Come sapete ormai, tutti voi assidui frequentatori di questo Logos, che giustamente l'amico Jean definisce come hotel, la mia somma ignoranza di molti termini filosofici del pensiero di noi, messi a Occidente di una palla persa nell'Universo, mi fa spesso prendere fischi per fiaschi nei riguardi di alcune terminologie.
In specie mi risuona spesso nella zucca vuota questo termine, questo "ente". Subito mi si profilano davanti le immagini di alberi secolari, alberi maestosi di una immensa foresta cupa. Sono i famosi Enti del Signore degli Anelli di Tolkien. Sono alberi saggi e parlanti; però a me, purtroppo o per fortuna, il termine ente non mi parla.
C'è per caso qualche anima pia, moderatamente pia ( ché l'eccesso di piaggine non è auspicabile), con la mente intasata di termini filosofici e che se ne vorrebbe liberare in parte per trovare un pò di sollievo dall'ingombro? Potremmo avere un vantaggio reciproco dall'affare: la mia zucca vuota in parte viene abitata e la vostra , troppo piena, in parte si libera, così che anche voi possiate gustare lievemente quel piacere indefinibile che dà la leggereza del Vuoto, mentre il sottoscritto non si troverebbe sempre a mal partito nelle dispute filosoficamente profonde.
E , sempre a proposito di alberi enti, mi son chiesto: L'albero è un ente? E le sue parti, per esempio le sue belle radici, sono a loro volta enti ? O sono enti solo se le consideriamo albero?
Quindi ( come fan tutti senza mai confessarlo...) ho spulciato varie pagine virtuali e ho trovato definizioni di ente:
-participio presente di Essere.
-"quel che è" in assoluto e senza altra predicazione.
-Parmenide, mi par di capire, definisce l'ente come essere ( o l'essere come ente).
-nell'Eleatismo assume il carattere di identità, stabilità, inalterabile sostanza.
-Platone ( ahia...), guardando le sue idee, gli vien da dire che gli paiono anch'esse degli enti ( enti strani invero, ma sempre enti...).
-Aristotele, da quel gran criticone che era, disse che l'ente assumeva varie predicazioni ( ente per sé, ente per accidens, "potenza" di essere dell'ente altrimenti detta "essenza"). Secondo il greco barbuto i diversi enti si distinguono in : enti reali, enti immaginari, enti di ragione, enti finiti, enti ideali, enti creati ( in pratica non si vede cosa non sia ente e perciò niente. Ma, se tutto è ente, niente è ente, giusto? :-\ boh...incomprensibile per me e vorrei apposta il vostro illuminato parere... ).
-Poi ti arrivano i cristiani e aggiungono ( manco ce ne fosse bisogno...) degli altri enti alla lista dell'arcigno Ari : ente infinito, ente supremo che ha in sommo grado la capacità dell'essere.
-Tommasino d'Aquino, tra una messa e l'altra, trova il tempo di puntualizzare pure: in verità, dice convinto, solo Dio è un vero ente, tutti gli altri lo sono per partecipazione ( lui lo chiama ente per essentiam) dicendo pure che c'è una bella differenza tra essenza e esistenza ( e qui il mistero, per il povero Sari, s'ingarbuglia sempre di più...).
-Così , tra un ruminare e l'altro, si arriva ai tempi moderni dove per lo più si identifica il concetto di ente con quello di essere...
Fatta questa doverosa e pedante premessa , il dubbio amletico, osservando l'albero innevato dalla finestra di Villa Sariputra, mi tormenta sempre di più:
"Albero, parlami! Sei un ente?...O non sei niente?"
P.S. Faccio presente che ho frequentato studi agrari che non contemplavano come materia d'insegnamento la filosofia ( questo velato vittimismo è per suscitare le vostre compassionevoli risposte) anche se, quando mi trovo viso a muso con il mio asino, mi chiedo spesso chi di noi due è più filosofo... :(
Provo a rispondere, con moderata piaggine basata su una ancora più moderata (in)competenza: hai presente il cartone animato dei puffi, in cui si usava il verbo "puffare" in modo vago, versatile e indefinito? La filosofia classica, o più esattamente, l'ontologia, fa lo stesso con l'"essere"...
In generale, l'ente è un "qualcosa che è", ovvero una qualunque identità di cui si può predicare qualcosa (poi è possibile distinguere fra l'ente tangibile, come l'albero, e l'ente astratto, come un'idea, etc. ed ogni pensatore, proprio come ogni puffo, usa il termine come meglio crede, talvolta in modo antitetico rispetto agli altri... sui problemi dell'identificazione e della predicazione si è già discusso parlando di navi in manutenzione, ricordi? ;) ).
Un ente non è un niente, poichè l'ente è numerabile, contabile, identificabile, il niente invece no; tuttavia è, come sempre, una questione di linguaggio, per cui alcuni autori hanno giocato d'equilibrismo fra ente e ni-ente... se poi gemelliamo il "niente" con il "vuoto" allora si aprono molti scenari dall'aroma orientale, che probabilmente conosci meglio di me...
Per quanto riguarda il viso-a-muso con l'asino, ti sconsiglio di fargli domande filosofiche, poichè probabilmente il beato quadrupede risponderebbe:
"La santa asinità di ciò non cura [...]
aspettando da Dio la sua ventura.
Nessuna cosa dura,
eccetto il frutto de l'eterna requie,
la qual ne done dio dopo l'esequie!"
(G. Bruno)
[trascrivo alla lettera, riportando pedissequamente anche la duplice grafia "Dio" e "dio", non me ne vogliano i credenti...]
Come già detto da Phil un ente è una cosa che è in linea generale. Quindi l'albero, le sue radici, le sue foglie, le parti delle radici sono tutti enti. L'uomo è un ente e lo è anche il suo cervello, il suo cuore, il suo piede...
Come chiaramente stai intuendo la definizione di ente non è mai stata formalizzata da nessuno e tanto in occidente quanto in oriente di fatto ognuno ha "studiato" il concetto e lo ha interpretato a modo suo.
Il problema che tu poni delle parti è il cosiddetto problema della "mereologia" che è una branca dell'ontologia.
Personalmente ritengo che Parmenide non volesse dire che l'essere è un ente e recentemente si è fatta di lui un'interpretazione secondo la quale la sua era una filosofia del (solo) linguaggio. Personalmente ritengo la sua filosofia molto simile a quella dell'Advaita: l'Essere è Uno. Tutto quello che vediamo invece sono enti tuttavia per Parmenide è errato vedere le cose come enti ma bisogna cogliere l'Essere il quale è "senza proprietà".
Il tomismo è invece molto simile alla Dvaita: Dio crea e mantiene le cose in essere per il fatto che c'è una partecipazione come dici tu. Tuttavia l'obiezione è: ma i demoni allora perchè esistono?
Quindi come vedi la filosofia occidentale è tanto confusa quanto quella orientale e in occidente una filosofia come il buddismo sarebbe considerata "acosmistica" perchè nega l'esistenza di enti. Tuttavia non (?) negando l'Essere non è nichilismo perchè anche il Divenire d'altronde puoi considerarlo una forma di Essere. E qui però tutto il sistema logico si auto-distrugge perchè l'Essere diventa così generico che assomiglia al Non-Essere.
CitazioneCosì , tra un ruminare e l'altro, si arriva ai tempi moderni dove per lo più si identifica il concetto di ente con quello di essere
In realtà con i tempi moderni (con la fenomenologia husserliana e soprattutto con Heidegger) le cose si complicano ancor più terribilmente. E dire che l'idea di ente era così semplice, banale, elementare, ma come tutte le cose semplici nasconde una complessità che è diventata sempre più indecifrabile.
L'ente, come dici, è semplicemente il participio presente sostantivato e abbreviato del verbo essere, l'ente è l'essente, prima e al di là di qualsiasi specificazione che miri a stabilire cosa è e come è, è qualsiasi essente in quanto è. Dunque è l'albero come ognuna delle sue radici o foglie, è l'unico Dio, come uno dei miliardi di evanescenti neutrini così difficili da pescare, è un sasso come un ente statale, parastatale o affine, è questa tua domanda come il tuo pensarla, è questa risposta come il tuo chiederti, mentre la leggi "ma che cacchio dice questo Maral?". È la totalità infinita dell'Essere come, sì, anche come lui, come il "Niente", l'ente che nega l'ente, essendo, proprio come dice la parola, il "Non ente". E' infatti un ente anche l'eterno contraddirsi logico del Niente, dato che esso è. Gli enti sono una molteplicità infinita, plurale e sterminata da cui nulla resta escluso, nemmeno il nulla stesso e che trovano essenza nella pura e semplice tautologia sempre vera e assolutamente egualitaria: l'ente è, anche quando è quel particolarissimo ente che dice di sé di non essere ente, ossia di essere niente, un vero satanasso.
Diverso è iinvece l'ente che è anche esistente, perché per quanto infiniti possano pure essere gli esistenti, ciò che li caratterizza oltre a essere, è esistere e l'esistere non è mai perfettamente egualitario, fa differenze, seleziona, discrimina. Esistere infatti vuol dire qualcosa di diverso dal puro essere, vuol dire emergere, apparire, mostrarsi. L'ente deve uscire dalla sua essenza del tutto tautologica e autoreferenziale per poter esistere, ossia apparire, mostrarsi ad altri enti, reciprocamente. Si potrebbe dire che Il rapporto che lega gli enti agli esistenti è lo stesso che c'è tra i numeri reali e quelli naturali.
A ben vedere però tutti gli enti che ho citato sopra sono anche esistenti, non potrei averli citati se non fossero esistenti, cioè se non esprimessero un modo di essere che li fa apparire, ma anche qui l'esistenza ha dei modi privilegiati per farsi intendere ed esistere come esiste un neutrino non è la stessa cosa di esistere come esiste un'idea o un tavolo, l'ippogrifo o il Monte Bianco e anche qui si istaurano delle doverose gerarchie, fino appunto ad arrivare al supremo esistente che è anche il supremo ente di Tommaso o il puro Essere in Atto di Aristotele. Si potrebbe anche dire che nel complesso, pur essendo concettualmente diversi, esistente ed ente si equivalgono, che un infinito vale l'altro, ma il fatto è che tra gli enti occorre comprendere anche quell'ente che assolutamente non appare che continuerà a non apparire anche quando lo si è così definito esistente, proprio come ci ha dimostrato Cantor c'è sempre almeno un numero reale in più rispetto agli infiniti numeri ordinali che si contano.
D'altra parte è proprio su questa diatriba tra ente ed esistente che così spesso Sgiombo e io ci ingarbugliamo in polemiche infinite che coinvolgono alcune famose montagne alpine fino a intere regioni sempre alpine (Chissà poi come e perché non siamo mai scesi sotto dalle Alpi, il motivo non mi appare ::) )
Ah dimenticavo, gli esistenti, proprio in virtù delle loro caratteristiche che li rendono tali, sono, a differenza degli enti, classificabili in categorie, sono mappabili. Di mappe ce ne sono di tanti tipi, quanto e più che di esistenti da mappare (dimostrando che come al solito volendo fare le cose più semplici e controllabili le si complica).
Questa è una bellissima categorizzazione degli animali che riporta Borges da "una certa enciclopedia cinese". La cito perché la trovo particolarmente significativa, in questa enciclopedia infatti, si trova scritto che "gli animali si dividono in: a) appartenenti all'Imperatore, b) imbalsamati, c) addomesticati, d) maialini da latte, e) sirene, f) favolosi, g) cani in libertà, h) inclusi nella presente classificazione, i) che si agitano follemente, j) innumerevoli, k) disegnati con un pennello finissimo di peli di cammello, l) et caetera, m) che fanno l'amore, n) che da lontano sembrano mosche." E con questo direi che gli animali esistenti ci sono proprio tutti. :)
Signori, signori!!...Avevo chiesto la vostra benevolenza per dipanarmi dalle tenebre e voi me le rendete ancora più oscure?...
Dopo aver letto la spiegazione datami da Maral ho dovuto immergere i polsi nell'acqua gelida, per riavermi... :o
Intanto noto pure una certa divergenza d'opinioni ( o almeno a me pare tale...) tra voi stessi. Infatti Phil afferma:
"Un ente non è un niente, poichè l'ente è numerabile, contabile, identificabile, il niente invece no."
Al che Maral insinua invece che:
"l'ente è, anche quando è quel particolarissimo ente che dice di sé di non essere ente, ossia di essere niente, un vero satanasso."
Allora avevo ragione quando affermavo che, se tutto è ente, lo deve essere anche il niente! Se ogni cosa che posso citare è un ente, lo è anche il niente visto che posso citarlo. Però a me sembra anche che l'ente significhi pure qualcosa come "presenza", qualcosa che c'è. Quando quella cosa , o qualunque ente, non c'è, non è presente, si parla di ni-ente ( ossia dell'"assenza" dell'ente). Ma il niente è sempre riferito all'ente. Non si può logicamente parlar di niente se non c'è ente. Allo stesso modo come potrei parlar d'assenza senza una presenza? Il niente, essendo solo assenza dell'ente ( e non il Nulla), però in pratica non è esistente ( e quindi non è un ente). "Niente albero" significa solamente che non c'è più l'albero ma è presente sicuramente un altro ente al suo posto ( l'aria, le mosche, le zanzare, ecc.che danno presenza nello "spazio" dell'ente albero divelto dal vento, per es.). E qui, come giustamente mi ricorda Phil, sento lo sciabordio del mare sulla chiglia di una nave antica...
Se un termine però ingloba tutto, anche il suo contrario ( infatti di ogni cosa pensabile si può dire che "è", cioè un ente, quindi anche il niente-ente) non diventa privo di significato? Qual'è la caratteristica che distingue l'essere dal non-essere? Una cosa , per essere, non deve distinguersi, avere un'immediata evidenza di differenza, dalle altre? Se no che differenza possiamo trovare tra due cose che appaiono opposte? Che differenza si manifesta alla fine tra essere e divenire ? Non sono infine la stessa cosa?
Mi pare che , alla fine, l'idea stessa di ente appaia inconsistente se sottoposta all'analisi logica.
Dove erro? Illuminatemi così che non mi rifugi, sempre più confuso, nel mio accogliente Vuoto...
P.S.Non temete di dirmi di lasciar perdere, di dedicarmi alla pessima poesia o alle barzellette. Non abbiate paura di mortificarmi dicendomi che sono inadeguato per la filosofia...lo so, lo so già e...non soffrirò, non soffrirò...vi assicuro che non soffrirò ( beh...forse solo un pochettino :().
Maral, ti sei dimenticato di citare, nella tua diatriba infinita con l'amico Sgiombo, anche lo stambecco che scende a balzi dal monte...
Citazione di: Sariputra il 13 Gennaio 2017, 16:32:05 PM noto pure una certa divergenza d'opinioni ( o almeno a me pare tale...) tra voi stessi. Infatti Phil afferma: "Un ente non è un niente, poichè l'ente è numerabile, contabile, identificabile, il niente invece no." Al che Maral insinua invece che: "l'ente è, anche quando è quel particolarissimo ente che dice di sé di non essere ente, ossia di essere niente, un vero satanasso."
La questione funambolica del dire cammina fra assenza e presenza: un ente che, come ricorda Maral, "
dice di sè di non esser niente", proprio in quanto parla, non è certo niente, ma è qualcosa, e addirittura qualcosa di parlante, per questo si rivela "un vero satanasso" (cit.).
Il niente "onesto", quello che non bara con subdoli indovinelli (come farebbe un uomo che dicesse "sono morto!"), a differenza degli enti, non ha un plurale (nienti?!), non può essere contato (due nienti, tre nienti, etc.) ma non è nemmeno singolare... perchè per essere singolare dovrebbe essere qualcosa, invece è niente.
Allora come mai ne stiamo parlando? Perchè il niente esiste come concetto (
grammaticalmente singolare), esattamente come l'assenza (che giustamente chiamavi in causa), per cui possiamo predicarne qualcosa, ma senza individuarlo in un'identità positivam
ente esist
ente.
Citazione di: Sariputra il 13 Gennaio 2017, 16:32:05 PMAllora avevo ragione quando affermavo che, se tutto è ente, lo deve essere anche il niente! Se ogni cosa che posso citare è un ente, lo è anche il niente visto che posso citarlo.
Esatto, il niente è qualcosa (!) di cui si può parlare, ma solo in quanto assenza di enti, per cui è in fondo un pseudo-ente, un ente concettuale-linguistico che tuttavia non ha contenuto (un po' come l'assenza non è una forma di presenza, ma la mera negazione della presenza... e declamare che "la presenza della tua assenza mi riempie di un vuoto che trabocca" è decisamente poco logico, per quanto possa suonare enfatico e significativo...).
L'ente è sempre pres
ente a se stesso (sia esso un oggetto, un'idea o altro) ed è sempre differ
ente dagli altri enti (in quanto sono enti diversi), il niente è invece l'assenza indiffer
ente, non differenziabile in quanto non piena, ass
ente e car
ente di presenza...
Citazione di: Sariputra il 13 Gennaio 2017, 16:32:05 PM Ma il niente è sempre riferito all'ente. Non si può logicamente parlar di niente se non c'è ente. Allo stesso modo come potrei parlar d'assenza senza una presenza?
Eppure si parla logicamente di "niente" proprio se non c'è ente, e di "assenza" proprio se non c'è presenza... nel gioco delle dicotomie logiche si ha sempre bisogno del contrario (ovvero del risultato della negazione, "x" deve avere un "non-x" altrimenti il nostro "software" va in tilt!), anche se si tratta di concetti ai limiti del definibile e del predicabile...
Citazione di: Sariputra il 13 Gennaio 2017, 16:32:05 PM"Niente albero" significa solamente che non c'è più l'albero ma è presente sicuramente un altro ente al suo posto ( l'aria, le mosche, le zanzare, ecc.che danno presenza nello "spazio" dell'ente albero divelto dal vento, per es.).
"Niente albero" è un uso ambiguo della parola "niente" che sembra illuderci che possa esserci un niente al genitivo, un "niente di x" che sia diverso da "niente di y", invece il niente non appartiene all'ente... il fatto che l'albero sia rimpiazzato da qualche altro ente, magari meno vistoso, non rende possibile parlare di lecitamente di "niente", proprio perchè c'è qualcosa di pres
ente (gli "enti di rimpiazzo").
Citazione di: Sariputra il 13 Gennaio 2017, 16:32:05 PMSe un termine però ingloba tutto, anche il suo contrario ( infatti di ogni cosa pensabile si può dire che "è", cioè un ente, quindi anche il niente-ente) non diventa privo di significato? Qual'è la caratteristica che distingue l'essere dal non-essere? Una cosa , per essere, non deve distinguersi, avere un'immediata evidenza di differenza, dalle altre? Se no che differenza possiamo trovare tra due cose che appaiono opposte? Che differenza si manifesta alla fine tra essere e divenire ? Non sono infine la stessa cosa? Mi pare che , alla fine, l'idea stessa di ente appaia inconsistente se sottoposta all'analisi logica.
Il linguaggio si appropria degli enti (materiali o concettuali o altro) tramite definizioni, ovvero la possibilità di dirne qualcosa a riguardo, ma non bisogna confondere l'essere-parola con l'essere-esistente-empiricamente: finche restiamo aldiquà dei limiti del linguaggio, possiamo parlare di tutto ciò che ha una parola corrispondente (il niente. il silenzio, l'assenza, etc.), pur rispettando le differenze logiche, le negazioni, che distinguono i concetti connessi alle parole. Il parlare dell'ente o del niente non è indifferente: dell'ente possiamo specificare caratteristiche, localizzarlo, etc. del niente ce ne serviamo solo come contrappeso logico, come negazione dell'ente, ma senza confonderlo con esso. Entrambi sono predicabili, ma l'essenza della loro predicazione è proprio l'incolmabile "distanza" logica che li separa.
Mi auguro di essere stato almeno vagamente comprensibile :)
P.s. Il Vuoto e il niente sono forse parenti più stretti di quanto pensi, entrambi tengono sotto scacco la "metafisica della presenza" problematizzando l'attaccamento all'identità intesa come Sè, come permanenza...
Parlare di enti è un altro modo per parlare della coscienza, anch'essa viene definita (rubo l'esempio di Phil) "puffamente", poiché ognuno la interpreta, anzi, la può solo interpretare considerato che descriverla esaustivamente ed oggettivamente è impossibile.
Tutto ciò che c'è è coscienza, così affermava un conosciuto guru indiano.
Potremo anche dire che il contenuto della coscienza sono gli "enti", suddivisioni sempre più sottili della stessa.
Personalmente non vi trovo una gran difficoltà, di quello che c'è si può parlare, discutere, argomentare, ipotizzare ecc. e quello che non c'è è anch'esso un'idea, un ente appunto.
Quello che davvero non c'è è fuori dalla nostra portata, dal software che ci gira in testa.
Finchè ci si ostina nell'Errore iniziato da Parmenide e Platone non se ne esce. Tutta la metafisica da Platone fino diciamo a Kant e poi nuovamente da Fichte fino a Schopenhauer si basa sull'assunzione errata, il peccato originale della metafisica, secondo il quale l'Essere è un ente. Un indiano e ancor più un taoista si sarebbero messo a ridere sull'ingenuità di tale affermazione. Quello che si è in sostanza verificato è confondere l'esistenza con gli esistenti e chiaramente facendo così arrivano mostri linguistici come: "l'esistenza esiste?". Tale errore si perpretò anche dopo e in realtà condizionò anche Kant seppur in modo subdolo. Finì con Wittgenstein il quale finalmente capì il problema: il linguaggio era andato in vacanza. Il buon Ludwig Wittgenstein ebbe due fasi: la prima nella quale la filosofia coincideva con l'attività della chiarificazione logica del linguaggio mentre nella seconda la filosofia era la chiarficazione grammaticale (termine più generico di "logica") del linguaggio. In sostanza Wittgenstein tornò all'inizio, ancor prima dell'epistemologia (la quale è come giustamente notavano gli indiani era prima dell'ontologia) e tornò allo studio del linguaggio. Così si accorse che l'importante era il contesto in cui venivano proferite le parole. In sostanza Wittgenstein non criticò la metafisica ma il suo abuso il quale però era ormai diventato bimillenario. Così "ente" è un termine che viene portato alla realtà per indicare le cose che esistono. Essere ed esistenza vengono nuovamente fatte coincidere. RIsultato: la filosofia era ritornata indietro di duemila anni e credo che se Wittgenstein avesse letto il Tao Te Ching lo avrebbe considerato il miglior libro filosofico: in tale libro il linguaggio viene continuamente usato per mostrare che non appena si parla delle "grandi questioni" si dicono inconsistenze e quindi non rimane che tacere ("chi non sa parla, chi sa tace") ma per capirlo prima si deve dire qualcosa. Wittgenstein non solo pretende razionalità ma pretende che prima di parlare si controlli se ciò che si sta dicendo abbia senso. Il silenzio taoista e Wittgensteiniano perciò è il silenzio tipico della "dotta ignoranza" o via negativa.
Cosa sono gli enti? Te lo abbiamo detto: l'albero, le sue radici, l'atomo che compone la foglia, la foglia, il tronco, il pianeta Terra di cui fa parte, io, te, la mia mano, il PC su cui scrivo, il messaggio che leggi, la tua idea che ti fai leggendo quello che leggerai. TUTTI enti. Non si può parlare di Essere e Nulla ma solo di ciò che è ente e ciò che non lo è (non è un ente ad esempio il drago che in questo momento vola sopra Padova ma è un ente il concetto di drago che vola sopra Padova)
Ente è la contrazione di essente, che è a sua volta la contrazione di esistente, quindi il participio presente del verbo essere. Come sostantivo singolare indica quindi tutto ciò che esiste, ovvero che si manifesta, mentre il sostantivo plurale (gli enti) indica tutto ciò che l'uomo percepisce come separato da qualcosa d'altro e quindi lo considera (almeno a livello concettuale) a sé stante. In quanto participio presente l'ente (e gli enti) è necessariamente sottoposto al processo del divenire, anzi è addirittura il divenire stesso, quindi è diverso dall'essere, che non diviene. L'ente è indefinitamente divisibile in un indefinito numero di enti, i quali però tutti sono parti necessarie e inscindibili dell'ente (singolare) che racchiude tutto ciò che è manifesto e al di fuori del quale non potrebbero esistere. Di fatto solo l'ente esiste e diviene (forse si può dire più precisamente che l'ente si può definire tale mentre è in atto, ovvero nell'istante in cui diviene, mentre il divenire identifica tutto ciò che si è manifestato, si manifesta e si manifesterà), mentre gli enti sono costruzioni mentali umane che servono al medesimo per rappresentarsi ciò che gli sta intorno e controllarlo. Poi certo si può giocare con le parole per anni senza cavare un ragno dal buco, ma bisognerebbe anche fare il giochino di verificare quanto queste parole corrispondano ad una parte di realtà e quanto non siano, appunto, solo parole. Gli "essenti" di Heidegger, ad esempio, a mio avviso sono solo concetti senza alcun riferimento reale, così come il niente che esiste come costruzione grammaticale, nello specifico identifica la negazione dell'ente, ma non corrisponde a niente di reale, effettivo o manifesto (materiale o spirituale che sia), così come esiste la parola "nulla" che è l'opposto di Tutto, ma questa esiste appunto solo come parola, non certo come segno che indichi qualcosa di reale ed esistente, in quanto il tutto non può avere opposti.
Tantissimi spunti interessanti su cui riflettere...
