è infatti sostanziale: Dna, geni, etc.), anche se il buon Aristotele non poteva certo saperlo ;D
Citazione di: davintro il 13 Ottobre 2017, 01:58:54 AM
In questa concezione l'anima torna ad essere concetto dalla dignità razionale, in quanto la sua presenza risponde a una decisiva questione, la ragion d'essere della differenza fra materia inanimata e materia vivente, nonché, grazie alle varie tipologie di "anima" (razionale, sensitiva, vegetativa), delle diverse configurazioni interne agli esseri viventi, le persone rispetto agli animali, gli animali rispetto alle piante...
L'anima come spiegazione della vita è un classico intramontabile e... infalsificabile ;)
Citazione di: davintro il 13 Ottobre 2017, 01:58:54 AM
Escludere la presenza di tali nozioni originarie in quanto non riconoscibili da un modello di ricerca verificazionista valido per la verificazione dell'esperienza esterna (induttivo e osservativo-sensibile) vorrebbe dire dare pregiudizialmente per scontato che l'unico metodo di ricerca razionalmente valido sia di questo tipo, mentre un'affermazione di questo genere sarebbe proprio la tesi che l'antiinnatismo dovrebbe essere chiamato a dimostrare, in quanto presupporrebbe che un'esperienza interiore autonoma da quella esteriore sarebbe impossibile per assenza di contenuti propri: in pratica nel negare concetti innati in quanto non ricavabili dalla verificazione esterna sensibile e nel pensare tale tipo di verificazione come l'unica possibile vuol dire cadere in un circolo vizioso argomentativo
L'anima (proprio come il "pappagallo funebre") non può essere
razionalmente esclusa o negata, essendo
indimostrabile, per cui concordo appieno sul fatto che l'antiinnatismo pecca di una "protezionistica" chiusura logica che confonde maliziosamente l'inverificabile con il falso.
Citazione di: Phil il 13 Ottobre 2017, 16:39:54 PM
Citazione di: davintro il 13 Ottobre 2017, 01:58:54 AMAccanto a tale concezione c'è però quella classica, soprattutto aristolelica, per cui l'anima non è sostanza separata dal corpo, ma forma immanente ad esso, e questa immanenza (non identità), le restituisce una ragion d'essere come causa formale della materia, principio che attribuisce un senso determinato e delimitato alla materia
La "causa formale" dell'uomo, attualizzando la terminologia aristotelica, credo sia la genetica (che è infatti sostanziale: Dna, geni, etc.), anche se il buon Aristotele non poteva certo saperlo ;D
Citazione di: davintro il 13 Ottobre 2017, 01:58:54 AMIn questa concezione l'anima torna ad essere concetto dalla dignità razionale, in quanto la sua presenza risponde a una decisiva questione, la ragion d'essere della differenza fra materia inanimata e materia vivente, nonché, grazie alle varie tipologie di "anima" (razionale, sensitiva, vegetativa), delle diverse configurazioni interne agli esseri viventi, le persone rispetto agli animali, gli animali rispetto alle piante...
L'anima come spiegazione della vita è un classico intramontabile e... infalsificabile ;)
Citazione di: davintro il 13 Ottobre 2017, 01:58:54 AMEscludere la presenza di tali nozioni originarie in quanto non riconoscibili da un modello di ricerca verificazionista valido per la verificazione dell'esperienza esterna (induttivo e osservativo-sensibile) vorrebbe dire dare pregiudizialmente per scontato che l'unico metodo di ricerca razionalmente valido sia di questo tipo, mentre un'affermazione di questo genere sarebbe proprio la tesi che l'antiinnatismo dovrebbe essere chiamato a dimostrare, in quanto presupporrebbe che un'esperienza interiore autonoma da quella esteriore sarebbe impossibile per assenza di contenuti propri: in pratica nel negare concetti innati in quanto non ricavabili dalla verificazione esterna sensibile e nel pensare tale tipo di verificazione come l'unica possibile vuol dire cadere in un circolo vizioso argomentativo
L'anima (proprio come il "pappagallo funebre") non può essere razionalmente esclusa o negata, essendo indimostrabile, per cui concordo appieno sul fatto che l'antiinnatismo pecca di una "protezionistica" chiusura logica che confonde maliziosamente l'inverificabile con il falso.
contrapporre gli oggetti di studio della genetica all'anima avrebbe senso solo restando all'interno dell'errore della visione che separa in modo assoluto il piano della materia dal piano dello spirito. La visione per la quale se troviamo nel piano della materia un ente che ci appare poter svolgere una certa azione inizialmente attribuita a una realtà spirituale, allora ci si sente legittimati a sostituire questa con quello relegandola al piano di un'ammuffita superstizione del passato. Questa è la tipica visione del progressivismo positivista che vede la scienza (nel senso fisicalista ed empirico) come un continuo progresso che man mano che progredisce si mangia sempre più ambiti della metafisica, privata di un proprio peculiare ambito di oggetti. In realtà, il dna non sostituisce l'anima, piuttosto lo si potrebbe vedere come una conferma, un corrispettivo nell'ordine materiale dell'azione causativa della forma vivente, l'anima sul piano spirituale-metafisico. Il punto è che la materia pura non esiste come sostanza, in nessun ente, neanche quelli inanimati. La materia esiste solo come "materia formata", materia che si specifica e si determinata come configurata dalla forma. Non può esistere alcuna sostanza puramente materiale, la materia esiste sempre come dotata di una certa unità e modo d'essere, delimitata dall'azione formante di un ente immateriale, nella materia vivente l'anima. E anche il dna esiste ed agisce non come materia indeterminata, mera res extensa, ma come materia formata, o meglio come componente di un organismo organizzato in un'unità circoscritta da una forma, che costituisce l'essenza specificante della sostanza di cui la materia fa parte. Se vediamo il dna agire come principio interno che conduce l'ente ad acquisire nello sviluppo organico una certa forma, ciò non vuol dire che la forma è prodotto arbitrario del dna inteso nella sua accezione materiale, ma che tale forma è presente ed agente "ab origine", che configura l materia rendendola il più possibile adeguata a esprimere il senso e il modo d'essere indicata nella forma. Qualunque entità materiale possa individuare la genetica sarà sempre materia formata, accompagnata da un'essenza immateriale che la configura come materia vivente. Fin dall'istante in cui sono stato concepito, nel nucleo originario materiale era già impressa quella spinta interiore teleologicamente orientata a svilupparsi (certamente necessitando anche di fattori esterni) come essere umano, e non come cane, gatto, o albero, l'anima umana, razionale, seppur latente e ancora non in "funzione" era già in atto come spinta verso la realizzazione dell'essenza insita nella forma, autopoiesi. Il dna, come qualunque altro concetto considerato dalla biologia o dalla genetica appartiene a un organismo materiale da sempre conformato (con-formato...) all'azione causativo della forma vivente che la costituisce come materia dotata di un senso, di un'unità, proprietà e facoltà che la specificano come un certo tipo di ente materiale anziché un altro. La complementarità tra dna ed anima rispecchia quella tra fisica e metafisica, due diverse prospettive riferite però alla stessa realtà, nel caso di cui stiamo discutendo ora l'essere vivente, più genericamente del mondo che si dà come insieme di fenomeni alla nostra esperienza.
