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LOGOS - Argomenti => Tematiche Filosofiche => Discussione aperta da: maral il 24 Maggio 2016, 15:17:26 PM

Titolo: Che cos'è la verità?
Inserito da: maral il 24 Maggio 2016, 15:17:26 PM
I Greci chiamavano la verità aletheia ove quell' a è alfa privativo, quindi la parola significa in negativo: non-latenza, non-velato. Vero è qui il negativo di ciò che  si nasconde e la verità sta nel nudo apparire delle cose, nel loro darsi spontaneo in superficie, senza maschere a sovrapporsi. Heidegger, proprio riprendendo il pensiero greco partendo dalla fenomenologia,  intenderà la verità come radura dell'essere corrispondente all'ente. L'ente come ente (corrispondente propriamente per Heidegger solo all'uomo) è lo svelarsi dell'essere, dunque aletheia, verità.

Ben diverso da quello greco classico è il concetto che maturerà sulla verità il pensiero filosofico posteriore, cristiano e poi scientifico. La verità (intesa non più nell'accezione greca, ma in quella latina di veritas): diventerà sotterranea, recondita e profonda, essa abiterà l'interiorità sotto la superficie per cui occorrerà scavare per trovarla sotto una miriade di mascheramenti e superficiali apparenze ingannevoli messe in atto dalla natura nel mondo e nell'uomo. La verità non è più aletheia, ma prodotto risultante da una ricerca fatta per costringere la natura a svelarsi usando un preciso metodo di interrogazione (come fa il giudice in tribunale, dice Kant) e con mezzi di indagine e tortura sempre più sofisticati. La verità non è più un nudo mostrarsi spontaneo, ma un denudare la natura refrattaria per poi usarle violenza.

Cosa ha determinato nella storia del pensiero occidentale il passaggio della verità da uno stato di spontaneo naturale manifestarsi allo scavo che costringe la natura a manifestarla? Dall'apparire della nudità all'apparire del nascondimento che occorre sistematicamente forzare?
E dove e quanto della verità come aletheia è in realtà ancora tra noi?
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: davintro il 24 Maggio 2016, 18:00:08 PM
Non riesco a vedere una contrapposizione tra le due accezioni della verità, quantomeno non necessaria. L'idea della verità come disvelamento del reale presuppone la concezione realista per cui è l'adeguazione del pensiero soggettivo alla realtà oggettiva a porsi come misura della verità Se il pensiero cristiano, direi soprattutto l'agostinismo, e la modernità a partire dalla svolta cartesiana ha considerato la necessità di fondare la conoscenza della verità come uno scavo interiore, ciò non contraddice l'idea della verità come rivelazione, ma indica un metodo finalizzato a porre l'uomo nelle condizioni ideali per ricevere la rivelazione, o manifestazione della verità nel modo più chiaro e meno ambiguo possibile. Il riconoscimento dell'arbitrarietà della pretesa di identificare la propria esperienza soggettiva con la realtà oggettiva, che si radicalizza nell'assunzione della possibilità del solipsismo, ha portato alla necessità di fondare la conoscenza con un dato stabile e al di là della dubitabilità, e tale dato è rinvenibile nella coscienza, ciò la cui esistenza non può essere messa in dubbio in quanto il suo essere coincide per definizione con l'esperienza e l'apparenza stessa e comprende in sè la stessa possibilità di errare. Questo passaggio dall'esteriorità all'interiorità implica certamente un ruolo più attivo del soggetto ricercante la verità, ma resta pur sempre un'attività non autoreferenziale, ma strumentale al recupero di una passività più adeguata ad accogliere la rivelazione dell'essere. Dalla svolta moderna del cogito cartesiano non discende solo l'idealismo immanentista, ma anche lo spiritualismo metafisico di un Rosmini per cui la verità è un dono che l' uomo riceve da una trascendenza, l'idea dell'essere come oggetto interiore presente alla mente o la stessa fenomenologia husserliana che anelava al "ritorno alle cose stesse", e il concetto di "cosa stessa" ha senso in relazione all'idea classica  e realista della verità come rivelazione... Perchè la verità per "rivelarsi" dovrebbe per forza provenire dall'esteriorità e non invece "risalire" da un'interiorità, da una profondità che viene scoperta dall'uomo che si rivolge alla conoscenza di se stesso? Non c'è alcuna "violenza", un violentare la natura, semplicemente la si riconosce a partire da un diverso punto di vista, "la violenza" semmai la rivolgiamo verso noi stessi in quanto soggetti conoscenti modificando il nostro punto di vista per rendere questo il più possibile "degno" di ricevere la rivelazione.
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: maral il 24 Maggio 2016, 23:30:52 PM
Citazione di: davintro il 24 Maggio 2016, 18:00:08 PM
Non riesco a vedere una contrapposizione tra le due accezioni della verità, quantomeno non necessaria. L'idea della verità come disvelamento del reale presuppone la concezione realista per cui è l'adeguazione del pensiero soggettivo alla realtà oggettiva a porsi come misura della verità Se il pensiero cristiano, direi soprattutto l'agostinismo, e la modernità a partire dalla svolta cartesiana ha considerato la necessità di fondare la conoscenza della verità come uno scavo interiore, ciò non contraddice l'idea della verità come rivelazione, ma indica un metodo finalizzato a porre l'uomo nelle condizioni ideali per ricevere la rivelazione, o manifestazione della verità nel modo più chiaro e meno ambiguo possibile. Il riconoscimento dell'arbitrarietà della pretesa di identificare la propria esperienza soggettiva con la realtà oggettiva, che si radicalizza nell'assunzione della possibilità del solipsismo, ha portato alla necessità di fondare la conoscenza con un dato stabile e al di là della dubitabilità, e tale dato è rinvenibile nella coscienza, ciò la cui esistenza non può essere messa in dubbio in quanto il suo essere coincide per definizione con l'esperienza e l'apparenza stessa e comprende in sè la stessa possibilità di errare. Questo passaggio dall'esteriorità all'interiorità implica certamente un ruolo più attivo del soggetto ricercante la verità, ma resta pur sempre un'attività non autoreferenziale, ma strumentale al recupero di una passività più adeguata ad accogliere la rivelazione dell'essere. Dalla svolta moderna del cogito cartesiano non discende solo l'idealismo immanentista, ma anche lo spiritualismo metafisico di un Rosmini per cui la verità è un dono che l' uomo riceve da una trascendenza, l'idea dell'essere come oggetto interiore presente alla mente o la stessa fenomenologia husserliana che anelava al "ritorno alle cose stesse", e il concetto di "cosa stessa" ha senso in relazione all'idea classica  e realista della verità come rivelazione... Perchè la verità per "rivelarsi" dovrebbe per forza provenire dall'esteriorità e non invece "risalire" da un'interiorità, da una profondità che viene scoperta dall'uomo che si rivolge alla conoscenza di se stesso? Non c'è alcuna "violenza", un violentare la natura, semplicemente la si riconosce a partire da un diverso punto di vista, "la violenza" semmai la rivolgiamo verso noi stessi in quanto soggetti conoscenti modificando il nostro punto di vista per rendere questo il più possibile "degno" di ricevere la rivelazione.
L'osservazione che fai è giusta, se si intende aletheia (non latenza), come qualcosa di originariamente nascosto che si rivela in particolari condizioni che è necessario determinare in se stessi, una sorta di educazione interiore per preparare il terreno allo svelamento. A quel punto sul terreno dissodato dalla educazione, la verità potrà mostrarsi nella sua pura nudità. E certo questo in realtà è anche nell'intento del greco, e penso a Platone, a Socrate, alla sua maieutica volta a far partorire la verità che già c'è. Ma non mi pare che la scienza occidentale abbia assunto questa strada e Kant lo mostra chiaro quando dice che l'uomo di scienza deve comportarsi con la natura come il giudice in tribunale. Il giudice non interroga se stesso per disporsi verso uno svelamento, ma il presunto reo che sospetta voglia nascondere qualcosa e qui il presunto reo è la natura. Quella a-letheia è una condizione che impone, non una manifestazione spontanea che ha imparato ad accogliere. In questo senso c'è violenza, la violenza di chi pensa necessario scoprire ciò che il mondo vuole ingannevolmente tenergli nascosto e per far questo, in nome della verità, ogni mezzo è lecito, un po' come in un tribunale dell'inquisizione di fronte al quale il reo va messo a nudo.
La fenomenologia di Husserl va indubbiamente in senso opposto (non per nulla egli denuncia la crisi delle scienze europee e propone una scienza fenomenologica), ma vede questo dissodamento come opera fondamentalmente logica, da specialisti, e non come un approccio di origine esistenziale che nasce dal soggetto concreto piuttosto che da un immaginario soggetto trascendentale.   
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: Lou il 24 Maggio 2016, 23:45:28 PM
é cooriginario nascondimento /svelamento, non si da l'uno senza l'altro, Heidegger la mostra questa coorigeneriatá, il mistero dell'essere viene alla luce, circondato, custodito dall'ombra, tra l'ombra.  Cosí come ama nascondersi, si disvela. O mi sbaglio?
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: paul11 il 25 Maggio 2016, 08:06:37 AM
la verità è il tentativo che l'uomo costruisce nel sistema di relazione generalmente fra tre fondativi: natura o realtà od oggettività;
pensiero o mente o coscienza o soggettività e infine parola o linguaggio.
Come ci si sposta gerarchicamente fra i tre fondativi, chi si focalizza sulla natura o la realtà, chi si focalizza sulla mente o coscienza, chi sul linguaggio, muta il sistema di relaziione  che può essere metafisico fino all'analitica del linguaggio.
Quando si cercò concettualmente di legare l'essere e gli enti del naturale e soprannaturale, ci si accorse anche che i fatti in sè e per sè erano veri ,ma che il pensiero che si fa parola e costruisce  le proposizioni poteva essere vero  o falso relativo al fatto descritto.
Quindi il primo problema o criterio di verità fu la coerenza fra il fatto e la proposizione che costruì il sistema formale della logica predicativa, affinchè il pensiero che si  fa parola fosse  coerente con il fatto, vale a dire corrispondente.
Nascono quindi le necessità di identità e il principio di non contraddizione e i loro derivati,così come i paradossi.
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: cvc il 25 Maggio 2016, 09:01:22 AM
Verità è inganno vengono poi a identificarsi in ragione e sensibilità. Non che la ragione sia la verità in sé, ma in quanto ciò che riteniamo vero è inscindibile dal razionale, dal logos. Ciò che intendiamo per vero è dunque legato alla finitezza del linguaggio coi suoi paradossi, come quello del mentitore. I sensi ingannano ma sono il nostro contatto con il mondo. Un contatto ingannevole ben rappresentato dalle ombre nel mito della caverna. Quindi di dicotomia in dicotomia ecco quella fra rappresentazione e cosa in sé, dove ciò che è  manifesto è ingannevole, mentre la verità è la ragione interna all'uomo. Ma in tutte queste dicotomie fra verità e inganno, ragione e sensi, fenomeno e noumeno, ogni tentativo di mediazione da Platone a Hegel ha lasciato insoddisfatti. La realtà è armonia degli opposti dice Eraclito, ma è un'armonia assai flebile e instabile, sempre messa in forse dai conflitti delle dicotomie. L'uomo sente dentro di sé un profondo desiderio di pace, ma pare che l'uomo non sia stato fatto per la pace. Dire che la ragione media è riduttivo, la ragione combatte. La ragione non è un setaccio che separa l'irrazionale dal razionale, ma piuttosto uno spirito che assimila a sé l'irrazionale addomesticandolo. Un fuoco che trae nutrimento da ciò che brucia
Al di fuori del logos non esistono verità e falsità, ma solo vita e morte, azione e reazione.
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: Duc in altum! il 25 Maggio 2016, 20:29:13 PM
Ciò che poniamo, quale illusione, a dirigere la nostra quotidianità.
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: Mariano il 25 Maggio 2016, 23:27:43 PM
Scusate la mia intromissione da ignorante della storia della filosofia , ma di che verità si vuole parlare?
La parola e' estremamente ambigua e non può essere usata in termini assoluti.
Una cosa è la verità se un fatto è successo oppure no, altra cosa è cercare la verità sul perché un fatto è successo; una cosa è chiedersi se un oggetto che noi abbiamo definito ad esempio mela ( perché frutto di un albero che chiamiamo melo) sia una mela, facilmente dimostrabile, e diversamente affermare che la mela e' dolce: dipende dalla sensibilità di ciascuno.
In sintesi vorrei dire che non si può parlare di verità in senso lato, ma solo relativamente al quesito proposto ed al soggetto.
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: paul11 il 26 Maggio 2016, 01:03:55 AM
Mariano
Propiro perchè la parola è ambigua è nata la logica formale.Ma sfugge il linguaggio naturale al formalismo.
Ma si cerca di descriverlo un fatto, in che modo rientra nella causalità oppure casualità ad esempio, e così via.
La soggettività ha ad esempio dei limiti, è meno condivisibile da una comunità in quanto meno verificabile.
Ognuno dei punti che ho illustrato ha dei limiti, per questo è ardua una verità assoluta.
Ma è interessante vedere come noi stessi costruiamo una nostra idea di mondo con i suoi meccanismi, in fondo i pensatori
,le scienze iniziano da tautologie, evidenze irriducibili, vale a dire non altrimenti scomponibile; mattone dopo mattone se vogliamo che la costruzione prenda corpo il legante deve avere delle coerenze interne
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: acquario69 il 26 Maggio 2016, 06:35:48 AM
Citazione di: maral il 24 Maggio 2016, 15:17:26 PM
Cosa ha determinato nella storia del pensiero occidentale il passaggio della verità da uno stato di spontaneo naturale manifestarsi allo scavo che costringe la natura a manifestarla? Dall'apparire della nudità all'apparire del nascondimento che occorre sistematicamente forzare?
E dove e quanto della verità come aletheia è in realtà ancora tra noi?

la riduzione dell'uomo al puramente umano,l'aver reciso il suo legame con l'universo,in altri termini con il suo archetipo immutabile e permanente,così gli e' rimasto solo il "terrestre",mutevole e relativo..(da notare come mano a mano questa inerente trasformazione lo stia facendo diventare sempre più inconsistente,oggi direi virtuale..forse e' il punto estremo della sua stessa relativizzazione...)
e' maya che viene scambiata per presunta Verita,in un processo che ha finito per rendere maya stesso (pseudo) assoluto,invertendo parodisticamente le cose,quindi chiudendo ogni possibilità di svelamento
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: Garbino il 26 Maggio 2016, 09:14:50 AM
Che cos' è la verità?

Proprio ieri ho fatto una piccola ricerca sulla verità per Aristotele e ho trovato la definizione: 
La Verità è la capacità di adeguarsi nell' intelletto alla cosa. E questa affermazione mi sembra abbastanza  in linea con il termine Aletheia. 
Ma, come più volte denuncia Nietzsche con attacchi tremendi, è Platone che crea un Mondo Altro ( mondo delle Idee o Iperuranio ) che sposta la verità in un ambito di completa velatura alla mente umana. E' solo l' anima che grazie all' anamnesi ( ricordo ) può penetrare in quel Mondo e riportarlo alla coscienza.
Da ciò mi sembra naturale che la verità a partire da Platone abbia nel tempo assunto un aspetto diverso e cioè dall' apparire della nudità all' apparire del nascondimento che occorre sistematicamente forzare ( come tu affermi nel finale ).

Spero di essere stato di aiuto. Grazie per la cortese attenzione. 

Garbino Vento di Tempesta.
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: HollyFabius il 26 Maggio 2016, 11:41:09 AM
Qualche decina di anni fa cercai di elencare tutte le possibili definizioni del termine verità.
Ricordo che mi fermai arrivato vicino alla decina, ma probabilmente avrei potuto continuare la ricerca.
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: maral il 27 Maggio 2016, 00:50:12 AM
Già, ci sono molti modi per dire la verità, anche se in linea di principio, la verità dovrebbe essere una sola, perché se ognuno ha la sua verità nessuno è nella verità. La cosa è però quanto meno assai problematica, bisognerebbe capire se la verità è in ciò che si sente o in ciò che si dice, o nel rapporto tra ciò che si sente e ciò che si dice, o, per uscire da questo soggettivismo di moda che riduce ogni filosofia a psicologismo, essa sta nel rapporto tra ciò che è e ciò che si dice, come mi pare intendano Platone, per il quale la luce della verità è nella trascendenza ideale, e Aristotele, per il quale l'essere è uno pur dicendolo appunto in molti modi (correttamente secondo le categorie che l'intelletto gli assegna) e da qui l'analisi della correttezza linguistica che studia il giusto rapporto logico tra le preposizioni. Ma è poi corretto ritenere che la verità sia solo un rapporto corretto tra preposizioni? Che stia tutta nel principio di ragion sufficiente?
E se la verità non fosse per nulla una faccenda proposizionale? Cos'è quella a-letheia, non latenza?
Certo Lou ha ragione quando ricorda che per Heidegger, che avrebbe tanto voluto fondare una nuova metafisica a partire dalla "meraviglia delle meraviglie" per cui "l'ente è anziché nulla", l'essere gioca continuamente (come il divino fanciullo di Eraclito) a svelarsi e nascondersi, a mostrarsi e mascherarsi, dunque tra verità e inganno, un po' - se mi si permette l'accostamento- come fa la dea Maya danzando con i suoi veli, e mascherandosi si scopre, come se alla fine la verità, quella vera, quella profonda e indicibile (di cui, come direbbe Wittgenstein, non si deve dire nulla, ma di cui, come ancora direbbe Wittgenstein, non possiamo non voler dire a dispetto della ragion sufficiente che subito mostra la sua insufficienza).
In fondo questo divino fanciullo che gioca con noi e si fa gioco di noi  non è proprio ciò che l'arte con le sue finzioni che vogliono poter dire il vero tenta sempre di evocare?
Torna ancora Heidegger, la sua fascinazione per la parola poetica. Heidegger che ritenne Nietzsche (il cui studio appassionato lo portò ai limiti del suicidio) il compimento di Platone, l'espressione finale e tragica di quella metafisica dell'Occidente a cui Platone aveva dato inizio e Aristotele aveva portato alla sua massima espressione filosofica. Platone, Aristotele... Nietzsche (passando per Hegel e tutti gli altri, ognuno a interpretare la sua scena grandiosa destinata all'oblio eterno), l'alfa e l'omega di una storia immensa giunta al suo epigono tragico, tutti legati dalla stessa metafisica a cui lo stregone della Selva Nera sognava di dare un significato radicalmente nuovo, una nuova aurora, ma ne fu incapace, se ne sentì incapace (solo un Dio ci può salvare, giunse a dire), o forse quella metafisica nuova ce l'aveva davanti, era paradossalmente l'antimetafisica radicale della tecnica che mostrava un mondo senza uomo, la fine dell'ente per eccellenza nel niente.
Duc scrive che la verità è l'illusione che poniamo (o da cui siamo posti?) a dirigere la nostra quotidianità; chissà se allora condivide la scettica ironia di Pilato che, a Gesù che gli diceva di essere venuto al mondo per dare testimonianza alla verità, replica proprio con questa domanda "Quid est veritas?" (Gv 18, 38), ma a cui nel passo non segue risposta.

Mi si perdoni questo volo velocissimo, superficiale e impasticciato su millenni di ricerca della verità, il senso che vorrei qui si capisse è che tutti noi pensiamo di possederla la verità vera (fosse pure la verità di una mela che tutti dicono che è una mela, ma che ognuno alla fine la trova un po' diversa e la sua è certo la mela più vera), anche quando apparentemente sembriamo disposti ad ammettere che la verità è solo questione personale, che dipende dai punti di vista senza accorgersi che dopotutto anche questa è una pretesa che vuole che valga per tutti (escluso lui, mentre dice questo). E' come se ognuno, anche il più scettico, sapesse cos'è la verità in positivo (per questo mi era piaciuta la definizione al negativo degli antichi Greci) e tenta di dirlo e si arrabbia pure, ma non ci riesce a dirlo senza contraddirsi. Il divino fanciullo di Eraclito è proprio un gran burlone: non solo velandosi si svela, ma pure svelandosi si vela, la contraddizione si ripete all'infinito nella danza e chi cerca onestamente e senza fingere la verità rischia di trovarla solo nella follia che lo mena per il naso senza pietà.
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: Mariano il 27 Maggio 2016, 15:07:25 PM
Citazione di: maral il 27 Maggio 2016, 00:50:12 AM
Già, ci sono molti modi per dire la verità, anche se in linea di principio, la verità dovrebbe essere una sola, perché se ognuno ha la sua verità nessuno è nella verità. La cosa è però quanto meno assai problematica, .....
Tutto il resto è poesia!
Mi azzardo a dire: l'unica verità vera e' che la verità non esiste.
Oppure, come ci tramandano che disse Gesù,: io sono la via, la verità, la vita (Giovanni: 14.1)
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: Freedom il 27 Maggio 2016, 19:37:37 PM
Secondo me la verità è sapere come stanno le cose.
E per saperlo bisogna avere un quadro di riferimento: da dove veniamo, dove andiamo e perché siamo qui.
E credo anche che la verità debba essere eterna e immutabile.
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: Phil il 27 Maggio 2016, 19:47:50 PM
E se la Verità non fosse altro che il simulacro laico della Divinità, o slittando un po' la prospettiva, ciò che la metafisica ha posto come suo idolo e, nel caso di aletheia, definisce con una sorta di "teologia negativa"? Entrambe, Verità e Divinità sono postulate come uniche, trascendenti, assolute. etc.  e l'impervia ricerca di Verità non resta forse chiusa nel circolo vizioso, "sisifico", del "rincorro la mia ombra cercando di afferrarla"? L'aporia del non riuscire a (com)prenderla è causata da me, che ho scelto di provare a prendere ciò che ho posto io stesso come inafferrabile... talvolta si resta prigionieri della narrazione metaforica in cui la Verità viene personificata o intesa attivamente, per cui è Lei a ritrarsi, è Lei a velarsi, è Lei a darsi, etc. ma ciò pone per necessariamente ovvio che ci sia, la ritrosa e suadente damigella che per pudore si nasconde dietro il velo... ma per saperlo dovremmo averla già almeno avvistata (altrimenti è solo la proiezione di un desiderio), soprattutto se ci spingiamo fino a descriverne le intime caratteristiche e le languide movenze.
In fondo, ogni ricerca onesta presuppone anche la possibilità del suo fallimento, da intendere come ammissione della non esistenza del "cercato", mentre se si è dentro una tautologia, come per la Divinità o la Verità, il fallimento non è contemplato, oppure inteso solo come incapacità del cercatore (perché altrimenti verrebbe falsificato il presupposto dogmatico di partenza: "la Verità esiste, per certo; il problema è trovarla"). Direi che il '900 è stato proprio la presa di coscienza che forse si stava cercando solo qualcosa di sognato nell'epoca dei miti metafisici, la Verità, ma anche che il suo residuo fenomenologico, "il vero", mantiene comunque la sua utilità pragmatica come esisto possibile della corrispondenza fra la descrizione e il descritto (per cui l'anelata donzella si dimostra semplicemente una adaequatio rei intellectus, confinata nella semiologia più che nell'ontologia, e con tanto di iniziale minuscola...).
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: HollyFabius il 27 Maggio 2016, 20:30:52 PM
Dove vive la verità? Nel nostro mondo del logos o nel mondo reale?
La verità è la corrispondenza di un nostro modello mentale condiviso con la realtà? Ma puoi esserci questa corrispondenza?
Nel mondo del logos, la verità è ciò che rimane dopo che abbiamo realizzato il processo di setaccio delle falsità.
Può esistere verità senza falsità?
Esiste verità senza autenticità?
Essere obiettivi significa dire il vero?
Possiamo avere certezza della verità?
La realtà è verità?
... continua  ::)
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: maral il 27 Maggio 2016, 21:26:16 PM
Citazione di: Mariano il 27 Maggio 2016, 15:07:25 PM
Tutto il resto è poesia!
E la poesia non è forse verità? Forse l'unica possibile verità
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: Phil il 27 Maggio 2016, 23:03:48 PM
Eppure, sperare che il dire poetante riesca dove ha fallito il dire filosofico, non è come affidarsi ad uno stregone dopo essere stati delusi da un omeopata? 
La poesia non è forse quella frontiera estrema del linguaggio totalmente disinteressata al vero, al punto di poterlo anche dire, stordire o tradire liberamente?
L'elezione di un poeta piuttosto che di un altro, come "profeta del vero", come può essere "veridica"? Holderlin e Basho raccontano la stessa verità?
Oggi, nella contemporaneità, la nostra verità è la nostra poesia?
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: Duc in altum! il 28 Maggio 2016, 22:55:29 PM
**  scritto da maral:
CitazioneDuc scrive che la verità è l'illusione che poniamo (o da cui siamo posti?) a dirigere la nostra quotidianità; chissà se allora condivide la scettica ironia di Pilato che, a Gesù che gli diceva di essere venuto al mondo per dare testimonianza alla verità, replica proprio con questa domanda "Quid est veritas?" (Gv 18, 38), ma a cui nel passo non segue risposta.
Non segue risposta perché Pilato, come tantissimi altri da 2000 anni a questa parte, non desidera ascoltarla. Infatti esce dalla stanza, e si dirige verso l'accusa fallace (i Giudei), che Pilato sa, per esperienza, d'essere motivata soltanto dal rischio che quella verità toglierebbe loro il potere (non penso accadrebbe qualcosa di differente oggi, nel 2016, se c'incontrassimo nella stessa circostanza).
Inoltre Pilato non è ironico, ma impaurito: "...all'udire queste parole, Pilato ebbe ancora più paura..." (Gv 19, 8)
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: maral il 29 Maggio 2016, 12:02:28 PM
Citazione di: Phil il 27 Maggio 2016, 23:03:48 PM
Eppure, sperare che il dire poetante riesca dove ha fallito il dire filosofico, non è come affidarsi ad uno stregone dopo essere stati delusi da un omeopata?
La poesia non è forse quella frontiera estrema del linguaggio totalmente disinteressata al vero, al punto di poterlo anche dire, stordire o tradire liberamente?
L'elezione di un poeta piuttosto che di un altro, come "profeta del vero", come può essere "veridica"? Holderlin e Basho raccontano la stessa verità?
Oggi, nella contemporaneità, la nostra verità è la nostra poesia?
La differenza sta appunto tra verità come correttezza da verificare formalmente, e verità come accadere (evento che ci coglie e ci comprende nel momento stesso in cui si presenta). Certamente il poeta è stregone, il cui lavoro di finzione, serve a preparare il terreno all'evento veridico, ma senza pre giudizi né sui poeti, né sugli stregoni, poiché non sono loro a raccontare la verità, ma solo a disporci alla manifestazione dell'esserci che gioca tra il vero e il falso riempiendo l'istante di un significato che nell'evento sta  sempre oltre il venire detto.