Sappiamo quindi che un ente è qualcosa che c'é ( il famoso drago che svolazza sopra Padova non c'è e quindi non è un ente, ma sognarlo è un ente). Però mi pare più complesso definire cos'è quel qualcosa che c'è. Ossia definire la natura dell'ente che poi è proprio la domanda nel titolo della discussione. Osserviamo che ogni ente è formato da innumerevoli altri enti, a sua volta formati da altri innumerevoli e così via. Parmenide ci dice che l'ente è l'essere di una cosa. Questo mi sembra prestarsi a parecchie complicazioni. Il greco era assolutamente convinto che, per il solo fatto di pensare, dobbiamo postulare che qualcosa "è". Ciò che non-è non è possibile nemmeno pensarlo; come può allora essere una parte della realtà? Non-essere, per Parmenide, è pertanto impossibile. Il corollario di questa affermazione è l'impossibilità del cambiamento, dato che il cambiamento comporta tanto l'essere che il non-essere. Per es. quando A cambia in B, A non esiste più. Come si può pensare una siffatta contraddizione? Una qualità non si può cambiare in un'altra qualità; affermare questo significa affermare, a parer mio, che qualcosa "è" e al contempo "non-è". Quindi l'ente , per poter cambiare, è nel contempo non-ente ( ni-ente?..?.
Inoltre, se l'essere è diventato, deve pure esser venuto o da un essere o da un non-essere. Però se viene da un non-essere è impossibile. Come può un qualcosa venir fuori dal nulla? Se viene da un essere, allora è venuta da se stesso, che sarebbe come dire che è identico a se stesso, e così è sempre stato. Se è questo il caso, non è certo un caso di "divenire". Parmenide , da quel poco che ho letto, è costretto a concludere che da un essere può venire solo un essere, che nulla può diventare qualcos'altro, che qualsiasi cosa ( ente) è, è sempre stata e sempre sarà e che ogni cosa rimane ciò che è. Quindi, alla fine della fiera, può esistere solo un unico, eterno, indiviso e immutabile Essere.
Questo ragionamento, se non sbaglio, è alla base dell'Occidente ( con infinite variazioni ma partendo da..) e di svariate religioni, credi, ecc. ( Sono d'accordo con Apeiron che lo definisce un Errore, con la maiuscola...).
Uno dei problemi che vedo in questa visione "sostanziale" delle cose e che si ritiene possibile avere la sostanza senza gli attributi o i modi; viceversa la visione "modale" pensa che si possa fare a meno della sostanza. Non c'è, però, attributo senza sostanza , né sostanza senza attributo. Classico l'esempio del fuoco e del suo rapporto con il combustibile:
-il fuoco non-è il combustibile, perché se no il consumatore e il consumato dovrebbero essere identici.
-né il fuoco è diverso dal combustibile, perché non lo si avrebbe senza quest'ultimo.
Tutti gli enti, l'essere e i modi dell'essere, mi sembra, vivono in rapporto e quindi rientrano interamente in questa analisi ( anche enti come sedie , tavoli e alberi innevati di Villa Sariputra...)
Citazione di: Sariputra il 13 Gennaio 2017, 16:32:05 PM
noto pure una certa divergenza d'opinioni ( o almeno a me pare tale...) tra voi stessi. Infatti Phil afferma:
"Un ente non è un niente, poichè l'ente è numerabile, contabile, identificabile, il niente invece no."
Al che Maral insinua invece che:
"l'ente è, anche quando è quel particolarissimo ente che dice di sé di non essere ente, ossia di essere niente, un vero satanasso."
Non scoraggiarti Sari, l'ente non è mai niente (e non tanto perché non è numerabile, mi pare, dato che di enti non numerabili ce ne sono tanti e forse nessun ente lo è propriamente, a parte forse quegli enti che sono appunto i numeri), ma il niente è un ente dietro la sua maschera mentitrice che finge di essere niente, se infatti, come dici il niente è assenza di ogni ente si è già dichiarato come ente che qualcosa è, esattamente "l'assenza di ogni ente". Severino dice che il niente è un significante che significa l'autocontraddizione ossia significa niente, dato che ad autocontraddirsi non si dice niente, ma questo non vuol dire che non è, ovviamente, ma che è. Perché il niente non fosse bisognerebbe non dirlo né pensarlo, ma come si fa? Una volta pensato l'Essere (maledetto Parmenide!) non resta che pensare il niente (e oggi non manca certo chi afferma pure il contrario, ossia che si comincia con il non pensare niente per poi pensare qualcosa: come è noto tutto cominciò da niente e forse proprio lì alla fine tutto ritorna). Anche l'Essere dopo tutto è ente che dice sempre il vero, ossia ripete sempre la sua tautologia di cui ogni ente partecipa al participio presente. Heidegger voleva provarci a concepire l'Essere a prescindere dagli enti (l'ente è la radura dell'Essere andava dicendo), finì depresso sull'orlo del suicidio, la piantò lì dopo aver cercato l'Essere nella illuminazione poetica e concluse che solo un Dio ci potrà salvare e da cosa se non dal Niente?
Wittgenstein, da buon mistico appassionato di logica, concluse che di ciò che non si può parlare bisogna tacere, ma così dicendo, ahimè, si era già contraddetto, se semplicemente fosse stato zitto avrebbe dimostrato più coerenza.
Una cosa però mi sembra di poter dire a favore del Niente, pur essendo l'autocontraddizione fatta ente a modo suo è terribilmente coerente, infatti a rimuginare sul niente non si conclude mai niente, comunque la si metta, è logico. :D
P.S a me non pare che a dire essente sia dire esistente, uno è il participio presente di essere, l'altro di esistere, sono due verbi diversi e un motivo ci sarà, il primo richiama qualcosa che sta, definitivo, inamovibile, incontaminabile nella purezza tautologica di "è", il secondo invece qualcosa che si fa largo per saltar fuori e apparire nella fenomenologia dei suoi significati per ogni altro ente (i "cerchi dell'apparire", come direbbe Severino). Ma ognuno può vederla come meglio crede, che nulla, finché non si muore, sarà mai definitivo :) .
Citazione di: maral il 13 Gennaio 2017, 22:10:01 PM
Citazione di: Sariputra il 13 Gennaio 2017, 16:32:05 PMnoto pure una certa divergenza d'opinioni ( o almeno a me pare tale...) tra voi stessi. Infatti Phil afferma: "Un ente non è un niente, poichè l'ente è numerabile, contabile, identificabile, il niente invece no." Al che Maral insinua invece che: "l'ente è, anche quando è quel particolarissimo ente che dice di sé di non essere ente, ossia di essere niente, un vero satanasso."
Non scoraggiarti Sari, l'ente non è mai niente (e non tanto perché non è numerabile, mi pare, dato che di enti non numerabili ce ne sono tanti e forse nessun ente lo è propriamente, a parte forse quegli enti che sono appunto i numeri), ma il niente è un ente dietro la sua maschera mentitrice che finge di essere niente, se infatti, come dici il niente è assenza di ogni ente si è già dichiarato come ente che qualcosa è, esattamente "l'assenza di ogni ente". Severino dice che il niente è un significante che significa l'autocontraddizione ossia significa niente, dato che ad autocontraddirsi non si dice niente, ma questo non vuol dire che non è, ovviamente, ma che è. Perché il niente non fosse bisognerebbe non dirlo né pensarlo, ma come si fa? Una volta pensato l'Essere (maledetto Parmenide!) non resta che pensare il niente (e oggi non manca certo chi afferma pure il contrario, ossia che si comincia con il non pensare niente per poi pensare qualcosa: come è noto tutto cominciò da niente e forse proprio lì alla fine tutto ritorna). Anche l'Essere dopo tutto è ente che dice sempre il vero, ossia ripete sempre la sua tautologia di cui ogni ente partecipa al participio presente. Heidegger voleva provarci a concepire l'Essere a prescindere dagli enti (l'ente è la radura dell'Essere andava dicendo), finì depresso sull'orlo del suicidio, la piantò lì dopo aver cercato l'Essere nella illuminazione poetica e concluse che solo un Dio ci potrà salvare e da cosa se non dal Niente? Wittgenstein, da buon mistico appassionato di logica, concluse che di ciò che non si può parlare bisogna tacere, ma così dicendo, ahimè, si era già contraddetto, se semplicemente fosse stato zitto avrebbe dimostrato più coerenza. Una cosa però mi sembra di poter dire a favore del Niente, pur essendo l'autocontraddizione fatta ente a modo suo è terribilmente coerente, infatti a rimuginare sul niente non si conclude mai niente, comunque la si metta, è logico. :D P.S a me non pare che a dire essente sia dire esistente, uno è il participio presente di essere, l'altro di esistere, sono due verbi diversi e un motivo ci sarà, il primo richiama qualcosa che sta, definitivo, inamovibile, incontaminabile nella purezza tautologica di "è", il secondo invece qualcosa che si fa largo per saltar fuori e apparire nella fenomenologia dei suoi significati per ogni altro ente (i "cerchi dell'apparire", come direbbe Severino). Ma ognuno può vederla come meglio crede, che nulla, finché non si muore, sarà mai definitivo :) .
Anche Severino però, come mi sembra ricordare dalla bellicosa discussione di qualche tempo fa, pare approdare alle stesse conclusioni di Parmenide, ossia negando in definitiva il divenire e "cristallizzando" in eterno gli enti...
P.S. Tra poco entrerò nella ristretta elite degli utenti "storici" del forum, dove mi sembra abbia trovato posto fin'ora, e da poco tempo, il solo Paul11 ( cha Allah lo preservi!). Per l'occasione ho intenzione di festeggiare con un sontuoso e poco buddhista banchetto tenuto nel salone della Villa. Naturalmente siete tutti virtualmente invitati. Potrete conoscere meglio la Vania e la Maddi... ;D
Eh infatti Wittgenstein era il primo a rompere il suo auspicato silenzio (d'altronde a differenza di Laozi e Chuang-Tzu non si limitava a usare la logica per creare paradossi e a contemplare in silenzio...filosofava ancora quindi http://www.roangelo.net/logwitt/acassino.html sito in inglese dove ci sono importanti riflessioni sulla sua filosofia. In particolare il link contiene una pagina con la traduzione italiana e la frase "filosofava ancora quindi"). Tant'è che ad esempio per tutta la vita si trovò in una situazione imbarazzante: era cristiano fideista e al contempo era convinto che "non dovevamo mai smettere di pensare". Questo suo conflitto si traduceva ad esempio nell'etica. Negli scritti filosofici non ne parlava mai ma nella vita continuava a porsi (e a porre agli altri...) problemi etici. Motivo per cui credo che con lui si sia passati da una filosofia errata (la bimillenaria filosofia dell'Essere-come-Ente) alla morte della filosofia (se si prende totalmente sul serio la sua filosofia, la filosofia è morta). Motivo per cui personalmente scelgo una via di mezzo (e qui Sariputra dovrebbe "accendersi" ;D ): cerco cioè di usare i concetti metafisici finchè si possano applicare alla nostra esperienza sia in senso fisico (per parlare del mondo) che in senso "spirituale" (per parlare di etica, spiritualità, religione...). Cerco di seguire poi il suo esempio per non cercare di costruire vaniloqui.
Detto questo secondo tutta la questione e tutti i paradossi sull'Essere sono dovuti ad una incomprensione linguistica. Si dice "Essere" sia per indicare che qualcosa esiste, "essere" per indicare che un oggetto ha una certa proprietà ecc ma l'Essere fuori contesto è una chimera. Motivo per cui credo che l'unico modo per parlare in modo sensato di enti sia quello di dire che enti ed esistenti sono la stessa cosa. Altrimenti possiamo costruire sistemi filosofici assurdi e che spiegano tutto (e quindi solitamente un bel Nulla ;D ). Intanto vado a godermi la vista del drago nei cieli della Padova ormai liberata (purtroppo ::) ) dall'effimera copertura nevosa...
P.S. Accetto l'invito... virualmente ahahah. A parte gli scherzi buon banchetto!
Citazione di: Sariputra il 13 Gennaio 2017, 21:44:12 PM
mi pare più complesso definire cos'è quel qualcosa che c'è. Ossia definire la natura dell'ente che poi è proprio la domanda nel titolo della discussione. Osserviamo che ogni ente è formato da innumerevoli altri enti, a sua volta formati da altri innumerevoli e così via.
Come accennavo, per me rimane sempre una questione soprattutto linguistica: radicalizzando, potremmo dire che l'ente è il soggetto grammaticale di ogni proposizione. Questo spiegherebbe perchè si può parlare anche del "non-essere", del "niente" e del "nulla", in modo perfettamente logico e coerente: se posso farli funzionare come soggetto di una proposizione, allora ne posso parlare, e allora possono essere enti di pensiero-discorso logico. Ovviamente la proposizione più importante è quella che definisce tale ente ("l'ente x è bla bla bla..."), proposizione che solitamente riteniamo implicita nel comun parlare (e questo crea spesso problemi di malintesi e fraintendim
enti).
Un ente può essere suddiviso in altri piccoli enti "minori" (costitu
enti l'intero)? Si tratta solo di trovare una parola per questi enti di "secondo livello" e il gioco è fatto; possiamo parlare logicamente anche di loro...
Citazione di: Sariputra il 13 Gennaio 2017, 21:44:12 PMCiò che non-è non è possibile nemmeno pensarlo; come può allora essere una parte della realtà? Non-essere, per Parmenide, è pertanto impossibile.
Eppure proprio il buon Parmenide dice "il non essere non è, e non può essere" dando una definizione del non-essere, quindi parlandone, e quindi rendendolo perfettamente pensabile e "ragionabile". Si tratta di discernere fra l'essere-empirico (e in quel caso chiaramente il non-essere-empirico è impossibile da "incontrare") e l'essere-logico (che invece appartiene anche a enti non vincolati dalle leggi dell'esistenza sensibile).
Citazione di: Sariputra il 13 Gennaio 2017, 21:44:12 PMIl corollario di questa affermazione è l'impossibilità del cambiamento, dato che il cambiamento comporta tanto l'essere che il non-essere. Per es. quando A cambia in B, A non esiste più. Come si può pensare una siffatta contraddizione? [...] Se è questo il caso, non è certo un caso di "divenire". Parmenide , da quel poco che ho letto, è costretto a concludere che da un essere può venire solo un essere, che nulla può diventare qualcos'altro
La netta divisione dei due enti, A e B, preclude il divenire in modo capzioso: se A è il giorno e B è la notte, non avremmo problemi ad affermare che il giorno diventa notte, senza nessuna contraddizione logica... perchè quello che definiamo "giorno" e "notte" sono strettamente connessi da una continuità spazio-temporale che la logica parmenidea non contempla: o luce o ombra (la penombra, il crepuscolo non esistono in quella logica). Ma A non diventa B in un batter d'occhio (così come A non genera B in un giorno, talvolta ci vogliono almeno nove mesi di graduale gestazione ;) ): A diventa Ab, poi AB, poi BA, poi Ba poi rimane solo B (fermo restando che permane il problema di definire arbitrariamente cosa intendiamo esattamente per "A" e cosa intendiamo esattamente per "B"). La logica parmenidea vedeva il bicchiere o pieno o vuoto, e guai a prenderne un sorso, altrimenti Zenone avrebbe sostenuto comunque che era impossibile finire tutta l'acqua del bicchiere ;D
P.s.
Citazione di: maral il 13 Gennaio 2017, 22:10:01 PM
Non scoraggiarti Sari, l'ente non è mai niente (e non tanto perché non è numerabile, mi pare, dato che di enti non numerabili ce ne sono tanti e forse nessun ente lo è propriamente, a parte forse quegli enti che sono appunto i numeri)
Per enti "numerabili" intendevo semplicemente che è possibile contarli (a differenza del niente), magari quantificandoli in modo grossolano con "infiniti" (come nel caso dei numeri); non capisco a cosa alludi affermando "di enti non numerabili ce ne sono tanti e forse nessun ente lo è propriamente"... potresti fare qualche esempio di ente che non possa essere contato?
P.p.s.
Ahimè, devo declinare l'invito al banchetto per motivi di salute (influenza... e non vorrei fare l'untore! A proposito, spero che il tuo pc abbia l'antivirus ;D ). Porgi i miei saluti ai due "enti femminei" che abitano la Villa...
@Phil
Mi spiace per la tua influenza. In questo momento l'ente influenza è diverso da te o tu sei anche l'ente influenza? ;D
scrivi:
se A è il giorno e B è la notte, non avremmo problemi ad affermare che il giorno diventa notte, senza nessuna contraddizione logica...
Ma per accettare che il giorno diventa la notte, dobbiamo per l'appunto accettare il divenire di A in B che, come giustamente scrivi, si pone in uno spazio e in un tempo. C'è un continuo divenire di momenti ( chiamiamoli Ab, Ac, Ad.ecc.non ha importanza) che fanno sì che l'ente A si trasformi nell'ente B che poi darà vita , in momenti successivi, a C, D, E.ecc.
Come "seguace" dell'impermanenza non ho alcuna difficoltà a intuire e ritenere valido questo processo di trasformazione, anzi ritenendolo il vero essere del reale. L'ente però si dimostra mutabile e non potrebbe essere altrimenti. Ma dov'è l'essere ( che per definizione è e quindi non può mutare) di questo ente? Qual'è il momento in cui A è A e B è B? Introvabile...
La legge d'identità ci dice che A=A. Un cane è un cane ; un uomo è un uomo. Un cane non può essere un non-cane e un uomo un non-uomo. Solo che l'"essere" cane è introvabile, non essendo mai, in nessun momento, cane ( se non come designazione convenzionale) . Qual'è il momento esatto in cui il giorno è giorno e la notte è notte? Introvabile...Solamente come designazione possiamo dire "Ora è giono" e "Adesso è notte".Quindi , come direbbe il Nagarjuna "A è anche Non-a, e proprio per questo può essere A". ( ente è anche niente e proprio per questo è un ente).
Come è possibile verificare che A è A? Come possiamo verificare questa fondamentale Legge di Identità, questo modello archetipico su cui si debbone basare i ragionamenti logici?
Irvin Copi scrive:
"Ogni sistema deduttivo, a meno che non voglia cadere in una circolarità o in un regresso all'infinito, deve contenere alcuni assiomi o postulati che vengono assunti ma non dimostrati nell'ambito del sistema...essi non sono dimostrati nell'ambito dello stesso sistema...Ogni argomentazione intesa a stabilire la verità degli assiomi è assolutamente fuori dal sistema, ovvero extra-sistemica"
Secondo questa visione, la premessa di base della logica espressa nella formula A=A è pertanto una verità presunta, non dimostrata. Penso possa essere definita come una verità di tipo intuitivo, infatti intuiamo che un cane è un cane e non certo un asino. Questa intuizione però, che è vera certamente, è condizionata e non esclude altre intuizioni quali per l'appunto: A non è A, pertanto A, la realtà esistenziale nel tempo dell'ente cane.
secondo me presupposto fondamentale per cercare di arrivare a capire le cose (in generale) e' quello di fare un percorso a ritroso per arrivare così alla "radice" di tutto...perché tra l'altro - e analogamente - può pure succedere che se a un certo punto mi soffermo sulla foglia,o sul tronco,o sui rami,poi non riesco più a cogliere l'albero nel suo intero.
quindi nel caso dell'ente ritengo bisogna ancora prima aver ben chiaro il non-essere/essere - immanifesto/manifesto,da cui in un certo senso dipende,altrimenti si finisce per disperdersi e non arrivare mai a capo di niente e il risultato e' la confusione cioè il contrario di quello che ci si era proposti
da questo punto di vista allora una sintesi potrebbe essere questa:
Non-Essere - Essere - divenire/ente-i
0 1 2,3,4,5....
(immanifesto) (manifesto)
in termini diversi,potrebbe forse rientrarci anche questo qui sotto?
Il Tao generò l'Uno, l'Uno generò il Due, il Due generò il Tre,il Tre generò le diecimila creature.
0 - 1 (2) ; 2+1 (3) ....4,5.....
La filosofia è una giungla nella quale ci si sposta con le liane delle parole, dove se si sbaglia lo slancio si finisce col girare su se stessi, e si viene strangolati da quelle stesse liane che dovevano essere il mezzo per spostarsi nella giungla.
Ente è una di queste liane-parole, e il pensatore è come il bambino cui i genitori han detto che non compreranno più giochi: rovescia la scatola dei giocattoli per vedere se ce n'è uno con cui non ha ancora giocato. Ma poi vede che li ha già provati tutti, allora inizia da capo.
Visto che sono anch'io un bambino- filosofo o filosofo -bambino o bambino che gioca al filosofo, visto che anch'io ho la mia scatola dei giochi e anch'io ni aggrappo alle liane per muovermi o strangolarmi, allora io pongo alla base di ciò che è due principi: necessità e volontà. Attorno ad essi ruota tutto, si potrebbe anche definirli destino e libertà dove, purtroppo, si pensa spesso che una cosa escluda l'altra.
@cvc la tua metafora è bellissima e la penso più o meno allo stesso modo. Concordo che i filosofi sono come bambini troppo curiosi e per la loro curiosità la rischiano grossa, finendo spesso di strangolarsi con i loro stessi mostri linguististici.
Detto questo ritengo il taoismo tra le filosofie più rigorose perchè da quello che mi pare di vedere i filosofi taoisti prima formulano un'ipotesi metafisica e poi la distruggono. E in effetti credo che più di ogni altra tradizione viene contemplato il silenzio contemplativo. Ogni riga del Tao Te Ching mi sembra un invito a riconoscere che ogni nostra metafisica non potrà mai cogliere la realtà. Perchè dunque scrivere libri o parlare di queste cose? Semplice per dimostrare che non si può parlare (un po' come il Tractatus...). Motivo per cui non concordo con acquario69 che dice che il Tao è identificabile con lo 0 che genera l'1. Il problema è che se il Tao è qualcosa è già un "1", quindi per non essere identificato con l'1 (in modo simile nel neoplatonismo si dice che l'Uno è ineffabile...). Quello che secondo me voleva dire Laozi è ribadire che il Tao ossia la Via in cui procedono gli eventi è incomprensibile (d'altronde "il Tao che può essere detto non è il Tao eterno...") e lo stesso Chuang-Tzu rifiutava l'idea secondo la quale il taoismo era un filosofia monistica (cioè rifiutava il detto che "tutto è uno"). Infatti se al posto di Tao ci mettete "Mistero" credo che il libro sia più facile da comprendere. In ogni caso il Tao non è né l'Essere né un Ente, cosa che per un occidentale è aberrante.
Detto questo sorprendentemente concordo sul fatto che sia un concetto ben definito l'Ente che è "creatore e sostenitore" di tutto ma questo è appunto un Ente (Dio) e non il Tao. In ogni caso per spiegare il divenire a mio giudizio si deve accettare di "usare" una metafisica che si fonda sulle logiche paraconsistenti, cioè che ammettono contraddizioni. Altrimenti ci creaiamo dei "sistemi" coi quali finiamo per strangolarci.
@Apeiron
La metafisica è una sublimazione razionale che - dato che non può fare completamente a meno del sensibile - subordina il sensibile al razionale.
La metafisica presuppone l'esistenza di un Dio, perché la ragione allo stato puro con cos'altro si identifica se non con la forza immateriale dominatrice del sensibile che è uno dei tratti fondamentali con cui si designa Dio? Poi è venuto il cristianesimo, la verità rivelata, e ci ha incasinato le cose. Perché il cristianesimo ha preso a calci nel sedere la metafisica che può essere tuttalpiù un ancella, con D'Aquino che va in trance alla mensa del Re d'Inghilterra, smette di mangiare e si fa portare da scrivere, per enunciare la sua ennesima prova metafisica dell'esistenza di Dio. Che la metafisica debba preoccuparsi di dimostrare Dio è un assurdo, perché nel mondo classico la metafisica presume Dio, quindi più che un assurdo è un discorso circolare che non porta da nessuna parte. E d'altronde non a caso questa è stata definita l'età oscura cui fece seguito il rinascimento con la riscoperta dei valori classici e la sublimazione del cristianesimo in umanesimo.
Ma, mi chiedo, questo nostro volgerci alle filosofie orientali, non è forse un inconscio tentativo di liberarci dal giogo della realtà rivelata? Perché attraverso il tao e il buddismo noi alla fine ci ricongiungiamo col mondo classico.
E purtroppo il cristianesimo viene inteso come una realtà rivelata che congloba tutto in se, mentre esso è un fenomeno sui generis con le sue straordinarie novità, che si è però annesso altre realtà che non sono farina del suo sacco: il mondo classico, il culto del sole, pure parte del positivismo scientifico con la possibilità di mantenere in vita a tempo indeterminato dei vegetali.
Citazione di: Apeiron il 14 Gennaio 2017, 09:33:29 AM@cvc la tua metafora è bellissima e la penso più o meno allo stesso modo. Concordo che i filosofi sono come bambini troppo curiosi e per la loro curiosità la rischiano grossa, finendo spesso di strangolarsi con i loro stessi mostri linguististici. Detto questo ritengo il taoismo tra le filosofie più rigorose perchè da quello che mi pare di vedere i filosofi taoisti prima formulano un'ipotesi metafisica e poi la distruggono. E in effetti credo che più di ogni altra tradizione viene contemplato il silenzio contemplativo. Ogni riga del Tao Te Ching mi sembra un invito a riconoscere che ogni nostra metafisica non potrà mai cogliere la realtà. Perchè dunque scrivere libri o parlare di queste cose? Semplice per dimostrare che non si può parlare (un po' come il Tractatus...). Motivo per cui non concordo con acquario69 che dice che il Tao è identificabile con lo 0 che genera l'1. Il problema è che se il Tao è qualcosa è già un "1", quindi per non essere identificato con l'1 (in modo simile nel neoplatonismo si dice che l'Uno è ineffabile...). Quello che secondo me voleva dire Laozi è ribadire che il Tao ossia la Via in cui procedono gli eventi è incomprensibile (d'altronde "il Tao che può essere detto non è il Tao eterno...") e lo stesso Chuang-Tzu rifiutava l'idea secondo la quale il taoismo era un filosofia monistica (cioè rifiutava il detto che "tutto è uno"). Infatti se al posto di Tao ci mettete "Mistero" credo che il libro sia più facile da comprendere. In ogni caso il Tao non è né l'Essere né un Ente, cosa che per un occidentale è aberrante. Detto questo sorprendentemente concordo sul fatto che sia un concetto ben definito l'Ente che è "creatore e sostenitore" di tutto ma questo è appunto un Ente (Dio) e non il Tao. In ogni caso per spiegare il divenire a mio giudizio si deve accettare di "usare" una metafisica che si fonda sulle logiche paraconsistenti, cioè che ammettono contraddizioni. Altrimenti ci creaiamo dei "sistemi" coi quali finiamo per strangolarci.