Citazione di: davintro il 13 Ottobre 2017, 20:16:40 PM
Qualunque entità materiale possa individuare la genetica sarà sempre materia formata, accompagnata da un'essenza immateriale che la configura come materia vivente.
"Essenza" (parola
oggi molto "scomoda": forse più metaforica che ontologica ;) ) che oltre a essere postulata "immateriale", mi concederai, è comunque anche indimostrabile (il che non significa non esista...). Che tale indimostrabilità poggi su un'antica tradizione interculturale, è certamente un ghiotto spunto di riflessione antropologica, ma, epistemologicamente, non mi sembra scalfire la sua indimostrabilità, e quindi l'indecidibilità della sua esistenza.
P.s.
Personalmente, credo che l'"antropocentrismo" delle quattro cause aristoteliche vada un po' ridimensionato: per me la forma è più negli occhi (e nell'intelletto) di chi guarda che nel problematico oggetto stesso (Husserl
docet: l'intenzionalità della
noesi forma il
noema, ma l'oggetto-in-sé è altro, direi sempre un passo oltre l'
epochè...).
Salve a tutti. Ciò che configura la materia vivente come tale ..... è appunto la sua forma.
A parità di materia noi possiamo passare dal sasso al cervello di Einstein. Stesso numero di atomi.
A parità di materia noi possiamo passare dal cervello di Einstein al fegato di un cinghiale: Stesso numero di atomi e di cellule.
Qual è la differenza ? Semplicemente, la forma in cui risulta disposta la stessa quantità di materia. Maggiore è la complessità della forma - intesa come disposizione nello spazio, maggiore o minore contiguità dei componenti, sequenza in cui vengono interconnessi tra di loro - maggiore risulta la componente immateriale (la forma, per l'appunto) attribuibile ad un corpo.
Variando la forma varierà la funzione di ciò che - sotto qualsiasi altro aspetto - potrebbe risultare identico od equivalente come peso, densità, struttura chimica, struttura biologica.
Infatti, ad esempio, tutte le nostre funzioni superiori sono il frutto di una qual certa struttura intrinseca la quale, se diversamente disposta, permetterebbe a cellule identiche di generare solo delle funzioni inferiori.
Esiste una storia della sostanza e della forma che, se percorsa, permette di giustificare l'intera storia del mondo dal "big bang" alle estasi dei mistici ed ai sospiri dei poeti innamorati. Stasera però per me è tardi.
beh, nulla di male a utilizzare concetti ritenuti "scomodi" come quello di "essenza" in un certo contesto storico, dato che all'onesto cercatore della verità dovrebbe mirare solo a considerare l'adeguatezza di un concetto in relazione all'esperienza delle cose oggettive, e non in relazione al sentire comune dell'epoca nella quale gli è capitato di trovarsi a vivere. Certamente nell'epoca in cui il geocentrismo tolemaico andava per la maggiore il sistema eliocentrico copernicano era certamente "scomodo", ma si è poi rivelato quello valido...
La necessità delle essenze è dimostrabile analiticamente: cioè a partire dalla definizione stessa che ne diamo: se intendiamo l'essenza come la componente necessaria di un ente, quella che rende un ente quell'ente determinato e non un altro, allora l'essenza non può non essere presente in ciascun ente, altrimenti il concetto stesso di "essenza" sarebbe autocontraddittorio e dunque insensato. Senza la propria essenza ogni ente smarrirrebbe il suo "quid" che gli attribuisce una qualsivoglia determinazione e lo contraddistingue da altri enti: cioè l'essere cadrebbe nella pura indeterminazione, verso il nulla. Tutto sta nel non concepire le essenze come idee idealisticamente separate dagli enti a cui si riferiscono, ma, pur mantenendo la loro conntotazione ideale, porle come immanenti ai loro enti di riferimento, cioè identificarle con il loro "quid" che ne specifica il senso determinato, rendendo anche possibile, in seconda battuta la definibilità linguistica.
Etichettare come "antropocentrismo" qualunque attribuzione da parte di un intelletto soggettivo di categorie formali applicate poi alla realtà oggettiva dovrebbe coerentemente far ricondurre in questa etichetta qualunque forma di conoscenza razionale, comprese le scienze naturali sperimentali, dato che ogni conoscenza presuppone l'organizzazione del flusso di dati sensibili, di per sé informe e caotico, in un sistema di concetti, di forme intelligibili. Anzi, forse proprio nella riconduzione della natura in termini matematici, quantitativi, operata dalle scienza naturali, se si vuole, è riscontrabile un'astrazione e una formalizzazione maggiore che in una visione del mondo fondato sull'apprensione delle concrete qualità fenomeniche materiali delle cose, colori, suoni ecc. nel loro porsi come oggetti di un'esperienza vissuta, una visione che non squalifica le qualità primarie rispetto a quelle secondarie, e quindi in tale più rigida formalizzazione dovrebbe riconoscersi un carattere antropocentrico più forte... in realtà credo che il rischio di cadere in un'antropocentrismo che ostacola la conoscenza della realtà oggettiva, possa essere scongiurato nel momento in cui una sana epistemologia individui dei criteri della conoscenza solidi, come il complesso dei princìpi logici universali, che nella loro trascendentalità, sono regole necessarie del pensiero, a prescindere dal tipo di realtà determinata in possesso di tale pensiero. In questo senso che A sia uguale ad A e non potrebbe mai essere non-A, è una norma che ogni pensiero presuppone necessariamente per non cadere nell'assurdità, sia il pensiero dell'essere umano, che di un ipotetico alieno sceso da Marte, cosicché un complesso di deduzioni ricavate da princìpi originari come questo sarebbe svincolato dall'antropocentrismo. La razionalità che garantisce la corrispondenza di una tesi con la realtà oggettiva è l'argine contro ogni antropocentrismo relativista. Lo stessa fenomenologia husserliana pur riconoscendo un'attività delle noesi, espressione di una soggettività (però l'Io puro, trascendentale, non l'essere umano con le sue proprietà determinate) nella formazione dei noemi, non mi pare consideri l'attività formante come arbitraria proiezione dell'umano, ma fondato sull'apprensione passiva, la sintesi passiva, di un mondo ulteriore di sensazioni, che incidono sulla formazione degli schemi percettivi, in un'intenzionalità "al contrario" ,che va dall'oggetto al soggetto.
mi pare di dover condividere molto le osservazioni di viator, che mi sembra ricalchino bene, anche meglio di come ho provato a fare, i miei pensieri sul rapporto forma-materia.