Citazione di: Duc in altum!Inoltre Pilato non è ironico, ma impaurito: "...all'udire queste parole, Pilato ebbe ancora più paura..."
Giusta osservazione, la verità non è mai rassicurante, ma più spesso fa paura, ci chiama in gioco oltre la logica e dal suo gioco non è detto che si esca riportando a casa se stessi, per questo per lo più accade di non volere che si presenti.
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: Lou il 29 Maggio 2016, 12:59:28 PM
Citazione di: Phil il 27 Maggio 2016, 19:47:50 PML'aporia del non riuscire a (com)prenderla è causata da me, che ho scelto di provare a prendere ciò che ho posto io stesso come inafferrabile...
Non posso che sottoscrivere, appare un processo circolare e sará proprio l'ermeneutica a rilevare ciò e come sia necessario imparare a stare nel circolo quale atto di incessante inesausta interpretazione.
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: Phil il 29 Maggio 2016, 13:26:45 PM
Citazione di: maral il 29 Maggio 2016, 12:02:28 PMLa differenza sta appunto tra verità come correttezza da verificare formalmente, e verità come accadere (evento che ci coglie e ci comprende nel momento stesso in cui si presenta). Certamente il poeta è stregone, il cui lavoro di finzione, serve a preparare il terreno all'evento veridico, ma senza pre giudizi né sui poeti, né sugli stregoni, poiché non sono loro a raccontare la verità, ma solo a disporci alla manifestazione dell'esserci che gioca tra il vero e il falso riempiendo l'istante di un significato che nell'evento sta sempre oltre il venire detto
Se ho ben colto la tua spiegazione, oltre alla "verità formale", alludi ad una verità caratterizzata da un certo campo semantico dell'esperenziale: "accadere", "evento", "manifestazione dell'esserci", "istante", "significato che sta oltre il venir detto"... una verità che mi pare si quella del vissuto (non solo sensoriale ma anche esistenziale), quindi verità > v(er)ita > vita... tuttavia, se viene così denotata, ha (ancora) senso un interrogarsi filosofico al riguardo? E siamo sicuri che "verità" sia il termine adatto e non solo il residuo di una metafora metafisica dell'"ontologia delle maiuscole" (l'Essere, il Vero...)? La poesia stessa ci insegna a diffidare del suo uso del linguaggio, proprio in quanto parola alle soglie dell'indicibile/incomunicabile... secondo me, la v(er)ita evocata dai poeti, di cui loro non sarebbero custodi ma solo sacerdoti, può essere intesa come "verità" solo nel linguaggio poetico, che non deve rendere conto alla ragione; ma all'infuori di esso, fermandosi un passo prima dell'estetica, ci si chiederebbe, inevitabilmente, "cos'è allora la falsità"? Se i poeti (ribadisco: tutti? Se "no", come discriminarli?), ci dispongono "alla manifestazione dell'esserci che gioca tra il vero e il falso" (cit.), la falsità va intesa forse come non-essere (rischiando di chiamare in causa la "verità formale"), come indicazione beffardamente fuorviante dei poeti (che in quanto tali fanno del trascendere il vero e la realtà un loro diritto), come ricezione inautentica degli eventi (ma come fondare oggettivamente l'autentico?), o quale altro può essere il contraltare di quella verità? 
Se non si può contestualizzare ragionevolmente un termine, forse il suo uso è solo metaforico (v. autoreferenzialità della "verità" in poesia...).

Citazione di: Lou il 29 Maggio 2016, 12:59:28 PMNon posso che sottoscrivere, appare un processo circolare e sará proprio l'ermeneutica a rilevare ciò e come sia necessario imparare a stare nel circolo quale atto di incessante inesausta interpretazione.
... e l'ermeneutica del circolo ermeneutico (genitivo oggettivo), il circolare del cerchio stesso, trasforma il circolo in spirale (non "aurea")...
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: maral il 30 Maggio 2016, 20:11:23 PM
Citazione di: Phil il 29 Maggio 2016, 13:26:45 PM
Se ho ben colto la tua spiegazione, oltre alla "verità formale", alludi ad una verità caratterizzata da un certo campo semantico dell'esperenziale: "accadere", "evento", "manifestazione dell'esserci", "istante", "significato che sta oltre il venir detto"... una verità che mi pare si quella del vissuto (non solo sensoriale ma anche esistenziale), quindi verità > v(er)ita > vita... tuttavia, se viene così denotata, ha (ancora) senso un interrogarsi filosofico al riguardo? E siamo sicuri che "verità" sia il termine adatto e non solo il residuo di una metafora metafisica dell'"ontologia delle maiuscole" (l'Essere, il Vero...)? La poesia stessa ci insegna a diffidare del suo uso del linguaggio, proprio in quanto parola alle soglie dell'indicibile/incomunicabile... secondo me, la v(er)ita evocata dai poeti, di cui loro non sarebbero custodi ma solo sacerdoti, può essere intesa come "verità" solo nel linguaggio poetico, che non deve rendere conto alla ragione; ma all'infuori di esso, fermandosi un passo prima dell'estetica, ci si chiederebbe, inevitabilmente, "cos'è allora la falsità"? Se i poeti (ribadisco: tutti? Se "no", come discriminarli?), ci dispongono "alla manifestazione dell'esserci che gioca tra il vero e il falso" (cit.), la falsità va intesa forse come non-essere (rischiando di chiamare in causa la "verità formale"), come indicazione beffardamente fuorviante dei poeti (che in quanto tali fanno del trascendere il vero e la realtà un loro diritto), come ricezione inautentica degli eventi (ma come fondare oggettivamente l'autentico?), o quale altro può essere il contraltare di quella verità?
Se non si può contestualizzare ragionevolmente un termine, forse il suo uso è solo metaforico (v. autoreferenzialità della "verità" in poesia...).
Il punto è che la "verità formale" non è verità proprio in quanto si presenta come solo formale, dunque è essa stessa che, nel suo essere formale, spinge oltre il limite logico formale che la definisce, oltre il suo poter essere detta secondo logica. La formalità logica che si impone sul linguaggio è quindi uno dei veli con cui la verità si maschera per rivelarsi nella sua danza, non la verità stessa e il crederla tale in virtù della sua potenza discriminativa logica significa solo cadere nella burla giocata dal divino fanciullo eracliteo (che poi è lo stesso gioco della poesia e dell'arte le cui figure non si possono prendere come "verificabili", o tanto meno degne di una doverosa fede letterale). Lo stesso fanciullo danzante non è certamente un vero fanciullo che possiamo pensare di dimostrare per procedimento analitico deduttivo o trovare da qualche parte come un bambino che balla, è a sua volta un inganno di cui siamo consapevoli, ma tale da richiamarci alla verità che non ha definizione poiché ogni definizione la tradisce.     
In tal senso la verità nell'evento non è il semplice negativo logico della falsità che la esclude come suo opposto.
Anche fondare oggettivamente la verità è velarla, poiché se la fondo oggettivamente, che ne è della verità soggettiva e perché mai dovrei escludere l'una in nome dell'altra? La verità non si preoccupa di essere né soggettiva né oggettiva, poiché gioca sempre tra soggetto e oggetto.
Il contraltare della verità dell'evento sta appunto nel negarla come evento per cristallizzarla per sempre in un puro costrutto formale che si pretende inamovibile in modo da poterlo dire con totale esattezza senza sentirne la potenza, o nella salma mummificata di un ente oggetto sempre perfettamente calcolabile e verificabile, o anche in un idolo supremo o una legge suprema, fosse pure quella di un divenire assoluto. Il contraltare della verità è la risata del fanciullo che si fa beffe di chi cade nei suoi tiri birboni tentando di prendere alla lettera ciò che dice per valutarne solo la lettera.
   
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: Lou il 30 Maggio 2016, 20:40:54 PM
Citazione di: maral il 30 Maggio 2016, 20:11:23 PM
Il contraltare della verità dell'evento sta appunto nel negarla come evento per cristallizzarla per sempre in un puro costrutto formale che si pretende inamovibile in modo da poterlo dire con totale esattezza senza sentirne la potenza...
che poi non è che latenza.
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: davintro il 30 Maggio 2016, 22:09:44 PM
Maral scrive:
"Anche fondare oggettivamente la verità è velarla, poiché se la fondo oggettivamente, che ne è della verità soggettiva e perché mai dovrei escludere l'una in nome dell'altra? La verità non si preoccupa di essere né soggettiva né oggettiva, poiché gioca sempre tra soggetto e oggetto."

La categoria di "vero" è applicabile a dei giudizi, che sono il prodotto di un pensiero soggettivo... in questo senso la verità certamente presuppone la soggettività, un pensiero pensante, ed è giusto distinguere il concetto di "verità" da quello di "realtà", al tempo stesso il criterio della viertà è la corrispondenza del giudizio alla realtà oggettiva: "la neve è bianca" è verità se e solo se la neve è realmente ed oggettivamente bianca. Soggetto e oggetto da un lato si oppongono nella misura in cui qualcosa di oggettivo trascende la mia soggettività empirica e relativa e mi trascende perchè mi sta "di fronte", dall'altro si implicano in quanto nel pensiero il soggetto si rivolge intenzionalmente alla conoscenza di una verità oggettiva, ed in questo rivolgersi ci esponiamo alla possibilità di dire il falso o il vero. Fintanto che ho semplicemente paura sono una soggettività ancora chiusa in se stessa, che subisce la paura in forma sostanzialmente passiva (passiva fino a un certo punto, ma per ora lasciamo stare), quando comincio a PENSARE di aver paura oggettivo la paura, mi distacco da essa e mi pongo nelle condizioni di dire il vero o il falso su questo stato psichico. In questo modo la verità è al contempo oggettiva, in quanto ha il reale come propria misura regolativa, e soggettiva in quanto presuppone un pensiero giudicante e che dica dunque la verità. Non si deve confondere il riferimento alla soggettività con il relativismo. Il relativismo sorge quando la soggettività si chiude in se stessa nel particolarismo e contingenza del proprio punto di vista tagliando ogni via d'uscita che la apre all'universalità del reale. Ed è la ragione il medium che collega la soggettività particolare con l'oggettività del reale. Confondere "soggettività" e "relatività" nasce dall'errore di pensare soggetto e oggetto come dimensioni chiuse in sè stesse ed incomunicabili invece che poli di una dialettica di reciproca interrelazione. Quando dico la verità, la dico in quanto soggetto che pensa e dice ma ho rappresentato uno stato di cose che sarebbe stato indipendentemente dal fatto che io abbia detto la verità o abbia mentito. Nel dire la verità il soggetto in un certo senso "esce fuori da sè", o meglio dalla sua singolarità contingente
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: Phil il 30 Maggio 2016, 22:16:14 PM
Citazione di: Lou il 30 Maggio 2016, 20:40:54 PM
Citazione di: maral il 30 Maggio 2016, 20:11:23 PMIl contraltare della verità dell'evento sta appunto nel negarla come evento per cristallizzarla per sempre in un puro costrutto formale che si pretende inamovibile in modo da poterlo dire con totale esattezza senza sentirne la potenza...
che poi non è che latenza.
che è sintomo di assenza nella distanza...

Perché una 
Citazione di: maral il 30 Maggio 2016, 20:11:23 PMverità che non ha definizione poiché ogni definizione la tradisce [...] verità non si preoccupa di essere né soggettiva né oggettiva, poiché gioca sempre tra soggetto e oggetto
è una verità assente nell'evento della v(er)ita, assenza che noi interpretiamo come distanza di qualcosa (ecco il "cercarla"), come traccia (ecco il "braccarla" per divertissement dei poeti), come velata fascinazione (ecco lo sguardo che vuole penetrare e svelare)... ma se ciò che ci sembra di intravvedere fossero solo la polvere e lo sporco depositati sul velo e non l'ombra di ciò che è sotto? Se sotto il velo non ci fosse nulla, se non il nostro nudo desiderio di una presenza sognata? 

"Abbiamo scoperto una strana impronta sulla spiaggia dell'ignoto. Abbiamo escogitato profonde teorie, l'una dopo l'altra, per spiegarne la provenienza. Alla fine siamo riusciti a ricostruire la creatura che aveva lasciato quell'impronta. Ed ecco! è la nostra impronta!
(Sir Arthur Eddington)
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: maral il 31 Maggio 2016, 19:41:11 PM
Citazione di: davintro il 30 Maggio 2016, 22:09:44 PM
La categoria di "vero" è applicabile a dei giudizi, che sono il prodotto di un pensiero soggettivo... in questo senso la verità certamente presuppone la soggettività, un pensiero pensante, ed è giusto distinguere il concetto di "verità" da quello di "realtà", al tempo stesso il criterio della viertà è la corrispondenza del giudizio alla realtà oggettiva: "la neve è bianca" è verità se e solo se la neve è realmente ed oggettivamente bianca.
Ma la verità non è necessariamente applicabile solo a dei giudizi (se per giudizio si intende un lavoro di verifica) e solo in questo senso è assoluta. Se Tizio sente di amare Maria e lo sente davvero, non è che ha bisogno di formulare un giudizio su cui valutare se è vero o no che la ama, è vero e se si mettesse a verificare cercando l'oggettività del suo amore significherebbe già che non la ama veramente. Ho tirato in ballo l'amore, ma la stessa cosa vale per il dolore: non ho bisogno di un giudizio che mi dica se il mio dolore è vero o falso, è oggettivo o soggettivo, lo sento, lo vivo, è vero. E così è per la paura, per l'angoscia (che, a differenza della paura, non ha né soggetto né oggetto), per la gioia. L'angoscia e la gioia non sono sentimenti che riguardano un soggetto (a lui relativi), suoi modi di sentire, ma accadimenti che lo trascendono accadendo, sono rivelazione.
Il reale si presenta nella verità del suo accadere e questo accadimento può porre insieme il suo soggetto e il suo oggetto. Fuori da questo puro accadere non c'è né soggetto né oggetto e il giudizio logico verificante è solo un problema del soggetto, della sua soggettività per come è determinata dall'evento.
Quando dico la verità non la dico, poiché l'evento della verità è indicibile, a meno che non sia il mio dire stesso questo evento di verità, prima che venga giudicato su un piano logico. E questo non significa che tutto è vero, è vero solo ciò che si presenta come evento di verità, come il male che sento se mi schiaccio un dito.

Citazione di: Philma se ciò che ci sembra di intravvedere fossero solo la polvere e lo sporco depositati sul velo e non l'ombra di ciò che è sotto? Se sotto il velo non ci fosse nulla, se non il nostro nudo desiderio di una presenza sognata?
E questo è il gioco che sempre si fa gioco di noi, poiché non definisce se non nel dubbio di quello che vorremmo arrivare a de-finire, rendendolo come un oggetto anziché come evento.
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: Donalduck il 31 Maggio 2016, 22:17:39 PM
La verità è uno dei tanti termini "asintotici". Qualcosa a cui ci si può solo avvicinare, ma mai raggiungere.
L'unica definizione che potrei dare è riportare (riflettere) un flusso di informazione senza distorsioni, aggiunte o filtri di nessun genere.
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: sgiombo il 01 Giugno 2016, 11:41:02 AM
Maral ha scritto:

Ma la verità non è necessariamente applicabile solo a dei giudizi (se per giudizio si intende un lavoro di verifica) e solo in questo senso è assoluta. Se Tizio sente di amare Maria e lo sente davvero, non è che ha bisogno di formulare un giudizio su cui valutare se è vero o no che la ama, è vero e se si mettesse a verificare cercando l'oggettività del suo amore significherebbe già che non la ama veramente. Ho tirato in ballo l'amore, ma la stessa cosa vale per il dolore: non ho bisogno di un giudizio che mi dica se il mio dolore è vero o falso, è oggettivo o soggettivo, lo sento, lo vivo, è vero. E così è per la paura, per l'angoscia (che, a differenza della paura, non ha né soggetto né oggetto), per la gioia. L'angoscia e la gioia non sono sentimenti che riguardano un soggetto (a lui relativi), suoi modi di sentire, ma accadimenti che lo trascendono accadendo, sono rivelazione.
Il reale si presenta nella verità del suo accadere e questo accadimento può porre insieme il suo soggetto e il suo oggetto. Fuori da questo puro accadere non c'è né soggetto né oggetto e il giudizio logico verificante è solo un problema del soggetto, della sua soggettività per come è determinata dall'evento.
Quando dico la verità non la dico, poiché l'evento della verità è indicibile, a meno che non sia il mio dire stesso questo evento di verità, prima che venga giudicato su un piano logico. E questo non significa che tutto è vero, è vero solo ciò che si presenta come evento di verità, come il male che sento se mi schiaccio un dito.

Rispondo:


Mi sembra che qui si confondano fatti e credenze, realtà (o meno) e verità (o meno).

L' amore di Tizio per Maria e il dolore sentito da Caio sono fatti (non credenze, predicati, giudizi, conoscenze; lo sarebbero casomai le affermazioni "Tizio ama Maria" o "Caio soffre", dette da Tizio, Caio o chiunque altro).
E come tali possono solo essere reali (o meno, a seconda dei casi), e non veri o falsi.
Veri o falsi possono essere solo credenze, predicati, giudizi, conoscenze.

Anche credenze, predicati, giudizi, conoscenze sono fatti (che dunque in quanto tali possono essere reali o meno); ma fatti del tutto peculiari: gli unici fatti che possono (anche) essere veri o falsi.



Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: davintro il 01 Giugno 2016, 22:14:46 PM
Completamente d'accordo con Sgiombo, la verità attiene al piano dei giudizi, ciò attraverso cui il soggetto prende posizione nei confronti di un mondo oggettivo, non a quello estetico dei sentimenti o delle sensazioni, che restano eventi in cui è ancora assente un'oggettivazione. Fintanto che mi limito ad avvertire un dolore, questo dolore non è tematizzato, non è oggetto di una presa di posizione per la quale posso dire cose vere o false. Non ha alcun senso dire che un dolore, una gioia, una paura, una tristezza è "vera", posso dire cose vere di essi nella misura in cui trascendo la condizione di soggetto senziente per farmi soggetto conoscente, dunque giudicante, giudicante nei confronti di questi sentimenti che vengono oggettivati. Eppure anche i sentimenti hanno a che fare con la realtà oggettiva. Ma non nel senso della "verità", ma dell' "adeguatezza". La paura dello studente il giorno prima dell' esame non è "vera" o "falsa", perchè la  paura di per sè non è giudizio. Io posso avere paura del fatto che l'esame possa andar male e tuttavia non emettere un giudizio negativo. Questo perchè mentre il giudizio vero-falso si pone come un aut-aut, un salto qualitativo tra due alternative che si escludono a vicenda, la paura come tutti i sentimenti sono una quantità, qualcosa che è presente "più o meno" in me, è presente in me condividendo uno spazio psichico con la speranza di un buon esito dell'esame. Se l'esame fosse più facile di quello che pensi si può dire che la mia paura è eccessiva in relazione all'evento che mi attende, ma non che è "falsa". E nel caso dell'amore ci allontaniamo ancora di più dall'ambito della verità, dato che, mentre la paura almeno è collegata all'eventualità di un fatto oggettivo (la non riuscita di un esame), l'amore è legato ad un gusto soggettivo, un'attribuzione di un valore soggettivo che l'amante rivolge nei confronti della persona amata, è vero che amo e che ho paura, ma nel momento in cui sto amando o temendo non sto affermando alcuna verità o falsità. La verità va considerata all'interno del piano logico e cognitivo dei giudizi, va distinto dal piano estetico dei sentimenti, è appannaggio della scienza (comprendente anche la filosofia), non dell'arte, quantomeno non in modo esplicito e diretto
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: Lou il 01 Giugno 2016, 22:19:39 PM
davintro, fammi capire, dove non aattiene una oggettivazione non ha senso parlare di "veritá"? ???
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: davintro il 01 Giugno 2016, 23:25:28 PM
Citazione di: Lou il 01 Giugno 2016, 22:19:39 PMdavintro, fammi capire, dove non aattiene una oggettivazione non ha senso parlare di "veritá"? ???

A mio avviso no, non avrebbe senso... Quantomeno se si accetta l'idea della verità come corrispondenza del giudizio con la realtà delle cose. Se non sono in grado di riferire i miei pensieri ad una realtà oggettiva allora mancherebbe il criterio in base a cui definire la corrispondenza dei miei giudizi con la realtà perchè... non ci sarebbe nulla a cui far corrispondere! Ciò che pongo come valore solo per la mia soggettività è al di qua della verità o falsità perchè in me mancherebbe l'idea di una realtà oggettiva di fronte a cui stabilire la verità dei miei pensieri. Le cose sarebbero diverse solo cambiando lo statuto e la definizione del concetto di "verità", slegando questa dalla relazione di corrispondenza con la realtà... ma secondo me ciò sarebbe la fine di qualunque senso si possa attribuire alla conoscenza scientifica, che cerca appunto la verità del reale, almeno così penso...
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: maral il 05 Giugno 2016, 23:06:22 PM
Citazione di: sgiombo il 01 Giugno 2016, 11:41:02 AM
Veri o falsi possono essere solo credenze, predicati, giudizi, conoscenze.
E questo secondo te è vero o falso? In base a cosa?

CitazioneAnche credenze, predicati, giudizi, conoscenze sono fatti (che dunque in quanto tali possono essere reali o meno); ma fatti del tutto peculiari: gli unici fatti che possono (anche) essere veri o falsi.
E perché? In base a cosa fai questa distinzione tra fatti?
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: maral il 05 Giugno 2016, 23:32:19 PM
Citazione di: davintro il 01 Giugno 2016, 22:14:46 PM
Fintanto che mi limito ad avvertire un dolore, questo dolore non è tematizzato, non è oggetto di una presa di posizione per la quale posso dire cose vere o false.
E' il suo diretto presentarsi che lo rivela vero, e indiscutibilmente vero. In questo caso la verità non è il risultato di un giudizio ponderato e oggettivo, ma di un puro accadere. Ammesso che sia mai esistito un giudizio puramente oggettivo che riguarda il vissuto (i giudizi oggettivi possono venire dati solo su preposizioni formali, come i teoremi matematici) e non piuttosto sempre condizionati dalla posizione soggettiva da cui si giudica. Anche la scienza riduce il concetto di oggettività a quello della costruzione di una soggettività condivisa, secondo un metodo applicabile in determinati campi e in altri no.
Citazionema nel momento in cui sto amando o temendo non sto affermando alcuna verità o falsità.
Come no, sto affermando la verità assoluta del mio amore, poiché semplicemente lo sento è vero e reale insieme.
CitazioneLa verità va considerata all'interno del piano logico e cognitivo dei giudizi, va distinto dal piano estetico dei sentimenti, è appannaggio della scienza (comprendente anche la filosofia), non dell'arte, quantomeno non in modo esplicito e diretto
E perché mai? Non sarebbe piuttosto meglio pensare che la verità, pur essendo una sola, ha diversi modi di presentarsi e a volte, anziché di un giudizio preceduto da analisi logica, ha bisogno di un'esperienza (che a volte può non avere né soggetto né oggetto, come l'angoscia, o la gioia senza motivo) o anche di un'interpretazione?

Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: sgiombo il 06 Giugno 2016, 08:20:04 AM
Citazione di: maral il 05 Giugno 2016, 23:06:22 PM
Citazione di: sgiombo il 01 Giugno 2016, 11:41:02 AM
Veri o falsi possono essere solo credenze, predicati, giudizi, conoscenze.
E questo secondo te è vero o falso? In base a cosa?

CitazioneAnche credenze, predicati, giudizi, conoscenze sono fatti (che dunque in quanto tali possono essere reali o meno); ma fatti del tutto peculiari: gli unici fatti che possono (anche) essere veri o falsi.
E perché? In base a cosa fai questa distinzione tra fatti?

Proprio non capisco.
Quanto da me scritto sono semplicemente i significati comunemente attribuiti ai termini "reale" non reale", "vero" e "falso".