Alla fine torniamo al punto che, per comprendere la natura del reale, abbiamo bisogno di quella che viene comunemente chiamata esperienza "mistica"? O esperienza ineffabile, indefinibile, indescrivibile, ecc.?
La quale comporta un alto grado di pericolosità perché, per l'appunto , non dimostrabile e soggetta allo stato condizionato dell'agente. La filosofia ha il merito di mostrare i limiti del ragionamento logico e di ogni pretesa metafisica, ed è assolutamente importante comprendere ed avere consapevolezza di questi limiti della ragione umana. Pertanto non è in discussione, a parer mio, la validità e l'importanza della filosofia e del filosofare ( più o meno bene nei limiti appunto di ognuno...) ma la pretesa della filosofia di superare i limiti della ragione. Senza la filosofia non avremmo nemmeno la consapevolezza di questi limiti, che la riflessione filosofica sposta sempre più in là, rivelando così un "campo" della ragione sempre più vasto. Per es., l'interrogarsi sulla funzione e sulle distorsioni del linguaggio e del suo uso all'interno della filosofia stessa è fondamentale, come scrivono anche Apeiron e Cvc. I limiti del linguaggio sembrano addirittura più stringenti di quelli della ragione stessa.
Per esempio, la funzione "intuitiva" del pensiero non si può descrivere con un linguaggio appropriato, ma si può "suscitare" in qualche modo anche attraverso l'uso del linguaggio. Spesso , leggendo per es. un libro di poesie o di narrativa, si hanno intuizioni più dirette che non ragionando su un trattato filosofico. La mente rivela potenzialità espressive che investono globalmente la persona e possono suscitare quella consapevolezza intuitiva del reale.
@Sariputra
Intuito e ragione sono due forze imprescindibili che interagiscono in noi. Dato che noi abbiamo anche la capacità di concentrarci sull'una o sull'altra tendiamo, per semplificazione, a considerarli separatamente scordando l'intuito che c'è nella ragione e la parte di razionalità che alberga nell'untazione.
Come ho detto secondo me i principi cardine sono necessità e volontà. Dato che erroneamente li consideriamo separatamente, e dato che ci è più facile esercitare la volontà sulla ragione che sull'intuito, tendiamo a privilegiare la prima. Ma c'è anche l'altro principio, quello della necessità, dell'inevitabile, del fluire e divenire delle cose che ha una sua logica che ci sfugge e che gli stoici identificano con Dio-Ragione Universale.
A me riesce impossibile negare l'esistenza di Dio, perché anche proclamandomi ateo non posso fare a meno di tornare a pensare a Dio. Si può essere atei solo in vista di un'esistenza creduta o supposta di Dio. E capita di vedere atei incalliti (Corradi Augias ad es) che non smettono di parlare di Dio.
È nel rapporto fra necessità e volontà. - o destino e libertà. - che vedo le cose più interessanti. La libertà giunge solo quando si accetta l'inevitabile - inclusa l'umana ignoranza sull'esistenza o meno di Dio - esercitando la propria volontà e libertà attraverso questa decisione deliberata.
Citazione di: cvc il 14 Gennaio 2017, 10:41:33 AM@Sariputra Intuito e ragione sono due forze imprescindibili che interagiscono in noi. Dato che noi abbiamo anche la capacità di concentrarci sull'una o sull'altra tendiamo, per semplificazione, a considerarli separatamente scordando l'intuito che c'è nella ragione e la parte di razionalità che alberga nell'untazione. Come ho detto secondo me i principi cardine sono necessità e volontà. Dato che erroneamente li consideriamo separatamente, e dato che ci è più facile esercitare la volontà sulla ragione che sull'intuito, tendiamo a privilegiare la prima. Ma c'è anche l'altro principio, quello della necessità, dell'inevitabile, del fluire e divenire delle cose che ha una sua logica che ci sfugge e che gli stoici identificano con Dio-Ragione Universale. A me riesce impossibile negare l'esistenza di Dio, perché anche proclamandomi ateo non posso fare a meno di tornare a pensare a Dio. Si può essere atei solo in vista di un'esistenza creduta o supposta di Dio. E capita di vedere atei incalliti (Corradi Augias ad es) che non smettono di parlare di Dio. È nel rapporto fra necessità e volontà. - o destino e libertà. - che vedo le cose più interessanti. La libertà giunge solo quando si accetta l'inevitabile - inclusa l'umana ignoranza sull'esistenza o meno di Dio - esercitando la propria volontà e libertà attraverso questa decisione deliberata.
C'è sempre in noi questa sorta di ambivalenza, di affermare negando e di negare affermando. Spesso, quelli che non credono in Dio ( noi diamo per scontato che quando si parla di Dio s'intende il dio cristiano, ma ci sono molte visioni e idee diverse su questo "Dio"...), passano la vita a tentar di dimostrare che il loro non credere è veritiero. quindi inconsciamente , negando l'Altro, tentano di affermare se stessi. Personalmente vedo , sia nel credere indimostrabile che nel non credere, lo stesso tentativo fatto dall'Io di delimitarsi dei confini precisi. Per affermare il suo "essere ente" reale, sostanziale questa creatura immaginaria ha bisogno di sentirsi in relazione con altro ( nel caso del credente) o con se stesso ( nel caso dell'incredulo). E' un bisogno psicologico fondamentale, direi quasi naturale. Essere consapevoli di questo bisogno naturale aiuta, a mio parere, ad osservarlo, a comprenderne l'irrealtà pur essendone vincolati come necessità. Già solo la pratica di osservare questo fenomeno mentale interiore, questa necessità e volontà di essere un ente ben definito, crea un minor attaccamento a questo processo mentale incessante. Da non sottovalutare anche la necessità e volontà di sicurezza dell'Io e la necessità e volontà di fuggire la Paura. Nel primo caso si manifesta nell'egoismo personale e nel secondo nella credenza in una divinità protettrice dalle nostre paure ( di non-essere un ente ben definito in questo caso...). Le due fasi d'essere dell'Io si alternano continuamente. e s'intrecciano senza sosta durante l'esistenza. Osserviamo come all'aumentare della paura ci si rivolga all'Altro protettore e al diminuire si ritorni velocemente all'ego...( basta la minaccia di una malattia per accorgersi di come funziona la nostra mente...). Ai due estremi abbiamo il mistico che si identifica con la divinità protettrice adorata e viceversa , dall'altra parte, l'incredulo che si identifica totalmente con il proprio egoismo, assumendo di fatto il volto di un "demone".
Questa necessità e volontà dell'Io di "appoggiarsi" all'ego o all'Altro ne rivela la fragilità, l'inconsistenza oltre che variabilità. Se l'Io fosse realmente un "ente in se stesso fondato" non avrebbe bisogno di identificarsi incessamente con altro per essere.
Citazione di: Sariputra il 14 Gennaio 2017, 11:21:16 AM
Citazione di: cvc il 14 Gennaio 2017, 10:41:33 AM@Sariputra Intuito e ragione sono due forze imprescindibili che interagiscono in noi. Dato che noi abbiamo anche la capacità di concentrarci sull'una o sull'altra tendiamo, per semplificazione, a considerarli separatamente scordando l'intuito che c'è nella ragione e la parte di razionalità che alberga nell'untazione. Come ho detto secondo me i principi cardine sono necessità e volontà. Dato che erroneamente li consideriamo separatamente, e dato che ci è più facile esercitare la volontà sulla ragione che sull'intuito, tendiamo a privilegiare la prima. Ma c'è anche l'altro principio, quello della necessità, dell'inevitabile, del fluire e divenire delle cose che ha una sua logica che ci sfugge e che gli stoici identificano con Dio-Ragione Universale. A me riesce impossibile negare l'esistenza di Dio, perché anche proclamandomi ateo non posso fare a meno di tornare a pensare a Dio. Si può essere atei solo in vista di un'esistenza creduta o supposta di Dio. E capita di vedere atei incalliti (Corradi Augias ad es) che non smettono di parlare di Dio. È nel rapporto fra necessità e volontà. - o destino e libertà. - che vedo le cose più interessanti. La libertà giunge solo quando si accetta l'inevitabile - inclusa l'umana ignoranza sull'esistenza o meno di Dio - esercitando la propria volontà e libertà attraverso questa decisione deliberata.
C'è sempre in noi questa sorta di ambivalenza, di affermare negando e di negare affermando. Spesso, quelli che non credono in Dio ( noi diamo per scontato che quando si parla di Dio s'intende il dio cristiano, ma ci sono molte visioni e idee diverse su questo "Dio"...), passano la vita a tentar di dimostrare che il loro non credere è veritiero. quindi inconsciamente , negando l'Altro, tentano di affermare se stessi. Personalmente vedo , sia nel credere indimostrabile che nel non credere, lo stesso tentativo fatto dall'Io di delimitarsi dei confini precisi. Per affermare il suo "essere ente" reale, sostanziale questa creatura immaginaria ha bisogno di sentirsi in relazione con altro ( nel caso del credente) o con se stesso ( nel caso dell'incredulo). E' un bisogno psicologico fondamentale, direi quasi naturale. Essere consapevoli di questo bisogno naturale aiuta, a mio parere, ad osservarlo, a comprenderne l'irrealtà pur essendone vincolati come necessità. Già solo la pratica di osservare questo fenomeno mentale interiore, questa necessità e volontà di essere un ente ben definito, crea un minor attaccamento a questo processo mentale incessante. Da non sottovalutare anche la necessità e volontà di sicurezza dell'Io e la necessità e volontà di fuggire la Paura. Nel primo caso si manifesta nell'egoismo personale e nel secondo nella credenza in una divinità protettrice dalle nostre paure ( di non-essere un ente ben definito in questo caso...). Le due fasi d'essere dell'Io si alternano continuamente. e s'intrecciano senza sosta durante l'esistenza. Osserviamo come all'aumentare della paura ci si rivolga all'Altro protettore e al diminuire si ritorni velocemente all'ego...( basta la minaccia di una malattia per accorgersi di come funziona la nostra mente...). Ai due estremi abbiamo il mistico che si identifica con la divinità protettrice adorata e viceversa , dall'altra parte, l'incredulo che si identifica totalmente con il proprio egoismo, assumendo di fatto il volto di un "demone".
Questa necessità e volontà dell'Io di "appoggiarsi" all'ego o all'Altro ne rivela la fragilità, l'inconsistenza oltre che variabilità. Se l'Io fosse realmente un "ente in se stesso fondato" non avrebbe bisogno di identificarsi incessamente con altro per essere.
Si potrebbe dire che tutto è relazione. Però la relazione stessa ha bisogno di un principio, la funzione che unisce elementi di insiemi diversi. E questo principio deve rimanere immutabile affinché la relazione sia valida. Perciò la relazione è un qualcosa di dinamico che ha però bisogno di una costante. Quindi le cose sono sempre più complesse di quando diciamo che tutto è questo o tutto è quest'altro . E Dio è la più grande delle semplificazioni. Sta di fatto che abbiamo bisogno di semplificare per orientarci in un mondo complesso, e abbiamo bisogno di orientarci per adattarci, per assimilare, per obbedire al nostro istinto di autoconservazione. Perché conservarci è la nostra necessità maggiore, la priorità. Ma quando, data la nostra natura razionale, capiamo di non poterci conservare per sempre, allora assume importanza la nostra idea di libertà. Perché a fianco di ciò che non possiamo cambiare scopriamo la nostra facoltà di dare un senso alle cose. E questa è la sola vera libertà, la libertà di giudicare, perché essa sola può dipendere esclusivamente da noi. In questo senso l'io acquista la sua autonomia.
Citazione di: Sariputra il 13 Gennaio 2017, 23:34:02 PM
la premessa di base della logica espressa nella formula A=A è pertanto una verità presunta, non dimostrata. Penso possa essere definita come una verità di tipo intuitivo, infatti intuiamo che un cane è un cane e non certo un asino. Questa intuizione però, che è vera certamente, è condizionata e non esclude altre intuizioni quali per l'appunto: A non è A, pertanto A, la realtà esistenziale nel tempo dell'ente cane.
L'impermanenza non può essere tradotta "al volo" in forme logiche permanenti (l'ambizioso isomorfismo logico neopositivista), il linguaggio arranca sempre dietro allo scorrere del reale, restando sempre un passo indietro... l'assioma A=A è fuori dal tempo, ma il tempo
umano non ha "realmente" un fuori (e ciò la dice lunga sulla fallibilità del linguaggio). E aggiungendo quantificatori temporali, rimane comunque arbitraria e "ritardata" (fuori sincrono) la loro esatta quantificazione: A
t1=A
t1, A
t2=A
t2, etc. ma in quell'"uguale", c'è tutta l'inafferrabile transitorietà dell'"è" pensato al presente: nel momento in cui lo dici è già passato, e anderebbe verificato di nuovo (se invece lo poni nel futuro, non puoi affermalo perchè non hai potuto ancora verificarlo...).
I principi della logica (assiomi non dimostrabili all'interno dello stesso sitema che fondano) servono per poter parlare e, nella migliore delle ipotesi, ragionare correttamente, ma tale correttezza è "formale", quindi permanente, quindi astratta (alienata?) dall'impermanenza dell'accadere. Sostenere "A è anche Non-a, e proprio per questo può essere A"(cit.) probabilmente allude proprio alla temporalità fluente in cui "A" è
in potenza anche "non A", ovvero "A" è la
causa presente del suo successivo essere "
non più A" (così come è stata effetto del suo precedente essere "
non ancora A").
Citazione di: cvc il 14 Gennaio 2017, 11:56:29 AMCitazione di: Sariputra il 14 Gennaio 2017, 11:21:16 AMCitazione di: cvc il 14 Gennaio 2017, 10:41:33 AM@Sariputra Intuito e ragione sono due forze imprescindibili che interagiscono in noi. Dato che noi abbiamo anche la capacità di concentrarci sull'una o sull'altra tendiamo, per semplificazione, a considerarli separatamente scordando l'intuito che c'è nella ragione e la parte di razionalità che alberga nell'untazione. Come ho detto secondo me i principi cardine sono necessità e volontà. Dato che erroneamente li consideriamo separatamente, e dato che ci è più facile esercitare la volontà sulla ragione che sull'intuito, tendiamo a privilegiare la prima. Ma c'è anche l'altro principio, quello della necessità, dell'inevitabile, del fluire e divenire delle cose che ha una sua logica che ci sfugge e che gli stoici identificano con Dio-Ragione Universale. A me riesce impossibile negare l'esistenza di Dio, perché anche proclamandomi ateo non posso fare a meno di tornare a pensare a Dio. Si può essere atei solo in vista di un'esistenza creduta o supposta di Dio. E capita di vedere atei incalliti (Corradi Augias ad es) che non smettono di parlare di Dio. È nel rapporto fra necessità e volontà. - o destino e libertà. - che vedo le cose più interessanti. La libertà giunge solo quando si accetta l'inevitabile - inclusa l'umana ignoranza sull'esistenza o meno di Dio - esercitando la propria volontà e libertà attraverso questa decisione deliberata.
C'è sempre in noi questa sorta di ambivalenza, di affermare negando e di negare affermando. Spesso, quelli che non credono in Dio ( noi diamo per scontato che quando si parla di Dio s'intende il dio cristiano, ma ci sono molte visioni e idee diverse su questo "Dio"...), passano la vita a tentar di dimostrare che il loro non credere è veritiero. quindi inconsciamente , negando l'Altro, tentano di affermare se stessi. Personalmente vedo , sia nel credere indimostrabile che nel non credere, lo stesso tentativo fatto dall'Io di delimitarsi dei confini precisi. Per affermare il suo "essere ente" reale, sostanziale questa creatura immaginaria ha bisogno di sentirsi in relazione con altro ( nel caso del credente) o con se stesso ( nel caso dell'incredulo). E' un bisogno psicologico fondamentale, direi quasi naturale. Essere consapevoli di questo bisogno naturale aiuta, a mio parere, ad osservarlo, a comprenderne l'irrealtà pur essendone vincolati come necessità. Già solo la pratica di osservare questo fenomeno mentale interiore, questa necessità e volontà di essere un ente ben definito, crea un minor attaccamento a questo processo mentale incessante. Da non sottovalutare anche la necessità e volontà di sicurezza dell'Io e la necessità e volontà di fuggire la Paura. Nel primo caso si manifesta nell'egoismo personale e nel secondo nella credenza in una divinità protettrice dalle nostre paure ( di non-essere un ente ben definito in questo caso...). Le due fasi d'essere dell'Io si alternano continuamente. e s'intrecciano senza sosta durante l'esistenza. Osserviamo come all'aumentare della paura ci si rivolga all'Altro protettore e al diminuire si ritorni velocemente all'ego...( basta la minaccia di una malattia per accorgersi di come funziona la nostra mente...). Ai due estremi abbiamo il mistico che si identifica con la divinità protettrice adorata e viceversa , dall'altra parte, l'incredulo che si identifica totalmente con il proprio egoismo, assumendo di fatto il volto di un "demone". Questa necessità e volontà dell'Io di "appoggiarsi" all'ego o all'Altro ne rivela la fragilità, l'inconsistenza oltre che variabilità. Se l'Io fosse realmente un "ente in se stesso fondato" non avrebbe bisogno di identificarsi incessamente con altro per essere.
Si potrebbe dire che tutto è relazione. Però la relazione stessa ha bisogno di un principio, la funzione che unisce elementi di insiemi diversi. E questo principio deve rimanere immutabile affinché la relazione sia valida. Perciò la relazione è un qualcosa di dinamico che ha però bisogno di una costante. Quindi le cose sono sempre più complesse di quando diciamo che tutto è questo o tutto è quest'altro . E Dio è la più grande delle semplificazioni. Sta di fatto che abbiamo bisogno di semplificare per orientarci in un mondo complesso, e abbiamo bisogno di orientarci per adattarci, per assimilare, per obbedire al nostro istinto di autoconservazione. Perché conservarci è la nostra necessità maggiore, la priorità. Ma quando, data la nostra natura razionale, capiamo di non poterci conservare per sempre, allora assume importanza la nostra idea di libertà. Perché a fianco di ciò che non possiamo cambiare scopriamo la nostra facoltà di dare un senso alle cose. E questa è la sola vera libertà, la libertà di giudicare, perché essa sola può dipendere esclusivamente da noi. In questo senso l'io acquista la sua autonomia.
Sono d'accordo. Tra l'altro un'autonomia della volontà è necessaria perchè ci sia un'etica. Infatti la critica all'idea di Io, non si rivolge alla sua necessità , che è un fattore naturale e necessario, come ben scrivi, ma solamente all'idea della sua sostanzialità e pemanenza in senso ultimo, o metafisico.
Citazione di: Phil il 14 Gennaio 2017, 12:00:16 PMCitazione di: Sariputra il 13 Gennaio 2017, 23:34:02 PMla premessa di base della logica espressa nella formula A=A è pertanto una verità presunta, non dimostrata. Penso possa essere definita come una verità di tipo intuitivo, infatti intuiamo che un cane è un cane e non certo un asino. Questa intuizione però, che è vera certamente, è condizionata e non esclude altre intuizioni quali per l'appunto: A non è A, pertanto A, la realtà esistenziale nel tempo dell'ente cane.
L'impermanenza non può essere tradotta "al volo" in forme logiche permanenti (l'ambizioso isomorfismo logico neopositivista), il linguaggio arranca sempre dietro allo scorrere del reale, restando sempre un passo indietro... l'assioma A=A è fuori dal tempo, ma il tempo umano non ha "realmente" un fuori (e ciò la dice lunga sulla fallibilità del linguaggio). E aggiungendo quantificatori temporali, rimane comunque arbitraria e "ritardata" (fuori sincrono) la loro esatta quantificazione: At1=At1, At2=At2, etc. ma in quell'"uguale", c'è tutta l'inafferrabile transitorietà dell'"è" pensato al presente: nel momento in cui lo dici è già passato, e anderebbe verificato di nuovo (se invece lo poni nel futuro, non puoi affermalo perchè non hai potuto ancora verificarlo...). I principi della logica (assiomi non dimostrabili all'interno dello stesso sitema che fondano) servono per poter parlare e, nella migliore delle ipotesi, ragionare correttamente, ma tale correttezza è "formale", quindi permanente, quindi astratta (alienata?) dall'impermanenza dell'accadere. Sostenere "A è anche Non-a, e proprio per questo può essere A"(cit.) probabilmente allude proprio alla temporalità fluente in cui "A" è in potenza anche "non A", ovvero "A" è la causa presente del suo successivo essere "non più A" (così come è stata effetto del suo precedente essere "non ancora A").
Sono d'accordo con te e sottolineo che "A è anche non-A, pertanto può essere A" non è altro che una formula che cerca di definire il fluire, l'impermanenza, che non può essere fermata, per sua natura, in una formula verbale. Tra l'altro non ha nemmeno l'intenzione di sostituirsi all'intuizione A=A, che viene ritenuta come "vera" nel senso comune di percepire gli enti , Che un albero sia un albero è vero, ma è una forma di verità parziale, incompleta, se così ci si può esprimere. Nel pensiero buddhista non si può staccare la formulazione di Nagarjuna dalla catena di produzione condizionata ( paticcasammupada): proprio perché A è anche Non-A, può essere causa del successivo essere A, come hai scritto...
Citazione di: Sariputra il 13 Gennaio 2017, 22:20:05 PM
Anche Severino però, come mi sembra ricordare dalla bellicosa discussione di qualche tempo fa, pare approdare alle stesse conclusioni di Parmenide, ossia negando in definitiva il divenire e "cristallizzando" in eterno gli enti...
Se mi tiri in ballo Severino mi sento in dovere di soffermarmi un poco sulla questione del Divenire, di A che diventa B, passando per innumerevoli stati intermedi; del pezzo di legno che, passando per il fuoco diventa piano piano o rapidamente cenere.
Severino parte dal principio di identità a se stesso di ogni ente, come Parmenide, non c'è dubbio (e anche come Aristotele che lo presenta come il fermissimo principio di non contraddizione o del terzo escluso, stabilendo così la regola logica fondamentale che tu hai contestato: di nessun ente si può dire nel medesimo rispetto e momento che è e non è ciò di cui si dice), ma Severino contesta sia Parmenide che Aristotele, il primo in quanto per costruire l'Essere (il perfetto Uno), nega gli Enti (innumerevoli) che lo costituiscono facendoli svanire nel Niente, il secondo perché l'ente, per quello che concretamente è respinge di per sé ogni contraddizione e quindi ogni possibilità di mutare, di essere altro da ciò che è, lo esclude ontologicamente, non solo logicamente. Per questo Severino non considera nella sua filosofia l'Essere e critica la logica aristotelica, in nome della concretezza dell'Ente (ossia l'ente è quello che è proprio perché non può essere le infinite cose che non è, ma nel contempo è quello che è, esattamente come tu dici, in virtù delle infinite cose che non è, hegelianamente Severino ci dice che ciò che l'ente è partecipa necessariamente di tutto ciò che esso non è, ossia partecipa di ogni altro ente, l'affermazione non solo implica, ma è data dalla negazione, da ciò che all'infinito contraddice quella affermazione).
Il divenire (inteso come un ente che viene a essere un altro ente, la legna che viene a essere cenere passando attraverso tutti gli stati intermedi che si vuole) è però impossibile proprio in quanto l'ente, nella specifica identità di quello che è datagli da ciò che non è, non può cambiare nemmeno di un minimo dettaglio: non c'è un legno che si fa cenere, ma un ente legno e un ente cenere (e tutti gli enti che vediamo intermedi) che si richiamano l'uno con l'altro in virtù di quanto è tra loro comune e per questo si presentano in successione, ma quel legno è sempre quel legno e quella cenere (cenere di quel legno) è sempre e solo cenere. Ogni stato intermedio non può essere un infinitesimo mutare, poiché per quanto infinitesimo ogni mutare sarebbe sempre un passare dall'ente a niente e da niente a un altro ente pur rimanendo, il nuovo ente, quell'ente che non c'è più. Dire che il legno è diventato cenere significa dire che il legno non c'è più, ma tuttavia c'è ancora, che, pur evidentemente non essendolo, è proprio in tutto e per tutto quella cenere (non legno) che è diventato. Dunque ciò che accade è solo un diverso e infinito venire ad apparire degli enti che si richiamano l'un l'altro, che all'infinito entrano in scena (vengono ad esistere, nel senso che dicevo prima) attraverso il richiamo delle negazioni che li definiscono e tramontano uscendo di scena senza mai diventar quel loro essere niente che è l'essere altro, ma conservandosi proprio per quello che sono, immutabili, mentre la danza dell'apparire (forse potremmo per certi versi considerarla come la danza di Maya, la danza dell'illusione e dell'esistenza) procede all'infinito perché gli enti sono infiniti, perché infinite sono le negazioni che tra loro li legano e li chiamano ad apparire.
Il diventar altro è quindi l'inganno supremo, ben più ingannevole dello stesso Niente, perché il Niente alla fine è sincero, dice di sé che non è, mentre il Divenire, che non è (quindi non è radicalmente ente, è niente) pretende di essere tutto, pretende che tutto è Divenire, mentre è solo un continuo apparire. Ma proprio questo continuo e immane apparire che coinvolge ogni ente nel suo gioco, è la Gloria a cui ogni ente partecipa in eterno e che culmina nella Gioia del Destino che coinvolge tutti gli enti. Il Destino significa essere concretamente quello che si è (e si è sempre stati e sempre si sarà) nel gioco infinito e immenso di un apparire che non ha mai termine. A non sarà mai non A, ma ogni non A gioca all'infinito con A, apparendo e scomparendo, ma senza mai cessare di essere, senza mai che il futuro venga a uccidere il presente per presentarsi come presente in atto da quell'essere in potenza che era. Ogni ente è sempre in atto.