Citazione di: davintro il 20 Ottobre 2017, 01:59:09 AM
La necessità delle essenze è dimostrabile analiticamente: cioè a partire dalla definizione stessa che ne diamo: se intendiamo l'essenza come la componente necessaria di un ente, quella che rende un ente quell'ente determinato e non un altro, allora l'essenza non può non essere presente in ciascun ente, altrimenti il concetto stesso di "essenza" sarebbe autocontraddittorio e dunque insensato. Senza la propria essenza ogni ente smarrirrebbe il suo "quid" che gli attribuisce una qualsivoglia determinazione e lo contraddistingue da altri enti: cioè l'essere cadrebbe nella pura indeterminazione, verso il nulla. Tutto sta nel non concepire le essenze come idee idealisticamente separate dagli enti a cui si riferiscono, ma, pur mantenendo la loro conntotazione ideale, porle come immanenti ai loro enti di riferimento, cioè identificarle con il loro "quid" che ne specifica il senso determinato, rendendo anche possibile, in seconda battuta la definibilità linguistica.
CitazioneCome tu stesso affermi questi sono giudizi analitici a priori; cioé deduzioni da premesse stabilite per definizione (o postulate, comunque arbitrariamente), quindi certe, ma che nulla dicono di come la realtà é/diviene o non é/non diviene, di ciò che realmente accade o meno.
Non dicono quali enti determinati esistono realmente, quali eventi determinati accadono realmente e quali no, da quali essenze enti ed eventi reali sono caratterizzati e da quali no.
Etichettare come "antropocentrismo" qualunque attribuzione da parte di un intelletto soggettivo di categorie formali applicate poi alla realtà oggettiva dovrebbe coerentemente far ricondurre in questa etichetta qualunque forma di conoscenza razionale, comprese le scienze naturali sperimentali, dato che ogni conoscenza presuppone l'organizzazione del flusso di dati sensibili, di per sé informe e caotico, in un sistema di concetti, di forme intelligibili. Anzi, forse proprio nella riconduzione della natura in termini matematici, quantitativi, operata dalle scienza naturali, se si vuole, è riscontrabile un'astrazione e una formalizzazione maggiore che in una visione del mondo fondato sull'apprensione delle concrete qualità fenomeniche materiali delle cose, colori, suoni ecc. nel loro porsi come oggetti di un'esperienza vissuta, una visione che non squalifica le qualità primarie rispetto a quelle secondarie, e quindi in tale più rigida formalizzazione dovrebbe riconoscersi un carattere antropocentrico più forte... in realtà credo che il rischio di cadere in un'antropocentrismo che ostacola la conoscenza della realtà oggettiva, possa essere scongiurato nel momento in cui una sana epistemologia individui dei criteri della conoscenza solidi, come il complesso dei princìpi logici universali, che nella loro trascendentalità, sono regole necessarie del pensiero, a prescindere dal tipo di realtà determinata in possesso di tale pensiero. In questo senso che A sia uguale ad A e non potrebbe mai essere non-A, è una norma che ogni pensiero presuppone necessariamente per non cadere nell'assurdità, sia il pensiero dell'essere umano, che di un ipotetico alieno sceso da Marte, cosicché un complesso di deduzioni ricavate da princìpi originari come questo sarebbe svincolato dall'antropocentrismo. La razionalità che garantisce la corrispondenza di una tesi con la realtà oggettiva è l'argine contro ogni antropocentrismo relativista. Lo stessa fenomenologia husserliana pur riconoscendo un'attività delle noesi, espressione di una soggettività (però l'Io puro, trascendentale, non l'essere umano con le sue proprietà determinate) nella formazione dei noemi, non mi pare consideri l'attività formante come arbitraria proiezione dell'umano, ma fondato sull'apprensione passiva, la sintesi passiva, di un mondo ulteriore di sensazioni, che incidono sulla formazione degli schemi percettivi, in un'intenzionalità "al contrario" ,che va dall'oggetto al soggetto.
CitazioneIl fatto che qualsiasi giudizio, qualsiasi conoscenza é propria di un soggetto che (anche) in qualche modo "agisce", considera attivamente la realtà oggettiva (se si tratta di conoscenze di fatti oggettivi) e non ne é soltanto passivamente agito non equipara giudizi oggettivamente veri a proiezioni antropomorfe (false) di qualità soggettive umane (come é il finalismo) sulla realtà naturale oggettiva (extraumana), la quale invece non ne presenta.
Il complesso dei princìpi logici universali, che nella loro trascendentalità, sono regole necessarie del pensiero, a prescindere dal tipo di realtà determinata in possesso di tale pensiero (evidenziazione in grassetto mia) consente di per sè (se non applicato all' empiria) per l' appunto la formulazione di giudizi analitici a priori certi ma "gnoseologicamente sterili", che nulla consentono di conoscere su ciò che realmente é/accade o meno.
Per un' effettiva conoscenza della realtà sono necessari anche dati empirici, sui quali si possono affermare giudizi a sintetici a posteriori, i quali possono costituire (anche, non solo) conoscenze vere, comunque a mio parere inevitabilmente incerte, se non nell' effimero istante presente di una constatazione immediata particolare concreta.