Il fatto che veri o falsi possono essere solo credenze, predicati, giudizi, conoscenze, ovvero la loro peculiarità di poter essere veri o falsi (oltre che, come tutti gli altri fatti, reali o meno) sono veri in base ai significati che comunemnete si attribuiscono a questi temini, a come di definiscono questi concetti, a ciò che si intende per essi, la loro connotazione.
Cioé é vero che questo di fatto comunemente si intende con questi concetti (e non con quello di "fatto in generale"); se tu attribuisci ad essi per qualche tuo motivo significati diversi, tali per cui ad esempio un sentimento di amore (e non: la dichiarazione di un sentimento di amore), oltre a poter essere reale o meno, a poter accadere o meno, può anche essere vero o meno, allora é necessario che ci traduciamo reciprocamente i differenti linguaggi che usiamo.
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: sgiombo il 06 Giugno 2016, 08:36:02 AM
Citazione di: maral il 05 Giugno 2016, 23:32:19 PM
Citazione di: davintro il 01 Giugno 2016, 22:14:46 PM
Fintanto che mi limito ad avvertire un dolore, questo dolore non è tematizzato, non è oggetto di una presa di posizione per la quale posso dire cose vere o false.
E' il suo diretto presentarsi che lo rivela vero, e indiscutibilmente vero. In questo caso la verità non è il risultato di un giudizio ponderato e oggettivo, ma di un puro accadere. Ammesso che sia mai esistito un giudizio puramente oggettivo che riguarda il vissuto (i giudizi oggettivi possono venire dati solo su preposizioni formali, come i teoremi matematici) e non piuttosto sempre condizionati dalla posizione soggettiva da cui si giudica. Anche la scienza riduce il concetto di oggettività a quello della costruzione di una soggettività condivisa, secondo un metodo applicabile in determinati campi e in altri no.
Citazionema nel momento in cui sto amando o temendo non sto affermando alcuna verità o falsità.
Come no, sto affermando la verità assoluta del mio amore, poiché semplicemente lo sento è vero e reale insieme.
CitazioneLa verità va considerata all'interno del piano logico e cognitivo dei giudizi, va distinto dal piano estetico dei sentimenti, è appannaggio della scienza (comprendente anche la filosofia), non dell'arte, quantomeno non in modo esplicito e diretto
E perché mai? Non sarebbe piuttosto meglio pensare che la verità, pur essendo una sola, ha diversi modi di presentarsi e a volte, anziché di un giudizio preceduto da analisi logica, ha bisogno di un'esperienza (che a volte può non avere né soggetto né oggetto, come l'angoscia, o la gioia senza motivo) o anche di un'interpretazione?

I giudizi su proposizioni formali, come i teoremi matematici, sono giudizi analitici a priori, non giudizi circa la realtà (oggettiva) o meno, ma sui termini delle definizioni e degli assiomi (possono essere logicamente corretti o meno).
Quelli sui fatti empiricamente constatabili sono sintetici a posteriori; e questi ultimi possono essere in accordo con la realtà dei fatti (oggettivi, o meglio, secondo me, intersoggettivi) o meno.

Possono dunque darsi verità -o falsità- logiche (analitiche a priori) o empiriche (sintetiche a posteriori), ma non fatti (in generale; fatti diversi dai giudizi)  veri o falsi, bensì soltanto reali o meno (secondo il significato che comunemente si attribuisce a queste parole, che altrimenti necessitiamo, onde comunicare, di tradurci i nostri rispettivi, fra loro differenti linguaggi).
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: davintro il 06 Giugno 2016, 21:20:45 PM
Rispondo a Maral:

Cosa sarebbe la "verità assoluta del mio amore?" Quale verità posso dire riguardo all'amore che posso provare, per esempio, per una persona? Posso dire che la persona  che amo "merita" di essere amata", posso dire che "io sono innamorato di questa persona", ma queste verità (o falsità) sono prese di posizione che pongo in atto nel momento in cui pongo il mio sentimento non più come situazione che mi assorbe, ma come fatto che io rendo OGGETTO di una valutazione, nel momento in cui io in un certo senso mi scindo tra "me" in quanto soggetto che che valuta e che pensa cose vere e false e "me" in quanto oggetto che diviene il tema della valutazione, l'incapacità di questo duplicarsi renderebbe impossibile il pormi come soggetto della verità

Maral scrive:
"Ammesso che sia mai esistito un giudizio puramente oggettivo che riguarda il vissuto (i giudizi oggettivi possono venire dati solo su preposizioni formali, come i teoremi matematici) e non piuttosto sempre condizionati dalla posizione soggettiva da cui si giudica. Anche la scienza riduce il concetto di oggettività a quello della costruzione di una soggettività condivisa, secondo un metodo applicabile in determinati campi e in altri no."

Mi sembra (possibile che abbia capito male) che si stiano un pò confondendo i piani del discorso. Per il problema della definizione della verità è sufficiente riconoscere in generale l'idea di un mondo oggettivo come ideale regolativo, criterio trascendentale in base a cui pensare un giudizio come più o meno adeguato, cioè più o meno vero. Il fatto (innegabile) del condizionamento della posizione soggettiva nella nostra conoscenza della realtà non smentisce il dato che noi in quanto soggetti pensanti siamo intenzionalmente rivolti verso un'oggettività che cerchiamo di riconoscere, intepretare, giudicare. La questione dell'impossibilità di raggiungere una conoscenza pienamente oggettiva è altra rispetto a quella di ammettere, al di là di tutte le possibili concettualizzazioni o interpretazioni, l'esistenza di una realtà oggettiva pensata genericamente che funga da criterio di definizione della verità. Il "quid", l'essenza, della verità resta indipendente dal fatto che gli uomini per i loro limiti intrinseci siano impossibilitati a giungere a una piena conoscenza di tale verità: per dire che l'uomo non giungerà mai a una verità oggettiva slegata dal condizionamento soggettivo devo ammettere A PRIORI l'idea di sapere in cosa consiste il concetto di "verità" e di "oggettività". E questa apriorità separa il problema della definizione della verità da quello delle possibilità umane di conoscerla nelle sue determinazioni concrete.

Così come bisogna stare attenti a distinguere il piano fenomenologico da quello logico: giustamente distingui l'angoscia, che non ha presente il suo oggetto dalla paura, in cui ciò è presente, ma l'angoscia è assenza di oggetto dal punto di vista fenomenologico, nell'impossibilità di associare a tale angoscia un contenuto determinato e specifico, è un vuoto che non riesco fenomenologicamente (cioè intuitivamente) a "riempire materialmente". Ma dal punto di vista logico e formale l'oggetto c'è: questo vuoto, questa indeterminatezza, nella misura in cui ne ho coscienza diviene oggetto. Oggetto e soggetto sono poli di una dialettica logica e trascendentale che regolano ogni tipo di esperienza, non hanno bisogno di un riempimento empirico per costituirsi. Qualunque cosa può essere oggetto e soggetto, l'essere oggetto e soggetto non dipende da delle qualità "materiali" delle cose, ma dal tipo di relazioni logiche e formali che legano le cose ad altro cose E nel momento in cui riconosco di essere io il soggetto che prova angoscia l'angoscia acquisisce anche un soggetto, così come riflessivamente riconosco me stesso come il soggetto della mia gioia. La gioia non ha bisogno di avere un motivo per divenire oggetto: è sufficiente che sia tematizzata da un atto riflessivo del soggetto che prova gioia rivolto verso il proprio stato psichico, l'oggetto della gioia non sarà il motivo, ma il vissuto stesso che definiamo "gioia".

Comunque non vorrei passasse l'idea che io sia una sorta di iperrazionalista che esclude ogni legame tra la verità e il piano estetico dei sentimenti. Il nesso c'è. A parte le banalità sentimentalistiche sull' "amore cieco" o "l'amore che fa perdere la testa", l'amore presuppone un livello di conoscenza (dunque di giudicabilità) di ciò che si ama, dunque chi ama è amante in quanto presume delle verità (a prescindere da eventuali errori o illusioni) su ciò che ama: il formarsi dei sentimenti è in un certo senso la conseguenza di giudizi in cui sosteniamo verità o falsita riguardo le qualità di ciò che amiamo, dunque, retrospettivamente, i sentimenti che provo possono illuminarmi circa delle conoscenze in me latenti che divengono escplicito e chiaro contenuto di coscienza e di attenzione, che però senza l'emergere del sentimento sarebbero rimasti "inconsci". In questo senso il sentimento è un fondamentale supporto per la scoperta della verità, ma non perchè i sentimenti determino i giudizi, ma al contrario perchè i sentimenti che provo si formano a partire anche (non solo) a partire dai giudizi. Semplificando molto il discorso si può dire che risalgo dagli effetti alle cause
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: maral il 06 Giugno 2016, 22:05:20 PM
Citazione di: sgiombo il 06 Giugno 2016, 08:20:04 AM
Proprio non capisco.
Quanto da me scritto sono semplicemente i significati comunemente attribuiti ai termini "reale" non reale", "vero" e "falso".

Il fatto che veri o falsi possono essere solo credenze, predicati, giudizi, conoscenze, ovvero la loro peculiarità di poter essere veri o falsi (oltre che, come tutti gli altri fatti, reali o meno) sono veri in base ai significati che comunemnete si attribuiscono a questi temini, a come di definiscono questi concetti, a ciò che si intende per essi, la loro connotazione.
Cioé é vero che questo di fatto comunemente si intende con questi concetti (e non con quello di "fatto in generale"); se tu attribuisci ad essi per qualche tuo motivo significati diversi, tali per cui ad esempio un sentimento di amore (e non: la dichiarazione di un sentimento di amore), oltre a poter essere reale o meno, a poter accadere o meno, può anche essere vero o meno, allora é necessario che ci traduciamo reciprocamente i differenti linguaggi che usiamo.
Scusa Sgiombo. ma quello che di fatto comunemente si intende è proprio quello che di fatto è filosoficamente doveroso analizzare e criticare chiedendosi perché comunemente lo si intende. Qual è il fondamento di questo comunemente. Se non ci si pone questa domanda, se dopo aver detto che comunemente la si intende così non si va a vedere cosa ci sta sotto allora non si sta facendo filosofia, ma chiacchiere (interessanti finché si vuole, e magari pure con un certo gusto filosofico, ma solo chiacchiere). Non è una questione di linguaggi diversi, ma di intenti. Per questo ti ho fatto le domande di cui sopra, per capire cosa ci sta sotto (e per vedere se si riesce a vederlo insieme). Il comunemente non giustifica nulla, anzi.
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: Mario Barbella il 06 Giugno 2016, 22:22:26 PM
Più che una risposta al post di Davintro, questo è solo un mio convincimento riguardo al concetto di "verità".
La verità di un proposizione sta nella sua coerenza con l'intero sistema logico dell'Osservatore (con l'iniziale maiuscola). L'Osservatore può comunque "rivedere" il suo giudizio di verità ove si accorga di una possibile futura incoerenza. Sta proprio qui, in questo timore di possibile incoerenza: la flaccidità. si tratta della carenza di densità di Conoscenza che distanzia l'Osservatore dalla conoscenza assoluta, cioè da quella Singolarità  dove la densità è infinita,  questo limite di specialissima ed infinita densità viene spesso conosciuto come Dio. :)
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: memento il 06 Giugno 2016, 22:27:37 PM
Citazione di: maral il 24 Maggio 2016, 15:17:26 PM
I Greci chiamavano la verità aletheia ove quell' a è alfa privativo, quindi la parola significa in negativo: non-latenza, non-velato. Vero è qui il negativo di ciò che  si nasconde e la verità sta nel nudo apparire delle cose, nel loro darsi spontaneo in superficie, senza maschere a sovrapporsi. Heidegger, proprio riprendendo il pensiero greco partendo dalla fenomenologia,  intenderà la verità come radura dell'essere corrispondente all'ente. L'ente come ente (corrispondente propriamente per Heidegger solo all'uomo) è lo svelarsi dell'essere, dunque aletheia, verità.

Ben diverso da quello greco classico è il concetto che maturerà sulla verità il pensiero filosofico posteriore, cristiano e poi scientifico. La verità (intesa non più nell'accezione greca, ma in quella latina di veritas): diventerà sotterranea, recondita e profonda, essa abiterà l'interiorità sotto la superficie per cui occorrerà scavare per trovarla sotto una miriade di mascheramenti e superficiali apparenze ingannevoli messe in atto dalla natura nel mondo e nell'uomo. La verità non è più aletheia, ma prodotto risultante da una ricerca fatta per costringere la natura a svelarsi usando un preciso metodo di interrogazione (come fa il giudice in tribunale, dice Kant) e con mezzi di indagine e tortura sempre più sofisticati. La verità non è più un nudo mostrarsi spontaneo, ma un denudare la natura refrattaria per poi usarle violenza.

Cosa ha determinato nella storia del pensiero occidentale il passaggio della verità da uno stato di spontaneo naturale manifestarsi allo scavo che costringe la natura a manifestarla? Dall'apparire della nudità all'apparire del nascondimento che occorre sistematicamente forzare?
E dove e quanto della verità come aletheia è in realtà ancora tra noi?

Bisogna riconoscere che il pensiero cristiano,pur con tutti i suoi difetti,ha dato un grande impulso alla ricerca della verità. Rifiutando tutto ciò che è immediato,superficiale,sensibile,aletheia appunto,il cristiano ha educato l'uomo europeo al problema della verità con una serietà e profondità mai viste in nessun altra civiltà antica,compresa quella greca. Se il metodo della Scienza moderna è nato e si è affinato in Europa,lo si deve in parte alla tirannia della metafisica cristiana.
Non credo oggi sia necessario riscoprire la verità come aletheia. Ci manca la maturità di una civiltà come quella della Grecia antica,la maturità di uno sguardo che si ferma alla superficie,e se ne acquieta. Noi non sapremmo resistere alla tentazione di dare una sbirciatina dietro,e nemmeno Heidegger lo fa,quando separa l'essere dalla sua manifestazione,l'ente.

Cos'è la verità? Per risponderti con parole di Nietzsche:
[font='Helvetica Neue', Helvetica, 'Nimbus Sans L', Arial, 'Liberation Sans', sans-serif]"Un mobile esercizio di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane che sono state potenziate poeticamente e retoricamente, che sono state trasferite e abbellite, e che dopo un lungo uso sembrano a un popolo solide, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria, sono metafore che si sono logorate e hanno perduto ogni forza sensibile, sono monete la cui immagine si è consumata e che vengono prese in considerazione soltanto come metallo, non più come monete."[/font]
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: maral il 06 Giugno 2016, 23:20:54 PM
Citazione di: davintro il 06 Giugno 2016, 21:20:45 PM
Cosa sarebbe la "verità assoluta del mio amore?" Quale verità posso dire riguardo all'amore che posso provare, per esempio, per una persona? Posso dire che la persona  che amo "merita" di essere amata", posso dire che "io sono innamorato di questa persona", ma queste verità (o falsità) sono prese di posizione che pongo in atto nel momento in cui pongo il mio sentimento non più come situazione che mi assorbe, ma come fatto che io rendo OGGETTO di una valutazione, nel momento in cui io in un certo senso mi scindo tra "me" in quanto soggetto che che valuta e che pensa cose vere e false e "me" in quanto oggetto che diviene il tema della valutazione, l'incapacità di questo duplicarsi renderebbe impossibile il pormi come soggetto della verità
Ma sentire che si ama una persona e dirlo in verità (a quella persona, al mondo intero, a se stessi), non ha nulla a che vedere con il giudicare oggettivamente se quella persona merita o meno il mio amore, le due cose sono infinitamente lontane e non è che per questo che quel sentire che mi spinge a dire quello che sento (e sento e dico vero) ben prima di giudicarlo non ha nulla a che vedere con la verità. La situazione si svela per quello che è con il suo semplice apparire, nell'esperienza in atto che faccio desituandomi. Vogliamo chiamare questo "realtà", come dice Sgiombo, riservando il termine vero e la sua negazione al solo giudizio? Va bene, ma non ne vedo il motivo (di cui chiedevo ragione a Sgiombo che non può cavarsela dicendomi che comunemente la si intende così, giacché il comunemente non ha nessuna rilevanza e nega l'autenticità più effettiva dell'esperienza). La verità coincide nell'esperienza con la realtà in quanto sento che quella realtà è del tutto vera e quindi oggetto e soggetto in essa non sono più uno di fronte all'altro con il secondo che valuta il primo, ma sono fusi in quello che accade, sono nell'accadere di quello (qui l'amore) che accade.

CitazioneLa questione dell'impossibilità di raggiungere una conoscenza pienamente oggettiva è altra rispetto a quella di ammettere, al di là di tutte le possibili concettualizzazioni o interpretazioni, l'esistenza di una realtà oggettiva pensata genericamente che funga da criterio di definizione della verità.
.
Certo che è altra, ma quella verità che dici che deve oggettivamente esistere e a cui occorre adeguarsi, oggettivamente non esiste (senza che questo significhi che esista soggettivamente), ossia non esiste in oggetto proprio come non esiste in soggetto. Cos'è il concetto oggettivo di verità che devo ammettere a priori? Soprattutto quando lo posso definire sempre solo a posteriori, magari istituendo una regola formale? E il punto essenziale che con la mia risposta precedente volevo mettere in luce è che quella regola formale, per quanto oggettiva possa credere che sia, è sempre un soggetto che la stabilisce, ma da quale posizione la stabilisce se non dalla sua soggettiva posizione? Ed è per questo che, ribadisco, non c'è alcuna verità oggettiva: la verità se è tale non è né oggettiva né soggettiva, sta oltre qualsiasi oggetto e qualsiasi soggetto, poiché è essa che pone ogni soggetto e ogni oggetto semplicemente accadendo e accadendo coincide con la realtà, il suo accadere attuale ha già risolto ogni giudizio.
Il piano logico e fenomenologico vanno certamente distinti, ma non si può separarli, perché se la verità è vera è una, anche se può esprimersi in modi diversi, dunque esiste un modo logico e uno fenomenologico in cui l'unica verità si rivela e questi 2 modi si riferiscono al medesimo unico vero a cui entrambi rimandono, dalle rispettive posizioni. Se la logica legge il vuoto dell'angoscia come un oggetto non può che falsificare l'esperienza fenomenologica che non è per nulla quella di un oggetto-vuoto. "Il vuoto accade", questa è l'esperienza fenomenologica che il linguaggio può tradurre solo in modo molto approssimativo con tutto il rischio di oggettualizzare quel vuoto come se fosse cosa separata dal suo accadere (dalla presente eternità del suo accadere), da cui la coscienza viene assorbita, per cui io non sono soggetto di fronte a quell'angoscia oggetto, ma sono proprio quell'angoscia, sono la stessa cosa, essa è me. Le relazioni logico formali non hanno nulla a che vedere con questa verità, esse istituiscono solo una grammatica, ma la verità va sempre oltre ogni possibilità grammaticale di dirla.  


CitazioneLa gioia non ha bisogno di avere un motivo per divenire oggetto: è sufficiente che sia tematizzata da un atto riflessivo del soggetto che prova gioia rivolto verso il proprio stato psichico, l'oggetto della gioia non sarà il motivo, ma il vissuto stesso che definiamo "gioia".
Ma non è questa la gioia che accade: il soggetto che tematizza la propria gioia, se la tematizza non la vive per nulla e allora cos'è che tematizza? Forse solo il ricordo di quella gioia, la sua pallida traccia.
CitazioneIn questo senso il sentimento è un fondamentale supporto per la scoperta della verità, ma non perchè i sentimenti determino i giudizi, ma al contrario perchè i sentimenti che provo si formano a partire anche (non solo) a partire dai giudizi. Semplificando molto il discorso si può dire che risalgo dagli effetti alle cause
I sentimenti non si formano a partire dai giudizi, semmai sono i giudizi che possono formarsi a partire dai sentimenti e si formano nella speranza di trattenerli, ossia di trattenerne nella verità di un giudizio il simulacro della verità che accade, la traccia che di essa resta quando è passata e, poiché quel simulacro rimasto è sempre sbiadito, in dubbio, si preoccupa di giudicare se quella pallida traccia rimasta sia vera o falsa.
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: maral il 06 Giugno 2016, 23:40:35 PM
Citazione di: memento il 06 Giugno 2016, 22:27:37 PM
Bisogna riconoscere che il pensiero cristiano,pur con tutti i suoi difetti,ha dato un grande impulso alla ricerca della verità. Rifiutando tutto ciò che è immediato,superficiale,sensibile,aletheia appunto
Spostando appunto la verità dal suo manifestarsi all'aperto nuda al suo nascondersi nell'interiorità dell'io. E poi non c'è da stupirsi se questo io cresce a dismisura, giacché è lui che ha dentro di sé la verità nascosta, così tutta nascosta dentro che fuori resta solo il mondo oggetto, vuoto di verità, quindi a totale disposizione. E così la verità diventò profondamente interiore.
CitazioneCos'è la verità? Per risponderti con parole di Nietzsche:
"Un mobile esercizio di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane che sono state potenziate poeticamente e retoricamente, che sono state trasferite e abbellite, e che dopo un lungo uso sembrano a un popolo solide, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria, sono metafore che si sono logorate e hanno perduto ogni forza sensibile, sono monete la cui immagine si è consumata e che vengono prese in considerazione soltanto come metallo, non più come monete."
Quelle monete la cui immagine è consumata sono appunto quei simulacri che tentiamo ancora di trattenere nei giudizi di verità, l'ultimo resto di una verità che ormai può apparire solo come illusione, poiché troppo è sprofondata e troppe incrostazioni l'hanno ricoperta.[/quote]
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: sgiombo il 07 Giugno 2016, 07:58:27 AM
Citazione di: maral il 06 Giugno 2016, 22:05:20 PM
Citazione di: sgiombo il 06 Giugno 2016, 08:20:04 AM
Proprio non capisco.
Quanto da me scritto sono semplicemente i significati comunemente attribuiti ai termini "reale" non reale", "vero" e "falso".

Il fatto che veri o falsi possono essere solo credenze, predicati, giudizi, conoscenze, ovvero la loro peculiarità di poter essere veri o falsi (oltre che, come tutti gli altri fatti, reali o meno) sono veri in base ai significati che comunemnete si attribuiscono a questi temini, a come di definiscono questi concetti, a ciò che si intende per essi, la loro connotazione.
Cioé é vero che questo di fatto comunemente si intende con questi concetti (e non con quello di "fatto in generale"); se tu attribuisci ad essi per qualche tuo motivo significati diversi, tali per cui ad esempio un sentimento di amore (e non: la dichiarazione di un sentimento di amore), oltre a poter essere reale o meno, a poter accadere o meno, può anche essere vero o meno, allora é necessario che ci traduciamo reciprocamente i differenti linguaggi che usiamo.
Scusa Sgiombo. ma quello che di fatto comunemente si intende è proprio quello che di fatto è filosoficamente doveroso analizzare e criticare chiedendosi perché comunemente lo si intende. Qual è il fondamento di questo comunemente. Se non ci si pone questa domanda, se dopo aver detto che comunemente la si intende così non si va a vedere cosa ci sta sotto allora non si sta facendo filosofia, ma chiacchiere (interessanti finché si vuole, e magari pure con un certo gusto filosofico, ma solo chiacchiere). Non è una questione di linguaggi diversi, ma di intenti. Per questo ti ho fatto le domande di cui sopra, per capire cosa ci sta sotto (e per vedere se si riesce a vederlo insieme). Il comunemente non giustifica nulla, anzi.

Ma infatti in primo luogo non si tratta di giudicare ma di stabilire il significato che diamo alle parole che usiamo, in modo da capirci (e conseguentemente confrontare le rispettive convinzioni e credenze).

Non puoi chiedermi di dimostrare perché i fatti (in generale) possono essere reali o meno e (soltanto quei molto peciìuliari fatti che sono) i predicati possono (inoltre) essere veri o falsi: é una domanda senza senso, trattandosi dei significati dei termini usati (i quali sono quel che sono perché, onde intendersi, li si stabilisce arbitrariamente per definizione.
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: sgiombo il 07 Giugno 2016, 08:35:37 AM
Citazione di: maral il 06 Giugno 2016, 23:20:54 PM

Ma sentire che si ama una persona e dirlo in verità (a quella persona, al mondo intero, a se stessi), non ha nulla a che vedere con il giudicare oggettivamente se quella persona merita o meno il mio amore, le due cose sono infinitamente lontane e non è che per questo che quel sentire che mi spinge a dire quello che sento (e sento e dico vero) ben prima di giudicarlo non ha nulla a che vedere con la verità. La situazione si svela per quello che è con il suo semplice apparire, nell'esperienza in atto che faccio desituandomi. Vogliamo chiamare questo "realtà", come dice Sgiombo, riservando il termine vero e la sua negazione al solo giudizio? Va bene, ma non ne vedo il motivo (di cui chiedevo ragione a Sgiombo che non può cavarsela dicendomi che comunemente la si intende così, giacché il comunemente non ha nessuna rilevanza e nega l'autenticità più effettiva dell'esperienza). La verità coincide nell'esperienza con la realtà in quanto sento che quella realtà è del tutto vera e quindi oggetto e soggetto in essa non sono più uno di fronte all'altro con il secondo che valuta il primo, ma sono fusi in quello che accade, sono nell'accadere di quello (qui l'amore) che accade.

Citazione


Se così fosse il giornalista che descrive (conoscenza) le imprese dello sportivo (fatti) sarebbe uguale allo sportivo stesso, il poeta che parla di Paolo e Francesca (conoscenza) sarebbe la stessa persona (di Paolo; o magari entrambi? Fatti), lo storico che descrive l' impresa dei Mille (conoscenza) sarebbe la stessa cosa di Garibaldi (fatti), ecc.