CitazioneP.S. Tra poco entrerò nella ristretta elite degli utenti "storici" del forum, dove mi sembra abbia trovato posto fin'ora, e da poco tempo, il solo Paul11 ( cha Allah lo preservi!). Per l'occasione ho intenzione di festeggiare con un sontuoso e poco buddhista banchetto tenuto nel salone della Villa. Naturalmente siete tutti virtualmente invitati. Potrete conoscere meglio la Vania e la Maddi... ;D
Ti sbagli, ci è già entrato pure Sgiombo che ti ha preceduto, tu probabilmente sarai il terzo, con te avremo una trinità storica, ma continueremo sempre filosoficamente a giocare per la Gloria di ciascuno :D
@Maral
Scusa ma tu dici che non c'è l'ente legno che diventa cenere, ma ci sono semplicemente l'ente legno e l'ente cenere. Quindi fra l'ente legno che si trova ad una certa coordinata spazio-temporale e l'ente cenere che occupa la stessa coordinata spazio-temporale non c'è in mezzo niente? C'è in mezzo il tempo, ma stando alla logica del tuo discorso il tempo è niente. Perché se - come credo - il tempo è divenire, allora secondo il tuo ragionamento il tempo non esiste. È un punto di vista non impensabile perché se deve esistere una sostanza - al di là della quahle tutto sarebbe parvenza - allora deve esserci qualcosa che permane immutato nel tempo e, d'altronde, le due realtà possibili - quella dell'immutabilità e quella del divenire - paiono escludersi vicendevolmente. Però se torniamo al punto che esiste l'ente legno e l'ente cenere, innegabilmente esiste anche l'ente fuoco. Ora seguendo sempre il tuo discorso, anche il fuoco è un ente immutabile. Però ragione ed esperienza ci dicono che il fuoco è un processo che trasforma una materia in un'altra e produce energia, e ciò non può avvenire in un piatto mondo atemporale. Anche la fisica dimostra che la materia permane nel tempo mutandosi, perciò l'immutabilità - che è una categoria necessaria di realtà - va posta nell'ambito generale dell'esistenza e non della semplice forma dell'essere. Il marmo del blocco grezzo permane nella statua, nella forma della statua. Ma la statua è anzitutto un pezzo di marmo e poi, più particolarmente, una statua bella o brutta a seconda dell'artista. Ma ne tu ne Parmenide o Severino danno - a mio parere - dimostrazione di necessità dell'implicazione fra esistenza e immutabilità, più di quanto all'interno del divenire sia anche contemplata l'immutabilità della materia - che cambia forma ma non sostanza - e dei principi che caratterizzano il muoversi dell'universo, appunto attraverso spazio e tempo.
Citazione di: Phil il 13 Gennaio 2017, 18:02:05 PM
Il linguaggio si appropria degli enti (materiali o concettuali o altro) tramite definizioni, ovvero la possibilità di dirne qualcosa a riguardo, ma non bisogna confondere l'essere-parola con l'essere-esistente-empiricamente: finche restiamo aldiquà dei limiti del linguaggio, possiamo parlare di tutto ciò che ha una parola corrispondente (il niente. il silenzio, l'assenza, etc.), pur rispettando le differenze logiche, le negazioni, che distinguono i concetti connessi alle parole. Il parlare dell'ente o del niente non è indifferente: dell'ente possiamo specificare caratteristiche, localizzarlo, etc. del niente ce ne serviamo solo come contrappeso logico, come negazione dell'ente, ma senza confonderlo con esso. Entrambi sono predicabili, ma l'essenza della loro predicazione è proprio l'incolmabile "distanza" logica che li separa.
Mi auguro di essere stato almeno vagamente comprensibile :)
CitazioneQuesto mi sembra il punto fondamentale per districarsi nel groviglio di significati dei concetti.
Secondo me al fondo della questione sta la differenza fra realtà e pensiero (circa la realtà o meno), fra "essere" (o divenire) ed "essere pensato" (o accadere di essere pensato).
L' essere pensato, se accade realmente, é un fatto reale, che realmente é o accade; ma inoltre é un "tipo molto peculiare" di evento reale, che "allude" a "qualcosa" (tante virgolette, tanta oscurità, lo so) che potrebbe essere reale (l' essere del cavallo Bigio di mio nonno; ovviamente quando era vivo, quando c' era come cavallo vivente; mi scuso ma non conosco altri cavalli presentemente vivi e sono troppo affezionato agli ippogrifi), oppure non essere reale (non del pensiero di esso, ma dell' oggetto di pensiero o di "allusione": il solito ippogrifo Pegaso tanto caro a me, e in fondo anche a Maral).
Per la definizione (arbitraria) di tali concetti, può darsi realtà in quanto tale (per esempio del cavallo Bigio) e realtà di (in quanto) concetto pensato (per esempio dell' ippogrifo Pegaso).
E può darsi realtà concettuale, realtà in quanto concetto pensato, inoltre "accompagnata da", coesistente con (dandosi anche) denotato reale di essa, del concetto pensato: Bigio; e può darsi realtà concettuale, realtà in quanto concetto pensato, non inoltre "accompagnata da", non coesistente con (non dandosi anche) denotato reale di essa: Pegaso.
Secondo me da Parmenide e da Platone in poi (con particolare risalto in Hegel e altri, fra cui Severino; di Heidegger non mi sento di dire per la mia personale ignoranza) il confondere questi due ben diversi concetti (di "realtà" e di "concettualità"), che non necessariamente si danno (accadono realmente) entrambe, é all' origine della gran confusione lamentata dall' ottimo Sariputra, sempre franco, chiaro, profondo: sarà pure un non-cultore ufficiale di filosofia occidentale, ma per me é un ottimo filosofo (e anche autoironico e simpaticissimo; coi tempi che corrono sarà bene che -senza alcuna omofobia, ci mancherebbe altro! Mica ho la vocazione del martire che vuole essere messo in croce!- non sono innamorato del Sari, anche perché sono eterosessuale "di stretta osservanza").
In linea concettuale, puramente logica, l' essere si può anche predicare del non essere (così complessivamente negando, come nel caso di ogni "prodotto" di un numero di affermazioni e un numero di negazioni fra loro uguali o, di di un numero dispari di negazioni; mentre nel caso del prodotto di un numero di negazioni e un numero di affermazioni diverso, se si ha un eccesso -una differenza positiva- di affermazioni si afferma, se si ha un eccesso -una differenza positiva di negazioni- si nega se questo eccesso é dispari, si afferma se é pari); tutto ciò per definizione (arbitraria) di affermazione (essere concettualmente) e negazione (non essere concettualmente).
Nella realtà invece (sempre per le definizioni arbitrarie dei termini qui usati) o si dà -necessariamente- essere (o divenire; realmente) oppure si dà -necessariamente- non essere (o non divenire; realmente): tertium (per esempio "possibile") non datur.
Conclusione a mio parere inevitabile, logicamente cogente: il "possibile" può darsi solo del pensiero (dell' essere o divenire concettualmente), mai della realtà (dell' essere o divenire realmente): si può pensare che Bigio e anche Pegaso esistono e si può parimenti pensare che Pegaso e anche Bigio non esistano.
Ma se nella realtà Bigio esiste (é esistito) e Pegaso non esiste (non é mai esistito) non può affatto darsi anche (lo si può bensì pensare, può darsi nel pensiero, nella realtà meramente concettuale) che Bigio non esista e che Pegaso esista.
Nella realtà: possibile = pensabile (alternativa meramente concettuale e non alternativa reale).
Corollari:
Falsità dell' "argomento ontologico" dell' esistenza di Dio: solo ciò che é - accade realmente necessariamente é - accade realmente, non può non essere - non accadere realmente, qualsiasi cosa sia (e non in quanto connotazione determinata di concetti, come può essere "Dio"; a meno che per "dio" non si intenda "ciò che è reale qualsiasi cosa sia": che sia più o meno buono o cattivo, onnipotente o impotente, ecc.).
Insensatezza del problema avvertito come "fondamentalissimo" da chiunque sia dotato di "temperamento filosofico", quello del "perché" della realtà in generale e di se stessi in particolare: perché c' é qualcosa, e in articolare quel determinato "qualcosa" che c' é (e nel suo ambito perché ci sono io, così come sono) anziché esserci altro (per esempio un altro, diverso "qualcosa", una realtà che non mi includa) o addirittura nulla?
Risposta: perchè tutto ciò realmente accade, e realmente accadendo non può darsi ce non accada (non c' é alternativa reale possibile; e dunque non c' bisogno di spiegazione alcuna per il verificarsi reale di quella alternativa che si verifica di fatto fra altre possibili; che per l' appunto non si danno).
E' solo concettualmente, come ipotesi del pensiero e non come fatti reali. che si danno altre possibilità (per esempio di un diverso "qualcosa" di reale non includente me; o magari di alcunché di reale): non c' é alternativa da spiegare (bisognosa di spiegazione, senso, ragione, "perché") nel reale, ma solo si dà alternativa nel concettuale, nel pensabile, la cui spiegazione sta nelle definizioni (arbitrarie) di "reale", "concettuale", "negazione" ("non reale", "non concettuale"), "necessario", "possibile", "impossibile", ecc., nel fatto che si può anche pensare ciò che non accade realmente (Pegaso), oltre a ciò che accade realmente (Bigio), e che può accadere realmente anche ciò che non é pensato (un' "infinità" -insieme indefinito- di cose), oltre a ciò che é pensato (Bigio e un' "infinità" di altre cose).
P.S. delle ore 15, 30: Non avendo ancora letto l' intervento di Apeiron di ieri alle 18:58:33 (col quale credo di sostanzialmente concordare, pur nella mia totale ignoranza della filosofia orientale) al momento di scrivere questo mio, mi scuso per non averlo citato (beh, paradossalmente l' ho citato; per quanto solo ora).
Citazione di: Sariputra il 13 Gennaio 2017, 21:44:12 PM
Parmenide ci dice che l'ente è l'essere di una cosa. Questo mi sembra prestarsi a parecchie complicazioni. Il greco era assolutamente convinto che, per il solo fatto di pensare, dobbiamo postulare che qualcosa "è". Ciò che non-è non è possibile nemmeno pensarlo; come può allora essere una parte della realtà? Non-essere, per Parmenide, è pertanto impossibile. Il corollario di questa affermazione è l'impossibilità del cambiamento, dato che il cambiamento comporta tanto l'essere che il non-essere. Per es. quando A cambia in B, A non esiste più. Come si può pensare una siffatta contraddizione? Una qualità non si può cambiare in un'altra qualità; affermare questo significa affermare, a parer mio, che qualcosa "è" e al contempo "non-è". Quindi l'ente , per poter cambiare, è nel contempo non-ente ( ni-ente?..?.
Inoltre, se l'essere è diventato, deve pure esser venuto o da un essere o da un non-essere. Però se viene da un non-essere è impossibile. Come può un qualcosa venir fuori dal nulla? Se viene da un essere, allora è venuta da se stesso, che sarebbe come dire che è identico a se stesso, e così è sempre stato. Se è questo il caso, non è certo un caso di "divenire". Parmenide , da quel poco che ho letto, è costretto a concludere che da un essere può venire solo un essere, che nulla può diventare qualcos'altro, che qualsiasi cosa ( ente) è, è sempre stata e sempre sarà e che ogni cosa rimane ciò che è. Quindi, alla fine della fiera, può esistere solo un unico, eterno, indiviso e immutabile Essere.
Questo ragionamento, se non sbaglio, è alla base dell'Occidente ( con infinite variazioni ma partendo da..) e di svariate religioni, credi, ecc. ( Sono d'accordo con Apeiron che lo definisce un Errore, con la maiuscola...).
CitazioneCredo in accordo con Apeiron (e probabilmente Donquixote e Phil e altri...; o almeno mi pare che così stiano le cose, ma se mi sbaglio chiedo anticipatamente scusa agli interessati), ribadisco che l' Errore di Parmenide (e di tanti altri occidentali) nasce dal confondere l' "essere realmente" e l' "essere concettualmente (in quanto mero oggetto di considerazione, di pensiero)":
Per definizione ciò che é non può non essere e viceversa; ma ciò vale per "ciò che é qualsiasi cosa sia" (ciò che é é e non può non essere -e viceversa- in assoluto, "per sempre", salvo arbitrarie e convenzionali modifiche dei concetti, che non cambiano la realtà ma -solo la realtà di- ciò che si pensa della realtà).
Ma in realtà ciò che é qualsiasi cosa sia potrebbe anche essere (e a quanto pare di fatto é) il mutamento, il divenire; e se così é, allora ciò che era prima può benissimo non essere adesso o dopo di adesso, e ciò che non era prima può benissimo essere adesso o dopo di adesso: la realtà, che può solo essere come é e non diversamente, può ben cambiare (essere "cangiante", divenire).
Citazione di: Sariputra il 13 Gennaio 2017, 22:20:05 PM
P.S. Tra poco entrerò nella ristretta elite degli utenti "storici" del forum, dove mi sembra abbia trovato posto fin'ora, e da poco tempo, il solo Paul11 ( cha Allah lo preservi!). Per l'occasione ho intenzione di festeggiare con un sontuoso e poco buddhista banchetto tenuto nel salone della Villa. Naturalmente siete tutti virtualmente invitati. Potrete conoscere meglio la Vania e la Maddi... ;D
CitazioneScusa la vanità , ma anch' io posso fregiarmi della qualifica di utente "storico".
Anche se fra conoscenza "virtuale" e conoscenza "in senso biblico" ovviamente non c' é confronto (eh, sono il solito "materialista"; secondo l' uso comune del termine, non in senso letterale-metafisico, come ben sai), ti ringrazio di cuore dell' invito
Citazione di: sgiombo il 14 Gennaio 2017, 16:03:03 PM
Citazione di: Sariputra il 13 Gennaio 2017, 22:20:05 PMP.S. Tra poco entrerò nella ristretta elite degli utenti "storici" del forum, dove mi sembra abbia trovato posto fin'ora, e da poco tempo, il solo Paul11 ( cha Allah lo preservi!). Per l'occasione ho intenzione di festeggiare con un sontuoso e poco buddhista banchetto tenuto nel salone della Villa. Naturalmente siete tutti virtualmente invitati. Potrete conoscere meglio la Vania e la Maddi... ;D
CitazioneScusa la vanità , ma anch' io posso fregiarmi della qualifica di utente "storico". Anche se fra conoscenza "virtuale" e conoscenza "in senso biblico" ovviamente non c' é confronto (eh, sono il solito "materialista"; secondo l' uso comune del termine, non in senso letterale-metafisico, come ben sai), ti ringrazio di cuore dell' invito
Scusami Sgiombo per l'imperdonabile svista. Con l'avvicinarsi della fine dell'anzianità e l'ingresso nella storicità ( che è come passare dalla vecchiaia alla senescenza totale...) anche la mia povera vista si sta ulteriormente indebolendo...
Ecco, ecco! Proprio con questa risposta sono entrato definitivamente nella storicità. Ormai sono quasi un personaggio classico. Adesso dovrò cercare delle immagini, per sostituire le varie maschere che inserisco nel profilo, di busti in marmo di vecchi sapienti con la barba... 8)
Citazione di: cvc il 14 Gennaio 2017, 14:10:06 PM
@Maral
Scusa ma tu dici che non c'è l'ente legno che diventa cenere, ma ci sono semplicemente l'ente legno e l'ente cenere. Quindi fra l'ente legno che si trova ad una certa coordinata spazio-temporale e l'ente cenere che occupa la stessa coordinata spazio-temporale non c'è in mezzo niente? C'è in mezzo il tempo, ma stando alla logica del tuo discorso il tempo è niente. Perché se - come credo - il tempo è divenire, allora secondo il tuo ragionamento il tempo non esiste. È un punto di vista non impensabile perché se deve esistere una sostanza - al di là della quahle tutto sarebbe parvenza - allora deve esserci qualcosa che permane immutato nel tempo e, d'altronde, le due realtà possibili - quella dell'immutabilità e quella del divenire - paiono escludersi vicendevolmente. Però se torniamo al punto che esiste l'ente legno e l'ente cenere, innegabilmente esiste anche l'ente fuoco. Ora seguendo sempre il tuo discorso, anche il fuoco è un ente immutabile. Però ragione ed esperienza ci dicono che il fuoco è un processo che trasforma una materia in un'altra e produce energia, e ciò non può avvenire in un piatto mondo atemporale. Anche la fisica dimostra che la materia permane nel tempo mutandosi, perciò l'immutabilità - che è una categoria necessaria di realtà - va posta nell'ambito generale dell'esistenza e non della semplice forma dell'essere. Il marmo del blocco grezzo permane nella statua, nella forma della statua. Ma la statua è anzitutto un pezzo di marmo e poi, più particolarmente, una statua bella o brutta a seconda dell'artista. Ma ne tu ne Parmenide o Severino danno - a mio parere - dimostrazione di necessità dell'implicazione fra esistenza e immutabilità, più di quanto all'interno del divenire sia anche contemplata l'immutabilità della materia - che cambia forma ma non sostanza - e dei principi che caratterizzano il muoversi dell'universo, appunto attraverso spazio e tempo.
CVC, come ho detto il principio su cui si basa tutto il ragionamento di Severino è la concreta (ossia completa) identità dell'ente con se stesso, se c'è questa identità (che Severino stesso riconosce che in linea di principio può anche essere messa in discussione, ma che se la mettiamo in discussione dobbiamo accettare che nulla più di coerente può essere detto), l'ente, ogni ente per come interamente è, non può che essere eterno, immutabile, dunque il Divenire non c'è, perché gli enti, ognuno di essi, qualunque cosa siano, sono sempre sé stessi e non può esistere alcun tempo in cui questo pezzo di legno che ora è un pezzo di legno sarà cenere, pur rimanendo in astratto il pezzo di legno che era (onde si possa dire che il legno è diventato cenere). Certo, tutto è presente un presente che non passa e non muta. Ogni attimo di questo presente è ente, ma in questo presente si svolge la scena sempre diversa dell'apparire dovuto al continuo richiamarsi reciproco degli enti attraverso la negazione che li lega, dunque il tempo che passa non è che l'illusione del gioco dell'apparire. Che tutto sia presente ci sembra assurdo, ma se ci riflettiamo un attimo non è così, non lo è nemmeno fenomenologicamente: noi viviamo sempre e solo il presente, tutto accade solo adesso, il passato non è più, il futuro non è ancora, entrambi non sono, solo il presente è.
Seguendo il filo di questo discorso non può esserci una sostanza (una essenza fissa) non meglio specificata, ma fondamentale, che non muta, mentre tutti i suoi attributi formali che la specificano di fatto mutano, tale così da rendere possibile il divenire,
appunto perché sono proprio e solo quegli attributi formali, nessuno escluso, che specificano l'ente a mezzo deli infiniti altri enti che quell'ente non è. Questa sostanza è una sorta di idea astratta dell'ente, e, in quanto tale, è qualcosa di diverso dall'ente stesso non l'essenza, se la prendiamo come se ne fosse l'essenza, dice Severino, la prendiamo in astratto, ossia pensiamo l'astratto in modo astratto e questo pensiero astratto dell'astratto è la radice stessa dell'errore.
Certamente il pensiero di Severino (che, ripeto, è assai diverso da quello di Parmenide, in quanto non riguarda l'Essere, ma tutti gli innumerevoli Enti) può sembrare assurdo e ci sono dei punti in cui mi resta oscuro (ad esempio cosa sono davvero gli enti), ma non si può negargli né profondità né rigore logico e filosofico, oltre a un enorme coraggio nel negare ciò che a tutti ci appare tanto ovvio, che le cose passano, che il fuoco (simbolo per eccellenza del divenire fin dai tempi di Eraclito) bruciando trasforma, divora, si trasforma.
Citazione di: maral il 14 Gennaio 2017, 23:16:23 PM
Citazione di: cvc il 14 Gennaio 2017, 14:10:06 PM@Maral Scusa ma tu dici che non c'è l'ente legno che diventa cenere, ma ci sono semplicemente l'ente legno e l'ente cenere. Quindi fra l'ente legno che si trova ad una certa coordinata spazio-temporale e l'ente cenere che occupa la stessa coordinata spazio-temporale non c'è in mezzo niente? C'è in mezzo il tempo, ma stando alla logica del tuo discorso il tempo è niente. Perché se - come credo - il tempo è divenire, allora secondo il tuo ragionamento il tempo non esiste. È un punto di vista non impensabile perché se deve esistere una sostanza - al di là della quahle tutto sarebbe parvenza - allora deve esserci qualcosa che permane immutato nel tempo e, d'altronde, le due realtà possibili - quella dell'immutabilità e quella del divenire - paiono escludersi vicendevolmente. Però se torniamo al punto che esiste l'ente legno e l'ente cenere, innegabilmente esiste anche l'ente fuoco. Ora seguendo sempre il tuo discorso, anche il fuoco è un ente immutabile. Però ragione ed esperienza ci dicono che il fuoco è un processo che trasforma una materia in un'altra e produce energia, e ciò non può avvenire in un piatto mondo atemporale. Anche la fisica dimostra che la materia permane nel tempo mutandosi, perciò l'immutabilità - che è una categoria necessaria di realtà - va posta nell'ambito generale dell'esistenza e non della semplice forma dell'essere. Il marmo del blocco grezzo permane nella statua, nella forma della statua. Ma la statua è anzitutto un pezzo di marmo e poi, più particolarmente, una statua bella o brutta a seconda dell'artista. Ma ne tu ne Parmenide o Severino danno - a mio parere - dimostrazione di necessità dell'implicazione fra esistenza e immutabilità, più di quanto all'interno del divenire sia anche contemplata l'immutabilità della materia - che cambia forma ma non sostanza - e dei principi che caratterizzano il muoversi dell'universo, appunto attraverso spazio e tempo.
CVC, come ho detto il principio su cui si basa tutto il ragionamento di Severino è la concreta (ossia completa) identità dell'ente con se stesso, se c'è questa identità (che Severino stesso riconosce che in linea di principio può anche essere messa in discussione, ma che se la mettiamo in discussione dobbiamo accettare che nulla più di coerente può essere detto), l'ente, ogni ente per come interamente è, non può che essere eterno, immutabile, dunque il Divenire non c'è, perché gli enti, ognuno di essi, qualunque cosa siano, sono sempre sé stessi e non può esistere alcun tempo in cui questo pezzo di legno che ora è un pezzo di legno sarà cenere, pur rimanendo in astratto il pezzo di legno che era (onde si possa dire che il legno è diventato cenere). Certo, tutto è presente un presente che non passa e non muta. Ogni attimo di questo presente è ente, ma in questo presente si svolge la scena sempre diversa dell'apparire dovuto al continuo richiamarsi reciproco degli enti attraverso la negazione che li lega, dunque il tempo che passa non è che l'illusione del gioco dell'apparire. Che tutto sia presente ci sembra assurdo, ma se ci riflettiamo un attimo non è così, non lo è nemmeno fenomenologicamente: noi viviamo sempre e solo il presente, tutto accade solo adesso, il passato non è più, il futuro non è ancora, entrambi non sono, solo il presente è. Seguendo il filo di questo discorso non può esserci una sostanza (una essenza fissa) non meglio specificata, ma fondamentale, che non muta, mentre tutti i suoi attributi formali che la specificano di fatto mutano, tale così da rendere possibile il divenire, appunto perché sono proprio e solo quegli attributi formali, nessuno escluso, che specificano l'ente a mezzo deli infiniti altri enti che quell'ente non è. Questa sostanza è una sorta di idea astratta dell'ente, e, in quanto tale, è qualcosa di diverso dall'ente stesso non l'essenza, se la prendiamo come se ne fosse l'essenza, dice Severino, la prendiamo in astratto, ossia pensiamo l'astratto in modo astratto e questo pensiero astratto dell'astratto è la radice stessa dell'errore. Certamente il pensiero di Severino (che, ripeto, è assai diverso da quello di Parmenide, in quanto non riguarda l'Essere, ma tutti gli innumerevoli Enti) può sembrare assurdo e ci sono dei punti in cui mi resta oscuro (ad esempio cosa sono davvero gli enti), ma non si può negargli né profondità né rigore logico e filosofico, oltre a un enorme coraggio nel negare ciò che a tutti ci appare tanto ovvio, che le cose passano, che il fuoco (simbolo per eccellenza del divenire fin dai tempi di Eraclito) bruciando trasforma, divora, si trasforma.
Premetto che ho grande stima della logica di Severino.
Ma esiste e quindi diventa essente , il tempo.O tutto compreso noi siamo una contraddizione oppure in quel Tutto inseriamo prima il segno meno( - Tutto),Ma non cambierebbe molto dal punto di vista dei significati esistenziali degli essenti , in quanto appaiono nel mondo del divenire.
Penso, ma non ne sono sicuro, che esistono immutabili e mutabili. Noi stessi lo siamo incarnando,vivendo nel mondo.
Noi siamo identità, nasciamo e moriamo con la stessa identità. Il nostro corpo muta contraddittoriamente a questa identità che permane ne abbiamo discusso nel paradosso della nave di Teseo.
Ritengo che proprio il rapporto fra nostra identità e le contraddizioni nel divenire ,aprono il processo epistemologico, fenomenologico, ontologico.La necessità che può essere di ordine logico, esistenziale,ecc ma comunque filosofico, di trovare correlazioni fra immutabile e mutabile , se si vuole fra astratto e concreto sia un processo dialettico che non è altro che il movimento dall'identità alle contraddizioni e viceversa, induttivo e deduttivo, e il processo è il conoscere, il tentativo di dirimere le contraddizioni
P.S. Sariputra ,quando da " storico" passerò a "fossile" 8) Invierò "..nà cozza" ;D alla tua omonima villa Sotto il Monte oltre la contea,da attaccare a qualche busto ::)
CitazionePer la definizione (arbitraria) di tali concetti, può darsi realtà in quanto tale (per esempio del cavallo Bigio) e realtà di (in quanto) concetto pensato (per esempio dell' ippogrifo Pegaso).