Citazione di: davintro il 20 Ottobre 2017, 01:59:09 AM
beh, nulla di male a utilizzare concetti ritenuti "scomodi" come quello di "essenza" in un certo contesto storico, dato che all'onesto cercatore della verità dovrebbe mirare solo a considerare l'adeguatezza di un concetto in relazione all'esperienza delle cose oggettive, e non in relazione al sentire comune dell'epoca nella quale gli è capitato di trovarsi a vivere. Certamente nell'epoca in cui il geocentrismo tolemaico andava per la maggiore il sistema eliocentrico copernicano era certamente "scomodo", ma si è poi rivelato quello valido...
Sia le auto d'epoca che alcuni prototipi futuristici possono risultare "scomodi" per il nostro fondoschiena abituato allo
standard della contemporaneità... si tratta di capire se è una scomodità su cui si può lavorare (prototipo) oppure una scomodità che risulterebbe snaturata da una rivisitazione (auto d'epoca) ;)
Citazione di: davintro il 20 Ottobre 2017, 01:59:09 AM
La necessità delle essenze è dimostrabile analiticamente: cioè a partire dalla definizione stessa che ne diamo: se intendiamo l'essenza come la componente necessaria di un ente, quella che rende un ente quell'ente determinato e non un altro, allora l'essenza non può non essere presente in ciascun ente, altrimenti il concetto stesso di "essenza" sarebbe autocontraddittorio e dunque insensato. Senza la propria essenza ogni ente smarrirrebbe il suo "quid" che gli attribuisce una qualsivoglia determinazione e lo contraddistingue da altri enti: cioè l'essere cadrebbe nella pura indeterminazione, verso il nulla. Tutto sta nel non concepire le essenze come idee idealisticamente separate dagli enti a cui si riferiscono, ma, pur mantenendo la loro conntotazione ideale, porle come immanenti ai loro enti di riferimento, cioè identificarle con il loro "quid" che ne specifica il senso determinato, rendendo anche possibile, in seconda battuta la definibilità linguistica.
Non farei coincidere l'essenza
metafisica con il
quid dell'(arbitraria e convenzionale) identità
linguistica (e quindi con la predicabilità)... se restiamo
dentro l'orizzonte classico, l'essenza è indubbiamente un perno fondamentale dell'impalcatura metafisica, ma davvero non se ne può proprio uscire? Secondo me, come accennavo sopra, è possibile almeno una prospettiva alternativa (non per questo più
vera, ma almeno c'è legittima concorrenza ;D ).
Citazione di: davintro il 20 Ottobre 2017, 01:59:09 AM
Etichettare come "antropocentrismo" qualunque attribuzione da parte di un intelletto soggettivo di categorie formali applicate poi alla realtà oggettiva dovrebbe coerentemente far ricondurre in questa etichetta qualunque forma di conoscenza razionale, comprese le scienze naturali sperimentali, dato che ogni conoscenza presuppone l'organizzazione del flusso di dati sensibili, di per sé informe e caotico, in un sistema di concetti, di forme intelligibili.
Si, secondo me non si esce dall'antropocentrismo gnoseologico... possiamo forse smettere di pensare
da uomini?
Citazione di: davintro il 20 Ottobre 2017, 01:59:09 AMin realtà credo che il rischio di cadere in un'antropocentrismo che ostacola la conoscenza della realtà oggettiva, possa essere scongiurato nel momento in cui una sana epistemologia individui dei criteri della conoscenza solidi, come il complesso dei princìpi logici universali, che nella loro trascendentalità, sono regole necessarie del pensiero, a prescindere dal tipo di realtà determinata in possesso di tale pensiero. In questo senso che A sia uguale ad A e non potrebbe mai essere non-A, è una norma che ogni pensiero presuppone necessariamente per non cadere nell'assurdità, sia il pensiero dell'essere umano, che di un ipotetico alieno sceso da Marte, cosicché un complesso di deduzioni ricavate da princìpi originari come questo sarebbe svincolato dall'antropocentrismo.
Oggi umanamente la logica è così, ma se diciamo "necessariamente" e "universalmente", comprendendo così anche presunti alieni (o uomini del futuro), a mio giudizio facciamo una scommessa (antropocentrica ;) ), non una constatazione inconfutabile... siamo uomini e conosciamo il mondo da uomini, se fossimo pesci penseremmo che non sia universalmente possibile vivere all'asciutto e che ciò rappresenti una certezza trascendentale, trovando conferma nel non aver avuto notizia di pesci che vivano fuori dall'acqua...
Citazione di: davintro il 20 Ottobre 2017, 01:59:09 AM
La razionalità che garantisce la corrispondenza di una tesi con la realtà oggettiva è l'argine contro ogni antropocentrismo relativista.
La corrispondenza con l'oggettività, secondo me, salvo intenderla come mero "funzionalismo" ("funziona quindi è oggettivo"), non è così pacifica da verificare, perché l'oggettività (ideale normativo asintoticamente sfuggente) è sempre letta inevitabilmente dalla prospettiva umana, la stessa che potrebbe dire che, come già ricordato da altri, è "oggettivo" che il sole corra nel cielo, che è "oggettivo" che il prestigiatore tagli in due la valletta, che è "oggettivo" che solo un dio possa averci creato, etc.
Citazione di: davintro il 20 Ottobre 2017, 01:59:09 AMLo stessa fenomenologia husserliana pur riconoscendo un'attività delle noesi, espressione di una soggettività (però l'Io puro, trascendentale, non l'essere umano con le sue proprietà determinate) nella formazione dei noemi, non mi pare consideri l'attività formante come arbitraria proiezione dell'umano, ma fondato sull'apprensione passiva, la sintesi passiva, di un mondo ulteriore di sensazioni, che incidono sulla formazione degli schemi percettivi, in un'intenzionalità "al contrario" ,che va dall'oggetto al soggetto.