Certo che è altra, ma quella verità che dici che deve oggettivamente esistere e a cui occorre adeguarsi, oggettivamente non esiste (senza che questo significhi che esista soggettivamente), ossia non esiste in oggetto proprio come non esiste in soggetto. Cos'è il concetto oggettivo di verità che devo ammettere a priori? Soprattutto quando lo posso definire sempre solo a posteriori, magari istituendo una regola formale? E il punto essenziale che con la mia risposta precedente volevo mettere in luce è che quella regola formale, per quanto oggettiva possa credere che sia, è sempre un soggetto che la stabilisce, ma da quale posizione la stabilisce se non dalla sua soggettiva posizione? Ed è per questo che, ribadisco, non c'è alcuna verità oggettiva: la verità se è tale non è né oggettiva né soggettiva, sta oltre qualsiasi oggetto e qualsiasi soggetto, poiché è essa che pone ogni soggetto e ogni oggetto semplicemente accadendo e accadendo coincide con la realtà, il suo accadere attuale ha già risolto ogni giudizio.
CitazioneRitengo (concordo? Non so se ti ho ben capito) che lo scetticismo non sia suparebile e che non si possa avere certezza della conoscenza, ma solo si può credere vero qualcosa (qualche affermazione) che vero potrebbe benissimo non essere.

Ma per conoscenza o credenza vera si intende (o almeno io intendo, con il "popolo bue"; e se tu ritieni che i filosofi seri dovverbbero dare un altro significato alla parola dovresti spiegarmi il significato stesso "filosofico", oltre che giustificarne l' uso in alternatva a quello corrente) il fatto che si predica qialcosa circa la realtà e che la  realtà sia o divenga, almeno in qualche misura, conformemente alla predicazione stessa (che della conoscenza vera "se ne disponga" o meno; indipendentemente dall' insuperabilità del dubbio scettico).




I sentimenti non si formano a partire dai giudizi, semmai sono i giudizi che possono formarsi a partire dai sentimenti e si formano nella speranza di trattenerli, ossia di trattenerne nella verità di un giudizio il simulacro della verità che accade, la traccia che di essa resta quando è passata e, poiché quel simulacro rimasto è sempre sbiadito, in dubbio, si preoccupa di giudicare se quella pallida traccia rimasta sia vera o falsa.

CitazioneCredo che in un certo senso talora i giudizi "nascano" da sentimenti, nel senso che questi spingono a compiere osservazioni e ragionamenti; ma talaltra i sentimenti nascano da giudizi (per esempio giudico i burocrati euristi e i loro tirapiedi politici dei nemici del popoplo e da questo giudizio nascono in me sentimenti di disprezzo e di odio profondo).
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: davintro il 08 Giugno 2016, 00:28:59 AM
Rispondo a Maral:

Certamente sono possibili tante definizioni diverse di verità, dato che le definzioni sono una convenzione. Ma se si vuole dialogare occorre adottare per ogni concetto espresso una definizione univoca tale che le parole che uno scrive abbiano per chi scrive lo stesso significato che intende chi legge, pena l'incomprensione. Quindi dal punto di vista della comunicazione, non da quello teoretico, la soluzione più efficace è quella di affidarsi al senso comune entro il quale le parole hanno quel significato e non un altro. Le definizioni sono certamente stabilite a posteriori, ma sono apriori comunicative. L'obiettivo del dialogo filosofico non è quello di stabilire se una certa definizione di verità e migliore o peggiore di un'altra, dato che, essendo le definizioni il frutto di una convenzione, non ha senso pensare a definizioni migliori o peggiori in senso assoluto, ma mostrare le implicazioni logiche deducibili da un complesso di concetti a cui per ragioni comunicative associamo definizioni, l'obiettivo non è dare definizioni, rifare il dizionario, mera terminologia, (anche se una riformulazione linguistica è certamente un esito possibile di una chiarificazione della visione delle cose stesse, ma si tratterebbe perlopiù di un "effetto collaterale") ma riconoscere razionalmente come da una certa definizione di verità discendano certe implicazioni gnoseologiche, ontologiche, morale

Io non sono la mia angoscia. Se lo fossi non potrei tematizzare l'angoscia nè come come esperienza vissuta di me come singolo individuo nè come concetto generale. Questo perchè il rivolgersi intenzionale verso un tema presuppone una condizione di distacco tra me come soggetto dell'atto di rivolgersi e il tema verso cui mi rivolgo. Se io coincidessi pienamente con il tema non sarebbe possibile il rivolgersi intenzionale, giacchè io sarei già da sempre nel tema senza nessun tendere verso esso, di fatto senza nessun dinamismo della mia vita interiore: la coincidenza indica sempre staticità. L'angoscia non coincide con la mia essenza di Io puro soggettivo in quanto il mio essere angosciato non era in me nel passato e potrei non esserlo più in futuro, l'essere angosciato è una mia accidentalità, la mia coscienza è un susseguirsi temporale di diversi vissuti psichici, dalla tristezza, alla rabbia, alla serenità, alla gioia tutti provenienti dal mio io. Il mio Io si concretizza nell'essere la fonte originaria del complesso di queste esperienze, ma è autonomo da ciascuno di essi e ciò permette il passaggio da uno all'altro, nessuno di essi è per me l'unico possibile: ciò è la conseguenza della distinzione tra l'Io puro come soggetto e i contenuti di questi vissuti, oggetti da cui l'Io può distogliersi o tendere verso essi, non si esaurisce in nessuno di essi. Non solo: se l'angoscia fosse per me la condizione naturale del mio essere non mi procurerebbe sofferenza: l'esperienza insegna che ogni sofferenza presuppone l'idea della possibilità del suo superamento: la rassegnazione ci restituisce la serenità. Perchè l'angoscia provochi sofferenza è necessario pensarla come accompagnata dal riconoscimento di un'alternativa, una condizione di serenità, riconoscimento che mi fa soffrire proprio perchè indica l'alternativa di una serenità possibile ma non ancora reale. E nel semplice ammettere la possibilità dell'alternativa la mente soggettiva mostra il suo non essere mai del tutto assorbita nel suo vissuto attualmente presente, mostra la sua trascendenza da esso. Proprio perchè logica e fenomenologia, pur distinte, non sono del tutto separabili non si può ridurre la logica a una grammatica astratta, ma la si deve porre come struttura trascendentale imperniata sulla dialettica soggetto-oggetto che interviene sulla fenomenologia fissando i confini delle possibilità di questa. Io non posso effettuare una fenomenologia, cioè una descrizione intuitiva di un cerchio quadrato, proprio perchè è un concetto che la logica mi impone come autocontradditorio, cioè insensato. E la stessa logica mi impone di pensare ogni esperienza vissuta come implicante un atto originato da un soggetto ed un contenuto del vissuto oggetto di una coscienza rivolto verso di esso

Maral scrive:
"il soggetto che tematizza la propria gioia, se la tematizza non la vive per nulla e allora cos'è che tematizza? Forse solo il ricordo di quella gioia, la sua pallida traccia."

Perchè? Riflettere sulla gioia che provo non cancella l'intensità del vissuto, anzi è proprio l'intensità del sentimento che stimola il soggetto ad indagarne i motivi e gli aspetti in una riflessione oggettivante. Le mie accezioni di soggetto pensante e di soggetto senziente non sono due aspetti contradditori ed escludenti, sono due livelli, due strati compresenti della mia vita di coscienza che rendono a questa coscienza la sua complessità e la sua ricchezza. Magari l'uomo avesse il potere di cancellare od attenuare l'intensità di un vissuto semplicemente riflettendo su di esso! Di fatto non saremmo mai tristi perchè ogni qualvolta sentiamo giungere in noi la tristezza potremmo, tematizzandola in una riflessione, depotenziarla, fuggendo così da essa

Mi associo alle ultime affermazioni di Sgiombo sulla reciproca dipendenza di giudizi e sentimenti
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: acquario69 il 08 Giugno 2016, 03:34:59 AM
Maral scrive:
"il soggetto che tematizza la propria gioia, se la tematizza non la vive per nulla e allora cos'è che tematizza? Forse solo il ricordo di quella gioia, la sua pallida traccia."

davintro Risponde:
Perché ? Riflettere sulla gioia che provo non cancella l'intensità del vissuto, anzi è proprio l'intensità del sentimento che stimola il soggetto ad indagarne i motivi e gli aspetti in una riflessione oggettivante.


qui secondo me si e' toccato un punto fondamentale.
infatti a mio avviso subentra un fattore chiave e che attraverso il "ricordo" questo svela l'essenza che rimaneva nascosta.

ma non e' il ricordo inteso come semplice processo mentale,scansione di informazioni lineari meramente soggettive e percio evocazioni della propria fantasia individuale..

bensì e' la memoria dello Spirito che riemerge e che e' sempre presente, (in noi) fuori dal tempo e dallo spazio (che rievoca percio il ricordo in senso oggettivante,cioè puro) e che sta appunto al di la del soggetto stesso e del suo apparire fenomenologico..ed e' solo questo il ricordo e che ci restituisce all'eterno presente,quindi alla Coscienza (Reale,non soggettiva!) e alla Verita
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: maral il 08 Giugno 2016, 10:31:12 AM
Citazione di: sgiombo il 07 Giugno 2016, 07:58:27 AM
Ma infatti in primo luogo non si tratta di giudicare ma di stabilire il significato che diamo alle parole che usiamo, in modo da capirci (e conseguentemente confrontare le rispettive convinzioni e credenze).
Certamente, ma non si tratta a mio avviso di stabilire il significato che diamo alle parole, ma di tradurci le parole nel significato che in esse possiamo sentire diversamente. Certamente che per iniziare a capirsi non si può che partire da un linguaggio comune, ma è solo un punto di partenza da cui occorre scendere per intendere quali assunzioni lo reggano.
Non ti sto chiedendo di dimostrare che i fatti possono essere reali o no, mentre i predicati, predicando di quei fatti, possono essere veri o falsi, ti sto chiedendo di provare a uscire dalla logica che vuole, secondo quanto comunemente si impara, che le cose stiano così per cogliere l'aspetto fenomenologico della questione (aspetto che ci riguarda tutti, perché è così che sentiamo): se mi do una martellata sul dito non ho dubbi che il mio dolore è reale e insieme è vero, non distinguo il fatto (martellata) dal predicato (dolorosa) per giudicare poi se è corretto o no metterli insieme. Ed è per questo che ti chiedo di spiegarmi in base a quale assunzione dici e si dice che  "Veri o falsi possono essere solo credenze, predicati, giudizi, conoscenze", su cosa appoggia questo modo di dire e non può appoggiarsi sul "si" del si dice. E se quella distanza tra fatto e predicato che va istituita per misurarne la congruenza, va proprio sempre istituita, per esprimere un giudizio di verità, oppure la verità (e non solo la realtà) si esprime anche immediatamente nell'esperienza del suo accadere ben prima che da qualsiasi giudizio? In sostanza: la verità può essere data solo da giudizi formalmente ben costruiti su confronti che pretendono di essere esclusivamente oggettivi o dall'evidenza del suo svelarsi (aletheia)?
E nota che quello che ti chiedo qui è un giudizio, ma è un giudizio che sa giudicarsi, ossia sa riconoscere se vi sono dei limiti o no nella sua pretesa di istituire la verità nella sola analisi dei predicati.   

Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: maral il 08 Giugno 2016, 12:28:01 PM
Citazione di: davintro il 08 Giugno 2016, 00:28:59 AM
Certamente sono possibili tante definizioni diverse di verità, dato che le definzioni sono una convenzione. Ma se si vuole dialogare occorre adottare per ogni concetto espresso una definizione univoca tale che le parole che uno scrive abbiano per chi scrive lo stesso significato che intende chi legge, pena l'incomprensione. Quindi dal punto di vista della comunicazione, non da quello teoretico, la soluzione più efficace è quella di affidarsi al senso comune entro il quale le parole hanno quel significato e non un altro. Le definizioni sono certamente stabilite a posteriori, ma sono apriori comunicative. L'obiettivo del dialogo filosofico non è quello di stabilire se una certa definizione di verità e migliore o peggiore di un'altra, dato che, essendo le definizioni il frutto di una convenzione, non ha senso pensare a definizioni migliori o peggiori in senso assoluto, ma mostrare le implicazioni logiche deducibili da un complesso di concetti a cui per ragioni comunicative associamo definizioni, l'obiettivo non è dare definizioni, rifare il dizionario, mera terminologia, (anche se una riformulazione linguistica è certamente un esito possibile di una chiarificazione della visione delle cose stesse, ma si tratterebbe perlopiù di un "effetto collaterale") ma riconoscere razionalmente come da una certa definizione di verità discendano certe implicazioni gnoseologiche, ontologiche, morale
Certo e soprattutto vedere come quanto ne discende possa lasciare intendere sul significato di quella definizione. Il problema è che proprio per l'intenzione sacrosanta di potersi capire si rischia di finire in una sorta di logicismo (in cui la verità non può che apparire come rispetto sintattico) ove la definizione data dal senso comune finisce per apparire una sorta di intoccabile feticcio-cardine. Ma non il lasciar lì il feticcio il compito filosofico, se ancora può esistere una filosofia, e men che meno in nome del senso comune. Il compito filosofico è in primo luogo non cessare mai di mettere in crisi qualsiasi definizione, e soprattutto quelle del senso comune che facciamo nostre. Mettere in crisi non significa contestarle, ma tentare di capirle nel significato effettivo, oltre la loro convenzionalità assiomatica. Qui sta da sempre (e oggi più che mai) il compito e il senso della filosofia, altrimenti non resta che il mito (mito della scienza e mito della razionalità compresi) nella sua forme più superstiziose (scientismo, razionalismo).
CitazioneIo non sono la mia angoscia. Se lo fossi non potrei tematizzare l'angoscia nè come esperienza vissuta di me come singolo individuo nè come concetto generale
Non sei la tua angoscia adesso, perché ora non c'è angoscia e giudichi su di essa. L'angoscia non c'è per questo puoi dire "io non sono la mia angoscia", per questo la puoi vedere come una sorta di oggetto che sta fuori e qualche volta entra dentro a quel qualcosa che sono io, senza accorgerti dell'assurdità di questo modo di vedere. Nel momento in cui provi angoscia sei la tua angoscia, in un modo primitivo e assoluto che ne possiede tutta la verità (e lo stesso vale per la gioia). Nel momento in cui valuti il tuo sentimento vero o falso quel sentimento non c'è, ci sei tu e fuori di te, altrove, l'oggetto da valutare (per intenzionalmente escluderlo da te o riappropriartene), ma questa è cosa tutta diversa.
La coincidenza non indica assolutamente staticità, ma completa aderenza e in questa aderenza sta proprio quella verità che non è semplicemente l'espressione di un giudizio tra termini opposti che solo si possono escludere tra loro evitando cerchi quadrati. Nel giudizio che si instaura sulla separazione tra io giudicante e oggetto giudicato c'è un senso radicalmente diverso della verità che non può mai annullare lo svelamento originario, ma vuole annullarlo per lasciare spazio a una propria intenzionalità in nome della quale trattenersi in un Io che si crede "fonte originaria del complesso di queste esperienze", estromettendole da sé, inquadrandole come un vissuto (un accaduto finito) e non più sentendole come un vivente (un perennemente accadente). La condizione di esistere è in ogni accadere e pure (per l'essere umano) nell'accadere del momento del giudizio che esprime sempre una volontà di essere del soggetto e quindi non è mai oggettivo.
Citazionese l'angoscia fosse per me la condizione naturale del mio essere non mi procurerebbe sofferenza
L'angoscia solamente accade, è data dall'accadere del nostro esserci individuale e separato, è all'alba di una coscienza che sorgendo si sente delocalizzata, proprio come la gioia che esprime invece il poter venire ricompreso in questa stessa delocalizzazione. L'io è solo una labile immagine intermedia che tenta di vivere in questa oscillazione, in nome della volontà, come l'equilibrista sul filo. E qui entra in gioco il ricordo: quando l'io scopre di potersi ricordare, si aggrappa ai ricordi per darsi consistenza (a mezzo di un dare consistenza a ciò che gli manca), e per far questo occorre assicurarsi che ci sia la consistenza certa della verità in merito a qualcosa che non è più presente e qui entra in gioco il giudizio e a questo punto la verità- aletheia si trasforma in verità- giudizio sull'oggetto del proprio ricordo e della propria aspettativa, appunto perché quell'oggetto non c'è, c'è solo il ricordo e l'aspettativa che lo velano.
In questo senso la dialettica non è tra soggetto e oggetto, ma nello stesso originario e primo accadere del mondo che istituisce ogni soggetto e ogni oggetto per rimetterli in rapporto dialettico. Non è la logica che impone di pensare "ogni esperienza vissuta come implicante un atto originato da un soggetto ed un contenuto del vissuto oggetto di una coscienza rivolto verso di esso", ma è il disperato tentativo dell'io che vuole permanere sempre oltre ogni logica.

CitazioneRiflettere sulla gioia che provo non cancella l'intensità del vissuto, anzi è proprio l'intensità del sentimento che stimola il soggetto ad indagarne i motivi e gli aspetti in una riflessione oggettivante. Le mie accezioni di soggetto pensante e di soggetto senziente non sono due aspetti contradditori ed escludenti, sono due livelli, due strati compresenti della mia vita di coscienza che rendono a questa coscienza la sua complessità e la sua ricchezza. Magari l'uomo avesse il potere di cancellare od attenuare l'intensità di un vissuto semplicemente riflettendo su di esso! Di fatto non saremmo mai tristi perchè ogni qualvolta sentiamo giungere in noi la tristezza potremmo, tematizzandola in una riflessione, depotenziarla, fuggendo così da essa
L'intensità del sentimento è data, nel momento in cui si riflette su di esso, dalla mancanza di quel sentimento di cui quel riflettere è rievocazione. In questo senso noi sentiamo sempre, poiché sentiamo sia la presenza che la mancanza e la mancanza evoca la presenza. Per questo pensare non è mai separato dal sentire. Non è che con la riflessione attenuo l'intensità del sentire, ma è solo quando l'intensità di quel sentire si presenta attenuato (poiché il mondo lo accoglie) che riflettere ci diventa possibile. Si può riflettere allora su ciò che di esso resta, su di un resto (ma quanto quel resto corrisponde proprio a quel sentire? E' qui che ci si sente chiamati a giudicare e lo stesso giudicare a questo punto è un accadere). 
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: sgiombo il 08 Giugno 2016, 19:02:24 PM
Citazione di: maral il 08 Giugno 2016, 10:31:12 AM
Citazione di: sgiombo il 07 Giugno 2016, 07:58:27 AM
Ma infatti in primo luogo non si tratta di giudicare ma di stabilire il significato che diamo alle parole che usiamo, in modo da capirci (e conseguentemente confrontare le rispettive convinzioni e credenze).
Certamente, ma non si tratta a mio avviso di stabilire il significato che diamo alle parole, ma di tradurci le parole nel significato che in esse possiamo sentire diversamente. Certamente che per iniziare a capirsi non si può che partire da un linguaggio comune, ma è solo un punto di partenza da cui occorre scendere per intendere quali assunzioni lo reggano.
Non ti sto chiedendo di dimostrare che i fatti possono essere reali o no, mentre i predicati, predicando di quei fatti, possono essere veri o falsi, ti sto chiedendo di provare a uscire dalla logica che vuole, secondo quanto comunemente si impara, che le cose stiano così per cogliere l'aspetto fenomenologico della questione (aspetto che ci riguarda tutti, perché è così che sentiamo): se mi do una martellata sul dito non ho dubbi che il mio dolore è reale e insieme è vero, non distinguo il fatto (martellata) dal predicato (dolorosa) per giudicare poi se è corretto o no metterli insieme. Ed è per questo che ti chiedo di spiegarmi in base a quale assunzione dici e si dice che  "Veri o falsi possono essere solo credenze, predicati, giudizi, conoscenze", su cosa appoggia questo modo di dire e non può appoggiarsi sul "si" del si dice. E se quella distanza tra fatto e predicato che va istituita per misurarne la congruenza, va proprio sempre istituita, per esprimere un giudizio di verità, oppure la verità (e non solo la realtà) si esprime anche immediatamente nell'esperienza del suo accadere ben prima che da qualsiasi giudizio? In sostanza: la verità può essere data solo da giudizi formalmente ben costruiti su confronti che pretendono di essere esclusivamente oggettivi o dall'evidenza del suo svelarsi (aletheia)?
E nota che quello che ti chiedo qui è un giudizio, ma è un giudizio che sa giudicarsi, ossia sa riconoscere se vi sono dei limiti o no nella sua pretesa di istituire la verità nella sola analisi dei predicati.
CitazioneInvece io se mi do una martellata su un dito non ho dubbi che il mio dolore è reale (=so che il mio dolore è reale; e questa è conoscenza vera); mentre il mio reale dolore, per fortissimo, insopportabile che sia, non è vero, ma semplicemente accade.
 
Non riesco a capire come tu non possa renderti conto della differenza!
 
Quando io mi do la martellata sul dito e il mio dolore è realissimo e fortissimo, oltre a me anche tu puoi benissimo affermare la verità che io mi do una martellata sul dito e provo un dolore fortissimo; ma a te al massimo può dispiacere ("moralmente") per compassione o empatia verso di me, ma non provi alcun dolore fisico: la verità ("Sgiombo prova un dolore fisico fortissimo" può essere -propria di una tale affermazione- tanto mia quanto tua), ma il fatto è solo e unicamente mio (e viceversa).
 
Immediatamente nell'esperienza del suo accadere ben prima di qualsiasi giudizio può darsi un fatto (il mio dolore); mentre la conoscenza di esso può darsi solo in (un ulteriore fatto costituito da) un predicato ("ho dolore"): ma come fai a non renderti conto della differenza fra questi due differenti fatti (l' evento "dolore" e la conoscenza dell' evento "dolore")?
 
"Si svelano" (appaiono; sono reali; oppure non appaiono, non sono reali) determinati eventi fenomenici (di coscienza); ben distinguibili da quegli altri peculiari fatti fenomenici di coscienza che sono (eventualmente) i predicati (veri; oppure falsi) dello "svelarsi" (apparire, essere reali) di quei determinati eventi fenomenici (di coscienza) "di cui sopra".
Ancora una volta non posso non chiedermi e chiederti:
 
ma come fai a non cogliere la differenza?
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: maral il 09 Giugno 2016, 09:38:32 AM
Citazione di: sgiombo il 08 Giugno 2016, 19:02:24 PM

ma come fai a non cogliere la differenza?
La colgo la differenza, ma, come ho già detto sopra, quella differenza posso coglierla solo quando quel dolore (o più in generale quell'accadere) non è più presente, non c'è più, ossia quando è presente la sua assenza, è presente non come accadere, ma come già accaduto ed è su questa assenza che separo il dolore dalla conoscenza del dolore, mentre nell'evento esse sono simultaneamente insieme e indistinguibili per cui la verità è il modo stesso di apparire della realtà e non il risultato di un giudizio.
Il punto è che tutto il ragionamento che fate sia tu che davintro è situato nell'assenza dell'evento (e non può che esserlo nel momento in cui si intende giudicare la verità di ciò che di esso rimane ed è per questo che il giudizio di verità separa il significato dall'accadimento che, ormai accaduto, lascia quel significato, ma non è quel significato), ma questa non è l'esperienza di verità che si attua nell'evento e dire che questa non è verità, poiché la verità sta solo nei predicati (ossia in ciò che dell'evento si dice quando non c'è più, quando resta presente solo un pallido richiamo su cui è più che lecito avere dubbi) è, a mio avviso del tutto arbitrario, per quanto così consideri un certo senso comune.
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: sgiombo il 09 Giugno 2016, 16:58:36 PM
Citazione di: maral il 09 Giugno 2016, 09:38:32 AM
Citazione di: sgiombo il 08 Giugno 2016, 19:02:24 PM

ma come fai a non cogliere la differenza?
La colgo la differenza, ma, come ho già detto sopra, quella differenza posso coglierla solo quando quel dolore (o più in generale quell'accadere) non è più presente, non c'è più, ossia quando è presente la sua assenza, è presente non come accadere, ma come già accaduto ed è su questa assenza che separo il dolore dalla conoscenza del dolore, mentre nell'evento esse sono simultaneamente insieme e indistinguibili per cui la verità è il modo stesso di apparire della realtà e non il risultato di un giudizio.
Il punto è che tutto il ragionamento che fate sia tu che davintro è situato nell'assenza dell'evento (e non può che esserlo nel momento in cui si intende giudicare la verità di ciò che di esso rimane ed è per questo che il giudizio di verità separa il significato dall'accadimento che, ormai accaduto, lascia quel significato, ma non è quel significato), ma questa non è l'esperienza di verità che si attua nell'evento e dire che questa non è verità, poiché la verità sta solo nei predicati (ossia in ciò che dell'evento si dice quando non c'è più, quando resta presente solo un pallido richiamo su cui è più che lecito avere dubbi) è, a mio avviso del tutto arbitrario, per quanto così consideri un certo senso comune.
CitazioneNo, invece è possibilissimo contemporaneamente:
a)   sentire il dolore;
b)  predicare veracemente (sapere) di sentire il dolore;
c)   sapere che il sentire il dolore è un evento fenomenico di coscienza e il pensare (veracemente) di sentire il dolore è un altro, diverso evento fenomenico di coscienza (differenza colta quando il dolore ancora c' è, eccome se c'è!).
 
Dunque nell' accadere simultaneo dei (primi) due o anche dei tre eventi (tutti: durante la durata del dolore, che non è istantaneo ma prolungato nel tempo, avvengono –anche- le predicazioni, i pensieri di cui al punto "b" e al punto "c") essi sono simultaneamente insieme distinguibilissimi, ragion per cui la verità è una caratteristica (dell' apparire della realtà) del predicato o giudizio che afferma (l' apparire de-) il dolore.
 