E può darsi realtà concettuale, realtà in quanto concetto pensato, inoltre "accompagnata da", coesistente con (dandosi anche) denotato reale di essa, del concetto pensato: Bigio; e può darsi realtà concettuale, realtà in quanto concetto pensato, non inoltre "accompagnata da", non coesistente con (non dandosi anche) denotato reale di essa: Pegaso.
Certamente Sgiombo, Bigio e Pegaso appartengono a due tipologie di enti diversi (anche l'enciclopedia cinese di Borges, che ho citato nel mio primo post in risposta a Sariputra, li classifica infatti sotto tipologie diverse), ma ciò non toglie che essi siano entrambi concetti, se togliamo il concetto che definisce (a mio avviso per nulla arbitrariamente, ossia non come diavolo vogliamo e ci pare) Bigio, cosa resta di Bigio? No, non dirmi un cavallo reale, perché un cavallo reale è ancora una definizione, forse una sensazione di qualcosa, ma anche questa è una definizione, qualcosa allora ... ma cosa? C'è poco da fare, ci vuole una definizione per dirlo, non la cosa, la cosa di per sé non appare. non si dice! Anche se la definizione non è qualsiasi definizione, una sua ragione ce l'ha e Bigio (qualunque cosa sia prima di essere definito come Bigio, il cavallo di tuo nonno) realmente non è Pegaso e certamente non solo per definizione.
CitazioneMa in realtà ciò che é qualsiasi cosa sia potrebbe anche essere (e a quanto pare di fatto é) il mutamento, il divenire
Sì, ma non se quella definizione è un'autocontraddizione, poiché anche se l'autocontraddizione è comunque un'autocontraddizione e tale resta per sempre come ogni ente, essa dice di sé stessa ciò che non è, dicendosi si nega. Il mutamento si autocontraddice perché afferma che una cosa diventando altro da ciò che è (ossia diventando ciò che non è) resta tuttavia ciò che è. dice che esiste realmente un tempo (un reale luogo temporale) in cui questa legna qui, proprio questa legna qui, è cenere.
Non riesco a capire come ci può essere un ente senza qualcosa che appartenga all'ente. Un ente deve avere delle qualità , delle caratteristiche, o dei modi che lo distinguono dagli altri enti. Se non ci fossero queste qualità distintive tutti gli enti sarebbero uguali, mi sembra. Pertanto, dire di una cosa che è, è corretto, ma non dice che cosa quella cosa è. Abbiamo solo la percezione, ai nostri sensi, che qualcosa c'è ( e qui si apre la prateria della riflessione su cosa e come percepiscono i nostri sensi limitati, compreso il senso interno, detto in Occidente "coscienza", ché non esiste una sensazione di "è" ma casomai di "è caldo, è freddo, è luminoso, ecc,....ma questa è un'altra storia). Pare , almeno al povero Sari, che una qualità si può stabilire soltanto in relazione e nel confronto con altre qualità. E' perché confronto la mia testa con quella dell'asino Anselmo che giungo alla conclusione che non-sono ( l'ente asino ). Quindi per essere devo pure non-essere ( qualcos'altro); o anche si potrebbe dire che non-essendo (qualcos'altro) sono. Allora, se si dice che non c'è divenire dell'ente, perché quando osservo una foto dell'ente Sari giovane e con un rigoglioso ciuffo e la confronto con quella dello stesso ente Sari attuale, non trovo alcuna rassomiglianza; così che si potrebbe dire , senza essere smentiti da un'estraneo a cui si mostrassero le due foto, che si tratta di due enti diversi?Così per l'Io come si potrebbe definire se non insieme con il mio? Molti pensatori buddhisti infatti non usano mai il termine Io , ma sempre come Io-Mio e questo mi pare avere una logica...Ora, se un ente non appare mai, in nessun momento, identico a se stesso, come si può affermare che "è" ( ossia immutabile, permanente, duraturo, fisso, sostanziale, ecc.)? Non sarebbe più logico, semplice e intuitivo dire che "esiste nel divenire", o per meglio dire che "diviene esistendo"? Che poi, signori, è esattamente questa la percezione e l'intuizione soggettiva, naturale, senza esserci stata insegnata da nessuno, direttamente accessibile, alla portata di chiunque dell'esistere. Ossia essere come "essere nel divenire, o "essere nel tempo". Quindi , spalando il letame in cui sembra si sia sepolto per curarsi Eraclito, mi sentirei di intonare, insieme con lui, il "Panta rei", tutto scorre e nessun ente può immergersi per due volte nella stessa merda (...pardòn...acqua)!
Citazione di: maral il 14 Gennaio 2017, 23:52:12 PMCitazione Maral:
CitazioneCVC, come ho detto il principio su cui si basa tutto il ragionamento di Severino è la concreta (ossia completa) identità dell'ente con se stesso, se c'è questa identità (che Severino stesso riconosce che in linea di principio può anche essere messa in discussione, ma che se la mettiamo in discussione dobbiamo accettare che nulla più di coerente può essere detto), l'ente, ogni ente per come interamente è, non può che essere eterno, immutabile, dunque il Divenire non c'è, perché gli enti, ognuno di essi, qualunque cosa siano, sono sempre sé stessi e non può esistere alcun tempo in cui questo pezzo di legno che ora è un pezzo di legno sarà cenere, pur rimanendo in astratto il pezzo di legno che era (onde si possa dire che il legno è diventato cenere). Certo, tutto è presente un presente che non passa e non muta. Ogni attimo di questo presente è ente, ma in questo presente si svolge la scena sempre diversa dell'apparire dovuto al continuo richiamarsi reciproco degli enti attraverso la negazione che li lega, dunque il tempo che passa non è che l'illusione del gioco dell'apparire. Che tutto sia presente ci sembra assurdo, ma se ci riflettiamo un attimo non è così, non lo è nemmeno fenomenologicamente: noi viviamo sempre e solo il presente, tutto accade solo adesso, il passato non è più, il futuro non è ancora, entrambi non sono, solo il presente è.
Seguendo il filo di questo discorso non può esserci una sostanza (una essenza fissa) non meglio specificata, ma fondamentale, che non muta, mentre tutti i suoi attributi formali che la specificano di fatto mutano, tale così da rendere possibile il divenire,
appunto perché sono proprio e solo quegli attributi formali, nessuno escluso, che specificano l'ente a mezzo deli infiniti altri enti che quell'ente non è. Questa sostanza è una sorta di idea astratta dell'ente, e, in quanto tale, è qualcosa di diverso dall'ente stesso non l'essenza, se la prendiamo come se ne fosse l'essenza, dice Severino, la prendiamo in astratto, ossia pensiamo l'astratto in modo astratto e questo pensiero astratto dell'astratto è la radice stessa dell'errore.
Certamente il pensiero di Severino (che, ripeto, è assai diverso da quello di Parmenide, in quanto non riguarda l'Essere, ma tutti gli innumerevoli Enti) può sembrare assurdo e ci sono dei punti in cui mi resta oscuro (ad esempio cosa sono davvero gli enti), ma non si può negargli né profondità né rigore logico e filosofico, oltre a un enorme coraggio nel negare ciò che a tutti ci appare tanto ovvio, che le cose passano, che il fuoco (simbolo per eccellenza del divenire fin dai tempi di Eraclito) bruciando trasforma, divora, si trasforma.
CitazioneRisposta di Sgiombo:
Obietto ben sapendo per esperienza che non ti convincerò.
Spero però di convincere gli altri frequentatori del forum; e a questo scopo basta che illustri i miei argomenti una volta sola, evitando di ricominciare un' altra volta ancora un interminabile botta e risposta; pertanto se ignorerò la tua prevedibile replica non contenente nuove argomentazioni da confutare non sarà certo perché mi avrai convinto (replicherei soltanto a eventuali nuove argomentazioni, cosa che per esperienza ritengo del tutto improbabile accada).
L' ente in quanto pensato, il concetto dell' ente stabilito definendolo arbitrariamente per convenzione "una volta per tutte" (salvo casi eccezionali nei quali per giustificati motivi di chiarezza comunicativa dovuti a fatti intervenuti, soprattutto la miglior conoscenza della realtà che con i concetti viene descritta, o novità culturali o nei rapporti sociali) è per sempre quello che è e (pretendere di) dire che diviene altro è contraddittorio, senza senso.
Invece l' ente in quanto oggetto (cosa o accadimento reale) può benissimo mutare, anzi di fatto continuamente muta, sia pure talora lentissimamente, di fatto impercettibilmente nel tempo, diventando altro (da legno, cenere, ecc.) senza alcuna contraddizione e insensatezza.
Se le parole in lingua italiana (non in "severinese", che non conosco e non ho alcun interesse ad imparare) hanno un senso, allora, se dicessi che un pezzo di legno segato dal ramo di un albero ieri e bruciato nel camino oggi ieri era cenere e fumo mi contraddirei, ma se dico che oggi è diventato cenere e fumo non mi contraddico affatto (lo farei casomai se dicessi " a la Severino" che oltre a diventare cenere e fumo oggi, dopo la combustione, inoltre è -continua ad essere- anche un pezzo di legno).
Un' esempio di contraddizione logica "severiniana" é questa tua affermazione:
"in questo presente si svolge la scena sempre diversa dell'apparire": "svolgersi" è sinonimo di "divenire", "mutare", e come tale accade nel trascorrere del tempo e non in un "eterno presente".
Infatti "noi viviamo sempre e solo il presente, tutto accade solo adesso [= solo il presente é presente: tautologia! Infatti il passato lo vivemmo e il futuro -si spera!- lo vivremo, N.d.R.], il passato non è più [infatti era prima, N.d.R], il futuro non è ancora [infatti sarà dopo, N.d.R.], entrambi non sono [infatti rispettivamente era e sarà, N.d.R.], solo il presente è [presente; in fatti il passato é passato ed era presente e il futuro é futuro e sarà presente, N.d.R].
In conclusione, essendo uno politicamente scorretto che ama sempre dire pane al pane e vino al vino, ho (e rivendico vivacemente) la presunzione di negare a Severino profondità e rigore logico e filosofico (non l' enorme, ma a mio parere negativo, insano, "coraggio" nel negare ciò che è tanto ovvio).
Mi piace fare come il bambino della favola che dice: "il re è nudo!".
CitazionePer la definizione (arbitraria) di tali concetti, può darsi realtà in quanto tale (per esempio del cavallo Bigio) e realtà di (in quanto) concetto pensato (per esempio dell' ippogrifo Pegaso).
E può darsi realtà concettuale, realtà in quanto concetto pensato, inoltre "accompagnata da", coesistente con (dandosi anche) denotato reale di essa, del concetto pensato: Bigio; e può darsi realtà concettuale, realtà in quanto concetto pensato, non inoltre "accompagnata da", non coesistente con (non dandosi anche) denotato reale di essa: Pegaso.
Certamente Sgiombo, Bigio e Pegaso appartengono a due tipologie di enti diversi (anche l'enciclopedia cinese di Borges, che ho citato nel mio primo post in risposta a Sariputra, li classifica infatti sotto tipologie diverse), ma ciò non toglie che essi siano entrambi concetti, se togliamo il concetto che definisce (a mio avviso per nulla arbitrariamente, ossia non come diavolo vogliamo e ci pare) Bigio, cosa resta di Bigio? No, non dirmi un cavallo reale, perché un cavallo reale è ancora una definizione, forse una sensazione di qualcosa, ma anche questa è una definizione, qualcosa allora ... ma cosa? C'è poco da fare, ci vuole una definizione per dirlo, non la cosa, la cosa di per sé non appare. non si dice! Anche se la definizione non è qualsiasi definizione, una sua ragione ce l'ha e Bigio (qualunque cosa sia prima di essere definito come Bigio, il cavallo di tuo nonno) realmente non è Pegaso e certamente non solo per definizione.
CitazionePegaso é solo un concetto, con una connotazione arbitrariamente stabilita e basta, senza alcuna denotazione reale.
Invece Bigio é sia un concetto con una connotazione (più o meno correttamente, fedelmente, -in- -completamente applicabile alla denotazione reale), sia, inoltre una cosa reale che dal concetto é denotata; e che lo sarebbe anche se nessuno mai avesse pensato il concetto di "Bigio".
Infatti se, allorché era vivo, avessimo tolto il concetto di Bigio (più o meno correttamente stabilito), Bigio avrebbe tranquillamente continuato imperterrito a mangiare fieno, tirare il carro di mio nonno, nitrire, defecare, ecc.; invece se togliamo il concetto (nei racconti, poemi, romanzi, articoli filosofici, conversazioni, ecc. in cui é, compare, realmente accade; come tale: concetto, "roba meramente pensata" -o detta o scritta- e basta) di Pegaso non resta più nulla: non vola più, non nitrisce, non defeca, ecc..
Che poi per parlare di "Bigio", come di Pegaso, debba usare parole le quali (le loro connotazioni) sono altra cosa dal Bigio loro denotato reale (ma non da Pegaso rispettivamente) é ovvio e non equipara affatto la realtà del cavallo al' irrealtà dell' ippogrifo.
CitazioneMa in realtà ciò che é qualsiasi cosa sia potrebbe anche essere (e a quanto pare di fatto é) il mutamento, il divenire
Sì, ma non se quella definizione è un'autocontraddizione, poiché anche se l'autocontraddizione è comunque un'autocontraddizione e tale resta per sempre come ogni ente, essa dice di sé stessa ciò che non è, dicendosi si nega. Il mutamento si autocontraddice perché afferma che una cosa diventando altro da ciò che è (ossia diventando ciò che non è) resta tuttavia ciò che è. dice che esiste realmente un tempo (un reale luogo temporale) in cui questa legna qui, proprio questa legna qui, è cenere.
CitazioneInfatti quella definizione non é affatto autocontraddittoria.
La sarebbe quella "severiniana" che pretenderebbe che il pezzo di legno che ieri é bruciato e ora é cenere e fumo sia inoltre (sempre, e dunque anche ora; oltre che cenere e fumo) anche pezzo di legno incombusto.
Il "divenire" che afferma che una cosa diventando altro da ciò che è (ossia diventando ciò che non è) resta tuttavia ciò che è proprio la definizione autocontraddittoria di "divenire" di Severino; e non quella dei dizionari della lingua italiana, da tutti comunemente usata, che é perfettamente coerente, per la quale invece una cosa diventando (in futuro) altro da ciò che è -ora- (ossia diventando ciò che non è; ora) non resterà affatto tuttavia (in futuro) ciò che è (ora).
Dire che esiste (ora: tempo presente) realmente un tempo (un reale luogo temporale [?]) in cui questa legna qui, proprio questa legna qui, è cenere é la tipica illogicissima contraddizione severiniana, dal momento che invece logicamente si può (e di fatto si deve) dire che esisteva realmente un tempo (prima; mentre ora non esiste più) in cui questa cenere qui, proprio questa cenere qui (ora), era (allora) legna.
Citazione di: maral il 14 Gennaio 2017, 23:16:23 PM
Citazione di: cvc il 14 Gennaio 2017, 14:10:06 PM
@Maral
Scusa ma tu dici che non c'è l'ente legno che diventa cenere, ma ci sono semplicemente l'ente legno e l'ente cenere. Quindi fra l'ente legno che si trova ad una certa coordinata spazio-temporale e l'ente cenere che occupa la stessa coordinata spazio-temporale non c'è in mezzo niente? C'è in mezzo il tempo, ma stando alla logica del tuo discorso il tempo è niente. Perché se - come credo - il tempo è divenire, allora secondo il tuo ragionamento il tempo non esiste. È un punto di vista non impensabile perché se deve esistere una sostanza - al di là della quahle tutto sarebbe parvenza - allora deve esserci qualcosa che permane immutato nel tempo e, d'altronde, le due realtà possibili - quella dell'immutabilità e quella del divenire - paiono escludersi vicendevolmente. Però se torniamo al punto che esiste l'ente legno e l'ente cenere, innegabilmente esiste anche l'ente fuoco. Ora seguendo sempre il tuo discorso, anche il fuoco è un ente immutabile. Però ragione ed esperienza ci dicono che il fuoco è un processo che trasforma una materia in un'altra e produce energia, e ciò non può avvenire in un piatto mondo atemporale. Anche la fisica dimostra che la materia permane nel tempo mutandosi, perciò l'immutabilità - che è una categoria necessaria di realtà - va posta nell'ambito generale dell'esistenza e non della semplice forma dell'essere. Il marmo del blocco grezzo permane nella statua, nella forma della statua. Ma la statua è anzitutto un pezzo di marmo e poi, più particolarmente, una statua bella o brutta a seconda dell'artista. Ma ne tu ne Parmenide o Severino danno - a mio parere - dimostrazione di necessità dell'implicazione fra esistenza e immutabilità, più di quanto all'interno del divenire sia anche contemplata l'immutabilità della materia - che cambia forma ma non sostanza - e dei principi che caratterizzano il muoversi dell'universo, appunto attraverso spazio e tempo.
CVC, come ho detto il principio su cui si basa tutto il ragionamento di Severino è la concreta (ossia completa) identità dell'ente con se stesso, se c'è questa identità (che Severino stesso riconosce che in linea di principio può anche essere messa in discussione, ma che se la mettiamo in discussione dobbiamo accettare che nulla più di coerente può essere detto), l'ente, ogni ente per come interamente è, non può che essere eterno, immutabile, dunque il Divenire non c'è, perché gli enti, ognuno di essi, qualunque cosa siano, sono sempre sé stessi e non può esistere alcun tempo in cui questo pezzo di legno che ora è un pezzo di legno sarà cenere, pur rimanendo in astratto il pezzo di legno che era (onde si possa dire che il legno è diventato cenere). Certo, tutto è presente un presente che non passa e non muta. Ogni attimo di questo presente è ente, ma in questo presente si svolge la scena sempre diversa dell'apparire dovuto al continuo richiamarsi reciproco degli enti attraverso la negazione che li lega, dunque il tempo che passa non è che l'illusione del gioco dell'apparire. Che tutto sia presente ci sembra assurdo, ma se ci riflettiamo un attimo non è così, non lo è nemmeno fenomenologicamente: noi viviamo sempre e solo il presente, tutto accade solo adesso, il passato non è più, il futuro non è ancora, entrambi non sono, solo il presente è.
Seguendo il filo di questo discorso non può esserci una sostanza (una essenza fissa) non meglio specificata, ma fondamentale, che non muta, mentre tutti i suoi attributi formali che la specificano di fatto mutano, tale così da rendere possibile il divenire,
appunto perché sono proprio e solo quegli attributi formali, nessuno escluso, che specificano l'ente a mezzo deli infiniti altri enti che quell'ente non è. Questa sostanza è una sorta di idea astratta dell'ente, e, in quanto tale, è qualcosa di diverso dall'ente stesso non l'essenza, se la prendiamo come se ne fosse l'essenza, dice Severino, la prendiamo in astratto, ossia pensiamo l'astratto in modo astratto e questo pensiero astratto dell'astratto è la radice stessa dell'errore.
Certamente il pensiero di Severino (che, ripeto, è assai diverso da quello di Parmenide, in quanto non riguarda l'Essere, ma tutti gli innumerevoli Enti) può sembrare assurdo e ci sono dei punti in cui mi resta oscuro (ad esempio cosa sono davvero gli enti), ma non si può negargli né profondità né rigore logico e filosofico, oltre a un enorme coraggio nel negare ciò che a tutti ci appare tanto ovvio, che le cose passano, che il fuoco (simbolo per eccellenza del divenire fin dai tempi di Eraclito) bruciando trasforma, divora, si trasforma.
L'identità dell'ente con se stesso è la coscienza che esiste solo negli esseri pensanti. Un pezzo di legno o di cenere non ha coscienza, non percepisce il divenire, per ciò si potrebbe dedurre che in virtù del suo non-percepire-il tempo esso sia immutabile. Ma è un ragionamento arbitrario, perché l'immutabilità del pezzo di legno o di cenere non è un attributo del pezzo di legno o cenere stesso, bensì una caratteristica che gli attribuisce quel commisto di ragione-coscienza-pensiero che è la visione umana. Anche il modello di Diogene della vita naturale dell'animale non è una cosa in sé, è la vita dell'animale vista e modificata attraverso le lenti dell'uomo. Lo stesso si può dire del buon selvaggio di Rosseau, che giudica il selvaggio con le lenti dell'uomo civilizzato. Così come spesso vengono travisati gli scrittori antichi attraverso le lenti del progresso. È il punto di osservazione che determina la coscienza e il tempo. Il mondo descritto da Severino è razionale come può esserlo un circuito stampato di un computer: è logico e razionale ma manca l'esperienza. In Severino manca il vissuto, la vita è fatta di sentimenti che prendono a schiaffi la ragione, di rimpianti, di scelte che impongono rinunce, di scommesse, di un pensiero che lotta ad oltranza per un brandello di pace, di intelligenza che cerca ospitalità in un sentimento.L'amore è eterno finchè dura... e anche l'ente è immutabile fino a quando si trasformerà. Posso percepire questo momento come immutabile, perciò esso sarà per la mia coscienza immutabile relativamente alla sua durata.
Citazione di: Sariputra il 15 Gennaio 2017, 01:11:02 AM
Ora, se un ente non appare mai, in nessun momento, identico a se stesso, come si può affermare che "è" ( ossia immutabile, permanente, duraturo, fisso, sostanziale, ecc.)?
Si può soltanto perché l'ente-logico non è l'ente-reale (quello perennemente cangiante di cui parli). La realtà e il tempo indubbiamente scorrono, ma le convenzioni (il linguaggio, la logica, le leggi in genere, etc.) conoscono invece lunghi periodi di immobilismo, di stasi, di cristallizzazione... e ciò è possibile grazie all'
astrazione, capacità di creare "nicchie formali" fuori dal tempo e dalla realtà empirica (per questo possiamo parlare di certe navi, anche se poi,
con il passare del tempo, approdiamo al problema di stabilire che navi siano, di chi siano, etc.).
Citazione di: Sariputra il 15 Gennaio 2017, 01:11:02 AMNon sarebbe più logico, semplice e intuitivo dire che "esiste nel divenire", o per meglio dire che "diviene esistendo"?
Già, ma
chi "diviene esistendo"? Bisogna pur usare un soggetto logico-grammaticale, e l'unico plausibile è una pseudo-identità-stabile: "Sari diviene esistendo", ma cosa si intende con "Sari"? Un ente... un ente immutabile? Si, un ente immutabile
per la logica, eppure allo stesso tempo, no, perché è un ente che
in realtà muta istante dopo istante (è mutato al punto da passare da utente pre-storico a utente "storico" ;D )
Tutto scorre, è vero, ma purtroppo non abbiamo una ragione-logica che sappia assecondarne
in tempo reale il flusso, per cui il modo più semplice di
parlarne (ma non di
viverlo) e fare finta che ci siano identità durature...
Citazione di: cvc il 15 Gennaio 2017, 12:12:59 PM
Il mondo descritto da Severino è razionale come può esserlo un circuito stampato di un computer: è logico e razionale ma manca l'esperienza. In Severino manca il vissuto
Infatti se colleghiamo quel circuito al
flusso della corrente (temporale), va in cortocircuito e fa scattare subito il "salva-vita" (quel dispositivo di ragione che tutela la vita in quanto vissuto), anche se il buon Severino interpreta i segnali di fumo dei contatti bruciati (dal flusso vitale) con categorie mistico-estetiche...
ovviamente scherzo, che i severiniani non mi prendano troppo sul serio ;)
Sariputra,
eppure c'è qualcosa di buddhistico nella filosofia con la logica dialettica di Severino.
Il mondo delle apparenze, dei fenomeni nel divenire che ci portano piacere e dolore è "maya" tanto più pensiamo che siano verità a cui attaccarci.
L'"occhio" severiniano è logico dialettico e vede il mondo del divenire che ci portano le apparenze degli enti come il momento contraddittorio fra logica e divenire.
La contraddizione è più delle scienze che della filosofia dialettica severiniana.
Perchè le leggi delle scienze sono comunque un trascendere il fenomeno, un astrarlo dal mondo fisico per ricondurlo al linguaggio logico-matematico di una legge costruita con regole matematiche di un'equazione.
Ora se la verità del mondo fenomenico è ricondotta al procedimento logico matematico affinchè venga giustificato un criterio di verità dentro un dominio, non vedo quale sia il problema esistenziale, se non che ogni apparenza, come ogni fenomeno, noi lo riconduciamo al "nostro" personale filtro logico -razionale che ci siamo costruiti o che le convenzioni educative ci hanno imposto..
Noi stessi, per qualunque cosa noi pensiamo o crediamo, abbiamo dei paradigmi più o meno logici, che costruiscono il metodo di giustificazione e di verificazione di qualunque argomento ,dal metafisico al mondano.
Allora vuol dire che abbiamo degli "immutabili" che pensiamo logico-razionali ,come punti di riferimento .
Il sistema logico-razionale dialettico è basato sul confronto, dove l'"occhio" logico non è più personale e soggettivo, essendo dato da regole logiche razionali, le stesse utilizzate dalle scienze contemporanee.
La legge è che essendo il paradigma identità eterno e immutabile, tutto ciò che non lo è entra nella negazione contraddittoria di quel paradigma.
Invertire il procedimento logico, sarebbe accettare la contraddizione come verità.
Il mio modesto e personale punto di vista è proprio l'accettare logicamente che la nostra esistenza sia contraddittoria. e dare un significato linguistico, esistenziale,al paradigma logico di identità su cui poggia il sistema logico dialettico severiniano
Citazione di: Phil il 15 Gennaio 2017, 12:49:24 PM
Citazione di: Sariputra il 15 Gennaio 2017, 01:11:02 AMOra, se un ente non appare mai, in nessun momento, identico a se stesso, come si può affermare che "è" ( ossia immutabile, permanente, duraturo, fisso, sostanziale, ecc.)?