...al soggetto
umano (che dà un senso a quello trascendentale ;) ), Husserl non l'ha precisato perché probabilmente era ovvio; eppure secondo me, è un'ovvietà piuttosto problematica (o almeno "antropocentrica" ;D ), se si ambisce a parlare in termini assoluti e meta-umani...
scrive Phil:
"Non farei coincidere l'essenza metafisica con il quid dell'(arbitraria e convenzionale) identità linguistica (e quindi con la predicabilità)... se restiamo dentro l'orizzonte classico, l'essenza è indubbiamente un perno fondamentale dell'impalcatura metafisica, ma davvero non se ne può proprio uscire? Secondo me, come accennavo sopra, è possibile almeno una prospettiva alternativa (non per questo più vera, ma almeno c'è legittima concorrenza (https://www.riflessioni.it/logos/Smileys/default/grin.gif) )."
condivido la distinzione tra essenza, intesa come aspetto necessario dell'essere dell'ente, e definizioni linguistiche. Le essenze delle cose non coincidono con le definizioni delle cose, l'accostamento che vedevo consiste nel considerare le definizioni come fondate sulle essenze, e quindi la possibilità di definire la intendevo come conferma della presenza di elementi universali necessariamente presenti in una molteplicità di individui di una specie, in quanto la definizione di un concetto coglie ciò che delle realtà a cui il concetto si riferisce è presente a prescindere dalla molteplicità dei contesti particolari in cui si determina, cioè l'essenza. Quindi la definizione presuppone sempre l'apprensione dell'essenza, ma questo non vuol dire che il termine linguistico (convenzionale, prodotto culturale dell'uomo) di identifichi con l'essenza, che ha un valore ontologico, causa formale dell'ente, inscritto nella sua realtà necessaria e naturale. Trascinare nella convenzionalità del linguaggio anche le essenza delle cose reali, negando in ogni senso la realtà di caratteri universali delle cose è sempre stato un errore tipico delle forme estreme di nominalismo, che identificando parole e cose e considerando le prime come convenzionali (giustamente) ha finito per relativizzare anche le seconde. In realtà si supera distinguendo cose e parole, considerando la possibilità umana di definire linguisticamente le cose come presupponente l'intuizione dell'essenza delle cose, senza mai però identificare definizione ed essenze, convenzionali e quindi storicamente modificabili le prime, naturali e oggettive le seconde.
Tra l'altro faccio notare che proprio la distinzione parole-cose è a mio avviso proprio il principio in base a cui è secondo me scorretto pensare di ricavare l'origine dell'idea di infinito sulla base della struttura della parola "infinito", "in-finito", pensando di assommare o associare i concetti delle singole parti, cioè la "finitezza" e la "negazione". Proprio perché parole e cose, definizioni ed essenze non coincidono, allora non dovremmo confondere l'idea di infinito con la parola "infinito" e pretendere di spiegare la formazione della prima sulla base della struttura sintattica della seconda, proiettando la complessità di questa sul senso semplice della prima. Nel nostro linguaggio l'idea di infinito viene associata a un termine "negativo", con il prefisso privativo, ma stante la convenzionalità del linguaggio nulla in teoria potrebbe impedirci di esprimere lo stesso significato con un termine semplice e non composto, "positivo" e non "negativo", senza che il senso che intendiamo cambi nella sua essenza qualitativa. Ricavare dalle relazioni che compongono la struttura del linguaggio l'analisi ontologica degli enti, ideali o reali sarebbe un approccio valido solo nel caso di ipotizzare un nesso necessario e naturale tra parole e cose, ignorando il carattere artificiale delle prime, ma questo avrebbe senso solo considerando il linguaggio onomatopeico, ma ovviamente non è questo il caso che qua ci interessa!!
"Essenza" non capisco che cosa precisamente significhi.
Mentre trovo del tutto convincente, esauriente, chiara e inequivoca la teoria semantica di Freghe, con la sua distinzione nei significati delle parole fra connotazione soggettiva e denotazione reale (per le parole significanti concetti che l' abbiano); e che spieghi egregiamente perché anche gli universali siano concetti dotati di denotazione (estensione) reale e non solo di connotazione (intensione) soggettiva, anche se astratta, superando un nominalismo "estremo".
Salve. L'essenza di qualcosa sarebbe ciò senza la quale quella cosa non sarebbe quella ma un'altra.
In pratica è l'ingrediente "sine qua non" oppure il contenuto, l'attributo, l'ingrediente appunto che rende quella cosa distinguibile da tutte le altre.
Naturalmemte, nella pratica, le definizioni letterali di cui sopra vengono facilmente e frequentemente stravolte.
Citazione di: viator il 30 Ottobre 2017, 13:14:25 PM
Salve. L'essenza di qualcosa sarebbe ciò senza la quale quella cosa non sarebbe quella ma un'altra.
In pratica è l'ingrediente "sine qua non" oppure il contenuto, l'attributo, l'ingrediente appunto che rende quella cosa distinguibile da tutte le altre.
Naturalmemte, nella pratica, le definizioni letterali di cui sopra vengono facilmente e frequentemente stravolte.
CitazionePerò mi sembra che le espressioni "ciò senza la quale una certa cosa non sarebbe quella ma un'altra" e "l'ingrediente "sine qua non" oppure il contenuto, l'attributo, l'ingrediente appunto che rende quella cosa distinguibile da tutte le altre" mi sembra una tautologia; come: dire "il fatto che una determinata cosa sia quella determinata cosa e non altro".
Inoltre qui sorge inevitabilmente un problema.
Chi stabilisce e in base a quali criteri quali sono le "coese esistenti" (e quali ne sono le sostanze -o i criteri- che le fanno essere ciò che sono e non altro)?
Ogni distinzione nell' ambito della totalità conoscibile non può che assere arbitraria, così come i criteri per stabilirla.
In linea teorica, di principio vale secondo me una sorta di "principio di arbitrarietà mereologica" per il quale la realtà può essere "ritagliata" (presa in considerazione) teoricamente ad libitum.
Per esempio non c' é nessun motivo obiettivo perché non si possa "legittimamente", sensatamente considerare teoricamente il seguente enti/evento:
Giulio Cesare delle ore 22, 23 minuti e 7 secondi del 7 Gennaio 65 a.C. (non so come si chiamerebbe nel calendario latino) alle ore 3, 46 minuti e 33 secondi del 5 Giugno 52 a. C., più i tre quarti settentrionali della Sicilia dal 9000 a. C. al 2222 d. C., più i primi sette canti di un certo determinato volume di una determinata edizione della Divina Commedia, più l' albero di Cedro nel giardino del mio vicino di casa dalla mezzanotte del tre Gennaio 1845 al mezzodì del 15 Agosto 2019, più ...chi più ne ha più ne metta...