 
Io e Davintro (se posso parlare anche a suo nome, per quanto lo intendo) non neghiamo affatto l' evento diciamo così "primario" (per esempio il sentire dolore; evento reale) per il fatto di distinguerlo dall' ulteriore, diverso evento, che vi può coesistere o meno, rappresentato dal (sentire) la predicazione (vera) dell' esistenza del dolore.
 
 
Ma un evento in generale, che non sia la pronuncia o la scrittura o comunque l' allestimento di simboli (per esempio simboli verbali, solitamente articolati in una proposizione o in più proposizioni costituenti un discorso) non ha alcun significato, non significa nulla, semplicemente accade.
Infatti per definizione solo i simboli (o insiemi variamente articolati e connessi di simboli; simboli verbali o di altro genere) e nessun altro genere di evento non simbolico significano qualcosa, hanno significati ("significato" = "ciò che è connotato da un simbolo; "evento non simbolico" = evento che non ha significato alcuno, che non significa alcunché").
 
 
Dire che un evento non simbolico non ha significato e che un evento non predicativo non può essere vero (o meno) ma casomai solo reale (o meno), poiché la verità sta (o meno) solo nei predicati (ossia in ciò che dell'evento si può benissimo dire tanto quando non c'è più tanto quanto c' è ancora eccome!) è ovviamente del tutto arbitrario, come qualsiasi altro significato attribuito a qualsiasi altro insieme di parole convenzionalmente per definizione.
 
 
IL senso comune non c' entra.
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: maral il 11 Giugno 2016, 13:52:23 PM
Citazione di: sgiombo il 09 Giugno 2016, 16:58:36 PM
No, invece è possibilissimo contemporaneamente:
sentire il dolore;
predicare veracemente (sapere) di sentire il dolore;
sapere che il sentire il dolore è un evento fenomenico di coscienza e il pensare (veracemente) di sentire il dolore è un altro, diverso evento fenomenico di coscienza (differenza colta quando il dolore ancora c' è, eccome se c'è!)
Sapere di sentire il dolore non è descriverlo a mezzo di predicati che ne presuppone l'oggettivazione e quindi l'uscita di quel dolore dal soggetto che lo sente e lo tiene di fronte a sé. Sapere di sentire il dolore è sì immediato e coincide con il sentirlo, ma non si attua in nessun discorso descrittivo.
Il dolore che ancora c'è mentre con il linguaggio posso descriverlo in realtà non c'è più (non è più autenticamente presente come dolore), quello che c'è è ciò che di esso è rimasto e che lo evoca, una traccia. E questa rievocazione può risuscitare certamente dolore a posteriori, ma è un dolore che nasce dalla rievocazione, dunque è evento diverso, non è ciò di cui si ritiene di predicare descrivendo.
Nel momento in cui si sente il dolore la coscienza si realizza nell'atto stesso in cui soggetto e oggetto sono la stessa cosa, se così non fosse dovremmo negare che chi non ha sviluppato una propria soggettività cosciente senta alcun dolore. E' l'osservatore che guarda questo accadere dall'esterno (cioè si pone all'esterno di questo accadere) che separa il soggetto dall'oggetto dell'esperienza per poter descrivere l'esperienza (come esperienza di un soggetto, di un io) e controllarla nell'oggetto.
Non c'è alcuna durata nel dolore, poiché esso, quando c'è, è solo presente, la durata c'è (e non può non esserci) solo nella sua descrizione, è la descrizione (resa possibile dalla separazione nell'evento di un soggetto da un oggetto) che determina il tempo e pure lo spazio in cui sono collocati e quindi descrivibili gli eventi, non viceversa ed è su questa descrizione che si attua la distinzione (a opera dell'osservatore) tra vero e falso, non sull'accadere presente del dolore. 

Citazione... un evento in generale, che non sia la pronuncia o la scrittura o comunque l' allestimento di simboli (per esempio simboli verbali, solitamente articolati in una proposizione o in più proposizioni costituenti un discorso) non ha alcun significato, non significa nulla, semplicemente accade.
Accade, ma in questo accadere accade sempre e solo come significato, è il significato che accade, ove significare vuol dire precisamente "fare segno", accade come un segno, il suo accadere è presente come segno che comprende insieme soggetto e oggetto (a loro volta segni). Anche quel puro evento che presupponi anticipi ogni significato già significa, nel momento stesso in cui lo presenti, il suo significato che è proprio quello di essere paradossalmente un evento privo di significato. Anche il nulla (quando nulla accade) significa.

CitazioneDire che un evento non simbolico non ha significato e che un evento non predicativo non può essere vero (o meno) ma casomai solo reale (o meno), poiché la verità sta (o meno) solo nei predicati (ossia in ciò che dell'evento si può benissimo dire tanto quando non c'è più tanto quanto c' è ancora eccome!) è ovviamente del tutto arbitrario[/font][/size][/color], come qualsiasi altro significato attribuito a qualsiasi altro insieme di parole convenzionalmente per definizione.

Non c'è alcun evento privo di significato (nemmeno quel non evento assoluto che è il nulla) e non c'è alcun significato che sia attribuito arbitrariamente per definizione, poiché ogni definizione nasce dal significato che la stabilisce e non è mai la definizione che dà i significati, ma solo l'evento che già si presenta come significato.

Ovviamente tutto questo lo posso dire solo in qualità di osservatore che tiene a distanza da sé l'evento per tentare di cogliere il significare come autentico, mentre vive il proprio evento descrittivo nel suo significare.
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: sgiombo il 11 Giugno 2016, 16:07:45 PM
Citazione di: maral il 11 Giugno 2016, 13:52:23 PM
Citazione di: sgiombo il 09 Giugno 2016, 16:58:36 PM
No, invece è possibilissimo contemporaneamente:
sentire il dolore;
predicare veracemente (sapere) di sentire il dolore;
sapere che il sentire il dolore è un evento fenomenico di coscienza e il pensare (veracemente) di sentire il dolore è un altro, diverso evento fenomenico di coscienza (differenza colta quando il dolore ancora c' è, eccome se c'è!)
Sapere di sentire il dolore non è descriverlo a mezzo di predicati che ne presuppone l'oggettivazione e quindi l'uscita di quel dolore dal soggetto che lo sente e lo tiene di fronte a sé. Sapere di sentire il dolore è sì immediato e coincide con il sentirlo, ma non si attua in nessun discorso descrittivo.
Il dolore che ancora c'è mentre con il linguaggio posso descriverlo in realtà non c'è più (non è più autenticamente presente come dolore), quello che c'è è ciò che di esso è rimasto e che lo evoca, una traccia. E questa rievocazione può risuscitare certamente dolore a posteriori, ma è un dolore che nasce dalla rievocazione, dunque è evento diverso, non è ciò di cui si ritiene di predicare descrivendo.
Citazione
Se continui a pretendere che:

sapere qualcosa (per esempio di sentire il dolore) non è (come invece è in lingua italiana) descriverlo a mezzo di predicati che ne affermano l' accadere conformemente alla realtà;

non si può (o meno) sapere di avere un' esperienza (per esempio quella di sentire il dolore) mentre la si sente (oltre ovviamente al sentirla);

sapere qualcosa (per esempio di sentire il dolore) immediatamente coincide (come invece non è in lingua italiana: in lingua italiana è altra cosa!) con la realtà del qualcosa (nell' esempio la realtà del sentire il dolore) anziché essere (come invece è in lingua italiana) descriverlo e affermarlo essere reale mediante un discorso vero (= conforme alla realtà);

che (al contrario della logica: autocontraddittoriamente) Il dolore che ancora c'è (= è ancora autenticamente presente come dolore) mentre con il linguaggio puoi descriverlo in realtà non c'è più (non è più autenticamente presente come dolore); ovvero come mi pare di capire, confondi il ricordo del dolore passato con la sensazione di dolore attualmente presente allorché puoi benissimo dire (o anche gridare o, o anche piangere = dire gridando, dire piangendo: "sento dolore");

che non c'è alcuna durata nel dolore [magari! Sarebbe una pacchia!, N.d.R.] ma solo nella descrizione del dolore, poiché esso (il dolore), quando c'è, è solo presente, anche nel caso in cui -per esempio- il mal di testa o di schiena duri ore e ore;

che autocontraddittorimente un evento in generale, che non sia la pronuncia o la scrittura o comunque l' allestimento di simboli (per esempio simboli verbali, solitamente articolati in una proposizione o in più proposizioni costituenti un discorso) anziché non avere alcun significato, non significare nulla, semplicemente accadere, allo stesso tempo in questo accadere accada sempre e solo come significato, è il significato che accade, ove significare vuol dire precisamente "fare segno", accade come un segno, il suo accadere è presente come segno che comprende insieme soggetto e oggetto (a loro volta segni);

che (ulteriori autocontraddizioni) vi possano essere eventi
il cui significato è proprio quello di essere paradossalmente degli eventi privi di significato e che  Anche il nulla (quando nulla accade) significa [che cosa? A chi?, N.d.R];

Che Non c'è alcun evento privo di significato (nemmeno quel non evento assoluto che è il nulla) e non c'è alcun significato che sia attribuito arbitrariamente per definizione (come invece è in lingua italiana), poiché ogni definizione nasce dal significato [preesistente alla definizione stessa, cioè alla stipulazione del significato, N.d.R] che la stabilisce e non è mai la definizione che dà i significati, ma solo l'evento che già si presenta come significato,

allora non mi è possibile dialogare con te (conosco l' italiano e un po' l' inglese, ma per nulla il maralese, e so ragionare unicamente secondo la logica dell' identità/non contraddizione e della coerenza).
Nel momento in cui si sente il dolore la coscienza si realizza nell'atto stesso in cui soggetto e oggetto sono la stessa cosa, se così non fosse dovremmo negare che chi non ha sviluppato una propria soggettività cosciente senta alcun dolore. E' l'osservatore che guarda questo accadere dall'esterno (cioè si pone all'esterno di questo accadere) che separa il soggetto dall'oggetto dell'esperienza per poter descrivere l'esperienza (come esperienza di un soggetto, di un io) e controllarla nell'oggetto.
Non c'è alcuna durata nel dolore, poiché esso, quando c'è, è solo presente, la durata c'è (e non può non esserci) solo nella sua descrizione, è la descrizione (resa possibile dalla separazione nell'evento di un soggetto da un oggetto) che determina il tempo e pure lo spazio in cui sono collocati e quindi descrivibili gli eventi, non viceversa ed è su questa descrizione che si attua la distinzione (a opera dell'osservatore) tra vero e falso, non sull'accadere presente del dolore.  

CitazioneChi non ha sviluppato una propria autocoscienza (animali non umani) può sentire dolore ma non può sapere di se stesso (ignora se stesso per definizione) che sente dolore (può immediatamente sentire il dolore e forse, nel caso di animali dal cervello abbastanza sviluppato, sapere -pensare non linguisticamente, "attenzionare in positivo"- che "c' é dolore"; ma non in se stesso, che per definizione ignora).

Le tue parole circa la distinzione fra soggetto e oggetto di sensazione e di (sensazione interiore) di pensiero (eventualmente vero = conoscenza), che nel caso di sensazioni interiori (di se stessi) o di conoscenze circa se stessi di fatto viene meno (soggetto ed oggetto identificandosi) riguardano altro, non sono attinenti la questione della differenza fra fatti (in generale) e (fatti peculiari costituiti da) conoscenze dei fatti.

Se fosse vero che Non c'è alcuna durata nel dolore, poiché [omissis] la durata c'è (e non può non esserci) solo nella sua descrizione, è la descrizione (resa possibile dalla separazione nell'evento di un soggetto da un oggetto) che determina il tempo e pure lo spazio in cui sono collocati e quindi descrivibili gli eventi, non viceversa, allora sarebbe proprio una pacchia; uno che per mesi o anni soffrisse di terribili dolori per tutto il corpo potrebbe benissimo descriverli -e dunque determinare la durata e l' estensione- come esistenti anziché per mesi o anni per qualche millesimo di secondo e localizzati anziché a tutto il corpo all' estremità del dito mignolo di un piede.


Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: maral il 11 Giugno 2016, 19:56:18 PM
Citazione di: sgiombo il 11 Giugno 2016, 16:07:45 PM
sapere qualcosa (per esempio di sentire il dolore) non è (come invece è in lingua italiana) descriverlo a mezzo di predicati che ne affermano l' accadere conformemente alla realtà;[/font]
Non farne una questione linguistica, Sgiombo, non sto parlando in nessun marallese oscuro: sapere una cosa non implica né in lingua italiana, né in qualsiasi altra lingua saperla descrivere a mezzo dei predicati di quella lingua o di una qualsiasi altra. I predicati servono all'osservatore per inquadrare quell'esperienza (di cui so senza saperla descrivere e la so subito vera poiché accade) in una descrizione che la estromette, ossia la colloca in oggetto. E l'esperienza è vera nel suo immediato significare, si presenta subito come un significato, di qualsiasi esperienza si tratti.
Il dolore che c'è mentre lo descrivo in oggetto non è (e non può essere in nessuna lingua) il dolore che veramente si sente significare mentre accade ed è questo che pone il problema della verità che si riferisce alla mimesi della descrizione, non certo al dolore che sento.


Citazioneche non c'è alcuna durata nel dolore [magari! Sarebbe una pacchia!, N.d.R.] ma solo nella descrizione del dolore, poiché esso (il dolore), quando c'è, è solo presente, anche nel caso in cui -per esempio- il mal di testa o di schiena duri ore e ore;
Il dolore c'è nel momento in cui lo sento, e questo momento è proprio il suo presente accadere, come ogni accadimento c'è solo nel presente finché c'è. E' la descrizione che ha bisogno di un tempo e nella descrizione quel dolore sentito è messo fuori da me che lo sento (in quello spazio in cui mi aspetto che qualcuno possa accoglierlo nel suo significare per assumerlo e prendersene cura). Il dolore di cui posso dire che che dura delle ore è sempre presente finché c'è, quindi non ha alcuna durata, proprio in quanto è costantemente presente: è adesso (o più semplicemente "è" al presente del verbo essere della lingua italiana). E' la descrizione del dolore che necessita di tradurlo in riferimento a una durata e questa traduzione è possibile solo se quel dolore mi si presenta come in qualche misura già estromesso da me in modo che lo possa descrivere. (non so se noti, ma sto parlando in lingua italiana stretta, giacché non è la lingua che con le sue definizioni convenute crea i significati, ma l'esatto contrario, per quanto queste definizioni siano sempre in qualche misura inadeguate e quindi sempre suscettibili di necessaria ridefinizione per tentare continuamente di dare conto dei significati a ogni lingua pre esistenti, anche se da ogni lingua mutati)   

Citazioneche (ulteriori autocontraddizioni) vi possano essere eventi [/font][/size][/color]il cui significato è proprio quello di essere paradossalmente degli eventi privi di significato e che  Anche il nulla (quando nulla accade) significa [che cosa? A chi?, N.d.R];
Il "non piovere adesso" è un significato che esprime esattamente l'accadere reale, vero e positivo del "non piovere adesso", è l'accadere di una negazione.
"Nulla accade" esprime esattamente questo evento "nulla accade" nel suo significato evidente (in lingua italiana) e "nulla" (nulla è) ha significato per quanto contraddittorio: esprime l'accadere del non accadere, l'accadere della contraddizione di questo accadere (dato che anche la contraddizione del nulla accade positivamente e accade significando esattamente ciò che significa per chiunque la senta, in qualsiasi lingua la senta espressa).
I significati non si stipulano, non c'è né mai stato un luogo dove si stipulano significati, ciò che si stipulano possono essere (a livello di linguaggi formali) delle definizioni, ossia dei segni che per convenzione più o meno evocano un accadere già significante (finché lo evocano, cosa che non dipende per nulla da ciò che è scritto nei vocabolari) per renderli descrivibili, ma il loro significare non sta nella definizione ed è di questo significare che si va in cerca facendo filosofia, magari anche interrogandosi sul senso delle definizioni con cui sono stati via via espressi, ma non prendendo le definizioni come base originaria dei significati.
Il significato del dolore (di qualsiasi dolore, come di qualsiasi gioia) viene ben prima di qualsiasi definizione stipulata per convenzione ed è per questo che ne possiamo parlare tentando di riflettere su come le definizioni traducono questo significato (cosa davvero mettono in luce e cosa nascondono della verità che accade)

CitazioneChi non ha sviluppato una propria autocoscienza (animali non umani) può sentire dolore, ma non può sapere di se stesso (ignora se stesso per definizione) che sente dolore (può immediatamente sentire il dolore e forse, nel caso di animali dal cervello abbastanza sviluppato, sapere -pensare non linguisticamente, "attenzionare in positivo"- che "c' é dolore"; ma non in se stesso, che per definizione ignora).
Ed è esattamente la stessa cosa che accade nell'essere umano (come in qualsiasi essere senziente) nel momento in cui sente davvero il dolore: non c'è né soggetto e quindi nemmeno oggetto, c'è il dolore (o anche la gioia di cui si potrebbe ugualmente parlare per tirarsi su in questa discussione) che diventa oggetto del sentire di un soggetto solo quando si sposta fuori di me, ossia quando ormai è solo un fatto (participio passato del verbo fare in italiano, ossia un accaduto, participio passato del verbo accadere, sempre in italiano).


CitazioneSe fosse vero che [/size]Non c'è alcuna durata nel dolore, poiché [omissis] la durata c'è (e non può non esserci) solo nella sua descrizione, è la descrizione (resa possibile dalla separazione nell'evento di un soggetto da un oggetto) che determina il tempo e pure lo spazio in cui sono collocati e quindi descrivibili gli eventi, non viceversa, allora sarebbe proprio una pacchia; uno che per mesi o anni soffrisse di terribili dolori per tutto il corpo potrebbe benissimo descriverli -e dunque determinare la durata e l' estensione- come esistenti anziché per mesi o anni per qualche millesimo di secondo e localizzati anziché a tutto il corpo all' estremità del dito mignolo di un piede.
Nessuna pacchia purtroppo, perché quel dolore è sempre presente nel suo accadere, è al presente, proprio adesso, mentre sta accadendo e quindi non è un fatto, un accaduto oggettivabile e di cui si può discutere della verità, ma qualcosa che sta accadendo e di cui pertanto la verità è assoluta, poiché accade. Non è il predicato di un'esperienza: è adesso quell'esperienza (sempre in lingua italiana, come in qualsiasi altra lingua).


Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: Phil il 11 Giugno 2016, 23:07:21 PM
Citazione di: maral il 11 Giugno 2016, 19:56:18 PMI predicati servono all'osservatore per inquadrare quell'esperienza (di cui so senza saperla descrivere e la so subito vera poiché accade) in una descrizione che la estromette, ossia la colloca in oggetto.
Non sempre c'è uno scarto temporale fra il linguaggio e la realtà e/o uno scarto di vissuto fra il "protagonista" e il "narratore"; ad esempio: "Sta piovendo e mi bagno": realtà descritta in tempo reale da un'affermazione vera (anzi due!) dalla persona che sta esperendo il vissuto mentre lo descrive...

Citazione di: maral il 11 Giugno 2016, 19:56:18 PME l'esperienza è vera nel suo immediato significare, si presenta subito come un significato, di qualsiasi esperienza si tratti.
Se per "vera" si intende "reale", per "significare" si intende "accadere" e per "significato" si intende "referente", sostituendo le tre parole, la frase diventa forse più precisa semiologicamente (non voglio "correggere con la penna rossa", solo suggerire di usare un linguaggio meno ambiguo e più standard...).
Un "significare" senza "segnificare" è soltanto legittimamente metaforico, e talvolta le metafore ci affascinano al punto da consolidarsi e non sembrare nemmeno più metafore...

Citazione di: maral il 11 Giugno 2016, 19:56:18 PMIl dolore di cui posso dire che che dura delle ore è sempre presente finché c'è, quindi non ha alcuna durata, proprio in quanto è costantemente presente: è adesso (o più semplicemente "è" al presente del verbo essere della lingua italiana). E' la descrizione del dolore che necessita di tradurlo in riferimento a una durata e questa traduzione è possibile solo se quel dolore mi si presenta come in qualche misura già estromesso da me in modo che lo possa descrivere [...] la stessa cosa che accade nell'essere umano (come in qualsiasi essere senziente) nel momento in cui sente davvero il dolore: non c'è né soggetto e quindi nemmeno oggetto, c'è il dolore [...] che diventa oggetto del sentire di un soggetto solo quando si sposta fuori di me, ossia quando ormai è solo un fatto (participio passato del verbo fare in italiano, ossia un accaduto, participio passato del verbo accadere, sempre in italiano).
[grassetto mio] Il dolore (della martellata) che percepisco è il mio dolore (altrimenti non potrei percepirlo sul mio pollice) e proprio nel percepirlo lo sento durare nel presente, e proprio nel sentirlo come mio dolore duraturo posso descriverlo al medico ("non mi passa!", oppure "adesso sta diminuendo..."). Ogni avvenimento è reale (non direi "vero") per chi lo vive: la coscienza, prima della mia memoria, esperisce i miei vissuti secondo le sue modalità; io non sono il mio dolore, io sono quella coscienza che sente quel dolore (la distinzione fra percipiente e percepito è ineliminabile, altrimenti smetterei per un attimo di avere autocoscienza e sarei solo un'impossibile "sensazione impersonale", "un vissuto di nessuno"...)

Citazione di: maral il 11 Giugno 2016, 19:56:18 PMgiacché non è la lingua che con le sue definizioni convenute crea i significati, ma l'esatto contrario, per quanto queste definizioni siano sempre in qualche misura inadeguate e quindi sempre suscettibili di necessaria ridefinizione per tentare continuamente di dare conto dei significati a ogni lingua pre esistenti, anche se da ogni lingua mutati)
Per alcuni linguisti (con cui possiamo anche non concordare), se non erro, "significato" e "definizione" sono sinonimi, per cui la lingua crea significati e pensarli pre-esistenti alla lingua è contraddittorio... oppure per "significati" intendevi "referenti" (quelli si, pre-esistenti ed autonomi rispetto ad ogni lingua)?


Citazione di: maral il 11 Giugno 2016, 19:56:18 PM quel dolore è sempre presente nel suo accadere, è al presente, proprio adesso, mentre sta accadendo e quindi non è un fatto, un accaduto oggettivabile e di cui si può discutere della verità, ma qualcosa che sta accadendo e di cui pertanto la verità è assoluta, poiché accade. Non è il predicato di un'esperienza: è adesso quell'esperienza
Secondo me, si può discutere "dal di fuori" della verità del dolore (magari sto fingendo...), e  non si può discutere sulla realtà del mio lamentarmi, in quanto accadere, per me e per gli eventuali altri, poiché di fatto, urlo o mi lamento etc. voler esprimere giudizi su questa realtà manifesta, porta al bivio "verità/falsità" (a farla breve, direi che tutto ciò che vivo-esperisco è per me "reale", non "vero"... ma forse è solo una questione di vocabolario personale).

Sul "dove" si ponga la verità (criterio del "vero") nel comunicare, o meglio, dove possa essere posta, propongo un'immagine:
(http://www.bmanuel.org/corling/ogden&Rich++_.jpg)
chiaramente, per "referente" non va inteso solo un oggetto materiale, ma, in generale, l'oggetto dell'atto comunicativo (quindi anche un esperienza o un vissuto).
[Il triangolo della significazione di Ogden e Richards. Adattato da C. K. Ogden e A. Richards, The Meaning of Meaning: a study of the influence of language upon thought and of the science of symbolism, New York, Harcourt & Brace, 1938 [1923], p. 11)]

P.s. L'immagine forse è troppo piccola, ecco il link:
http://www.bmanuel.org/corling/ogden&Rich++_.jpg
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: maral il 12 Giugno 2016, 13:16:56 PM
Citazione di: Phil il 11 Giugno 2016, 23:07:21 PM
Se per "vera" si intende "reale", per "significare" si intende "accadere" e per "significato" si intende "referente", sostituendo le tre parole, la frase diventa forse più precisa semiologicamente (non voglio "correggere con la penna rossa", solo suggerire di usare un linguaggio meno ambiguo e più standard...).
Ringrazio innanzitutto Phil per le precisazioni semiotiche e parto da qui per alcune considerazioni.
La distinzione tra vero e reale è opportuna, come ho già detto a Sgiombo, ma nel contesto di verità come Aletheia, la verità non può essere assunta come il risultato di un giudizio sul discorso che predica la realtà. Qui a essere vero è il reale che si presenta svelandosi e in quanto semplicemente si svela, dunque non c'è un vero contrapposto a un falso di cui si è tenuti a dare giudizio, ma un vero che, in quanto svelamento, è contrapposto al nascosto che, nel suo svelarsi come nascosto, è parimenti vero. Falsa è quindi solo la negazione dello svelamento di ciò che si svela.
Per significare si intende accadere, non per sostituire un termine più appropriato a un altro, ma perché l'accadere è inseparabile dal significare, ossia le cose accadono sempre significando e significano accadendo, dunque accadere = significare, entrambi sono svelamento.
Per il discorso sul referente, non essendo un semiologo, mi rifaccio a quanto qui spiegato:http://www.ildiogene.it/EncyPages/Ency=significato.html
In cui si dice, tra l'altro, che i termini di significato, significante e referente sono stati indicati in modo diverso e, in fig.3, indica che Frege denomina il referente proprio come "significato". Ma non è su una questione linguistica che intendo soffermarmi, bensì sul fatto che se il referente è "la realtà rappresentata dal segno" nell'ottica dello svelamento, se il segno svela (facendo segno, ossia segnificando), la realtà rappresentata dal segno è la realtà che si svela, dunque è proprio la verità (aletheia), di cui significato e significante sono momenti logici posti a posteriori dall'analisi dell'osservatore, che la valuta oggettivamente nel discorso (ossia estromettendola nel discorso posto in oggetto per l'analisi). Pertanto nell'esperienza della verità come svelamento referente, significato e significante coincidono, mentre vanno doverosamente distinti nella trattazione logica che ne fa l'osservatore allo scopo di chiarire una verità che a questo punto considera le modalità tecniche della sua comunicazione.
Ovviamente, si può sempre accettare o rifiutare la verità come aletheia e analizzarla solo nel suo aspetto   tecnico comunicativo, ma qui era appunto sulla verità come svelamento che intendevo soffermarmi.
(un aspetto che può essere interessante da approfondire in merito e che ora lascio solo accennato come tema può essere ad esempio come gioca la verità nella produzione artistica).