Si può soltanto perché l'ente-logico non è l'ente-reale (quello perennemente cangiante di cui parli). La realtà e il tempo indubbiamente scorrono, ma le convenzioni (il linguaggio, la logica, le leggi in genere, etc.) conoscono invece lunghi periodi di immobilismo, di stasi, di cristallizzazione... e ciò è possibile grazie all'astrazione, capacità di creare "nicchie formali" fuori dal tempo e dalla realtà empirica (per questo possiamo parlare di certe navi, anche se poi, con il passare del tempo, approdiamo al problema di stabilire che navi siano, di chi siano, etc.).
Citazione di: Sariputra il 15 Gennaio 2017, 01:11:02 AMNon sarebbe più logico, semplice e intuitivo dire che "esiste nel divenire", o per meglio dire che "diviene esistendo"?
Già, ma chi "diviene esistendo"? Bisogna pur usare un soggetto logico-grammaticale, e l'unico plausibile è una pseudo-identità-stabile: "Sari diviene esistendo", ma cosa si intende con "Sari"? Un ente... un ente immutabile? Si, un ente immutabile per la logica, eppure allo stesso tempo, no, perché è un ente che in realtà muta istante dopo istante (è mutato al punto da passare da utente pre-storico a utente "storico" ;D ) Tutto scorre, è vero, ma purtroppo non abbiamo una ragione-logica che sappia assecondarne in tempo reale il flusso, per cui il modo più semplice di parlarne (ma non di viverlo) e fare finta che ci siano identità durature...
Citazione di: cvc il 15 Gennaio 2017, 12:12:59 PMIl mondo descritto da Severino è razionale come può esserlo un circuito stampato di un computer: è logico e razionale ma manca l'esperienza. In Severino manca il vissuto
Infatti se colleghiamo quel circuito al flusso della corrente (temporale), va in cortocircuito e fa scattare subito il "salva-vita" (quel dispositivo di ragione che tutela la vita in quanto vissuto), anche se il buon Severino interpreta i segnali di fumo dei contatti bruciati (dal flusso vitale) con categorie mistico-estetiche... ovviamente scherzo, che i severiniani non mi prendano troppo sul serio ;)
"Panta rei", tutto scorre e lo scorrere è inafferrabile dalla logica, se non per l'appunto"fissandolo"con la ragione in un
è che assomiglia ad un artificio. Un artificio però necessario per
essere ( come
esseri umani) e funzionare nello scorrere senza tregua del divenire ( che è tempo). L'ente-logico non è mai l'ente-reale, come scrivi , e perciò si generano "mostri" che hanno una realtà/necessità formale ma che sono inesistenti nel reale ( certo si può obiettare che il reale è "anche" generare con il pensiero delle pseudo-realtà necessarie, ma questo non cambia il fatto che siano pseudo...perché con il pensiero possiamo pure generare enti inesistenti, per esempio il drago che svolazza sopra la testa di Apeiron a Padova...o infinti enti immutabili come Severino).
Non è forse, mi chiedo, perché abbiamo una sensazione di "continuità" del soggetto che sperimenta il "panta rei" che abbiamo la necessità di definirlo come "è" ? Ma siamo sicuri che questa sensazione di continuità esista veramente?
@ Paul11
Mi è veramente difficile fare un confronto tra il pensiero di Severino e la filosofia buddhista ( anzi le filosofie buddhiste, ché ci sono parecchie sfumature diverse tra una scuola e l'altra...) perché tutto quel che conosco di Severino è quello che ho letto su questo forum. Non sarebbe quindi molto serio da parte mia avventurarmi in questo paragone. Così "a pelle", e dal quel che avete scritto, direi che siamo invece su un piano diametralmente opposto. Essendo uno un pensatore che verrebbe presumibilmente definito come svabhava ( ossia teorizzatore di entità-sostanza) e il buddhismo negatore di qualunque sostanza o ente indipendente e sostenitore dell'interdipendenza e della fluidità del divenire. Ma è proprio solamente una sensazione "a pelle", prendetela per quello che è...
Ovviamente prendete pure con le dovute molle anche la mia interpretazione della filosofia buddhista che deve considerarsi come " la filosofia buddhista vista dal Sari" ( il quale , purtroppo, non è certo un Buddha...). D'altronde ogni cosa è vista solo dal nostro punto di vista.... :)
A mio giudizio il concetto di ente è legato a quello di identità in modo insicindibile. Motivo per cui per stabilire se un ente è un ente bisogna saperlo distinguere. In occidente siamo convinti (seguendo Aristotele e Platone) che noi uomini siamo enti, ma lo sono anche gli alberi, il Pianeta Terra e le montagne. E lo sono anche gli atomi, le galassie e gli elettroni. Eppure non appena indaghiamo con più sensatezza la realtà ci accorgiamo che l'ente "albero" e l'ente "Terra" non sono separati. Basta questo per buttare all'aria un millennio e mezzo di filosofia. Quando si è capito ciò si capisce che nel mondo materiale, a parte forse le particelle elementari, nulla ha una vera identità. Ossia tutto è vuoto di "atman" per dirla in modo indiano. Rimane da vedere "enti" come ad esempio l'uomo che è auto-cosciente. Un cristiano direbbe che l'uomo ha uno spirito e ciò gli conferisce la sua identità, gli animali hanno il "soffio vitale" e quindi sono anche loro enti. Le "cose" invece non possedendo identità non sono enti.
Taoismo, buddismo e Adviata Vedanta invece negano che anche noi siamo "enti separati". L'Adviata Vedanta asserisce che c'è solo un Ente, Brahman che possiede Atman, cioè identità. Il buddismo (almeno la Madhyamaka cioè la scuola più vicina a Sariputra - il Nibbana dei Teravada sinceramente mi sembra tanto simile al Nirguna dell'Adviata) nega che si possa trovare un Ente. Il Taoismo sinceramente non l'ho ancora capito ma più lo analizzo più mi sembra vicino al buddismo. Spinoza concordo più o meno con l'Advaita. Leibniz è un pluralista, cioè ci sono più enti o atman. Parmenide similmente all'Advaita dice che c'è solo un Ente ma fece l'infelice identifazione "Essere è un ente" che ha portato a millenni di fraintendimenti, dispute e insensatezze.
Detto questo Sariputra se per "atman" intendi identità allora per la filosofia occidentale "ente=atman". Prova con questo criterio e usalo nello studio degli "occidentali". D'altronde per dire "questo è" bisogna che "questo" abbia un'identità. Quindi l'ente è tutto ciò che ha identità.
Con questo vorrei quindi che prima di parlare di enti si chiarisse la definizione di parola. Io l'ho appena data e mi sembra "ovvia". Se non chiariamo i significati delle parole, allora cadiamo nell'equivoco.
P.S. Lo spirito è "postulato" per le religioni e filosofie che lo prevedono perchè appunto non c'è veramente nulla che in noi possiamo dire con certezza che sia distinto dal "mondo esterno".
La nozione di "ente" credo meriti una centralità e una fondamentalità filosofica nel suo intenderla distintamente dal concetto di realtà, o di esistenza. Cioè per "ente" andrebbe inteso tutto ciò che di cui è possibile predicare qualcosa, qualcosa che renda l'ente, appunto, una vera sostantivizzazione dell'Essere, cioè un "non nulla". L'unicorno non esiste ma è un ente, è pur sempre qualcosa di cui posso dire, pensare, giudicare qualcosa, oggetto di una potenziale intuizione. L'ente è l' "intuibile", e ciò in virtù della struttura intenzionale del pensiero, che è sempre pensiero "di qualcosa" La distinzione tra "essere" e "reale" segna l'eccedenza del pensiero nei confronti della fattualità mondana, in quanto la pensabilità (intesa come intuizione) di ciò che rientra nell'Essere, i cui limiti non coincidono con i limiti del reale permette all'uomo l'accesso all'esperienza di cose non attualmente esistenti tramite l'immaginazione. E come è evidente, è proprio l'immaginazione che costituisce il carattere di libertà e creatività della persona: immaginando oggetti, situazioni non attualmente presenti, l'uomo elabora ipotesi scientifiche, progetta creazioni artistiche, teorizza programmi di rinnovamento politico, sociale, economico. In pratica, la distinzione del piano ente-Essere rispetto al piano della-realtà-fattualità è il presupposto ontologico della condizione dell'uomo come soggetto culturale
Per il livello più strettamente filosofico, mi viene da dire che l'intenzionalità che determina l'"horror vacui", il rigetto del Nulla da parte del pensiero, il fatto che il pensiero miri sempre a "riempirsi" di una presenza oggettiva, che sia attuale o solo potenziale, fa sì che ogni atto di pensiero presupponga l'intuizione fondamentale dell'idea dell'Essere. Per pensare qualcosa, per predicare categorie, giudicare, occorre utilizzare le nozioni di "essere", e di "ente", altrimenti l'oggetto del nostro pensiero sarebbe un "niente" assoluto, quindi qualcosa di impossibile da concettualizzare, verso cui poter attribuire significati. La presenza dell'idea dell'Essere al nostro pensiero è una presenza originaria, universalmente e necessariamente oggettivata, possiamo pensare al di fuori della realtà, non dell'essere. La presenza dell'Essere al pensiero, sotto forma di idea attiene cioè al livello trascendentale, non empirico, è necessariamente correlata alla struttura intenzionale che costituisce il pensiero in modo essenziale. La domanda che si apre, individuare l'origine di tale presenza, dell'Idea dell'essere come contenuto intuitivamente presente al pensiero, domanda di natura metafisica e teologica, finisce col coincidere con la domanda sull'origine, sul perché fondamentale dell'esistenza di una soggettività pensante generalmente intesa. La risposta a tale questione apre alla filosofia uno spazio ben distinto non confondibile con il piano verso cui la soggettività e la coscienza vengono considerate dai sapere empirici sperimentali, antropologia, sociologia, linguistica, neuroscienze ecc. Interrogarsi sulla natura dell'ente e dell'essere vuol dire considerare la struttura universale, trascendentale (trascendentale qui inteso in senso diverso da come poteva intenderlo Kant), del pensiero, una considerazione che trascende qualunque altra che studi il pensiero all'interno di un particolare contesto storico, spaziotemporale, relativo alla specifica natura del soggetto pensante, trascende cioè ogni punto di vista empirico, perché se l' Essere trascende la fattualità reale, allora lo studio dell'Essere non può strutturarsi come metodologia empirica, adeguata solo a ciò che si darebbe in un certo hic et nunc, ma come sapere eidetico, universalistico, vale a dire filosofico. La trascendenza dell'Essere sulla realtà coincide con la trascendenza e l'autonomia della filosofia rispetto a tutte le altre scienze. La rinuncia della possibilità di una speculazione razionale sull'ente, e sull'Essere non sarebbe solo la fine dell'ontologia, ma la fine della filosofia tout court come sapere portatore di un senso peculiare
Citazione di: Apeiron il 15 Gennaio 2017, 17:19:16 PM
Detto questo Sariputra se per "atman" intendi identità allora per la filosofia occidentale "ente=atman". Prova con questo criterio e usalo nello studio degli "occidentali". D'altronde per dire "questo è" bisogna che "questo" abbia un'identità. Quindi l'ente è tutto ciò che ha identità.
Come ricordato in precedenza, per l'Occidente anche un'idea è un ente (di pensiero, astratto, ma pur sempre ente); l'identificazione di enti puramente concettuali è compatibile con "ente=
atman"? L'
atman può essere solo un'astrazione logica? Credo di no, ma non sono sufficientemente pratico d'Oriente per rispondere...
Citazione di: Apeiron il 15 Gennaio 2017, 17:19:16 PM
Con questo vorrei quindi che prima di parlare di enti si chiarisse la definizione di parola. Io l'ho appena data e mi sembra "ovvia". Se non chiariamo i significati delle parole, allora cadiamo nell'equivoco.
C'ho provato ;)
Citazione di: Phil il 13 Gennaio 2017, 13:19:24 PM
In generale, l'ente è un "qualcosa che è", ovvero una qualunque identità di cui si può predicare qualcosa [...] sui problemi dell'identificazione e della predicazione si è già discusso parlando di navi in manutenzione
Citazione di: Phil il 13 Gennaio 2017, 22:49:41 PM
radicalizzando, potremmo dire che l'ente è il soggetto grammaticale di ogni proposizione. Questo spiegherebbe perchè si può parlare anche del "non-essere", del "niente" e del "nulla", in modo perfettamente logico e coerente
P.s.
Citazione di: davintro il 15 Gennaio 2017, 18:02:50 PM
sapere eidetico, universalistico, vale a dire filosofico. La trascendenza dell'Essere sulla realtà coincide con la trascendenza e l'autonomia della filosofia rispetto a tutte le altre scienze. La rinuncia della possibilità di una speculazione razionale sull'ente, e sull'Essere non sarebbe solo la fine dell'ontologia, ma la fine della filosofia tout court come sapere portatore di un senso peculiare
Forse la fine della ontologia e della metafisica trascendentalista non è la fine della filosofia, ma un suo sviluppo ("evoluzione" sarebbe termine adeguato?) che consente alla filosofia di dialogare
meglio con le altre discipline... il "senso peculiare" della filosofia, dopo il '900, non credo possa più essere "la ricerca dei principi primi" o "la fondazione del vero" o "l'indagine dell'essere"; se è una disciplina viva, deve adattarsi (darwinianamente ;D ) al cambiamento del suo
habitat (lo scibile
umano), altrimenti resterà "antiquata" (e "antiquaria" come diceva un baffuto filosofo tedesco...).
@Phil tu hai chiarito molto bene il concetto di "ente" e anzi qui in questo forum in generale lo si fa. La mia era più che altro un'esortazione "in generale" e non l'ho rivolta a nessuno in particolare. Detto questo anche nel caso di un concetto, affinchè esso sia un "ente" deve avere un'identità propria deve essere in sostanza "qualcosa" - ossia la sua identità (NON la sua esistenza ma la sua identità!) non deve dipendere da altro. Per un buddhista madhyamaka un concetto è un prodotto dell'"aggregato" intelletto e perciò non ha né esistenza né identità (atman) indipendente e perciò è soggetto al mutamento (da cui il trio anitya-dukkha-anatman). Platone non era d'accordo e invece pensava che i concetti avessere "identità propria" e li piazzò nell'Iper-uranio. Per chi crede nell'esistenza dello spirito individuale l'atman è lo spirito, ossia il "tuo io", cioè la tua identità è lì. Chiaramente se uno crede di essere stato creato da Dio non c'è indipendenza esistenziale ma solo di "identità".
Per un advaitin esiste solo Nirguna Brahman in quanto tutto il mondo fenomenico è interdipendente e quindi non puoi trovare "essenze", "atman" in esso. La differenza col buddismo è appunto che per l'Advaitin c'è un Ente/Atman per il buddista no. Quindi per questi filosofi indiani (ossia Advaita e Buddismo) indipendenza nell'identità=indipendenza nell'esistenza, ergo siccome tutti i fenomeni sono interdipendenti nei fenomeni non troverai mai un "ente", un' "essenza" e un "atman".
@davidintro (ma è rivolto un po' a tutti) in genere per la filosofia occidentale l'esistenza dei concetti è assicurata per la loro indipendenza "di identità" viceversa un buddhista o un advaitin ti direbbe che i concetti stessi sono "creazioni" della mente e perciò anch'essi hanno un'esistenza dipendente e quindi in realtà sono "falsi enti". Per loro io, te, il PC su cui scrivo, il pianeta Terra, la Via Lattea e l'atomo di idrogeno, le teorie della fisica, le opere d'arte sono tutti "enti apparenti", siamo noi nel nostro stato di "ignoranza" (avidya) a ritenere che abbiano un'identità (atman). La Liberazione si ottiene appunto quando si cessa di ritenere che cose senza identità abbiano identità e nel caso dell'Advaita scopri Brahman, unico vero Atman, nel caso del Buddismo scopri il Nirvana, l'assenza di identità. In occidente tutto ciò è una sorta di "bestemmia": ma come i concetti non sono indipendenti da noi? "2+2=4" per tutti no? In sostanza noi tutti siamo "platonici" e crediamo nell'esistenza degli enti e finiamo a volte per etichettare troppo, loro invece ritengono che proprio questa tendenza a dare etichette e nomi è l'Errore. Tant'è che Maya (l'inganno "illusionistico") per l'Advaita ci fa credere di trovare il suo "atman" "in questo mondo" mentre Mara (il Re di questo mondo della morte, dell'esistenza condizionata, del samsara, figura che trovo simile al "nostro" diavolo...) cerca di distoglie il buddista dalla pratica per farlo "morire" nella perdizione dell'illusione, facendogli credere di trovare il suo "atman" nel mondo.
Per me sinceramente sbagliano entrambi ma di questo parlerò un'altra volta e porterò la mia personale opinione sul merito! Volevo però darvi una panoramica sugli "estremi" di questo tema...
Citazione di: Sariputra il 15 Gennaio 2017, 01:11:02 AM
Allora, se si dice che non c'è divenire dell'ente, perché quando osservo una foto dell'ente Sari giovane e con un rigoglioso ciuffo e la confronto con quella dello stesso ente Sari attuale, non trovo alcuna rassomiglianza; così che si potrebbe dire , senza essere smentiti da un'estraneo a cui si mostrassero le due foto, che si tratta di due enti diversi?
Infatti, sono due enti diversi, proprio per quello che mostrano di sé, uno ha il ciuffo, l'altro no. Dire "il mio" non significa riferirsi a un io che rimane identico con o senza ciuffo. Il "mio" è solo un modo di apparire di un presente che adesso e solo adesso definisce un io: tutto quello che appare adesso mio sono io, anche il ricordo di un ciuffo sulla "mia" fronte.
Concordo comunque con Paul11, in realtà c'è qualcosa di "buddistico" nella visione di Severino. Alla fine cos'è l'assoluta permanenza logica dell'essente che è se non proprio l'assoluta non permanenza fenomenologica dell'esistente che tenta all'infinito di dire di se stesso cos'è a mezzo di un "non" che lo lega a ogni altro? Certo qui tutto è giocato sugli enti, ma in fondo l'ente mon è altro che una tautologia di cui nulla si può dire se non attraverso la fenomenologia, mai totale, mai definitiva o conclusa del suo concreto apparire in cui solo può manifestarsi.
Citazione di: sgiombo il 15 Gennaio 2017, 10:56:12 AMSe le parole in lingua italiana (non in "severinese", che non conosco e non ho alcun interesse ad imparare) hanno un senso, allora, se dicessi che un pezzo di legno segato dal ramo di un albero ieri e bruciato nel camino oggi ieri era cenere e fumo mi contraddirei, ma se dico che oggi è diventato cenere e fumo non mi contraddico affatto (lo farei casomai se dicessi " a la Severino" che oltre a diventare cenere e fumo oggi, dopo la combustione, inoltre è -continua ad essere- anche un pezzo di legno).
Sgiombo, per pensare di non contraddirti nel dire che il legno di ieri è diventato la cenere di oggi, hai bisogno di pensare che c'è un ieri (con tutto quello che contiene, proprio di quel ieri) che è diventato oggi (con tutto quello che contiene) ossia che quel "ieri", pur non essendo assolutamente ieri e non oggi, ora continua in "oggi", è oggi. Altrimenti non puoi dire che ieri diventa oggi. Ieri e oggi sono esattamente il legno e la cenere, tutto quello che fai è solo cambiare il nome con cui li identifichi.
Citazione"svolgersi" è sinonimo di "divenire", "mutare"
Non se quello svolgersi è svolgersi dell'Apparire e non (come nel significato del Divenire) dell'Essere. L'Essere (o meglio, ogni Essente) non può svolgersi in alcun modo, è.
CitazionePegaso é solo un concetto, con una connotazione arbitrariamente stabilita e basta, senza alcuna denotazione reale.
Non ci sono né concetti (significati) puri (tranne forse il "niente") né cose pure, ma solo significati e cose insieme. Vale anche per Bigio, che non è quella cosa, ma quella cosa che si può, a differenza di Pegaso, vedere e toccare e che significa: "Bigio, il cavallo di mio nonno", mentre Pegaso è il significato di qualcosa che, come tale, non si può né vedere né toccare, ma pensare e immaginare (ossia che produce pensieri e immagini con tutte le realissime conseguenze che da queste conseguono). Aggiungo che il nome-concetto-significato riassunti (che non è la cosa) prende il posto della cosa, se c'è il nome la cosa non c'è, essa appare solo nel suo nome, nel suo farsi concetto e significato che la evocano.
Citazione di: cvc il 15 Gennaio 2017, 12:12:59 PMMa è un ragionamento arbitrario, perché l'immutabilità del pezzo di legno o di cenere non è un attributo del pezzo di legno o cenere stesso, bensì una caratteristica che gli attribuisce quel commisto di ragione-coscienza-pensiero che è la visione umana.
Sì certo, ma cos'è che non è nella coscienza umana? Il mutamento forse? A me pare di no e mi pare che anche il tuo discorso (come i miei discorsi e quelli di Severino) rientri nel punto di vista della coscienza/conoscenza umana. In quale altra forma di conoscenza potrebbe mai trovarsi?
Come quasi sempre mi trovo d'accordo con Davintro. Così come la definizione data da Donquixote è sinteticamente esatta
L'unica cosa su cui forse trovo una differenza è quel nulla, niente,
Esiste il nulla e il niente in quanto sono predicabili anche se lo fossero solo come contraddizioni.
Sono comunque problematizzate nella filosofia,come l'oblio, come la morte,
L'ente niente è un insieme vuoto, ma esiste come ragionamento, come zero.
Non voglio quì, visto che forse l'ho introdotto, una polemica fra buddismo e fiosofia e nello specifico severinana.
si parla di enti come anima/atman come se non fossero predicati delal razionalità prima di tutto umana.
Come se Buddha non fosse esistito come ente con una autocoscienza in grado di razionalizzare il mondo fenomenico e di spingersi fino al Nirvana,
Ma quello a cui miravao è che se il soggetto Buddha razionalizza la sua esperienza raggiungendo un fine,come appunto il nirvana, a suo modo categorizza tutti gl ienti esistenti nel mondo e non solo, quindi decide quale e come conoscere come Sè(o atman/anima, o autocoscienza, o ....).
Questo procedimento in Severino non è un soggetto che lo compie è la logica dialettica stessa che relaziona il principio di identità cone la manifestazione delle apparenze infinite ne l mondo.
Il movimento epistemologcio, quindi della conoscenza, è il confronto fra il Sè (la logica severiniana) e i fenomeni.gli essenti, e per essenti si intendono non solo il dominio naturale, ma anche quello culturale dei pensieri dei costrutti umani.
Il Nirvana appartiene al dominio naturale fenomenico? E' un divenire o assoluto ed eterno?
Non è vero, come per le religioni, che le origini filosofiche siano così lontane fra oriente e occidente, semmai sono svolte in maniera diversa.
Erodoto racconta che Democrito, il filosofo dell'atomos nel suo peregrinare, venne a conoscenza del sillogismo utilizzato in oriente, prima che fosse filosoficizzato e predicato nella logica aristotelica. o proposizionale. degli stoici.
Solo che i Greci alla fine soprattutto con i la scuola peripatetica o aristotelica, influirà sul modo di fare filosofia per un millennio,, dove personalmente trovo che sua caratteristica è che l'episteme viene cercato nelle differenze,nella separazione.
@Paul11
La critica dialettica portata dal pensiero buddhista al concetto di ente è radicale. Ci si spinge persino a negare il Nirvana stesso come ente ( come se un sistema teistico affermasse che Dio è anche non-essere).
"Tutti gli asceti e i bramini che concepiscono le molteplici ( cose o idee) come un sé, concepiscono i cinque aggregati, o uno qualsiasi di essi,(come un sé). Samyutta nikaya, 22:47
Se il Nirvana, invece che essere realizzato , viene solo pensato è irreale.
Questa affermazione del Buddha dice chiaramente che tutte le molteplici concezioni di un sé sono sempre relative ai cinque aggregati, nel loro insieme oppure considerati separatamente. Come potrebbe formarsi una qualsiasi idea di un sé o di una personalità, se non in base al materiale costituito dai cinque aggragati (contatto, sensazione, percezione, formazioni mentali e coscienza) e ad un fraintendimento al loro riguardo? Su che altro potrebbero essere fondate le nozioni riguardo al sé? Inoltre viene detto:
"Se ci sono il corpo, le sensazioni, le percezioni, le formazioni mentali e la coscienza, a causa di essi e dipendentemente da essi si manifesta la credenza nell'individualità e lo speculare relativo ad un sé!" (s.N. 22)
Se il Nirvana buddhista non è un concetto ( e non lo è) cosa e chi lo realizza? La pratica meditativa e la retta condotta di vita lo realizza e viene realizzato dalla mente priva dell'idea di un sé , o individualità eterna, immutabile, permanente, duratura, ecc. Anche Buddha stesso iniziava i suoi discorsi con "Io dico...ecc." ma è chiara la distinzione e la consapevolezza che questo Io è solo necessario per...e non è dotato di esistenza indipendente (cioè come ente in sé stesso fondato, ma solo come ente esistente in modo dipendente).
A mio parere, da quel poco che ho capito, Severino tenta di conciliare con la logica ciò che non è conciliabile. Lo fa "spezzettando" il fluire in infiniti enti eterni, forse pensando di salvare capra e cavoli in questo modo, cioè di dimostrare la possibilità dell'apparire del divenire salvando la concezione di ente in se stesso indipendente. La concezione filosofica buddhista dell'interdipendenza di ogni cosa ( sia reale che mentale) e l'enfasi posta sull'esperienza meditativa dell'impermanenza mi sembrano negare questa visione di Severino. In ultima analisi a me pare che la visione di Severino manchi di necessità, soprattutto perché viene a mancare la definizione di che cosa sono questi enti eterni.