Nessuno che sia comunemente considerabile sano di mente di fatto considera enti-eventi siffatti, ma solo perché del tutto inutili ai fini pratici (compreso quel particolare genere di pratica che é la ricerca della conoscenza scientifica); in pratica ben altri enti-eventi possono servire, distinti secondo "generi naturali", i quali però non sono comunque che "ritagli arbitrari" nella totalità del reale, tali da consentire di compiere induzioni circa il divenire ordinato (peraltro indimostrabile: Hume!) e conseguentemente di cercare di raggiungere (arbitrari) scopi (purché realistici) attraverso adeguati mezzi nelle circostanze in cui ci si trova a desiderarli.
davintro : Lo stessa fenomenologia husserliana pur riconoscendo un'attività delle noesi, espressione di una soggettività (però l'Io puro, trascendentale, non l'essere umano con le sue proprietà determinate) nella formazione dei noemi, non mi pare consideri l'attività formante come arbitraria proiezione dell'umano, ma fondato sull'apprensione passiva, la sintesi passiva, di un mondo ulteriore di sensazioni, che incidono sulla formazione degli schemi percettivi, in un'intenzionalità "al contrario" ,che va dall'oggetto al soggetto.
Phil : ...al soggetto umano (che dà un senso a quello trascendentale ;) ), Husserl non l'ha precisato perché probabilmente era ovvio; eppure secondo me, è un'ovvietà piuttosto problematica (o almeno "antropocentrica" ;D ), se si ambisce a parlare in termini assoluti e meta-umani...
Questo è il mio problema con Husserl. >:(
Husserl non solo non l'ha precisato, ma non lo avrebbe mai detto.
Infatti non si avvede della problematicità stessa di questo passaggio in più, che non a caso viene dimenticato.
In realtà la problematicità vera sta all'inizio della questione Husserliana.
E cioè proprio dalla sostanza.
Unendo i diversi frammenti sul pensiero che mi sono fatto di Husserl, mi pare che egli ponga la trascendantelità alla base del suo ragionamento.
Egli la postula, ossia la ipotizza una volta che ha eseguito l'epochè, ossia la dimenticanza di ogni cosa che riguarda il soggetto.
Egli pensa di ritrovarla nell'idea di sfondo, su cui si staglia il primo ogetto, il primo oggetto, non è cioè mettiamo un tavolo, ma lo sfondo stesso su cui "qualcosa" si staglia.
Direi che l'errore è già tutto lì. Anche abbastanza evidente per parte mia. Considerare lo sfondo come un oggetto (a sè stante).
Quando in verità è oggetto solo all'apparire di uno stagliante, di un Altro oggetto.
E come aveva già brillantemente sciolto Hegel la realtà è semplicemente una correlazione.
La vecchia idea di sostanza aristotelica non dovrebbe essere già andata in soffitta dopo Kant??
Non tanto per l'idea di sostanza, per quella bisogna aspettare appunto Hegel, ma per quella di sostanza prima.
Non esistono sostanze prime, nè forme prime. Esistono invece percetti, primari e secondari (cosa tra l'altra pionerizzata da Locke).
Siamo d'accordo che sulla scorta di berkley, l'oggetto risale alla sua forma lentamente e nel tempo.(vogliamo parlare di sintesi passive in questo modo, sarei anche d'accordo)
Ma io non sono assolutamente d'accordo che l'oggetto sia una specie di oltre mondo, che viene percepito prima di essere percepito.
L'esempio della porta che sta sbattendo, che innesca in noi la sensazione del rumore prima che il rumore avvenga, è chiaramente frutto del trauma auditivo della prima porta che sbatte.
E in generale del primo suono esterno udito. Di solito il proprio vagito.
Ritenere sostanza ciò che è invece correlazione psicologica, e quindi giustamente intenzionalità attiva, mi sembra un errore, oltre che un approdo aporetico rispetto a come si sta costruendo la propria idea di mondo.
Tra l'altro è anche un delirio paranoico, ritenere che l'oggetto abbia uno statuto pari a quello umano, è tipico dei deliri maniaci.
(gli oggetti parlano alle persone).
E torno a ripetere Dio NON è un oggetto.
(che è poi come a dire: quando è che Aristotele viene smesso di essere creduto un grande?)
Salve, per Sgiombo:
"""""L'essenza di qualcosa sarebbe ciò senza la quale quella cosa non sarebbe quella ma un'altra.
In pratica è l'ingrediente "sine qua non" oppure il contenuto, l'attributo, l'ingrediente appunto che rende quella cosa distinguibile da tutte le altre.
Naturalmemte, nella pratica, le definizioni letterali di cui sopra vengono facilmente e frequentemente stravolte.
Citazione"""""
Tu replichi """""Però mi sembra che le espressioni "ciò senza la quale una certa cosa non sarebbe quella ma un'altra" e "l'ingrediente "sine qua non" oppure il contenuto, l'attributo, l'ingrediente appunto che rende quella cosa distinguibile da tutte le altre" mi sembra una tautologia; come: dire "il fatto che una determinata cosa sia quella determinata cosa e non altro""""".
Non si tratta di tautologia: ad esempio, l'essenza di una religione è la fede. Mancando la fede quella religione non sarebbe più religione ma filosofia od ideologia. Salutoni.
Ma allora, se ben capisco è qualcosa che viene stabilito arbitrariamente (convenzionalmente) per definizione.
Salve a tutti ed in particolare ad altamarea. Per via assimilativa-deduttiva. Si deve andare a vedere cosa c'è in comune con altro e cosa invece è esclusivo di quella tale manifestazione. Tubercolosi e polmonite hanno sintomi in comune e, in mancanza di analisi più profonda, possono venir definite entrambe come "patologia polmonare". Ma mentre l'essenza della tubercolosi è la presenza del bacillo di Koch, quella della polmonite pneumococcica (ce ne sono di diversi altri generi) è la presenza dello pneumococco.