CitazioneIl dolore (della martellata) che percepisco è il mio dolore (altrimenti non potrei percepirlo sul mio pollice) e proprio nel percepirlo lo sento durare nel presente, e proprio nel sentirlo come mio dolore duraturo posso descriverlo al medico ("non mi passa!", oppure "adesso sta diminuendo..."). Ogni avvenimento è reale (non direi "vero") per chi lo vive: la coscienza, prima della mia memoria, esperisce i miei vissuti secondo le sue modalità; io non sono il mio dolore, io sono quella coscienza che sente quel dolore (la distinzione fra percipiente e percepito è ineliminabile, altrimenti smetterei per un attimo di avere autocoscienza e sarei solo un'impossibile "sensazione impersonale", "un vissuto di nessuno"...)
Certamente, ma l'emergere di un soggetto e di un oggetto è a posteriori (frutto di considerazioni logiche a posteriori che ne impongono una necessità a priori), ma non nel momento dell'apparire del dolore, del suo immediato originario svelarsi. Ovviamente nella possibilità o meno dell'apparire logico di un soggetto (io) a cui quel dolore appartiene come oggetto sta tutta la possibilità linguistica di descrivere quel dolore al medico o a chiunque altro, ma sempre su un piano logico descrittivo in cui un io viene per porsi come osservatore oggettivo del proprio dolore che non è più semplicemente sentito ed espresso, ma può essere spiegato e quindi interpretato. E' il piano di verità di un dolore spiegabile che necessita di un soggetto e di un oggetto che nella sensazione non ci sono ancora, perché c'è solo il dolore che si rende manifesto.
CitazionePer alcuni linguisti (con cui possiamo anche non concordare), se non erro, "significato" e "definizione" sono sinonimi, per cui la lingua crea significati e pensarli pre-esistenti alla lingua è contraddittorio... oppure per "significati" intendevi "referenti" (quelli si, pre-esistenti ed autonomi rispetto ad ogni lingua)?
Certo, nell'accezione che ne hai dato, intendo referenti (che peraltro abbiamo visto che Frege chiama significati), comunque basta intendersi.

Citazione...a farla breve, direi che tutto ciò che vivo-esperisco è per me "reale", non "vero"... ma forse è solo una questione di vocabolario personale.
D'accordo, ma in termini di aletheia, mi pare si possa dire che è vero come reale che si svela, cioè che si rende manifesto e in questo rendersi manifesto potrà determinarsi come oggetto di un soggetto.
Riprendendo il tuo esempio iniziale, se dico "sta piovendo e mi bagno" credo che siamo di fronte a uno svelamento che può costituire una descrizione (rivolta a qualcun altro per il quale magari non sta piovendo e non si bagna) oppure la semplice espressione di qualcosa che direttamente si manifesta. Nel primo caso la verità si pone nel triangolo che può darci il criterio alla base di una valutazione del discorso in termini di coerenza o non coerenza al reale, nel secondo è nel manifestarsi dell'evento stesso, ossia nell'apparire del reale nell'aspetto in cui appare.

Mi scuso per il mio discorso in qualche misura sempre ambiguo e oscuro, ma qui sto tentando di dire ciò che è essenzialmente indicibile, cosa che è certo una contraddizione, ma che non possiamo non voler tentare.
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: sgiombo il 12 Giugno 2016, 15:57:35 PM
Citazione di: maral il 11 Giugno 2016, 19:56:18 PM
Citazione di: sgiombo il 11 Giugno 2016, 16:07:45 PM
sapere qualcosa (per esempio di sentire il dolore) non è (come invece è in lingua italiana) descriverlo a mezzo di predicati che ne affermano l' accadere conformemente alla realtà;[/font]
Non farne una questione linguistica, Sgiombo, non sto parlando in nessun marallese oscuro: sapere una cosa non implica né in lingua italiana, né in qualsiasi altra lingua saperla descrivere a mezzo dei predicati di quella lingua o di una qualsiasi altra. I predicati servono all'osservatore per inquadrare quell'esperienza (di cui so senza saperla descrivere e la so subito vera poiché accade) in una descrizione che la estromette, ossia la colloca in oggetto. E l'esperienza è vera nel suo immediato significare, si presenta subito come un significato, di qualsiasi esperienza si tratti.
Il dolore che c'è mentre lo descrivo in oggetto non è (e non può essere in nessuna lingua) il dolore che veramente si sente significare mentre accade ed è questo che pone il problema della verità che si riferisce alla mimesi della descrizione, non certo al dolore che sento.

CitazioneA questo punto non insisto a farti notare le differenze fra essere ed essere saputo (in maniera sofisticata ovvero "linguisticamente", oppure in maniera immediatamente intuitiva ovvero "non verbale" che sia), fra reale e vero, né fra essere (in generale) e significare (essere significante): lascio il cimento ad altri volonterosi.

Citazioneche non c'è alcuna durata nel dolore [magari! Sarebbe una pacchia!, N.d.R.] ma solo nella descrizione del dolore, poiché esso (il dolore), quando c'è, è solo presente, anche nel caso in cui -per esempio- il mal di testa o di schiena duri ore e ore;
Il dolore c'è nel momento in cui lo sento, e questo momento è proprio il suo presente accadere, come ogni accadimento c'è solo nel presente finché c'è. E' la descrizione che ha bisogno di un tempo e nella descrizione quel dolore sentito è messo fuori da me che lo sento (in quello spazio in cui mi aspetto che qualcuno possa accoglierlo nel suo significare per assumerlo e prendersene cura). Il dolore di cui posso dire che che dura delle ore è sempre presente finché c'è, quindi non ha alcuna durata, proprio in quanto è costantemente presente: è adesso (o più semplicemente "è" al presente del verbo essere della lingua italiana). E' la descrizione del dolore che necessita di tradurlo in riferimento a una durata e questa traduzione è possibile solo se quel dolore mi si presenta come in qualche misura già estromesso da me in modo che lo possa descrivere. (non so se noti, ma sto parlando in lingua italiana stretta, giacché non è la lingua che con le sue definizioni convenute crea i significati, ma l'esatto contrario, per quanto queste definizioni siano sempre in qualche misura inadeguate e quindi sempre suscettibili di necessaria ridefinizione per tentare continuamente di dare conto dei significati a ogni lingua pre esistenti, anche se da ogni lingua mutati)  

CitazioneOvviamente ogni accadimento c'è [tempo presente] solo nel presente finché c'è; ma se si prolunga nel tempo (se ha una durata, fatto possibilissimo), allora c' era [tempo passato] anche prima e ci sarà [tempo futuro] anche poi.
E ogni dolore se dura delle ore è sempre presente finché c'è, quindi ha una durata di alcune ore (se invece fosse costantemente presente, allora avrebbe una durata infinita, cioè sarebbe eterno).

Se è vero, come è vero, che (in generale, "di regola", le definizioni dei concetti significati dalle parole sono sempre in qualche misura inadeguate e quindi sempre suscettibili di ridefinizione (secondo me possibile, non sempre e comunque necessaria, altrimenti si cadrebbe inevitabilmente in una Babele tale da impedire qualunque comunicazione), tuttavia ogni ridefinizione è comunque stabilita arbitrariamente, per convenzione: bisogna cercare di mettersi d' accordo (e cercare di stabilire se le lingue preesistono ai significati o viceversa mi sembra un po' come cercare di stabilire se sia nato prima l' uovo o la gallina).

Citazioneche (ulteriori autocontraddizioni) vi possano essere eventi [/font][/size][/color]il cui significato è proprio quello di essere paradossalmente degli eventi privi di significato e che  Anche il nulla (quando nulla accade) significa [che cosa? A chi?, N.d.R];
Il "non piovere adesso" è un significato che esprime esattamente l'accadere reale, vero e positivo del "non piovere adesso", è l'accadere di una negazione.
"Nulla accade" esprime esattamente questo evento "nulla accade" nel suo significato evidente (in lingua italiana) e "nulla" (nulla è) ha significato per quanto contraddittorio: esprime l'accadere del non accadere, l'accadere della contraddizione di questo accadere (dato che anche la contraddizione del nulla accade positivamente e accade significando esattamente ciò che significa per chiunque la senta, in qualsiasi lingua la senta espressa).
I significati non si stipulano, non c'è né mai stato un luogo dove si stipulano significati, ciò che si stipulano possono essere (a livello di linguaggi formali) delle definizioni, ossia dei segni che per convenzione più o meno evocano un accadere già significante (finché lo evocano, cosa che non dipende per nulla da ciò che è scritto nei vocabolari) per renderli descrivibili, ma il loro significare non sta nella definizione ed è di questo significare che si va in cerca facendo filosofia, magari anche interrogandosi sul senso delle definizioni con cui sono stati via via espressi, ma non prendendo le definizioni come base originaria dei significati.
Il significato del dolore (di qualsiasi dolore, come di qualsiasi gioia) viene ben prima di qualsiasi definizione stipulata per convenzione ed è per questo che ne possiamo parlare tentando di riflettere su come le definizioni traducono questo significato (cosa davvero mettono in luce e cosa nascondono della verità che accade)

CitazioneIl "non piovere adesso" è un significato (di un predicato, un pensiero) che esprime esattamente (= veracemente), il (fatto) reale e positivo (del) non piovere adesso (nota l' assenza delle virgolette), è l'accadere di un predicato negativo (= una negazione nel predicare, nel pensare): per lo meno in linea di principio le stesse cose si possono dire, pensare, predicare tanto in forma positiva, quanto in forma negativa (mentre le "cose", gli enti ed eventi reali possono realmente o accadere oppure non accadere: fra il dire o pensare in forma positiva o negativa sussiste una differenza puramente formale, mentre fra l' accadere e il non accadere realmente sussiste una ben diversa differenza reale, ontologica).
E "Nulla accade" è un significato (di un predicato, un pensiero) che esprime esattamente (ma falsamente) questo evento che nulla accade (nota l' assenza delle virgolette) nel suo significato (del predicato! E non della realtà!) evidente (in lingua italiana); e che è falso ma non contraddittorio (sarebbe contraddittorio casomai "nulla accade e contemporaneamente accade qualcosa").

Ciò che non dipende per nulla da ciò che è scritto nei vocabolari è l' accadere reale dei fatti (l' esistere reale delle cose) o meno, e non i significati delle parole.
Il fatto del dolore (di qualsiasi dolore, come di qualsiasi gioia; e non il significato della parola "dolore") viene ben prima di qualsiasi definizione stipulata per convenzione; ma con le parole possiamo benissimo parlare anche di enti ed eventi inesistenti, irreali (come per esempio minotauri, chimere, imprese di Ercole ecc.), attribuendo alle (stipulando per le) parole anche significati che non denotano alcunché di venuto prima, né che mai verrà (presumibilmente) dopo di esse.

CitazioneChi non ha sviluppato una propria autocoscienza (animali non umani) può sentire dolore, ma non può sapere di se stesso (ignora se stesso per definizione) che sente dolore (può immediatamente sentire il dolore e forse, nel caso di animali dal cervello abbastanza sviluppato, sapere -pensare non linguisticamente, "attenzionare in positivo"- che "c' é dolore"; ma non in se stesso, che per definizione ignora).
Ed è esattamente la stessa cosa che accade nell'essere umano (come in qualsiasi essere senziente) nel momento in cui sente davvero il dolore: non c'è né soggetto e quindi nemmeno oggetto, c'è il dolore (o anche la gioia di cui si potrebbe ugualmente parlare per tirarsi su in questa discussione) che diventa oggetto del sentire di un soggetto solo quando si sposta fuori di me, ossia quando ormai è solo un fatto (participio passato del verbo fare in italiano, ossia un accaduto, participio passato del verbo accadere, sempre in italiano).

CitazioneUn conto sono soggetto e oggetti del sentire, altra cosa sono soggetto e oggetti del (sentire di) pensare o predicare o anche sapere di sentire; anche se soggetto di sentire e soggetto di (sentire di) sapere possono (ma non devono necessariamente) coincidere: si può pensare, predicare, sapere di se stessi (e anche contemporaneamente a ciò che accade o si sente di se stessi e di cui si pensa e si sa!) ma anche di altro (almeno il linea ipotetica, o comunque per definizione).

CitazioneSe fosse vero che [/size]Non c'è alcuna durata nel dolore, poiché [omissis] la durata c'è (e non può non esserci) solo nella sua descrizione, è la descrizione (resa possibile dalla separazione nell'evento di un soggetto da un oggetto) che determina il tempo e pure lo spazio in cui sono collocati e quindi descrivibili gli eventi, non viceversa, allora sarebbe proprio una pacchia; uno che per mesi o anni soffrisse di terribili dolori per tutto il corpo potrebbe benissimo descriverli -e dunque determinare la durata e l' estensione- come esistenti anziché per mesi o anni per qualche millesimo di secondo e localizzati anziché a tutto il corpo all' estremità del dito mignolo di un piede. (Sgiombo)

Nessuna pacchia purtroppo, perché quel dolore è sempre presente nel suo accadere, è al presente, proprio adesso, mentre sta accadendo e quindi non è un fatto, un accaduto oggettivabile e di cui si può discutere della verità, ma qualcosa che sta accadendo e di cui pertanto la verità è assoluta, poiché accade. Non è il predicato di un'esperienza: è adesso quell'esperienza (sempre in lingua italiana, come in qualsiasi altra lingua). (MARAL)
Citazione
Risposta di Sgiombo:
Che un dolore (che è un fatto! E infatti si può discutere della sua realtà o meno, non della sua verità) è presente mentre è presente è una tautologia.
Non è il predicato di un'esperienza: è quell' esperienza (sempre in lingua italiana, come in qualsiasi altra lingua).

[/font][/size][/color]
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: Phil il 12 Giugno 2016, 16:10:03 PM
La tua prospettiva è interessante e mi suscita alcune domande e osservazioni, per vederci più chiaro:
Citazione di: maral il 12 Giugno 2016, 13:16:56 PMQui a essere vero è il reale che si presenta svelandosi e in quanto semplicemente si svela 
 Se il presentarsi-svelandosi del reale è vero, cosa distingue il "vero" dal "reale"? Vero e reale non diventano sinonimi?

Citazione di: maral il 12 Giugno 2016, 13:16:56 PMl'accadere è inseparabile dal significare, ossia le cose accadono sempre significando e significano accadendo, dunque accadere = significare, entrambi sono svelamento. 
Non è dunque possibile che ci siano eventi che accadono senza significare? 
Se la risposta è no, non si rischia anche qui di distinguere fra due termini (accadere e significare) che in fondo si denotano come sinonimi?
L'accadere non necessità certo di segnificazione, ma il significare (anche secondo Frege) non è solo un attributo semiologico, non ontologico, dell'accadere?

Citazione di: maral il 12 Giugno 2016, 13:16:56 PMse il referente è "la realtà rappresentata dal segno" nell'ottica dello svelamento, se il segno svela (facendo segno, ossia segnificando), la realtà rappresentata dal segno è la realtà che si svela, dunque è proprio la verità (aletheia)
Non per fare il "ventriloquo" di Frege, ma, anche stando dentro il suo vocabolario, credo che la realtà rappresentata dal segno sarebbe per lui (come per molti altri) una realtà semantica, quindi strutturata, quindi convenzionale (nulla che "si sveli" o "si dia"), anche perché, se non erro, era uno di quelli che intendeva la verità solo come valore di verità (V) di una proposizione. 
Ma, anche sorvolando su Frege, e parlando più in generale, la realtà che il segno segnifica e (rap)presenta è una realtà soltanto semantica, concettuale e convenzionale (e proprio per questo può essere vera o falsa). 

Citazione di: maral il 12 Giugno 2016, 13:16:56 PMPertanto nell'esperienza della verità come svelamento referente, significato e significante coincidono 
Quei tre possono coincidere solo in caso di "parola divina" che crea (referenti) pronunciando (significanti)... se ci si crede...
 
Citazione di: maral il 12 Giugno 2016, 13:16:56 PMOvviamente, si può sempre accettare o rifiutare la verità come aletheia e analizzarla solo nel suo aspetto tecnico comunicativo, ma qui era appunto sulla verità come svelamento che intendevo soffermarmi. (un aspetto che può essere interessante da approfondire in merito e che ora lascio solo accennato come tema può essere ad esempio come gioca la verità nella produzione artistica). 
Se, con estrema alchimia ermeneutica, proviamo ad amalgamare il vocabolario di Frege con l'ontologia di Heidegger, il virtuosismo che ne consegue potrebbe anche essere "artistico" (scherzo! ;))

Citazione di: maral il 12 Giugno 2016, 13:16:56 PMnella possibilità o meno dell'apparire logico di un soggetto (io) a cui quel dolore appartiene come oggetto sta tutta la possibilità linguistica di descrivere quel dolore al medico o a chiunque altro, ma sempre su un piano logico descrittivo in cui un io viene per porsi come osservatore oggettivo del proprio dolore che non è più semplicemente sentito ed espresso, ma può essere spiegato e quindi interpretato. E' il piano di verità di un dolore spiegabile che necessita di un soggetto e di un oggetto che nella sensazione non ci sono ancora, perché c'è solo il dolore che si rende manifesto. 
Non direi "un io viene per porsi", quasi fosse una sua scelta contingente: soprattutto nel caso del dolore, direi "un io si trova ad essere", volente o nolente, soggetto (non "osservatore") di quel vissuto (il dolore che descrivi sembra avere una connotazione molto trascendentale, priva di ogni impulso nervoso... siamo sicuri che sia dolore?).

Citazione di: maral il 12 Giugno 2016, 13:16:56 PMin termini di aletheia, mi pare si possa dire che è vero come reale che si svela, cioè che si rende manifesto e in questo rendersi manifesto potrà determinarsi come oggetto di un soggetto. 
[si parla del vissuto]
Qui propongo un esperimento, trovare la/e eventuale/i differenza/e fra: 
1-"è vero come reale che si svela"
2-"è reale come verità che si svela"
3-"è reale come realtà che si svela"
4-"è vero come verità che si svela"
sul filo di queste differenze c'è la non-sinonimia di "vero" e "reale".

Citazione di: maral il 12 Giugno 2016, 13:16:56 PMla verità si pone [...] nel manifestarsi dell'evento stesso, ossia nell'apparire del reale nell'aspetto in cui appare
Anche qui mi viene il dubbio che ciò che "si pone nel manifestarsi dell'evento" sia la realtà, più che la verità (o, se ti ho ben capito, "la verità della realtà che si manifesta" oppure, a scelta, "la realtà della verità che si manifesta").

P.s. Linguisticamente, come avrai già capito, vedo "la verità" connessa al verificare (come suo possibile esito) e "la realtà" connessa all'essere, all'accadere, e al realizzare; per questo mi ritrovo a triangolarle a fatica con "lo svelamento"...
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: maral il 12 Giugno 2016, 20:50:14 PM
Citazione di: Phil il 12 Giugno 2016, 16:10:03 PM
Se il presentarsi-svelandosi del reale è vero, cosa distingue il "vero" dal "reale"? Vero e reale non diventano sinonimi?
Mi pare sia implicito: vero è lo svelarsi del reale, quindi solo al reale (e non al vero) appartiene ciò che ora non accade svelandosi.

CitazioneNon è dunque possibile che ci siano eventi che accadono senza significare?
Se la risposta è no, non si rischia anche qui di distinguere fra due termini (accadere e significare) che in fondo si denotano come sinonimi?
L'accadere non necessità certo di segnificazione, ma il significare (anche secondo Frege) non è solo un attributo semiologico, non ontologico, dell'accadere?
Sì in questo contesto (che ovviamente non è quello in cui si muove Frege, a cui mi riferivo solo per dire che lui denota il referente con il termine di significato, ma qui è solo una questione linguistica) il significato è proprio ciò che accade e ogni accadere accadendo in qualche modo significa. La distinzione dei due termini appartiene alla necessità predicativa di un contesto diverso. Il riferiento della verità come aletheia non mi pare (ma può essere che mi sbagli) sia nella moderna semiotica, ma va alle origini della filosofia greca e "modernamente" a Husserl e Heidegger che la riprendono in senso fenomenologico (ovviamente è del tutto lecito criticare questa prospettiva).
Citazione"...parlando più in generale, la realtà che il segno segnifica e (rap)presenta è una realtà soltanto semantica, concettuale e convenzionale (e proprio per questo può essere vera o falsa)."
Ma non è solo concettuale e convenzionale nei termini di riferimento sopra indicati, ossia è proprio il segno che nell'accadimento appare. Non c'è una dimensione semantica che va confrontata con una realtà effettiva per verificarla vera, giacché la verità è nello svelarsi che si presenta come segno, è l'evocazione che il segno presenta che non evoca una diversa realtà sottostante a cui va commisurata per stabilire il grado di congruenza, ma evoca solo altri segni a cui fa segno.

CitazioneQuei tre possono coincidere solo in caso di "parola divina" che crea (referenti) pronunciando (significanti)... se ci si crede...
Ecco, qui quella parola divina è la parola che si fa carico del proprio significato/accadere assoluto, quello che Heidegger, nella seconda parte della sua vita cercò nella poesia di Holderlin.

CitazioneNon direi "un io viene per porsi", quasi fosse una sua scelta contingente: soprattutto nel caso del dolore, direi "un io si trova ad essere", volente o nolente, soggetto (non "osservatore") di quel vissuto (il dolore che descrivi sembra avere una connotazione molto trascendentale, priva di ogni impulso nervoso... siamo sicuri che sia dolore?).
Sì, "un io viene per porsi" è una mia espressione infelice, è più giusto dire che un "io si trova a essere", ma si trova a essere perché quel dolore originario è possibile che sia accolto in una sorta di spazio esterno costituito da altri accadimenti/significati. Quello che una certa attuale filosofia (e psicologia) vede come spazio transindividuale. E' grazie a questo spostamento che l'io comincia ad apparire. Per maggiore chiarezza rimando a questo interessante intervento di Felice Cimatti che illustra il lavoro di Bion: http://riviste.unimi.it/index.php/noema/article/viewFile/4683/4883 )

Citazione
[si parla del vissuto]
Qui propongo un esperimento, trovare la/e eventuale/i differenza/e fra:
1-"è vero come reale che si svela"
2-"è reale come verità che si svela"
3-"è reale come realtà che si svela"
4-"è vero come verità che si svela"
sul filo di queste differenze c'è la non-sinonimia di "vero" e "reale".
Certo, potrà essere interessante rifletterci sopra. Per ora mi limito alla posizione 1, che mi pare richiami il modo in cui Heidegger pone la relazione tra essere (coincidente con il Niente) ed ente.  

CitazioneP.s. Linguisticamente, come avrai già capito, vedo "la verità" connessa al verificare (come suo possibile esito) e "la realtà" connessa all'essere, all'accadere, e al realizzare; per questo mi ritrovo a triangolarle a fatica con "lo svelamento"...

Ma anche questo, dopotutto. è una forma di svelamento, potrebbe essere interessante vederne il rapporto, oltre alla contrapposizione.
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: maral il 12 Giugno 2016, 22:51:04 PM
Citazione di: sgiombo il 12 Giugno 2016, 15:57:35 PM
Ovviamente ogni accadimento c'è [tempo presente] solo nel presente finché c'è; ma se si prolunga nel tempo (se ha una durata, fatto possibilissimo), allora c' era [tempo passato] anche prima e ci sarà [tempo futuro] anche poi.
E ogni dolore se dura delle ore è sempre presente finché c'è, quindi ha una durata di alcune ore (se invece fosse costantemente presente, allora avrebbe una durata infinita, cioè sarebbe eterno).
E di nuovo, il dolore ha una durata nel momento in cui lo descrivi come un soggetto vede un oggetto, non nel momento in cui accade. Nella durata c'è un soggetto e un oggetto e per questo il soggetto concepisce il durare dell'oggetto, rispetto al diverso durare di se stesso (diversità di durata che non esiste nel momento in cui il dolore direttamente appare).