Alcuni affermano che il Buddha voleva negare solamente l'esistenza di un sè separato e che non ha negato in nessun discorso l'esistenza di un sé ( ente) trascendente.
A questi risponde "La parabola del serpente":
"Se, o monaci, esiste un sé, ci sarà anche ciò che appartiene al sé?". "Sì, o Signore"." Se c'è ciò che appartiene al sé, ci sarà anche un me stesso?". "Sì, o Signore". ""Ma poiché non si possono veramente trovare né un sé né ciò che appartiene a un sé, non è forse una dottrina perfettamente assurda quella che dice:'Questo è il mondo, questo è il sé. Dopo la morte io resterò, durevolmente, eternamente, immutabilmente, e permarrò in un'eterna identità'?." E' davvero, o Signore, una dottrina perfettamente assurda".
Per restare lontano da ogni estremo, sia della concezione di essere che di quella di non-essere, vediamo che l'elemento Nirvana viene descritto a volte con termini positivi e altre con termini negativi. Positivi: il profondo, il vero, il puro, il meraviglioso, ecc.
Negativi: la distruzione del desiderio, dell'odio e dell'ignoranza, la cessazione dell'esistenza.
Se si vuol comprendere in maniera più possibile corretta la concezione buddhista del Nirvana, diventa necessario prendere in considerazione entrambi i tipi di definizioni. Il citarne uno solo risulta una interpretazione non equilibrata.
Però , e questo è il cardine della via mediana insegnata, non viene negato solo il concetto di esistente ma anche il concetto di non-esistente ( e per questo non può essere definito un nichilismo). Il reale è oltre il pensare in termini di esistente/non-esistente. Cito, sempre per dare più "importanza" e apparire dotto... ;D:
Per colui che considera secondo la realtà e con vera saggezza l'originarsi del (e nel) mondo, non cé quella che nel mondo è chiamata 'non-esistenza'. Per colui che considera secondo la realtà e con vera saggezza il cessare del ( e nel) mondo non c'é quella che nel mondo è chiamata 'esistenza' ( notare il termine chiamata...).S.N. 12:15
Citazione di: maral il 15 Gennaio 2017, 21:19:38 PM
CitazionePegaso é solo un concetto, con una connotazione arbitrariamente stabilita e basta, senza alcuna denotazione reale.
Non ci sono né concetti (significati) puri (tranne forse il "niente") né cose pure, ma solo significati e cose insieme. Vale anche per Bigio, che non è quella cosa, ma quella cosa che si può, a differenza di Pegaso, vedere e toccare e che significa: "Bigio, il cavallo di mio nonno", mentre Pegaso è il significato di qualcosa che, come tale, non si può né vedere né toccare, ma pensare e immaginare (ossia che produce pensieri e immagini con tutte le realissime conseguenze che da queste conseguono). Aggiungo che il nome-concetto-significato riassunti (che non è la cosa) prende il posto della cosa, se c'è il nome la cosa non c'è, essa appare solo nel suo nome, nel suo farsi concetto e significato che la evocano.
CitazioneIl senso (connotazione) del concetto di "ippogrifo Pegaso" é reale unicamente nei pensieri di chi lo pensa; invece nel caso del cavallo Bigio, oltre alla connotazione del concetto di "cavallo Bigio" nei pensieri di chi lo pensa, c'é realmente anche la sua denotazione, che é un quadrupede reale, che qualcuno ci pensi o meno.
C' é una bella differenza: anche se é vero che i pensieri di cose non reali (vedi gli dei delle religioni, soprattutto monoteiìste) o non ancora reali (vedi il comunismo) possono avere e hanno spesso di fatto conseguenze reali, Pegaso non potrà mai darmi un sonoro calcione, mentre Bigio sì, e quindo devo stare molto più attento a Bigio che a Pegaso).
Ed é del tutto ragionevole pensare che esistano o per lo meno siano esistiti realmente in passato tantissimi cavalli selvaggi mai visti da alcun uomo (contrariamente a Bigio) e dunque mai pensati, mai concettualizzati (non sono mai esistiti i relativi nomi-concetti-significati-riassunti): essi apparivano nell' esperienza di tanti altri animali non umani, fra cui sicuramente quella di predatori che ne hanno realissimamente divorati parecchi) o di più piccoli animali che ne hanno realissimamente ricevuto sonori calcioni, malgrado non fossero in grado di dare loro un nome, elaborarne un concetto, pensarli linguisticamente).
E contrariamente agli ipppogrifi i quali solo nella fantasia e non affatto realmente possono portare cavalieri sulla luna o altrove, dare calcioni, essere divorati, ecc..
Citazione di: Sariputra il 16 Gennaio 2017, 10:12:27 AM
@Paul11
La critica dialettica portata dal pensiero buddhista al concetto di ente è radicale. Ci si spinge persino a negare il Nirvana stesso come ente ( come se un sistema teistico affermasse che Dio è anche non-essere).
"Tutti gli asceti e i bramini che concepiscono le molteplici ( cose o idee) come un sé, concepiscono i cinque aggregati, o uno qualsiasi di essi,(come un sé). Samyutta nikaya, 22:47
Se il Nirvana, invece che essere realizzato , viene solo pensato è irreale.
Questa affermazione del Buddha dice chiaramente che tutte le molteplici concezioni di un sé sono sempre relative ai cinque aggregati, nel loro insieme oppure considerati separatamente. Come potrebbe formarsi una qualsiasi idea di un sé o di una personalità, se non in base al materiale costituito dai cinque aggragati (contatto, sensazione, percezione, formazioni mentali e coscienza) e ad un fraintendimento al loro riguardo? Su che altro potrebbero essere fondate le nozioni riguardo al sé? Inoltre viene detto:
"Se ci sono il corpo, le sensazioni, le percezioni, le formazioni mentali e la coscienza, a causa di essi e dipendentemente da essi si manifesta la credenza nell'individualità e lo speculare relativo ad un sé!" (s.N. 22)
Se il Nirvana buddhista non è un concetto ( e non lo è) cosa e chi lo realizza? La pratica meditativa e la retta condotta di vita lo realizza e viene realizzato dalla mente priva dell'idea di un sé , o individualità eterna, immutabile, permanente, duratura, ecc. Anche Buddha stesso iniziava i suoi discorsi con "Io dico...ecc." ma è chiara la distinzione e la consapevolezza che questo Io è solo necessario per...e non è dotato di esistenza indipendente (cioè come ente in sé stesso fondato, ma solo come ente esistente in modo dipendente).
A mio parere, da quel poco che ho capito, Severino tenta di conciliare con la logica ciò che non è conciliabile. Lo fa "spezzettando" il fluire in infiniti enti eterni, forse pensando di salvare capra e cavoli in questo modo, cioè di dimostrare la possibilità dell'apparire del divenire salvando la concezione di ente in se stesso indipendente. La concezione filosofica buddhista dell'interdipendenza di ogni cosa ( sia reale che mentale) e l'enfasi posta sull'esperienza meditativa dell'impermanenza mi sembrano negare questa visione di Severino. In ultima analisi a me pare che la visione di Severino manchi di necessità, soprattutto perché viene a mancare la definizione di che cosa sono questi enti eterni.
Alcuni affermano che il Buddha voleva negare solamente l'esistenza di un sè separato e che non ha negato in nessun discorso l'esistenza di un sé ( ente) trascendente.
A questi risponde "La parabola del serpente":
"Se, o monaci, esiste un sé, ci sarà anche ciò che appartiene al sé?". "Sì, o Signore"." Se c'è ciò che appartiene al sé, ci sarà anche un me stesso?". "Sì, o Signore". ""Ma poiché non si possono veramente trovare né un sé né ciò che appartiene a un sé, non è forse una dottrina perfettamente assurda quella che dice:'Questo è il mondo, questo è il sé. Dopo la morte io resterò, durevolmente, eternamente, immutabilmente, e permarrò in un'eterna identità'?." E' davvero, o Signore, una dottrina perfettamente assurda".
Per restare lontano da ogni estremo, sia della concezione di essere che di quella di non-essere, vediamo che l'elemento Nirvana viene descritto a volte con termini positivi e altre con termini negativi. Positivi: il profondo, il vero, il puro, il meraviglioso, ecc.
Negativi: la distruzione del desiderio, dell'odio e dell'ignoranza, la cessazione dell'esistenza.
Se si vuol comprendere in maniera più possibile corretta la concezione buddhista del Nirvana, diventa necessario prendere in considerazione entrambi i tipi di definizioni. Il citarne uno solo risulta una interpretazione non equilibrata.
Però , e questo è il cardine della via mediana insegnata, non viene negato solo il concetto di esistente ma anche il concetto di non-esistente ( e per questo non può essere definito un nichilismo). Il reale è oltre il pensare in termini di esistente/non-esistente. Cito, sempre per dare più "importanza" e apparire dotto... ;D:
Per colui che considera secondo la realtà e con vera saggezza l'originarsi del (e nel) mondo, non cé quella che nel mondo è chiamata 'non-esistenza'. Per colui che considera secondo la realtà e con vera saggezza il cessare del ( e nel) mondo non c'é quella che nel mondo è chiamata 'esistenza' ( notare il termine chiamata...).S.N. 12:15
Sariputra,
non sto affermando che la logica dialettica di Severino è uguale al pensiero buddhista.
Semmai affermo che alcuni procedimenti, ma semplicemente perchè tutti siamo umani, sono simili.
Se il Nirvana è come può anche non essere?
Se un ente è come fa anche a non essere?
Come può "ciò che è" sparire e diventare "ciò che non è" ?
Basta utilizzare i tempi delle predicazioni, in: è, è stato, era, fu, ecc, per risolvere il problema?
L'errore occidentale è ave dato verità alle differenze, alle separazioni riconducendole alle percezioni del cervello.
Allora anche S.Tommaso crede solo se tocca e vede.Ma non è la verità, non è l'episteme.
Persino le stesse scienze hanno modificato i valori epistemici, mutando gli enunciati, i postulati ,assiomatizzando la conoscenza.
La fiisica della relatività, la fisica della meccanica quantistica, superano il valore tautologico di verità corrispondente all'evidenza sensoriale la razionalità non è da tempo uguale all'evidenza della percezione sensoriale, e qual è lo strumento per antonomasia della razionalità se non la logica? e la logica dice altro rispetto alle percezioni.
La logica dialettica comprende le logiche predicative e proposizionali, ma non è la stessa cosa.
Basta leggersi la diattriba apparsa anche sui quotidiani, qualche anno fa,fra lo stesso Severino e docenti di logica formale.
Il Tao dello ying e yang, l'essere e il non essere, sono nella teologia negativa e nella gnosi della Pistii Sophia, sono chiaramente similitudini, non uguaglianze.
Semplicemente perchè qualunque umano di qualunque cultura appartenente, confronta per conoscere, ne vede similitudini, differenze, ecc. ma è sul cosa costruisce la gerarchi degli enti che lo distingue.
Gli aggregati a cui fai riferimento la differenza fra realtà ed astrazione sono contemplati nelle categorie e nel rapporto dialettico fra il concreto e l'astratto, quando si discute di forma e di sostanza, fino all'essenza
Dunque ogni ente secondo me per essere definito tale deve avere un'identità che non dipende da altro. Io che credo nell'esistenza di Dio lo ritengo chiaramente un ente, anzi l'Ente. Nel caso di Dio c'è anche l'indipendenza per quanto riguarda l'esistenza (ossia necessità). Tutto il resto "deriva", ossia viene "creato", da Dio e perciò l'esistenza degli eventuali altri enti dipende da Dio. Tuttavia quello che nego rispetto ad Advaita e Buddismo è che la dipendenza dell'esistenza di un qualcosa non implica che quel "qualcosa" non abbia un'identità propria. Ora se ci liberiamo dal vincolo di dover abusare la logica mi sembra più che plausibile che un ente possa essere soggetto a mutamento e cioè che la sua "identità" possa essere plasmata e costruita senza che necessariamente ciò significhi la distruzione dell'ente. Il solo fatto che io invecchio non significa che io cambio identità ogni momento ma significa semplicemente che parte integrante dell'ente che sono io sia la possibilità di cambiare. Ossia in sostanza che il mio divenire costituisca la mia entità! Perchè mai dovremmo ritenere solo le cose immutabili come "oggetti" che possiedono un'identità/atman? Il semplice motivo è che per noi un'identità è come un'idea platonica o una substantia aristotelica, ossia immutabile. Eppure il Sole è tale perchè al suo interno continuamente vengono bruciati protoni, il fuoco è tale perchè continuamente brucia il suo combustibile. La nostra essenza perciò comprende il mutamento e non lo esclude! Ora noi esseri umani possediamo l'autocoscienza e quindi secondo me siamo enti, ossia possediamo una nostra identità separata dal resto del mondo. Dire che questo è un auto-inganno (attenzione non nego l'anicca o l'impermanenza...) a mio giudizio è sbagliato perchè d'altronde la percezione di avere un "io" ci eleva rispetto al resto della "natura". Se poi questo "io" muta non significa che questo "io" sia illusorio ma invece significa che è nella sua natura cambiare.
Per quanto riguarda le idee e i concetti secondo me gli unici che possono veramente essere "enti" sono quelli matematico-logici e quelli etici. Tutti gli altri sono sicuramente invenzioni nostre: il concetto di "drago" in realtà è uno pseudo-concetto e quindi "non è un ente". A mio giudizio ciò che è chiaramente invenzione umana (ci metto anche le teorie della fisica...) sono creazioni nostre e non sono enti, anche perchè altrimenti ci sarebbe il problema della proliferazione degli enti.
In ogni caso non funziona nemmeno il discorso di eternalizzare ogni istante. Perchè se ogni "io istantaneo" è eterno allora comunque il mio "io" reale non coincide mai con questi "io" perchè appunto il mio io persiste nel tempo e in ogni caso non percepiamo mai l'istante. Dovremo ritenere che la fantomatico "istantanea" della natura sia "più reale" della natura stessa?
@paul11
Il Nirvana del buddismo madhyamaka coincide col samsara (!). Non devi considerarlo come un ente ma devi considerarlo come una "liberazione" dalla tendenza a trovare identità. Non a caso la filosofia buddista non afferma mai, il suo scopo è fare in modo di distruggere la tendenza ad identificarci, a dire "questo è il mio io". Ciò causa l'attaccamento. Per il buddista di questa scuola tutto è condizionato e quindi nulla è propriamente un "ente" (perchè non distinguono l'indipendenza dell'identità dall'indipendenza dell'esistenza...).
La scuola Theravada invece dice che "il Nirvana è la negazione del samsara" e in effetti la ritiene la Realtà "più pura", incondizionata, l'elemento "senza morte". Il loro Nirvana è Nicca (permanente) eppure viene descritto come "anatta". Tuttavia mi chiedo io: se una cosa è incondizionata, permanente ecc perchè non è un ente (atta/atman)? La scuola madhamaka semplicemente dice che non essendoci vera differenza tra nirvana e samsara il Nirvana è un semplice "stato" e non una "realtà". L'Advaita invece rifiuta questa soluzione e ti dice che c'è un Ente incondizionato, senza morte, senza nascita e questo è Brahman.
Aperion (ma comunque come al solito è rivolto a tutto il forum, per chi ha voglia di intervenire)
E' strano che avendo studiato, forse praticato tu, Sariputra il buddhismo non riuscite a riflettere su alcuni passaggi fondamentali.
Nel momento in cui io definisco un ente, lo tolgo dal "Tutto", diventa una differenza, una sottrazione.
Ogni definizione ha appellattivi e/o attributi, caratteristiche per cui quell'ente è possible sia parte di una categoria, vale a dire di un insieme di ordine superiore che raccoglie enti con caratteristiche identificative.
Noi umani siamo simili, non uguali, ognuno ha un'identità, ma siamo parte dell'insieme umanità.
Un ente, e dò ragione a Davintro, non esiste solo perchè vive fisicamente, esiste materialmente.
Nel momento in cui penso e definisco anche un'astrazione che può essere la libertà ad esempio è un ente in quanto pensato e predicabile argomentativamente. Semmai entra a far parte di una categoria di enti che ovviamente non è ad esempio le rocce.
Ma sia la scienza che la razionalità ci dicono che tutto deriva da un'energia originaria(cosmologia), o da Dio, o da chi si ritiene; insomma le differenziazioni originariamente erano un principio unitario, similmente Severino istituisce che la regola logica dell'Identità sia il paradigma fondamentale per capire la verità
Il Tutto era in quella capocchia di spillo in cui l'energia cosmologica della teoria scientifica tratteneva la materia e non esisteva ancora tempo e spazio, perchè le quattro forze, elettromagnetica, gravitazionale, nucleare forte e debole erano "trattenute",Il ragionamento non è molto diverso, direi piuttosto simile, anche per le cosmogonie praticamente di tutte le culture.
Allora gli enti via via appaiono temporalmente come energia che si condensa in massa, materia e intanto il tempo inizia metronomicamente a scandire.
La regola logica dell'identità, Dio, oserei dire anche il Nirvana per il buddhista , sono le verità fondamentali originarie sono lor la pietra di paragone, il paradigma che decide il movimento della conoscenza fra le contraddizioni.Per il credente in Dio potrebbe essere il "male" la contraddizione, per la regola identitaria ,tutto ciò che è contraddittorio nella forma logica, per il Nirvana, l'attaccamento alle apparenze.
Non so se riesco a spiegarmi, ogni forma conoscitiva è come se costruisse un suo dominio ,come la matematica, con delle sue regole, sappiamo che 0/1 è impossibile e 1/0 è indeterminato ad esempio, ma così per ogni forma che attraverso delel sue regole enunciative, postulate attraverso logiche sillogistiche, inferenziali, confronta i termini argomentativi, quindi c'è originariamente la regola di definire gli enunciati che costruiranno la sintassi entro cui ogni forma conoscitiva ,anche semantica, viene regolata nel processo del conoscere dalle prime regole enunciate. Per quanto possa sembrare sfuggente a questa regola, anche il buddhismo le ha, diversamente non si caratterizzerebbe infatti come buddhismo,non esisterebbe nè come ente del pensiero nè come fisicità.
@Paul11 anche io ritengo che un ente per avere identità debba distinguersi e sinceramente non credo che questo sia ritenuto un "male" nelle religioni monoteistiche. Discorso diverso per le religioni non-duali. La descrizione buddista del Nirvana così come è scritta nelle suttas non si capisce se si riferisce ad un ente o no e ciò ha creato divergeneze tra gli interpreti. Comunque l'unità originaria non è presente nel buddismo, anzi Buddha dice proprio che è una visione "errata".
Sul discorso di cosa sia un ente... se non abbiamo un'identità indipendente allora ha ragione il buddismo e quindi la ricerca dell'identità è l'inganno supremo. Personalmente non sono d'accordo ma rispetto il pensiero buddista.
Detto questo potresti rispondermi a questa domanda: l'adulto è lo stesso ente del bambino? E perché? (magari l'hai detto prima e non ho capito...)
P.S. Non ho mai praticato il buddismo. Comunque "saper tante cose non da la comprensione" (Eraclito) motivo per cui anche se "ne so tante" magari della vita e del mondo non c'ho capito nulla ;D
Aperion,
allora il buddhismo è una contraddizione in termini, e forse piace proprio per questo.
E' una contraddizione diversa dalla contraddizione dell'occidentale.
Tutto è duale, è tipico della condizione umana.Non saremmo costretti alla conoscenza se non lo fossimo..
Credo davvero che l'esistenza, come ho scritto qualche post fa, sia contraddittoria e ponga problemi esistenziali.Alla base del ragionamento umano è il sillogismo, l'inferenza, il sistema del confronto, delle opzioni se (if) ....allora(then)..
Prima ci attacchiamo alle differenze pensando che siano verità e poi le confrontiamo fra di loro, fra le miriadi di opzioni.L'occidentale affidandosi e fidandosi delle apparenze si attacca a tutto, piuttosto di non scivolare nell'oblio.
E' umano, molto umano.
Oggi tu sei quello di ieri, e ieri quello dell'altro ieri, E' questa continuità nonostante la schiavitù del tempo che ti convince che l'identità sia tua e lo sai da quando sei cosciente di una tua identità.Dovremmo chiederci l'ente memoria cosa sia razionalmente, mentalmente, non solo come memorie di un cervello che per natura anch'esso si sostituisce mattone per mattone fino a non più essere degli stessi costituenti fisici originari.
fisicamente non siamo più il bambino di quel tempo,metabolicamente costituenti organici rimpiazzano i nostri vecchi mattoni, eppure mentalmente la coscienza mantiene un'identità e la ragione, la razionalità rafforza l'identità
cit. paul 11 - Aperion,
allora il buddhismo è una contraddizione in termini, e forse piace proprio per questo.
E' una contraddizione diversa dalla contraddizione dell'occidentale.
Tutto è duale, è tipico della condizione umana.Non saremmo costretti alla conoscenza se non lo fossimo..
Credo davvero che l'esistenza, come ho scritto qualche post fa, sia contraddittoria e ponga problemi esistenziali. Alla base del ragionamento umano è il sillogismo, l'inferenza, il sistema del confronto, delle opzioni se (if) ....allora(then)..
Prima ci attacchiamo alle differenze pensando che siano verità e poi le confrontiamo fra di loro, fra le miriadi di opzioni. L'occidentale affidandosi e fidandosi delle apparenze si attacca a tutto, piuttosto di non scivolare nell'oblio.
E' umano, molto umano.
Oggi tu sei quello di ieri, e ieri quello dell'altro ieri, E' questa continuità nonostante la schiavitù del tempo che ti convince che l'identità sia tua e lo sai da quando sei cosciente di una tua identità. Dovremmo chiederci l'ente memoria cosa sia razionalmente, mentalmente, non solo come memorie di un cervello che per natura anch'esso si sostituisce mattone per mattone fino a non più essere degli stessi costituenti fisici originari.
fisicamente non siamo più il bambino di quel tempo, metabolicamente costituenti organici rimpiazzano i nostri vecchi mattoni, eppure mentalmente la coscienza mantiene un'identità e la ragione, la razionalità rafforza l'identità.Le nostre vecchie cellule (mattoni) muoiono continuamente venendo rimpiazzate dalle nuove... la forma di una cicatrice tuttavia rimane nel tempo, ad indicare che la materia viene modellata secondo un disegno, probabilmente un campo morfogenetico: La causa formale di Aristotele sotto una nuova denominazione?Il biologo britannico Rupert Sheldrake ritiene che i sistemi siano regolati non solo dalle "leggi" conosciute dalla scienza, ma anche da campi da lui definiti morfogenetici, introducendo la nozione di causazione strutturale o formativa. In base alla sua teoria, quando emersero per la prima volta, le molecole di proteine avrebbero potuto ordinarsi in un numero qualsiasi di modelli strutturali: non esistono, infatti, leggi conosciute che implichino la produzione di una sola di queste forme. Tuttavia quando un numero bastevole di molecole assume una determinata configurazione, tutte le molecole successive, anche in tempi e spazi diversi, acquisiscono la medesima forma. Una volta in cui una molecola si organizza in un pattern, esso sembra influire sui patterns simili.Inoltre questi campi emersero come novità creative della natura, ma in seguito diventarono abitudini cosmiche in grado di agire su elementi inanimati ed animati. Questo spiegherebbe la cristallizzazione sincronica di molecole complesse, l'apprendimento simultaneo o quasi di nuovi percorsi in un labirinto per opera delle cavie, ma anche la coniazione di nuovi termini, l'apprendimento di tecniche (si consideri il caso della centesima scimmia). La teoria di Sheldrake suppone che, se l'individuo di una specie impara un nuovo comportamento, il campo morfogenetico cambia, mentre la risonanza morfica, con una sorta di vibrazione, si trasmette all'intera specie. Lo scienziato distingue anche tra causazione morfogenetica e causazione energetica: la prima è un arké che si concreta attraverso un substrato di materia-energia. Secondo la ricercatrice Maria Caterina Feole, poiché la vita è coscienza e tutto è collegato, applicando le idee della Sheldrake allo sviluppo degli stati di coscienza, si può arguire che anche tali stati siano connessi ai campi morfogenetici. In tale contesto, le cosiddette forme-pensiero sarebbero in grado di fungere da calamita verso altre forme-pensiero simili, attirando persone con caratteristiche analoghe.L'elaborazione concettuale concisamente presentata mostra degli addentellati con la filosofia aristotelica, in ordine a quelle che lo Stagirita definì causa formale (campo morfogenetico) e causa materiale: la prima è, infatti, il modello, il principio generatore, la legge di una cosa; la seconda è la materia. Anzi pare proprio che, mutatis mutandis, Sheldrake rivisiti i concetti aristotelici passibili di stabilire un collegamento tra un quid immateriale e la sfera energetica. Anche l'espressione "campo morfogenetico" richiama il pensiero del "maestro di color che sanno": il vocabolo greco "morphé" vale "forma", intesa in tutta la sua gamma di possibili significati, anche piuttosto difficili da concettualizzare. Il nesso tra campo morfogenetico e campo energetico ricalca il sinolo aristotelico, unione di elemento formale e materiale. Ancora una volta Nil novi sub sole.È comunque significativo che varie ricerche di frontiera tendano, in questi ultimi decenni, a convergere verso acquisizioni risalenti all'antichità.Fonti:
Enciclopedia di filosofia, Milano, 2002, s.v. Aristotele e causa M. C. Feloe, Dalla fisica dei quanti alla realtà, Macerata, 2007
R. Sheldrake, A new science of life, 1981http://www.scienzaeconoscenza.it/articolo/campi-morfici-o-morfogenetici-risonanza analogamente il senso di continuità (il nocciolo della questione) quando appare nell'individuo... permane... indipendentemente da quanto gli succede, salvo assumere una diversa connotazione come nel caso di una cicatrice che si forma a causa di un evento oltre la tolleranza/autoriparazione dell'organismo.Ma per "sentirsi" proprio qualcun altro... ce ne vuole.Concordo (...spesso...) con paul che l'esistenza umana non possa che essere contraddittoria; anche dal solo punto di vista psicologico, l'inconscio cui tutti accediamo in maggior o minor grado, si può considerare il "database" della coscienza che conserva tutti i contenuti, da cui la dualità, che ha originato il nostro universo.Ma questa contraddittorietà, per l'uomo, è qualcosa di più, nasconde un disegno, un'intenzionalità... solo una mente che abbia fatto un proprio percorso di conoscenza (nel bene... e necessariamente, in qualche modo... abbia conosciuto il male...) alfine affrancandosene... può seguirne le tracce, riavvolgendo il filo d'Arianna.