proprio perché le essenze non sono le definizioni (anche se queste ultime presuppongono implicitamente il riconoscimento delle prime, intese come elementi necessariamente presenti in un ente al di là delle differenze dei contesti in cui si esistenziano), non ne assumono il carattere di contingenza, l'essenza di un ente non è un concetto avente un significato distinto da quello dell'ente a cui l'essenza è riferita, che si aggiunge in modo estrinseco, non è che A sia essenza di B. L'essenza di un ente è ciò che gli permette di fissare un limite alle proprie possibilità di essere, limite oltre il quale quell'ente non potrebbe essere e svilupparsi. Nella misura in cui ogni ente ha un senso determinato e delimitato, il suo sviluppo si orienta in una certa direzione anziché altre, ciò presuppone la presenza di una necessarietà, dunque di un'essenza, che non è un concetto che si aggiunge arbitrariamente all'ente, ma ne costituisce il senso intrinseco di tale sviluppo. L'arbitrarietà presente nello stabilire l'identità degli enti, "ciò in cosa dovrebbero consistere per essere quelli e non altri" è una caratteristica presente nel linguaggio, nelle definizioni, sempre convenzioni comunicative, ma non tocca la realtà delle cose, e la loro essenza. Se da un seme di un albero di ciliegio si pone in atto un dinamismo finalizzato (più o meno ostacolato o favorito da interventi esterni) alla crescita di un albero di ciliegio e non di una quercia, allora dobbiamo ammettere un'essenza dell'albero di ciliegia, la sua causa formale (l' "alberodiciliegità") che fa sì che il movimento di sviluppo naturale tenda necessariamente un albero di ciliegie piuttosto che una quercia o di un altro albero. Dal punto di vista linguistico, nulla mi impedisce di smettere di usare la distinzione terminologica tra ciliegio e quercia, utilizzando un solo termine, non dando importanza al fatto che una delle due piante produca ciliegie e un altro ghiande (del resto nulla impedisce agli anglosassoni di usare lo stesso verbo, to play, per definire due attività decisamente diverse come "suonare" e "giocare"). Così dal punto di vista linguistico il ciliegio non avrebbe più alcun quid che lo renda "ciliegio e non quercia". Dal punto di vista linguistico, ma non certo dal punto di vista reale e ontologico: lo sviluppo dell'albero di ciliegio continuerebbe a porsi come realmente distinto da quello dell'albero di ciliegio, infischiandosene del fatto che il nostro linguaggio convenzionale stabilisca che non c'è ragione di formalizzare tale distinzione in una distinzione terminologica, l'albero di ciliegio continuerebbe a essere realmente diverso da una quercia, ed avrebbe pienamente senso continuare ad affermare un'essenza del ciliegio che lo rende "ciliegio" e non "quercia". Semplicemente a tale essenza non sarebbe associabile una categoria linguistica. Quando ci si occupa di ontologia si dovrebbe considerare le strutture necessarie degli enti, tagliando fuori ciò che è contingente e arbitrario, come le definizioni linguistiche, necessarie certamente a comunicare, ma spesso ostacoli alla comprensione profonda del senso delle cose. Occorre forzarci in un certo senso a pensare fuori del linguaggio, approccio di certo estremamente scomodo e difficile considerando quanto le esigenze pratiche-comunicative ci portino a permeare ogni forma di esperienza del mondo con le parole, e ad influenzare il pensiero interiore, associando idee e sfumature concettuali ai segni esteriori convenzionali che costantemente utilizziamo... però in nome di una maggiore chiarezza nella ricerca teorica ci si potrebbe almeno provarci a provare tale forzatura
X DavintroCitazione
Ma che per esempio il tronco di un albero sia un ente, che i rami e le foglie e i frutti siano altri enti o che sia un ente l' albero in toto (o magari l' intero bosco di cui quest' ultimo fa parte) sia un altro ente ancora, che o sia il sistema solare e/o il sole e/o il pianeta doppio Terra - Luna o la sola Terra, o solo un continente o un oceano, "ritagliandoli" per così dire metaforicamente dall' "indistinto divenire naturale" sono gli uomini (i soggetti di pensiero, intenzionalità, considerazione teorica, eventualmente di conoscenza più o meno integralmente vera) a stabilirlo, in quanto arbitrariamente ne decidono (per convenzione) le rispettive definizioni.
Certo in questi casi, trattandosi di entità reali (i cui concetti, comunque arbitrariamente definiti, presentano, oltre che una connotazione o intensione mentale, anche una denotazione o estensione reale), tutto ciò accade non del tutto (non assolutamente) ad libitum, come potrebbe invece accadere nel caso di entità irreali, puramente immaginarie (come i miei amati ippogrifi, che presentano solo una connotazione o intensione "di pensiero" ma non anche una denotazione o estensione reale, la definizione arbitraria dei quali é soggetta pertanto unicamente a vincoli di correttezza logica a priori o non contraddizione), ma per l' appunto entro limiti o sotto vincoli anche di "fedeltà" o "conformità" alla realtà (indipendentemente dal fatto che sia anche pensata o meno) constatabili (o al limite falsificabili) a posteriori e non solo di correttezza logica.
Fin qui mi sembra che le nostre considerazioni non si contraddicano ma in gran arte coincidano, in parte siano reciprocamente complementari (ma dimmi se sbaglio, ovviamente).
Non concordo invece per nulla sulla presenza di finalismo nella natura extraumana (salvo "minimi embrioni" nelle specie animali a noi più affini).
Se da un seme di un albero di ciliegio si pone in atto un dinamismo [per me non] finalizzato (più o meno "ostacolato" o "favorito" in maniera meramente meccanica -notare le virgolette!- da interventi esterni) [che porta alla] alla crescita di un albero di ciliegio, e non per esempio di una quercia, ciò accade, per dirla "a là Aristotele" esclusivamente per cause efficienti, cioè per il divenire naturale le secondo modalità generali astratte, universali e costanti o leggi (biologiche, perfettamente riducibili alle leggi fisiche) del divenire naturale (indimostrabili logicamente, né provabili empiricamente: Hume!).
Per parte mia, ovviamente, come tutti coloro che abbiano un minimo di elementarissime conoscenze botaniche credo che anche nei casi in cui il nostro linguaggio convenzionale stabilisca che non c'è ragione di formalizzare la distinzione reale fra un ciliegio e una quercia in una distinzione terminologica (nell' ambito del pensiero circa la realtà), comunque nella realtà gli alberi di ciliegio continuerebbero a essere realmente diversi dalle querce, ed avrebbe pienamente senso continuare eventualmente ad affermare nella realtà l' esistenza di ciliegi e querce reciprocamente diversi; però il termine "essenza" (del ciliegio che lo rende ciliegio e non quercia; e viceversa "essenza" della quercia) mi sembra un inutile orpello retorico (o un retaggio del passato, magari anche elegante, in certe circostanze, un po' "vintage" come si suole orrendamente dire).
Dissento inoltre dalla tua valutazione del linguaggio, anche come mezzo di riflessione e conoscenza (second me), oltre che di comunicazione.
Infatti credo che, malgrado ovviamente possa anche portare a confusioni, fraintendimenti, errori teorici, credenza in falsità se non ben logicamente padroneggiato e correttamente impiegato, consenta comunque anche un enorme salto di qualità nella conoscenza teorica (con "spettacolari" conseguenze pratiche), che é all' origine del sorgere, "dal tronco della storia naturale" sostanzialmente, quasi completamente afinalistica (implicante al massimo soltanto "minimi embrioni di finalismo" nelle specie animali a noi più affini) e non contraddicendola punto, della storia (o civiltà) umana, nella quale unicamente al causalismo afinalistico naturale si affiancano, con esso intergendo, fini coscienti.