CitazioneSe è vero, come è vero, che (in generale, "di regola", le definizioni dei concetti significati dalle parole sono sempre in qualche misura inadeguate e quindi sempre suscettibili di ridefinizione (secondo me possibile, non sempre e comunque necessaria, altrimenti si cadrebbe inevitabilmente in una Babele tale da impedire qualunque comunicazione), tuttavia ogni ridefinizione è comunque stabilita arbitrariamente, per convenzione: bisogna cercare di mettersi d' accordo (e cercare di stabilire se le lingue preesistono ai significati o viceversa mi sembra un po' come cercare di stabilire se sia nato prima l' uovo o la gallina).
Non ho detto che è sempre necessario, è necessario quando si intende esaminare filosoficamente la questione, non ci si può arrestare davanti alla definizione, ma occorre metterla in discussione per capirne il senso che ha portato al significato che essa fa vedere nascondendone altri per far vedere solo quello. La definizione non è né un dato di natura, né un dato arbitrariamente convenuto, ma un aspetto particolare messo in luce del significare delle cose. Mettere in discussione le definizioni non significa cadere in una babele dove non ci si capisce più, ma al contrario esplorare la realtà delle cose per coglierne la verità che la dispiega. Si è in cammino e ogni passo consiste nel ribaltare ogni definizione per vedere cosa nasconde e cosa svela.
Poi se invece di voler esplorare le definizioni vogliamo fare logica matematica va bene, ma mi sa che non ne saremmo per nulla in grado (almeno non io: non ne possiedo il rigoroso linguaggio formale specialistico che necessita)

CitazioneIl "non piovere adesso" è un significato (di un predicato, un pensiero) che esprime esattamente (= veracemente), il (fatto) reale e positivo (del) non piovere adesso (nota l' assenza delle virgolette), è l'accadere di un predicato negativo (= una negazione nel predicare, nel pensare): per lo meno in linea di principio le stesse cose si possono dire, pensare, predicare tanto in forma positiva, quanto in forma negativa (mentre le "cose", gli enti ed eventi reali possono realmente o accadere oppure non accadere: fra il dire o pensare in forma positiva o negativa sussiste una differenza puramente formale, mentre fra l' accadere e il non accadere realmente sussiste una ben diversa differenza reale, ontologica).
E "Nulla accade" è un significato (di un predicato, un pensiero) che esprime esattamente (ma falsamente) questo evento che nulla accade (nota l' assenza delle virgolette) nel suo significato (del predicato! E non della realtà!) evidente (in lingua italiana); e che è falso ma non contraddittorio (sarebbe contraddittorio casomai "nulla accade e contemporaneamente accade qualcosa").
Il "non piovere adesso" è la verità del non piovere adesso, la verità dell'evento che sta nel suo significato, ossia nel suo stesso accadere. Accade che adesso non piove, accade che nulla accade, e queste cose accadono come evidenti significati. Se dico che "accade che non piove", mentre accade che piove dico il falso non perché mi riferisco in modo errato a ciò che realmente accade, ma perché mi riferisco in modo giusto a ciò che realmente accade nascondendolo, ove ciò che realmente accade è che accade che adesso piove, ma non voglio che  si sappia. La falsità sta nel voler mantenere nascosto lo svelarsi di ciò che effettivamente accade (il referente di Phil) come significato inscindibile da esso. Ciò che si dice non è mai disgiunto da ciò che accade, nemmeno nella predicazione e la contraddizione non c'è in ultima analisi né nella realtà né nel dire, poiché se ci fosse nel dire, quel dire la contraddizione sarebbe non dire nulla.

CitazioneIl fatto del dolore (di qualsiasi dolore, come di qualsiasi gioia; e non il significato della parola "dolore") viene ben prima di qualsiasi definizione stipulata per convenzione; ma con le parole possiamo benissimo parlare anche di enti ed eventi inesistenti, irreali (come per esempio minotauri, chimere, imprese di Ercole ecc.), attribuendo alle (stipulando per le) parole anche significati che non denotano alcunché di venuto prima, né che mai verrà (presumibilmente) dopo di esse.
Non si parla mai di enti non esistenti, ma di enti il cui significato si vuole tenere nascosto. magari con un riferimento letterale. I minotauri, le chimere e via dicendo non sono enti non essenti (e dunque contraddizioni), ma esistono (accadono) proprio per quello che propriamente significano.
Non c'è un mondo che si dice o si pensa in contrapposizione a un mondo reale che si può direttamente sentire e in cui il primo gode di illimitati gradi di libertà rispetto al secondo. Il mondo semantico è espressione diretta del mondo sentito accadere e il mondo sentito è espressione di quello che si pensa e hanno esattamente la stessa necessità che risiede nel loro manifestarsi come un unico mondo avente il significato di unico mondo.

CitazioneChe un dolore (che è un fatto! E infatti si può discutere della sua realtà o meno, non della sua verità) è presente mentre è presente è una tautologia.
Non è il predicato di un'esperienza: è quell' esperienza (sempre in lingua italiana, come in qualsiasi altra lingua).
Ma il fatto è nient'altro che una tautologia che si è compiuta nel suo significare. E proprio per questo non se ne può discutere (almeno finché non appare che forse non si era compiuta, che era rimasto nascosto il suo compimento e, a quel punto, il fatto non è più un fatto e lo si può rimettere in discussione).
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: cvc il 13 Giugno 2016, 08:59:43 AM
La ricerca della verità porta alla conclusione che la certezza assoluta non esiste, così come non esiste l'incertezza assoluta. Ci si muove nello spazio di gradi di certezza e quindi di gradi di verità. Le decisioni vengono prese in condizioni di incertezza più o meno alta.  L'episteme di è spostata dall'essere alla metodologia. La   conoscenza non è più rivolta alla ricerca di una realtà assoluta che spieghi il tutto, ma si pone degli obbiettivi particolari, e ciò che conta è la verità nelle metodologie che portano al raggiungimento di tali obiettivi. Non esiste più la filosofia intesa come contemplazione disinteressata, come osservazione di ciò che emerge dal superamento di una visione contingente del reale. Le scoperte della scienza sono il raggiungimento di obiettivi prefissati. Ciò che è vero è tale in quanto sono esatte le metodologie che portano a quella tale conclusione. Non esiste più la verità in quanto non esiste più la fede nella verità. La verità è diventata un qualcosa che deve sempre essere messo alla prova dalla verificazione del metodo, e non qualcosa in cui credere. Ciò che conta è che il metodo sia esatto, e non la verità in quanto portatrice di un senso. Se esiste una verità portatrice di un senso (Dio, il bene assoluto, la giustizia cosmica,...), allora la nostra vita risulta vincolata ad esso, occorre comportarsi in vista di tale senso. Invece il metodo ci libera da ogni legame col vincolo, se il metodo è esatto null'altro conta più. La certezza nel metodo ha sostituito la certezza nel senso. Siamo liberi dalla necessità di dare un senso alla vita perché sappiamo che in ogni caso abbiamo delle metodologie che ci permettono di raggiungere degli obiettivi. Peccato non esista anche una metodologia che ci permetta di dare un senso alla vita, quando questo bisogno emerge al di la di ogni apparente necessità. Le metodologie non scavano nel profondo delle persone, nei labirinti della psiche.
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: Duc in altum! il 13 Giugno 2016, 10:01:36 AM
**  scritto da CVC:
CitazioneNon esiste più la verità in quanto non esiste più la fede nella verità.

Molto perspicace tutta la tua ultima riflessione, penso che sia un'interessante analisi sulla ricerca della verità nella società, ma penso sia doveroso confutare a questo semplice e profondo concetto.

La verità, intesa come dimensione o valore assoluto, non può non esistere, qualunque essa sia. Così come non esiste la facoltà umana di poter esistere nel pianeta Terra senza aver fede, qualunque sia l'oggetto di questa fiducia. In effetti ogni esistenza, volente o nolente, che lo sappia, lo eviti o dissimuli di non sapere, è vincolata, come tu ben dici: Se esiste una verità portatrice di un senso (Dio, il bene assoluto, la giustizia cosmica,...) allora la nostra vita risulta vincolata ad esso, occorre comportarsi in vista di tale senso. - a quella verità di/per fede.


Quando la certezza nel metodo sostituisce la certezza nel senso, la fiducia si trasferisce, inevitabilmente, da una speranza metafisica che concerne ed include un'attesa,una pazienza, una rassegnazione, ad un'aspettativa fulminea, al desiderio di appagare istantaneamente quell'obbiettivo, adesso, ora, "mò mò".
Quindi ben venga la metodologia che mi concede il piacere subitaneo, a discapito dell'arrendevole e paziente fede nel senso ultimo e primo delle cose, ma non è che con questi metodi si annulli l'ansia del dubbio di essere nella menzogna. Forse, anzi certamente s'incontra una metodologia che ci permette di convivere con essa, ma questo è un compromesso che comporta l'avere fede che quella sia la verità.
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: sgiombo il 13 Giugno 2016, 10:45:40 AM
Citazione di: maral il 12 Giugno 2016, 22:51:04 PM
Citazione di: sgiombo il 12 Giugno 2016, 15:57:35 PM
Ovviamente ogni accadimento c'è [tempo presente] solo nel presente finché c'è; ma se si prolunga nel tempo (se ha una durata, fatto possibilissimo), allora c' era [tempo passato] anche prima e ci sarà [tempo futuro] anche poi.
E ogni dolore se dura delle ore è sempre presente finché c'è, quindi ha una durata di alcune ore (se invece fosse costantemente presente, allora avrebbe una durata infinita, cioè sarebbe eterno).
E di nuovo, il dolore ha una durata nel momento in cui lo descrivi come un soggetto vede un oggetto, non nel momento in cui accade. Nella durata c'è un soggetto e un oggetto e per questo il soggetto concepisce il durare dell'oggetto, rispetto al diverso durare di se stesso (diversità di durata che non esiste nel momento in cui il dolore direttamente appare).
CitazioneIl rapporto fra la durata del fatto "dolore"  e del fatto "descrizione, conoscenza del dolore", essendo un rapporto necessita per avere senso di entrambi i termini fra i quali si stabilisce, ed entrambi devono essere finiti (compresa la durata del fatto "dolore", che non può dunque essere istantanea ovvero infinitamente piccola).

CitazioneSe è vero, come è vero, che (in generale, "di regola", le definizioni dei concetti significati dalle parole sono sempre in qualche misura inadeguate e quindi sempre suscettibili di ridefinizione (secondo me possibile, non sempre e comunque necessaria, altrimenti si cadrebbe inevitabilmente in una Babele tale da impedire qualunque comunicazione), tuttavia ogni ridefinizione è comunque stabilita arbitrariamente, per convenzione: bisogna cercare di mettersi d' accordo (e cercare di stabilire se le lingue preesistono ai significati o viceversa mi sembra un po' come cercare di stabilire se sia nato prima l' uovo o la gallina).
Non ho detto che è sempre necessario, è necessario quando si intende esaminare filosoficamente la questione, non ci si può arrestare davanti alla definizione, ma occorre metterla in discussione per capirne il senso che ha portato al significato che essa fa vedere nascondendone altri per far vedere solo quello. La definizione non è né un dato di natura, né un dato arbitrariamente convenuto, ma un aspetto particolare messo in luce del significare delle cose. Mettere in discussione le definizioni non significa cadere in una babele dove non ci si capisce più, ma al contrario esplorare la realtà delle cose per coglierne la verità che la dispiega. Si è in cammino e ogni passo consiste nel ribaltare ogni definizione per vedere cosa nasconde e cosa svela.
Poi se invece di voler esplorare le definizioni vogliamo fare logica matematica va bene, ma mi sa che non ne saremmo per nulla in grado (almeno non io: non ne possiedo il rigoroso linguaggio formale specialistico che necessita)
Citazione
Ovviamente ogni definizione é sempre discutibile e modificabile; ma non per questo non é arbitraria, convenzionale (e modificabile arbitrariamente per convenzione): non ha nulla di "oggettivo".
Ogni definizione semplicemente "ha" un significato, appunto quello stabilito arbitrariamente e attribuito al concetto del quale é definizione.


CitazioneIl "non piovere adesso" è un significato (di un predicato, un pensiero) che esprime esattamente (= veracemente), il (fatto) reale e positivo (del) non piovere adesso (nota l' assenza delle virgolette), è l'accadere di un predicato negativo (= una negazione nel predicare, nel pensare): per lo meno in linea di principio le stesse cose si possono dire, pensare, predicare tanto in forma positiva, quanto in forma negativa (mentre le "cose", gli enti ed eventi reali possono realmente o accadere oppure non accadere: fra il dire o pensare in forma positiva o negativa sussiste una differenza puramente formale, mentre fra l' accadere e il non accadere realmente sussiste una ben diversa differenza reale, ontologica).
E "Nulla accade" è un significato (di un predicato, un pensiero) che esprime esattamente (ma falsamente) questo evento che nulla accade (nota l' assenza delle virgolette) nel suo significato (del predicato! E non della realtà!) evidente (in lingua italiana); e che è falso ma non contraddittorio (sarebbe contraddittorio casomai "nulla accade e contemporaneamente accade qualcosa").
Il "non piovere adesso" è la verità del non piovere adesso, la verità dell'evento che sta nel suo significato, ossia nel suo stesso accadere. Accade che adesso non piove, accade che nulla accade, e queste cose accadono come evidenti significati. Se dico che "accade che non piove", mentre accade che piove dico il falso non perché mi riferisco in modo errato a ciò che realmente accade, ma perché mi riferisco in modo giusto a ciò che realmente accade nascondendolo, ove ciò che realmente accade è che accade che adesso piove, ma non voglio che  si sappia. La falsità sta nel voler mantenere nascosto lo svelarsi di ciò che effettivamente accade (il referente di Phil) come significato inscindibile da esso. Ciò che si dice non è mai disgiunto da ciò che accade, nemmeno nella predicazione e la contraddizione non c'è in ultima analisi né nella realtà né nel dire, poiché se ci fosse nel dire, quel dire la contraddizione sarebbe non dire nulla.
CitazioneNon posso che rassegnarmi a constatare che non riesci a cogliere la differenza fra fatti e pensieri, realtà e verità (o meno), eventi non simbolici (=senza significato) e simboli .

CitazioneIl fatto del dolore (di qualsiasi dolore, come di qualsiasi gioia; e non il significato della parola "dolore") viene ben prima di qualsiasi definizione stipulata per convenzione; ma con le parole possiamo benissimo parlare anche di enti ed eventi inesistenti, irreali (come per esempio minotauri, chimere, imprese di Ercole ecc.), attribuendo alle (stipulando per le) parole anche significati che non denotano alcunché di venuto prima, né che mai verrà (presumibilmente) dopo di esse.
Non si parla mai di enti non esistenti, ma di enti il cui significato si vuole tenere nascosto. magari con un riferimento letterale. I minotauri, le chimere e via dicendo non sono enti non essenti (e dunque contraddizioni), ma esistono (accadono) proprio per quello che propriamente significano.

CitazioneBeh quando parlo dell' ippogrifo parlo di un ente non esistente e non intendo affatto tenere nascosto alcunché (in particolare il fatto che non esste).

I minotauri, le chimere e via dicendo non esistono; esistono soli i concetti di "minotauro", "chimera", ecc. (per "essente" non so cosa si intenda).

Non c'è un mondo che si dice o si pensa in contrapposizione a un mondo reale che si può direttamente sentire e in cui il primo gode di illimitati gradi di libertà rispetto al secondo. Il mondo semantico è espressione diretta del mondo sentito accadere e il mondo sentito è espressione di quello che si pensa e hanno esattamente la stessa necessità che risiede nel loro manifestarsi come un unico mondo avente il significato di unico mondo.
CitazioneSe così fsse saremmo degli dei onniscienti e infallibili!

CitazioneChe un dolore (che è un fatto! E infatti si può discutere della sua realtà o meno, non della sua verità) è presente mentre è presente è una tautologia.
Non è il predicato di un'esperienza: è quell' esperienza (sempre in lingua italiana, come in qualsiasi altra lingua).
Ma il fatto è nient'altro che una tautologia che si è compiuta nel suo significare. E proprio per questo non se ne può discutere (almeno finché non appare che forse non si era compiuta, che era rimasto nascosto il suo compimento e, a quel punto, il fatto non è più un fatto e lo si può rimettere in discussione).
CitazioneRibadisco la mia rassegnazione a constatare che non cogli la differenza fra fatti e pensieri, realtà e verità (o meno), eventi non simbolici (=senza significato) e simboli .
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: maral il 13 Giugno 2016, 13:50:06 PM
Citazione di: CVCL'episteme di è spostata dall'essere alla metodologia. La   conoscenza non è più rivolta alla ricerca di una realtà assoluta che spieghi il tutto, ma si pone degli obbiettivi particolari, e ciò che conta è la verità nelle metodologie che portano al raggiungimento di tali obiettivi.
Ma questo non fa che spostare il problema senza risolverlo. Se ormai siamo giunti a pensare che non c'è più la pretesa di una realtà assolutamente vera, c'è pur sempre la pretesa di un metodo assolutamente vero. E su che cosa si basa tale pretesa? Sul fatto che l'applicazione tecnica a cui quel metodo dà luogo funziona. Dunque la verità assoluta è il funzionare della tecnica. Ma davvero funziona o è lecito dubitarne?
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: davintro il 13 Giugno 2016, 15:43:47 PM
La metodologia è un mezzo, uno strumento da utilizzare, per un fine, che è, in sede filosofica, la scoperta della verità, ma non può mai essere fine a se stessa. Io teorizzo epistemologicamente un metodo di ricerca perchè ho l'obiettivo di arrivare ad un risultato che è la conoscenza della verità. Se avessi perso la fiducia nella possibilità di raggiungere tale conoscenza,a che pro affannarmi a definire un metodo migliore di ricerca? La necessità del metodo sorge non dalla perdita di fede (o fiducia) nell'obiettivo, ma dalla coscienza di difficoltà ed ostacoli che vanno rimossi, e la rimozione presuppone il superamento di una condizione esperienziale meramente ingenua, spontanea, premetodica. Non si può dire che la riflessione sul metodo sostituisca quella sulla verità o sul sul senso delle cose, perchè si tratta di due aspetti correlati. Se io in sede epistemologica prediligo la logica deduttiva a quella induttiva ciò ha dirette implicazioni sulla visione ontologica: se per me  il metodo di ricerca della verità è deduttivo è perchè pongo come punto di partenza della ricerca un'apriorità del discorso (da cui poi dedurre) che colgo perchè a tale apriorità corrisponde una verità e un senso delle cose, appunto, "a-priori", trascendente la realtà contingente, vale a dire il riconoscimento di un livello dell'essere metafisico. Mentre una metafisica su base induttiva è assurda. In pratica per ogni metodologia è sempre sottesa, magari implicitamente e senza piena consapevolezza da parte dell'epistemologo stesso che teorizza il metodo, un'opzione ontologica, cioè una tesi sulla verità delle "cose stesse". Per ogni metodo corrisponde un aspetto, un livello della realtà all'interno del quale considerare la verità
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: cvc il 13 Giugno 2016, 16:16:37 PM
Citazione di: maral il 13 Giugno 2016, 13:50:06 PM
Citazione di: CVCL'episteme di è spostata dall'essere alla metodologia. La   conoscenza non è più rivolta alla ricerca di una realtà assoluta che spieghi il tutto, ma si pone degli obbiettivi particolari, e ciò che conta è la verità nelle metodologie che portano al raggiungimento di tali obiettivi.
Ma questo non fa che spostare il problema senza risolverlo. Se ormai siamo giunti a pensare che non c'è più la pretesa di una realtà assolutamente vera, c'è pur sempre la pretesa di un metodo assolutamente vero. E su che cosa si basa tale pretesa? Sul fatto che l'applicazione tecnica a cui quel metodo dà luogo funziona. Dunque la verità assoluta è il funzionare della tecnica. Ma davvero funziona o è lecito dubitarne?
Il metodo scientifico è adatto per dirci cosa c'è nel nostro ambiente e come funziona, ma non è in grado di darci indicazioni sul valore. Almeno secondo il mio limitato punto di vista.  Ha senso dire che la nostra vita ha più valore di quella di un uomo primitivo? Sono due momenti diversi di una stessa evoluzione, ma il valore dell'evoluzione non cambia a seconda dello stadio che consideriamo, perché il conseguente esiste in virtù del precedente. Quando capiamo, ma forse sarebbe meglio dire intuiamo e poi verifichiamo, il senso della vita e dell'esistenza, è allora che percepiamo la verità. Ma la verità non può essere rinchiusa in un metodo, contrariamente a quello che oggi, secondo me, si pensa. La verità è forse più uno stato d'animo che un concetto oggettivo.
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: cvc il 13 Giugno 2016, 16:31:27 PM
Citazione di: davintro il 13 Giugno 2016, 15:43:47 PM
La metodologia è un mezzo, uno strumento da utilizzare, per un fine, che è, in sede filosofica, la scoperta della verità, ma non può mai essere fine a se stessa. Io teorizzo epistemologicamente un metodo di ricerca perchè ho l'obiettivo di arrivare ad un risultato che è la conoscenza della verità. Se avessi perso la fiducia nella possibilità di raggiungere tale conoscenza,a che pro affannarmi a definire un metodo migliore di ricerca? La necessità del metodo sorge non dalla perdita di fede (o fiducia) nell'obiettivo, ma dalla coscienza di difficoltà ed ostacoli che vanno rimossi, e la rimozione presuppone il superamento di una condizione esperienziale meramente ingenua, spontanea, premetodica. Non si può dire che la riflessione sul metodo sostituisca quella sulla verità o sul sul senso delle cose, perchè si tratta di due aspetti correlati. Se io in sede epistemologica prediligo la logica deduttiva a quella induttiva ciò ha dirette implicazioni sulla visione ontologica: se per me  il metodo di ricerca della verità è deduttivo è perchè pongo come punto di partenza della ricerca un'apriorità del discorso (da cui poi dedurre) che colgo perchè a tale apriorità corrisponde una verità e un senso delle cose, appunto, "a-priori", trascendente la realtà contingente, vale a dire il riconoscimento di un livello dell'essere metafisico. Mentre una metafisica su base induttiva è assurda. In pratica per ogni metodologia è sempre sottesa, magari implicitamente e senza piena consapevolezza da parte dell'epistemologo stesso che teorizza il metodo, un'opzione ontologica, cioè una tesi sulla verità delle "cose stesse". Per ogni metodo corrisponde un aspetto, un livello della realtà all'interno del quale considerare la verità
Sono d'accordo che la metodologia non è fine a se stessa. Ma la metodologia oggi sporge di gran lunga sulla filosofia, perché tante piccole verità certe sono preferite ad una grande verità non verificabile. La scienza avanza al motto di 'dividi et impera'. Tanto è vero che il concetto di grandezza oggi si è perso tranne che nell'accezione di valore relativo.
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: davintro il 13 Giugno 2016, 16:58:41 PM
Citazione di: cvc il 13 Giugno 2016, 16:31:27 PM
Citazione di: davintro il 13 Giugno 2016, 15:43:47 PMLa metodologia è un mezzo, uno strumento da utilizzare, per un fine, che è, in sede filosofica, la scoperta della verità, ma non può mai essere fine a se stessa. Io teorizzo epistemologicamente un metodo di ricerca perchè ho l'obiettivo di arrivare ad un risultato che è la conoscenza della verità. Se avessi perso la fiducia nella possibilità di raggiungere tale conoscenza,a che pro affannarmi a definire un metodo migliore di ricerca? La necessità del metodo sorge non dalla perdita di fede (o fiducia) nell'obiettivo, ma dalla coscienza di difficoltà ed ostacoli che vanno rimossi, e la rimozione presuppone il superamento di una condizione esperienziale meramente ingenua, spontanea, premetodica. Non si può dire che la riflessione sul metodo sostituisca quella sulla verità o sul sul senso delle cose, perchè si tratta di due aspetti correlati. Se io in sede epistemologica prediligo la logica deduttiva a quella induttiva ciò ha dirette implicazioni sulla visione ontologica: se per me il metodo di ricerca della verità è deduttivo è perchè pongo come punto di partenza della ricerca un'apriorità del discorso (da cui poi dedurre) che colgo perchè a tale apriorità corrisponde una verità e un senso delle cose, appunto, "a-priori", trascendente la realtà contingente, vale a dire il riconoscimento di un livello dell'essere metafisico. Mentre una metafisica su base induttiva è assurda. In pratica per ogni metodologia è sempre sottesa, magari implicitamente e senza piena consapevolezza da parte dell'epistemologo stesso che teorizza il metodo, un'opzione ontologica, cioè una tesi sulla verità delle "cose stesse". Per ogni metodo corrisponde un aspetto, un livello della realtà all'interno del quale considerare la verità
Sono d'accordo che la metodologia non è fine a se stessa. Ma la metodologia oggi sporge di gran lunga sulla filosofia, perché tante piccole verità certe sono preferite ad una grande verità non verificabile. La scienza avanza al motto di 'dividi et impera'. Tanto è vero che il concetto di grandezza oggi si è perso tranne che nell'accezione di valore relativo.

ma la stessa idea del "dividi et impera" ha alle spalle un'idea della totalità: se penso che la ricerca della verità consista nell'assommare tante piccole verità, scartando una visione globale, è perchè rifiuto una concezione dell'essere di tipo olistico: rifiuto un olismo ontologico secondo cui "il tutto è più della somma delle parti", in favore di una visione frammentata e atomistica della realtà in cui ogni singola parte va trattata separatamente dalle altre per poi operare una riunificazione meramente addizionale ed esteriore, senza considerare un complesso di relazioni che lega ogni singola parte al tutto e che dovrebbe porre come assurda l'idea di comprendere la parte come isolata dal resto. Una concezione atomista e antiolistica che, condivisibile o meno, è comunque pur sempre un modello ontologico, cioè filosofico, a cui è correlata una certa metodologia. La metodologia non "fuoriesce" dalla filosofia perchè  è parte integrante e basilare di questa
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: Phil il 13 Giugno 2016, 17:13:59 PM
Citazione di: cvc il 13 Giugno 2016, 08:59:43 AML'episteme si è spostata dall'essere alla metodologia
La domanda chiave, secondo me, è: perché è avvenuto tale spostamento?
Probabilmente tale spostamento è stato dovuto all'avanzamento di alcune discipline scientifiche che hanno scalzato le ipotesi puramente teoretiche con analisi più oggettive, spingendo l'episteme ad "aggiornarsi" con i nuovi paradigmi scientifici.  
Un effetto collaterale, per me, è stato il depauperamento del concetto di Verità Assoluta che ha portato, da un lato, alla riduzione (anche in senso fenomenologico) del suo campo di applicazione a quello della pura verifica di proposizioni (verità come corrispondenza); dall'altro, ha lasciato spazio al criterio di funzionalità, che ne ha quasi preso il posto, in veste di strumento mondano per (tentare di) risolvere molte questioni (e non solo tecnologiche, basti pensare allo statuto epistemologico della psicologia...). 

A questo punto, come ogni elemento obsoleto, la Verità intesa come Assoluta Trascendenza, può essere ancora oggetto di considerazioni storiografiche (anche nel senso di storia della filosofia), di archiviazione filologica, di conservazione o esposizione come "feticcio vintage", o anche usata ancora dalle comunità che scelgono farvi appello (similmente a quanto avviene per la superstizione: fa parte della storia dell'uomo, qualcuno la studia, qualcuno la pratica, ma non riconoscere che sia poco più di un'autosuggestione, senza effettivo valore causale sul mondo circostante, significa essere rimasti qualche pagina indietro; il che non è detto sia poi un male...). 

Citazione di: davintro il 13 Giugno 2016, 15:43:47 PMLa metodologia è un mezzo, uno strumento da utilizzare, per un fine, che è, in sede filosofica, la scoperta della verità, ma non può mai essere fine a se stessa. Io teorizzo epistemologicamente un metodo di ricerca perchè ho l'obiettivo di arrivare ad un risultato che è la conoscenza della verità. [...] Per ogni metodo corrisponde un aspetto, un livello della realtà all'interno del quale considerare la verità
Si può dire, oggi, che la filosofia cerca ancora la verità? Che l'abbia cercata in passato è un dato di fatto; ma attualmente i filosofi (ri)cercano la verità? Non c'è forse la prevalenza speculativa dell'interpretazione (ermeneutica, sempre meno "ontologizzata"), della riflessione metodologica sui principi delle altre scienze (esempio lampante: bioetica), un atavico legame con il politico ed il sociale, etc. con la ricerca della verità ormai demandata alle "scienze della natura" (o alla logica proposizionale)? Davvero l'episteme di oggi ha per oggetto la Verità?

Il legame Verità-Senso-Metafisica, per come la vedo, è un'eredità teoretica di un pensiero antico, che forse si è consumato senza spegnersi totalmente, covando sotto la cenere il proprio ardere, o magari scaldandoci anche oggi che, a differenza del passato, possiamo optare anche di usare i termosifoni...  ;)
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: HollyFabius il 13 Giugno 2016, 18:27:44 PM
Citazione di: Duc in altum! il 13 Giugno 2016, 10:01:36 AM
**  scritto da CVC:
CitazioneNon esiste più la verità in quanto non esiste più la fede nella verità.

Molto perspicace tutta la tua ultima riflessione, penso che sia un'interessante analisi sulla ricerca della verità nella società, ma penso sia doveroso confutare a questo semplice e profondo concetto.

La verità, intesa come dimensione o valore assoluto, non può non esistere, qualunque essa sia. Così come non esiste la facoltà umana di poter esistere nel pianeta Terra senza aver fede, qualunque sia l'oggetto di questa fiducia. In effetti ogni esistenza, volente o nolente, che lo sappia, lo eviti o dissimuli di non sapere, è vincolata, come tu ben dici: Se esiste una verità portatrice di un senso (Dio, il bene assoluto, la giustizia cosmica,...) allora la nostra vita risulta vincolata ad esso, occorre comportarsi in vista di tale senso. - a quella verità di/per fede.


Quando la certezza nel metodo sostituisce la certezza nel senso, la fiducia si trasferisce, inevitabilmente, da una speranza metafisica che concerne ed include un'attesa,una pazienza, una rassegnazione, ad un'aspettativa fulminea, al desiderio di appagare istantaneamente quell'obbiettivo, adesso, ora, "mò mò".
Quindi ben venga la metodologia che mi concede il piacere subitaneo, a discapito dell'arrendevole e paziente fede nel senso ultimo e primo delle cose, ma non è che con questi metodi si annulli l'ansia del dubbio di essere nella menzogna. Forse, anzi certamente s'incontra una metodologia che ci permette di convivere con essa, ma questo è un compromesso che comporta l'avere fede che quella sia la verità.
Io credo che Popper abbia chiarito questo punto. Le due cose possono tranquillamente convivere.
La verità scientifica non esiste ma esiste bensì la verificabilità scientifica ovvero la falsificabilità, le teorie sono scientifiche se contengono almeno un criterio di falsificabilità, ovvero se contengono nel loro orizzonte dei possibili risultato sperimentale che neghino la verità della tesi esposta dalla teoria.
La verità scientifica è un processo di avvicinamento basato sul metodo ma è chiaro che questo processo non interviene sulla formulazione di tesi, ovvero le tesi sono a priori sempre basate su principi e su idee perfettibili.
Uno scienziato può tranquillamente essere convinto che tutto sia generato da Dio, oppure che tutto sia generato da una forza irrazionale, oppure da due forze contrapposte, oppure da tre forze contrapposte, ecc. ecc.
Tutto ciò può essere la sua rotta spirituale, il suo convincimento personale ma le sue tesi per essere scientificamente valide devono poter contenere esperimenti di invalidazione, criteri di falsificabilità.

Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: cvc il 13 Giugno 2016, 19:50:13 PM
Che la ricerca della verità si sia concentrata sul metodo e non sull'essere credo non sia solo una mia opinione.  Kahneman e Smith vinsero entrambi il Nobel sostenendo tesi opposte in quanto entrambe le loro metodologie furono giudicate corrette. Che poi lo scienziato possa avere le sue tesi esistenziali, chi lo nega? Ma a chi interessano le tesi esistenziali dello scienziato? Semmai ai filosofi, non certo o comunque molto meno agli altri scienziati. La mia opinione è che le scoperte scientifiche poco o nulla dicono sull'essere, in quanto sono sempre una parte di un tutto che nulla dice sulla sua totalità, nulla dice sulla coincidenza fra universo osservato e senso dell'umanità. Se il senso dell'uomo è quello di poter prendere decisioni sul suo destino, questo senso si è perso poiché si delega ogni decisione alla scienza. Persino quando le sue teorie risultano inconsistenti, come nel caso delle teorie di mercato che dovrebbero valere partendo da dei presupposti: concorrenza perfetta, simmetria informativa, assenza di esternalità. Presupposti che di fatto non si verificano mai o quasi.
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: sgiombo il 14 Giugno 2016, 08:21:39 AM
Citazione di: cvc il 13 Giugno 2016, 19:50:13 PM
Che la ricerca della verità si sia concentrata sul metodo e non sull'essere credo non sia solo una mia opinione.  Kahneman e Smith vinsero entrambi il Nobel sostenendo tesi opposte in quanto entrambe le loro metodologie furono giudicate corrette. Che poi lo scienziato possa avere le sue tesi esistenziali, chi lo nega? Ma a chi interessano le tesi esistenziali dello scienziato? Semmai ai filosofi, non certo o comunque molto meno agli altri scienziati. La mia opinione è che le scoperte scientifiche poco o nulla dicono sull'essere, in quanto sono sempre una parte di un tutto che nulla dice sulla sua totalità, nulla dice sulla coincidenza fra universo osservato e senso dell'umanità. Se il senso dell'uomo è quello di poter prendere decisioni sul suo destino, questo senso si è perso poiché si delega ogni decisione alla scienza. Persino quando le sue teorie risultano inconsistenti, come nel caso delle teorie di mercato che dovrebbero valere partendo da dei presupposti: concorrenza perfetta, simmetria informativa, assenza di esternalità. Presupposti che di fatto non si verificano mai o quasi.

La scienza non é la filosofia.

Le teorie scientifiche possono veracemente parlare solo di ciò che é scientificamente indagabile, conoscibile (in quanto intersoggettivo e quantitativamente misurabile), la "res extensa", l' ambito materiale - naturale della realtà (e qui sono assolutamente imbattibili da qualsiasi preteso "sapere alternativo").
Non possono parlare di (ovvero: non possono che dire castronerie se prenedono di farlo) ciò che non é intersoggettivo e quantitativamente misurabile, la "res cogitans", il mondo mentale, sentimentale, etico, estetico, ecc.; oppure anche la realtà in quanto considerata nella sua generalità e non limitatamente alla res extensa (ontologia, metafisica: vedi le sciocchezze ripetutamente propalate da fior di scienziati su "multiverso", "principio antropico", ecc.).

Quanto poi alla economia (borghese-capitalistica) si tratta solo di pessima ideologia reazionaria, pressocché l' esatto conrario della scienza (chiunque non abbia chili di fette di salame sugli occhi può quotidianamente constatare che "bocconiani e affini", oltre ad essere miserabili nemici del popolo al servizio delle vampiresche -insaziabili di sangue umano- e criminalissime caste usuraie dominanti sono anche del tutto sprovveduti scientificamente, "non ne imbroccano mai una che é una, nemmeno per isbaglio"; un esempio per tutti: la megera Fornero).
Se il dominio delle classi sfruttatrici e parassitarie si fondasse, anziché sulla forza bruta e su un sofisticatissimo e potentissimo e monopolistico -assoltamente antidemocratico- sistema di disinformazione e inganno di masa, sulla loro perspicacia e la loro pretesa "scienza" sarebbe già miseramente crollato da un bel pezzo! .
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: cvc il 14 Giugno 2016, 13:42:37 PM
Citazione di: sgiombo il 14 Giugno 2016, 08:21:39 AM
Citazione di: cvc il 13 Giugno 2016, 19:50:13 PM
Che la ricerca della verità si sia concentrata sul metodo e non sull'essere credo non sia solo una mia opinione.  Kahneman e Smith vinsero entrambi il Nobel sostenendo tesi opposte in quanto entrambe le loro metodologie furono giudicate corrette. Che poi lo scienziato possa avere le sue tesi esistenziali, chi lo nega? Ma a chi interessano le tesi esistenziali dello scienziato? Semmai ai filosofi, non certo o comunque molto meno agli altri scienziati. La mia opinione è che le scoperte scientifiche poco o nulla dicono sull'essere, in quanto sono sempre una parte di un tutto che nulla dice sulla sua totalità, nulla dice sulla coincidenza fra universo osservato e senso dell'umanità. Se il senso dell'uomo è quello di poter prendere decisioni sul suo destino, questo senso si è perso poiché si delega ogni decisione alla scienza. Persino quando le sue teorie risultano inconsistenti, come nel caso delle teorie di mercato che dovrebbero valere partendo da dei presupposti: concorrenza perfetta, simmetria informativa, assenza di esternalità. Presupposti che di fatto non si verificano mai o quasi.

La scienza non é la filosofia.

Le teorie scientifiche possono veracemente parlare solo di ciò che é scientificamente indagabile, conoscibile (in quanto intersoggettivo e quantitativamente misurabile), la "res extensa", l' ambito materiale - naturale della realtà (e qui sono assolutamente imbattibili da qualsiasi preteso "sapere alternativo").
Non possono parlare di (ovvero: non possono che dire castronerie se prenedono di farlo) ciò che non é intersoggettivo e quantitativamente misurabile, la "res cogitans", il mondo mentale, sentimentale, etico, estetico, ecc.; oppure anche la realtà in quanto considerata nella sua generalità e non limitatamente alla res extensa (ontologia, metafisica: vedi le sciocchezze ripetutamente propalate da fior di scienziati su "multiverso", "principio antropico", ecc.).

Quanto poi alla economia (borghese-capitalistica) si tratta solo di pessima ideologia reazionaria, pressocché l' esatto conrario della scienza (chiunque non abbia chili di fette di salame sugli occhi può quotidianamente constatare che "bocconiani e affini", oltre ad essere miserabili nemici del popolo al servizio delle vampiresche -insaziabili di sangue umano- e criminalissime caste usuraie dominanti sono anche del tutto sprovveduti scientificamente, "non ne imbroccano mai una che é una, nemmeno per isbaglio"; un esempio per tutti: la megera Fornero).
Se il dominio delle classi sfruttatrici e parassitarie si fondasse, anziché sulla forza bruta e su un sofisticatissimo e potentissimo e monopolistico -assoltamente antidemocratico- sistema di disinformazione e inganno di masa, sulla loro perspicacia e la loro pretesa "scienza" sarebbe già miseramente crollato da un bel pezzo! .
Il problema penso stia proprio nel campo di applicazione della scienza. I successi del metodo sperimentale soprattutto nel campo della meccanica, della chimica e della fisica in generale hanno dato l'illusione, sulla scorta del positivismo e del sentimento di fiducia nel progresso illuministico e ottocentesco, che gli stessi risultati potessero essere replicati nelle scienze sociali, una volta dette umanistiche. Il problema è tutto qua visto che, parlando di verità, le verità che emergono dalle scoperte scientifiche, che d'altra parte alimentano l'illimitata fiducia nel progresso, sono verità che incontrano forti limitazioni quando vengono applicate nella sfera delle scienze sociali o umane. Questo perché emerge prepotentemente il problema della libertà. La libertà è tanto importante per l'uomo che viene protetta con le leggi. Ma le possibilità di manipolazione che ha raggiunto, ad esempio, la biologia si sono sviluppate ad una velocità tale per cui le leggi non riescono più a stargli dietro. Si è raggiunta la possibilità di attuare la procreazione assistita ma non si riesce a trovare una legge soddisfacente che la regoli. Lo stesso vale per le cellule staminali e altre problematiche che conosci meglio di me. In definitiva si è creato uno scarto per cui le leggi dell'uomo, il nomos, non riesce più a stare dietro alle leggi di natura, la physis. Tanto che oramai, secondo me, la tendenza è quella di ignorare il problema delle leggi in quanto dibattito sulla libertà, perché l'illimitata fiducia nel progresso spera che anche la soluzione di questo problema si possa trovare studiando la physis.
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: paul11 il 14 Giugno 2016, 15:20:01 PM
la scienza non è filosfia così come non è arte e nemmeno spiritualità o metafisca , perchè ogni dominio legge la realtà e verità a modo suo.
E adatto che ad un certo punto della storia il vedere è stato più importante del credere, la vista vede una realtà che si scambia per verità e ne fa un metodo accertativo e veritativo. Ma è solo un dominio E noi come singoli umani siamo molto più di quel solo dominio che da un parte ci allieta con le sue scoperte e invenzioni e dall'altra ci aliena ,dimentico di una verità perduta.
Noi non siamo solo induzione scientifica, siamo deduzione metafisica e intuizione artistica creativa e meditazione spirituale,

La semiologia pone alla fine l'accento sul significante perchè è l'osservativo interpretativo che decide se il segno simbolo è corrispondente al referente oggetto.Ovvero è l'uomo che decide culturalmente quale dominio gerarchico decide sugli altri.

Leibniz pensava che la parola potesse divenire esatta come il numero matematico, aritmetico, geometrico, la risposta è che la logica formale predicativa o proposizionale non può esaurire il pensiero che divine parola, ovvero quel segno -referente .
E' assai arduo trasferire cervelli che sono menti che sono coscienze e financo autocoscienze dentro un linguaggio formale che al massimo può dare un giudizio di falso o vero solo per quella proposizione.
Cosi siamo ridotti a cercare verità nei particolari e a continuare a stupirci di fronte ad una visione di un cielo stellato che ci pone le consuete e desuete domande sulla nostra esistenza.
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: Daniele_Guidi il 14 Giugno 2016, 16:41:56 PM
..Io credo che si possa raccontare o sapere cosa sia la libertà solo effettivamente viverla di persona.. il resto è solo supposizione o sentito dire.. ricordate che non si potrà mai essere completamente liberi.. siamo tutti sottoposti a qualcun'altro. forse chi pratica ascetismo ma o dubbi anche li... il Cristo è stato un uomo libero. Libero dai condizionamenti della sua stessa specie e di cio' che lo circondava
Daniele Guidi
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: sgiombo il 14 Giugno 2016, 17:15:30 PM
CVC:

Il problema penso stia proprio nel campo di applicazione della scienza. I successi del metodo sperimentale soprattutto nel campo della meccanica, della chimica e della fisica in generale hanno dato l'illusione, sulla scorta del positivismo e del sentimento di fiducia nel progresso illuministico e ottocentesco, che gli stessi risultati potessero essere replicati nelle scienze sociali, una volta dette umanistiche. Il problema è tutto qua visto che, parlando di verità, le verità che emergono dalle scoperte scientifiche, che d'altra parte alimentano l'illimitata fiducia nel progresso, sono verità che incontrano forti limitazioni quando vengono applicate nella sfera delle scienze sociali o umane. Questo perché emerge prepotentemente il problema della libertà. La libertà è tanto importante per l'uomo che viene protetta con le leggi. Ma le possibilità di manipolazione che ha raggiunto, ad esempio, la biologia si sono sviluppate ad una velocità tale per cui le leggi non riescono più a stargli dietro. Si è raggiunta la possibilità di attuare la procreazione assistita ma non si riesce a trovare una legge soddisfacente che la regoli. Lo stesso vale per le cellule staminali e altre problematiche che conosci meglio di me. In definitiva si è creato uno scarto per cui le leggi dell'uomo, il nomos, non riesce più a stare dietro alle leggi di natura, la physis. Tanto che oramai, secondo me, la tendenza è quella di ignorare il problema delle leggi in quanto dibattito sulla libertà, perché l'illimitata fiducia nel progresso spera che anche la soluzione di questo problema si possa trovare studiando la physis.
 
Rispondo (Sgiombo):
E' mia convinzione che se le possibilità di manipolazione che ha raggiunto, ad esempio, la biologia [che non sono conoscenza scientifica pura, teorica, bensì "applicazioni pratiche" di essa] si sono sviluppate ad una velocità tale per cui le leggi non riescono più a stargli dietro, con tutto ciò che di negativo vi consegue, è a causa dei rapporti di produzione socialmente dominanti, e non della conoscenza, né filosofica, né scientifica (teorica pura).

Sono convinto che in ultima analisi dipende da esse e dalla loro inveterata inadeguatezza allo sviluppo raggiunto dalle forze produttive lo scarto per cui le leggi dell'uomo, il nomos, non riesce più a stare dietro alle conseguenze pratiche (tecniche ed economiche) della conoscenza delle leggi di natura, della physis attualmente disponibile.
E chi è al potere e gode di smisurati, iniquissimi privilegi tende a impedire la soluzione del problema anche (ma non solo: dispone di tantissime, disparate armi ideologiche, tutte più o meno irrazionalistiche) promuovendo l' ideologia scientistica.

**************************

Paul11:
la scienza non è filosfia così come non è arte e nemmeno spiritualità o metafisca , perchè ogni dominio legge la realtà e verità a modo suo.
E adatto che ad un certo punto della storia il vedere è stato più importante del credere, la vista vede una realtà che si scambia per verità e ne fa un metodo accertativo e veritativo. Ma è solo un dominio Noi non siamo solo induzione scientifica, siamo deduzione metafisica e intuizione artistica creativa e meditazione spirituale,


Rispondo (Sgiombo):
Ma per restare nella metafora, non è detto che la vista debba sempre, necessariamente vedere illusioni ottiche (o meglio il pensiero interpretare erroneamente i dati incontrovertibili della vista).
 
E comunque per me è molto meglio sbagliare cercando la verità "con i propri occhi" (soprattutto metaforici) che credere fideisticamente a chichessia (so benissimo che per altri è altrettanto legittimamente preferibile il contrario).
 
E inoltre nel campo del mondo fisico – materiale (biologia compresa) è l' unico strumento valido (la "vista" metaforicamente intesa": ragionamento razionale e verifica empirica), oltre ad essere uno strumento validissimo, mutatis mutandis (innanzitutto tenuto conto della loro non intersoggettività e non misurabilità quantitativa, ergo: non conoscibilità scientifica in senso stretto) e insostituibile anche in tutti gli altri.


Paul11:
E noi come singoli umani siamo molto più di quel solo dominio che da un parte ci allieta con le sue scoperte e invenzioni e dall'altra ci aliena ,dimentico di una verità perduta.


La semiologia pone alla fine l'accento sul significante perchè è l'osservativo interpretativo che decide se il segno simbolo è corrispondente al referente oggetto. Ovvero è l'uomo che decide culturalmente quale dominio gerarchico decide sugli altri.


Rispondo (Sgiombo):
Non vedo un dominio gerarchico (oggettivo) fra i diversi "domini" della conoscenza e delle attività umane.
Anche se l' ideologia dominante (per l' appunto ideologicamente, falsamente) pretenderebbe di istituirlo.
(Mi sembra in accordo con te, se non ti fraintendo).
Titolo: Re:Che cos'è la verità?
Inserito da: maral il 14 Giugno 2016, 22:41:17 PM
Citazione di: sgiombo il 13 Giugno 2016, 10:45:40 AM

Ribadisco la mia rassegnazione a constatare che non cogli la differenza fra fatti e pensieri, realtà e verità (o meno), eventi non simbolici (=senza significato) e simboli .

Riprendo dopo una breve pausa da questa contestazione di Sgiombo, che ringrazio comunque per le sue obiezioni che mi permettono di riflettere meglio sulle mie posizioni.
Penso di cogliere bene la differenza tra fatti (ciò che per esempio adesso sento accadere attorno a me) e il  pensare all'accadere di quei fatti, ma lo colgo in qualità di osservatore e, come osservatore, non solo posso, ma devo mettere in dubbio la verità di questo mio pensare rapportandola alla realtà di quei fatti che vivo (e chissà mai se vivrei senza pensarli, dato che ciò che vivo sempre mi appare significando). Quello che qui vengo affermando però è che quello che giudica non è l'unico modo di pensare la verità (che a sua volta è un fatto che accade) e, ho tentato di spiegare, che in questo caso (nel caso in cui non mi ponga come osservatore esterno di quello che accade), la verità non sta in un rapporto tra ciò che  soggettivamente percepisco e quello che oggettivamente accade in oggetto indipendentemente da me e fuori di me, ma proprio in quello che appare per come appare e che precede ogni soggetto osservatore/oggetto osservato.
Sono due prospettive diverse di considerare la verità delle cose in cui, nel secondo, non c'è alcun pensare, poiché non c'è né un soggetto che pensa né un oggetto pensato, c'è solo lo svelarsi della realtà e questo svelarsi è verità. E dunque, anche in questo caso, la verità resta diversa dalla realtà, essendone essa lo svelamento, ma ciò che si svela non esaurisce il reale, pur essendo quanto non si svela compreso nella verità dello svelarsi del nascosto come nascosto (quello che nel suo linguaggio, l'osservatore magari chiama noumeno). In questa dimensione, che è quella di un puro accadere, non c'è tempo né durata, perché il tempo è la dimensione in cui esiste un soggetto (e i suoi oggetti), dunque non ci sono né durate infinitamente piccole, né infinitamente grandi, è solo l'osservatore che vede le cose iniziare e finire e quindi può raccontarle e raccontarsele secondo un iniziare e un finire, un finire subito e anche un sembrare non finire mai.
Non c'è differenza tra accadere e significare, perché ogni accadere accade significando proprio ciò che accade. Solo la mente dell'osservatore vede che tra questi termini una differenza, pur potendo sentirne l'implicazione senza isolarli nella pretesa che da una parte ci sta quello che penso, dall'altra la realtà oggettiva, fuori da mio pensarla, come se entrambi, soggetto e oggetto, fossero del tutto auto sussistenti: io e il mondo presi in sé. L'apparire appare in immagini dirompenti di significato che richiamano altre immagini, ogni immagine è simbolo, quindi nulla quando appare è solo "simbolo". Non si immagina un inesistente per dirne l'inesistenza (fossero pure chimere, minotauri e ippogrifi), poiché ciò che appare è in quanto appare che è presente nel suo significare che comprende terrore, meraviglia, dolore, fino alla più pura angoscia e gioia ove ogni immagine si dissolve. Ma non c'è alcuna onnipotenza di un soggetto al quale basta immaginare per creare, proprio perché non c'è alcun soggetto, semplicemente l'apparire sperimenta se stesso e si sperimenta immediatamente vero.
So bene che è una dimensione questa che risulta assurda all'osservatore che giudica del vero e del falso, è estremamente rischiosa e il soggetto (e di conseguenza l'oggetto) nasce e vuole durare proprio per non incontrare questo rischio, lo esorcizza con descrizioni che istituzionalizzano giudizi di vero e di falso secondo metodo e regola, con definizioni di parole da credere solo convenzionali e arbitrarie, come mezzi a disposizione per maneggiare il mondo previa verifica, parole sottratte alla verità del loro accadere che precedette qualsiasi definizione concordata sul grido di un pianto, o su un riso di gioia.   
L'osservatore nasce solo perché qualcun altro lo osserva (il volto di un altro che lo guarda gli appare) e gli restituisce ciò che si svela come un oggetto che egli potrà osservare e utilizzare per sopravvivere come io, potrà giudicare buono o cattivo, bello o brutto, vero o falso, vivendo in un mondo che ha durata e confini entro i quali potrà sentirsi, per un po', al sicuro.
Ma questa verità, che è lo svelamento del reale, sotto sotto resta sempre e ogni tanto riappare, magari per dileguarsi subito. Perché l'io dell'osservatore, una volta che c'è, c'è in qualche misura sempre, anche se a volte si immagina come se non ci fosse, fa finta di non esserci.
I significati non sono a disposizione arbitraria di chi li pensa o li immagina, ma sono duri come pietre e taglienti come lame acuminate, scavano e lasciano segni profondi, solo ciò che non ha significato non lascia alcun segno e quindi non si manifesta.
E tutto questo lo dico da osservatore, da uno che giudica del vero e del falso, ma in qualche modo sa, o forse ha solo un vago sentire del fatto, che non è tutto lì e cerca di recuperare il resto pur sapendone bene il pericolo.