Citazione di: green demetr il 30 Ottobre 2017, 22:28:44 PMdavintro : Lo stessa fenomenologia husserliana pur riconoscendo un'attività delle noesi, espressione di una soggettività (però l'Io puro, trascendentale, non l'essere umano con le sue proprietà determinate) nella formazione dei noemi, non mi pare consideri l'attività formante come arbitraria proiezione dell'umano, ma fondato sull'apprensione passiva, la sintesi passiva, di un mondo ulteriore di sensazioni, che incidono sulla formazione degli schemi percettivi, in un'intenzionalità "al contrario" ,che va dall'oggetto al soggetto. Phil : ...al soggetto umano (che dà un senso a quello trascendentale ;) ), Husserl non l'ha precisato perché probabilmente era ovvio; eppure secondo me, è un'ovvietà piuttosto problematica (o almeno "antropocentrica" ;D ), se si ambisce a parlare in termini assoluti e meta-umani... Questo è il mio problema con Husserl. >:( Husserl non solo non l'ha precisato, ma non lo avrebbe mai detto. Infatti non si avvede della problematicità stessa di questo passaggio in più, che non a caso viene dimenticato. In realtà la problematicità vera sta all'inizio della questione Husserliana. E cioè proprio dalla sostanza. Unendo i diversi frammenti sul pensiero che mi sono fatto di Husserl, mi pare che egli ponga la trascendantelità alla base del suo ragionamento. Egli la postula, ossia la ipotizza una volta che ha eseguito l'epochè, ossia la dimenticanza di ogni cosa che riguarda il soggetto. Egli pensa di ritrovarla nell'idea di sfondo, su cui si staglia il primo ogetto, il primo oggetto, non è cioè mettiamo un tavolo, ma lo sfondo stesso su cui "qualcosa" si staglia. Direi che l'errore è già tutto lì. Anche abbastanza evidente per parte mia. Considerare lo sfondo come un oggetto (a sè stante). Quando in verità è oggetto solo all'apparire di uno stagliante, di un Altro oggetto. E come aveva già brillantemente sciolto Hegel la realtà è semplicemente una correlazione. La vecchia idea di sostanza aristotelica non dovrebbe essere già andata in soffitta dopo Kant?? Non tanto per l'idea di sostanza, per quella bisogna aspettare appunto Hegel, ma per quella di sostanza prima. Non esistono sostanze prime, nè forme prime. Esistono invece percetti, primari e secondari (cosa tra l'altra pionerizzata da Locke). Siamo d'accordo che sulla scorta di berkley, l'oggetto risale alla sua forma lentamente e nel tempo.(vogliamo parlare di sintesi passive in questo modo, sarei anche d'accordo) Ma io non sono assolutamente d'accordo che l'oggetto sia una specie di oltre mondo, che viene percepito prima di essere percepito. L'esempio della porta che sta sbattendo, che innesca in noi la sensazione del rumore prima che il rumore avvenga, è chiaramente frutto del trauma auditivo della prima porta che sbatte. E in generale del primo suono esterno udito. Di solito il proprio vagito. Ritenere sostanza ciò che è invece correlazione psicologica, e quindi giustamente intenzionalità attiva, mi sembra un errore, oltre che un approdo aporetico rispetto a come si sta costruendo la propria idea di mondo. Tra l'altro è anche un delirio paranoico, ritenere che l'oggetto abbia uno statuto pari a quello umano, è tipico dei deliri maniaci. (gli oggetti parlano alle persone). E torno a ripetere Dio NON è un oggetto. (che è poi come a dire: quando è che Aristotele viene smesso di essere creduto un grande?)
Personalmente penso che nell'impostazione fenomenologica la dualità sfondo-oggetto, se ho ben capito il contesto in cui qua la dualità viene trattata, debba essere concepita in senso prevalentemente formale, cioè come termini a cui non si associano necessariamente un determinato contenuto fenomenico "materiale", vanno trattati come categorie formali, di per sé vuote nella loro astrattezza, ma indispensabili, trascendentali appunto, nell'organizzazione di un mondo della nostra esperienza cosciente. E il contenuto concreto fenomenico con cui le si "riempie" è in realtà ciò che muta nel passaggio dell'epochè, che segna il passaggio fra l'atteggiamento naturale, per il quale l'attenzione centrale dell'Io è rivolta ai giudizi sul mondo inteso come complesso di fatti realmente esistenti, dunque trascendenti rispetto agli atti soggettivi della coscienza, che resta così sullo sfondo, e l'atteggiamento fenomenologico, nel quale il tema della riflessione consiste nella sfera trascendentale degli atti di coscienza, cosicché, ciò che nel precedente atteggiamento costituiva lo sfondo non tematizzato, diviene oggetto che si staglia, mentre ciò che prima dell'epochè veniva tematizzato come oggetto viene messo in sospensione e relegato a sfondo. Non va confusa l'idea di "oggetto" inteso in senso logico, oggetto inteso come tema verso cui orientare la riflessione, dall'oggetto inteso ontologicamente, cioè in chiave meno formale, come realtà esterna al soggetto. Nella sfera trascendentale che la fenomenologia mira a individuare, l'oggetto inteso nella prima accezione coincide con l'Io puro e gli atti intenzionali soggettivi che da esso scaturiscono (tutt'altro che una dimenticanza del soggetto, anzi, proprio nell'approccio trascendentale il soggetto diviene l'ambito filosofico da cui far derivare ogni analisi sugli aspetti essenziali dei vari fenomeni). Il tema della sostanza rientra nell'ambito ontologico distinto da quello del rapporto oggetto-sfondo, in quanto ciò che collochiamo come "sfondo" e ciò che collochiamo come "oggetto" dipende dall'approccio di ricerca, e la "sostanza" è un concetto che a seconda dell'impostazione che poniamo può essere tematizzata come oggetto se ci poniamo nell'ambito dell'ontologia, oppure essere lasciato sullo sfondo, quantomeno provvisoriamente nel caso ciò che ci interessa consiste non direttamente nell'essere considerato in se stesso, ma sulle soggettive condizioni di conoscibilità o esperibilità dei fenomeni