Divido il post in due, la prima parte sulla (mia e quindi molto probabilmente errata ;D ) interpretazione di come il buddismo tratta la questione degli enti e la seconda sulla questione degli enti secondo il mio pensiero interpretato da me (e quindi sarà un'interpretazione errata di una filosofia errata ;D ).
"Caso buddismo". Allora secondo il buddismo theravada ossia la corrente che si basa sul sole canone Pali l'esistenza del samsara è dolorosa (dukkha) perchè noi cerchiamo di indentificarci (cerchiamo il nostro ente/atta) in cose che sono impermanenti (anicca). Buddha arriva in aiuto e assicura una liberazione da odio, attaccamento e ignoranza. Quest'ultima coincide proprio col fatto che noi pensiamo di avere un'identità e per questo motivo la cerchiamo. Realizzato il Non-Sé ossia Anatta "estinguiamo" il male dalla radice ossia finiamo di cercare l'atta e otteniamo la Suprema Estinzione ossia il Nibbana/Nirvana. Chiaramente abbiamo solo parlato negativamente e così il Nibbana e il Nulla sembrano identici. Il punto è che Buddha ci parla anche in modo positivo:
"Vi è, monaci, un non-nato — un non-divenuto — un non-creato — un non-formato. Se non vi fosse quel non-nato — non-divenuto— non-creato — non-formato, non si potrebbe conoscere il processo di salvezza da ciò che è nato — divenuto — creato — formato. Ma poichè vi è un non-nato — un non-divenuto — un non-creato — un non-formato, si può conoscere il processo di salvezza da ciò che è nato — divenuto — creato — formato."
— Ud 8.3
Ora da affermazioni come queste la scuola theravada dice che Nibbana è una Realtà (anzi la Realtà più Sublime) incondizionata! Ora se prima abbiamo detto che le cose sono senza sé perchè esistono in modo dipendente perchè mai anche questa Realtà è anatta, senza sé? Chi segue la scuola theravada non ti risponde. Invece la scuola madhyamaka fondata da Nagarjuna ti da una risposta: il Nirvana non è un ente ma uno stato. In particolare è quello stato mentale che ti libera dalla ricerrca dell'identificazione, perchè d'altronde tutto è vacuo - Vacuità/Shunyata compresa. Ora anche se questo ragionamento è consistente a me sembra un nichilismo mascherato, ma qui ammetto di potermi sbagliare io ;)
"Turno mio". Nel caso della mia esistenza io credo di avere un'identità nella quale il cambiamento gioca un ruolo fondamentale. Ogni volta che scelgo nel bene o nel male cambio la mia identità ossia procedo verso il "perfezionamento" di me stesso o nel modo opposto. Chiaramente in questo mio modello una cosa pur cambiando rimane se stessa, quindi certamente mi trovo costretto ad ammettere che la realtà è contraddittoria, ossia ammetto che "io e il me stesso di ieri siamo la stessa cosa" e "io e il me stesso di ieri non siamo la stessa cosa" sono entrambe vere (nota che il buddismo invece direbbe che sono entrambe false perchè semplicemente l'io non c'è). D'altronde Eraclito diceva la stessa cosa per i fiumi, nell'ormai dimenticato frammento autentico DK12 "a coloro che scendono in fiumi che rimangono gli stessi diverse e ancora diverse acque affluiscono"! Sì la realtà è contraddittoria e quindi? Dobbiamo rinunciare alla pretesa che la nostra logica si applichi perfettamente ad essa! In ogni caso ci sono vari logici moderni che lavorano sulle logiche paraconsistenti, come ad esempio Graham Priest. Quindi Jean e paul11 se ammettete la contraddittorietà siete molto vicini alla mia posizione :)
P.S. Se Sariputra vorrà correggere la mia (errata) interpetazione del Dhamma è bene accetto!
Aperion,
penso di sì, che la nostra esistenza sia il dipanare contraddizioni,dove la parte più difficile è scegliere fra due enti che ci appaiono entrambi con lo stesso peso di verità.
Personalmente ritengo che il buon Jean abbia dato una risposta, riaggomitolare il filo d'Arianna, in quanto c'è qualcosa che noi chiamiamo memoria che è dentro le forme e le sintassi nell'ordine( che ci permette in quanto tale che la memoria abbia un senso) sia naturale che razionale.
penso, ma questo dovete dirlo voi che avete approfondito il buddhismo, che i contrari finiscono con la stessa regola identitaria. Intendo dire che il paradigma della regola identitaria serve per dipanare le contraddizioni attraverso la dialettica, ma tutto finisce quando i negativi e i positivi si riconducono alla totalità.
Ecco, penso che il Nirvana implichi la perdita d'identità finale, perchè non è più necessario che esista se la comprensione è arrivata alla totalità.Ognuno di noi ha un nome che lo identifica che lo differenzia e in qualche modo lo separa, non c'è più bisogno alla fine di identità quando la fine ricircola ( chiude il cerchio) nell'origine cioè ritorniamo alla totalità che ci comprende e abbiamo compreso.
Ma anche quì in qualche modo la scienza ci aiuta, Moriamo e le nostre molecole ritornano a disposizione della natura che le riutilizzerà, magari per ricomporre altre vite:questo è il fisico, il corporeo, il materiale.
Similmente penso che la ragione, la razionalità tende a ricomporre le contraddittorietà come se vi fosse una "pista". una via che la stessa natura oltre che la ragione ci lasciano intuire come memoria, come dice Jean, con cui mi trovo d'accordo.
Non possiamo pensare alla concezione del termine "enti" che svolge la filosofia buddhista semplicemente come un momento di speculazione logica. Non possiamo dimenticare che ci troviamo dinanzi ad un Insegnamento che non ha la finalità di dare un'interpretazione, una teoria sulla realtà. Buddha non era un filosofo. La sua vita , la sua pratica e il suo insegnare erano un tutt'uno. Così i discorsi servivano poi per la meditazione e per il retto agire ( moralità) e dalla pratica e dalla purezza di condotta di vita nascevano i discorsi. Saranno poi nei secoli i vari monaci studiosi a dare una struttura filosofica all'Insegnamento. Abbiamo però dei punti fermi in questo passaggio di villaggio in villaggio durato cinquant'anni e sono punti che tutte le scuole budddhiste posteriori autentiche condividono. Uno di questi punti è sicuramente l'insegnamento a vedere le cose come vuote. C'è per es. la frase:"vedete il mondo come vuoto. se sarete consapevoli della natura vuota del mondo, la morte non vi troverà". La frase viene anche tradotta come:"Chi vede il mondo come vuoto si situa oltre il potere del dolore (dukkha), che ha il suo rappresentante principale nella morte". (Mogharaja-sutta,1119)
Per Siddharta questo significa vedere le cose nella loro realtà, cioè prive di io e di mio. Il Nibbana/Nirvana, l'estinzione totale del dukkha , del dolore , è identico al supremo vuoto. Dire che il supremo vuoto è il nibbana, o identico al nibbana, sta a significare che il vuoto è l'estinzione definitiva di tutto ciò che brucia, che si agita , che muta in maniera vorticosa in noi. Supremo vuoto e suprema estinzione sono la stessa cosa. Però questo stato non si può intendere come "la suprema felicità", come viene comunemente inteso ( particolarmente da noi in Occidente). Quando si parla di nibbana come di 'felicità'è una sorta di propaganda allettante che ricorre al linguaggio convenzionale perché gli uomini sono affascinati dalla felicità e non desiderano altro. In realtà non bisognerebbe definirlo né felicità né sofferenza, perchè si situa al di là della concezione ordinaria di queste. Però se si parla così...la gente non capisce...Se la vita è continuo agitarsi e mutare, l'elemento nibbana è invece la quiete, la calma e , mentre l'agitarsi è insoddisfacente ( o temporaneamente soddisfacente), il nibbana è realmente soddisfacente.
Il Cuore di questo insegnamento dato dal buddha è racchiuso nella frase famosissima:
Sabbe dhamma nalam abhinivesaya
Nessun dhamma ( cosa) a cui attaccarsi.
Quando si dice "ogni cosa" s'intende ogni cosa , compreso il senso interiore di continuità di cui parlano Paul11 e Jean.
Il termine dhamma (minuscolo) , tradotto in 'cosa', include tutto, senza eccezioni. Ossia 'enti' mondani o spirituali, materiali o mentali. Se ci fosse qualcosa che esula da queste quattro categorie sarebbe sempre compreso nel termine 'dhamma'. La mente che conosce il mondo è dhamma. Il contatto tra la mente e il mondo è dhamma.Questo termine abbraccia tutto, dal periferico al centrale, dagli oggetti materiali , alla pratica del Dhamma ( maiuscolo inteso come Insegnamento), compreso il nirvana. Non dovremmo provare attaccamento per nessuna di queste cose, compreso il nirvana. Il Buddha addirittura insegna a non attaccarsi nemmeno alla 'consapevolezza-saggezza' ( sati-panna ), perché è anch'essa un processo naturale. Attaccarcisi con l'idea: "Io sono un saggio, uno consapevole" è un'illusione in più. Il nirvana è anch'esso un dhamma, un evento naturale, così come la pratica meditativa e i suoi frutti, sono "così come sono". Persino il vuoto stesso è un evento naturale. E' l'attaccamento all'idea che lo riduce ad un falso nibbana, ad un falso vuoto , perché il vero nirvana è senza appigli.
Tutti questi dhamma, secondo il buddhismo, sono divisi in due categorie: mutevoli e immutabili. Quelli mutevoli, in perenne trasformazione, a causa di forze e condizioni che li producono si mantengono in esistenza all'interno di questo flusso del divenire, della trasformazione dinamica. Quello immutabile è il nirvana, unico dhamma nella sua categoria. Si mantiene esente dal cambiamento, la sua natura è il non mutamento. ora, tutti i dhamma, sia mutevoli che il nirvana immutabile, sono semplici dhamma: cose che conservano se stesse in un determinato modo. Ecco come non c'è altro che natura, solo eventi naturali, solo dhamma , per l'appunto...Dhamma quindi significa natura, processi naturali. Nel buddhismo prendono anche il nome di 'tathata' ( 'così come sono'), in quanto non potrebbero essere in modo diverso. In termini di logica viene espresso così:
tutte le cose sono dhamma
tutte le cose sono vuoto
i dhamma sono il vuoto
Naturalmente si può esprimere in molti altri modi ma il punto centrale resta, a mio parere, che non c'è niente al di fuori della natura e che la natura è vuoto. Niente a cui attaccarsi come Io e mio. Il vuoto, o vacuità di esistenza intrinseca è, per il buddhismo, la natura di tutte le cose possibili.
L'attaccamento all'idea dell'Io è un'eredità che ci viene da un tempo immemorabile...tutto ciò che viene insegnato, fin dalla più tenera età, è in termini di "io". Alla nascita la mente del bimbo non ha alcun senso dell'Io...ma poi, diventati adulti, la vita stessa diventa l'Io, e l'Io la vita...e Io sono esausto e vado a sognare un altro illusorio Io che vive in un'altra realtà illusoria... :-X :-X
P.S.Ovviamente, quando si dice che ci sono solo eventi naturali o 'solo natura', non dobbiamo intenderla secondo il criterio della filosofia materialista occidentale...
Citazione"Vi è, monaci, un non-nato — un non-divenuto — un non-creato — un non-formato. Se non vi fosse quel non-nato — non-divenuto— non-creato — non-formato, non si potrebbe conoscere il processo di salvezza da ciò che è nato — divenuto — creato — formato. Ma poichè vi è un non-nato — un non-divenuto — un non-creato — un non-formato, si può conoscere il processo di salvezza da ciò che è nato — divenuto — creato — formato."
a me viene cosi...e percio,come si suol dire in certi casi do proprio i numeri :o :)
10 - 9-8-7-6-5-4.... 3 - 2 - 1 0(da notare la decade che si presenta già formata all' "inizio" e che coincide con la "fine" - il dieci finale) !credo che tutte le Dottrine dicono la stessa cosa (Verità')anche quella Cristiana e il Corano affermano che;"Veniamo da Dio e torniamo a lui"
Citazione di: acquario69 il 17 Gennaio 2017, 06:32:04 AMCitazione"Vi è, monaci, un non-nato — un non-divenuto — un non-creato — un non-formato. Se non vi fosse quel non-nato — non-divenuto— non-creato — non-formato, non si potrebbe conoscere il processo di salvezza da ciò che è nato — divenuto — creato — formato. Ma poichè vi è un non-nato — un non-divenuto — un non-creato — un non-formato, si può conoscere il processo di salvezza da ciò che è nato — divenuto — creato — formato."
a me viene cosi...e percio,come si suol dire in certi casi do proprio i numeri :o :) 10 - 9-8-7-6-5-4.... 3 - 2 - 1 0 (da notare la decade che si presenta già formata all' "inizio" e che coincide con la "fine" - il dieci finale) ! credo che tutte le Dottrine dicono la stessa cosa (Verità') anche quella Cristiana e il Corano affermano che; "Veniamo da Dio e torniamo a lui"
Acquario, a parer mio, il pensare in termini di esistenza e inesistenza ( essere e non-essere- ente e niente ) è una contrapposizione concettuale che ha un forte ascendente sull'uomo, su tutti noi, Sari compreso... E questo si manifesta in maniera così potente perché questo modo di pensare è continuamente alimentato da molte forti "radici" che affondano profondamente nella nostra mente. La più forte è quella di credere praticamente e teoricamente nell'esistenza di un Io-separato o sé autonomo. Penso che , alla base di tutte le credenze eternalistiche o sostanziali, ci sia il potente desiderio di preservare e perpetuare la personalità in versioni più o meno raffinate ( e alcune forme di teismo o deismo sono estremam-ente raffinate...). Però anche chi non crede nell'esistenza di una realtà ultima, di un Dio, ecc. è istintivamente portato a credere nella sua "unicità" e all'importanza della propria personalità individuale e così ritengono che la morte, ossia la fine di questa personalità, significhi un completo annullamento, ossia l'inesistenza.Così, alla fine, il credere nell'ente sé-autonomo, è responsabile non solo dell'eternalismo ma anche del nichilismo che vediamo nella nostra società attuale . Nichilismo sia nella forma "popolare" e non filosofica che considera la morte "la fine di tutto", sia nelle teorie materialistiche che elaborano in maniera raffinata la sstessa posizione.
La credenza in un io-autonomo è anche un problema
linguistico ( mi pare ne abbia già parlato Apeiron...) perché la struttura fondamentale del linguaggio (soggettoe predicato, nome e aggettivi) ha la tendenza a semplificare le frasi affermative e negative per facilitare la comunicazione e l'orientamento. Queste caratteristiche della struttura del linguaggio hanno esercitato da sempre una sottile ma enorme influenza sul nostro modo di pensare, così che alla fine siamo propensi a credere che -"l'esistenza di una parola determina l'esistenza della cosa da essa definita". Poi ci sono tutti fattori
emotivi...Ritengo però che non ci sia parità tra la posizione eternalistica e quella nichilistica, perché la prima porta con sé una forte componente etica mentre la seconda tende a rifiutare qualsiasi etica ( con tutti guai e le malvagità che vediamo...). In poche parole, se non ce la sentiamo di abbracciare una visione come quella buddhista per tanti motivi, è preferibile, ovviamente a parer mio, rivolgersi ad una visione etica ( tendente cioè a non creare ulteriore sofferenza) che non a quella nichilistica.
P.S. Pensi di venire al banchetto? ;D
Citazione di: Sariputra il 17 Gennaio 2017, 01:02:34 AM
Non possiamo pensare alla concezione del termine "enti" che svolge la filosofia buddhista semplicemente come un momento di speculazione logica. Non possiamo dimenticare che ci troviamo dinanzi ad un Insegnamento che non ha la finalità di dare un'interpretazione, una teoria sulla realtà. Buddha non era un filosofo. La sua vita , la sua pratica e il suo insegnare erano un tutt'uno. Così i discorsi servivano poi per la meditazione e per il retto agire ( moralità) e dalla pratica e dalla purezza di condotta di vita nascevano i discorsi. Saranno poi nei secoli i vari monaci studiosi a dare una struttura filosofica all'Insegnamento. Abbiamo però dei punti fermi in questo passaggio di villaggio in villaggio durato cinquant'anni e sono punti che tutte le scuole budddhiste posteriori autentiche condividono. Uno di questi punti è sicuramente l'insegnamento a vedere le cose come vuote. C'è per es. la frase:"vedete il mondo come vuoto. se sarete consapevoli della natura vuota del mondo, la morte non vi troverà". La frase viene anche tradotta come:"Chi vede il mondo come vuoto si situa oltre il potere del dolore (dukkha), che ha il suo rappresentante principale nella morte". (Mogharaja-sutta,1119)
Per Siddharta questo significa vedere le cose nella loro realtà, cioè prive di io e di mio. Il Nibbana/Nirvana, l'estinzione totale del dukkha , del dolore , è identico al supremo vuoto. Dire che il supremo vuoto è il nibbana, o identico al nibbana, sta a significare che il vuoto è l'estinzione definitiva di tutto ciò che brucia, che si agita , che muta in maniera vorticosa in noi. Supremo vuoto e suprema estinzione sono la stessa cosa. Però questo stato non si può intendere come "la suprema felicità", come viene comunemente inteso ( particolarmente da noi in Occidente). Quando si parla di nibbana come di 'felicità'è una sorta di propaganda allettante che ricorre al linguaggio convenzionale perché gli uomini sono affascinati dalla felicità e non desiderano altro. In realtà non bisognerebbe definirlo né felicità né sofferenza, perchè si situa al di là della concezione ordinaria di queste. Però se si parla così...la gente non capisce...Se la vita è continuo agitarsi e mutare, l'elemento nibbana è invece la quiete, la calma e , mentre l'agitarsi è insoddisfacente ( o temporaneamente soddisfacente), il nibbana è realmente soddisfacente.
Il Cuore di questo insegnamento dato dal buddha è racchiuso nella frase famosissima:
Sabbe dhamma nalam abhinivesaya
Nessun dhamma ( cosa) a cui attaccarsi.
Quando si dice "ogni cosa" s'intende ogni cosa , compreso il senso interiore di continuità di cui parlano Paul11 e Jean.
Il termine dhamma (minuscolo) , tradotto in 'cosa', include tutto, senza eccezioni. Ossia 'enti' mondani o spirituali, materiali o mentali. Se ci fosse qualcosa che esula da queste quattro categorie sarebbe sempre compreso nel termine 'dhamma'. La mente che conosce il mondo è dhamma. Il contatto tra la mente e il mondo è dhamma.Questo termine abbraccia tutto, dal periferico al centrale, dagli oggetti materiali , alla pratica del Dhamma ( maiuscolo inteso come Insegnamento), compreso il nirvana. Non dovremmo provare attaccamento per nessuna di queste cose, compreso il nirvana. Il Buddha addirittura insegna a non attaccarsi nemmeno alla 'consapevolezza-saggezza' ( sati-panna ), perché è anch'essa un processo naturale. Attaccarcisi con l'idea: "Io sono un saggio, uno consapevole" è un'illusione in più. Il nirvana è anch'esso un dhamma, un evento naturale, così come la pratica meditativa e i suoi frutti, sono "così come sono". Persino il vuoto stesso è un evento naturale. E' l'attaccamento all'idea che lo riduce ad un falso nibbana, ad un falso vuoto , perché il vero nirvana è senza appigli.
Tutti questi dhamma, secondo il buddhismo, sono divisi in due categorie: mutevoli e immutabili. Quelli mutevoli, in perenne trasformazione, a causa di forze e condizioni che li producono si mantengono in esistenza all'interno di questo flusso del divenire, della trasformazione dinamica. Quello immutabile è il nirvana, unico dhamma nella sua categoria. Si mantiene esente dal cambiamento, la sua natura è il non mutamento. ora, tutti i dhamma, sia mutevoli che il nirvana immutabile, sono semplici dhamma: cose che conservano se stesse in un determinato modo. Ecco come non c'è altro che natura, solo eventi naturali, solo dhamma , per l'appunto...Dhamma quindi significa natura, processi naturali. Nel buddhismo prendono anche il nome di 'tathata' ( 'così come sono'), in quanto non potrebbero essere in modo diverso. In termini di logica viene espresso così:
tutte le cose sono dhamma
tutte le cose sono vuoto
i dhamma sono il vuoto
Naturalmente si può esprimere in molti altri modi ma il punto centrale resta, a mio parere, che non c'è niente al di fuori della natura e che la natura è vuoto. Niente a cui attaccarsi come Io e mio. Il vuoto, o vacuità di esistenza intrinseca è, per il buddhismo, la natura di tutte le cose possibili.
L'attaccamento all'idea dell'Io è un'eredità che ci viene da un tempo immemorabile...tutto ciò che viene insegnato, fin dalla più tenera età, è in termini di "io". Alla nascita la mente del bimbo non ha alcun senso dell'Io...ma poi, diventati adulti, la vita stessa diventa l'Io, e l'Io la vita...e Io sono esausto e vado a sognare un altro illusorio Io che vive in un'altra realtà illusoria... :-X :-X
P.S.Ovviamente, quando si dice che ci sono solo eventi naturali o 'solo natura', non dobbiamo intenderla secondo il criterio della filosofia materialista occidentale...
Direi metaforicamente che il nirvana è trovarsi dentro l'occhio vorticoso di un ciclone, uno stato di quiete ,di pace di serenità, nonostante tutto si muova vorticosamente attorno a noi.
Capisco, Sariputra il tuo ragionamento.
So benissimo che l'uomo ha più linguaggi e quello dei sentimenti, degli atteggiamenti, motivazioni è molto difficile da capire e da comunicare. Ma non pensare che la logica sia calcolo, è ponderazione che per me significa altro.
La forza della filosofia è la capacità di interrogarsi i n maniera distaccata dalla mondanità, cercando di capire i meccanismi, naturali che governano i domini, gli ordini, le dimensioni ,di cui fanno parte tutti gli enti.
La ponderazione è la capacità di utilizzare coerentemente le facoltà umane linguistiche ,dall'intuito, all'intelliggibilità per razionalizzarle in regole.Una persona osserva il mondo nello scandire del tempo e vede le mutazioni e intuisce un ordine interno che le governa in totto., il meccanismo, che regola quello stesso mutare.Il problema allora è il meccanismo dei domini e gli enti che vi sono immersi.
Ed è altrettanto chiaro che essendo l'uomo un essere , un essente, in quanto senziente e vivente e all'interno di un ordine in cui il fattore ( o ente) tempo ha la forza di "spostare" tutti gli enti nel divenire del mutare che si riflette nel governo del sorgere della vita e dei cicli della vita stessa che osserviamo nel percorso delle stagioni. Se l'uomo è nel divenire "nel mezzo", in quanto dimentico della propria origine ,così come della fine, questi due aspetti, inizio e fine noi li interpretiamo osservando i meccanismi che governano l'ordine.
Il potere umano della mente è andare oltre l'esistente dell'attimo,uscire dallo scandire del tempo ovviamente non fisicamente, ma appunto mentalmente e questo gli permette la leggibilità dei meccanismi degli ordini, non ne prende solo atto, ma lo interpreta.
Il come noi leggiamo e interpretiamo il meccanismo che muove gli enti che si mostrano che ci appaiono che le percezioni pongono in divenire, contrastano spesso con l'ordine logico.
Ed è questo ordine logico interpretato che caratterizza una cultura, qualunque cultura e dominio.
Io vedo purtroppo la morte, la fine nel divenire, ma Severino, ovviamente non solo lui, dice che invece essendo ogni ente eterno in quanto ciò che è non può svanire nel nulla, in quanto tutto non può a sua volta essere uscito dal nulla.
C'è da notare un aspetto fondamentale.
Noi diciamo che è vero, compresa la morte in quel sistema di mezzo che non conosce però origine nè fine.
Alcune filosofie, e questo lo è anche Severino nella logica dialettica, pone invece l'origine fondamentale così come la fine (gloria), per cui è proprio il sistema di mezzo del divenire che appare logicamente contraddittorio.(E continuo a vedervi similitudini con le spiritualità nel meccanismo, ovviamente ha caratteristiche diverse)
Ma daccapo, se Severino avesse torto, dobbiamo abbattere tutta la logica che utilizzano le scienze, non solo le filosofie,tutte le applicazioni strumentali digitali che utilizzano operatori booleani, non solo la logica predicativa .
Questo è il grosso problema contraddittorio al suo interno come cultura. Com'è che funziona nelle applicazioni?
Perchè le semplici regole logiche che formano il paradigma originario in Severino (identità e non contraddizione) non funzionano nel divenire. o meglio, il divenire e gli enti che mutano sono contraddittoriamente illogici.
Personalmente ritengo che abbia fondamentalmente una ragione, un ente non può perdere la sua identità che per me è individuata nella sua essenza, semmai modifica mereologicamente le sue parti, ma non può perdere la sua originarietà.
Così come la nostra esistenza appare contraddittoria, perchè la dimensione della sopravvivenza della percezione sensoriale gli indica il divenire come riferimento e la morte come uno svanire nel nulla, ma la mente razionalizza i meccanismi oltrepassando la dimensione spazio/tempo contraddicendo ciò che gli occhi vedono e credono per vero.
@ Paul
ma se non c'è identità fissa non ci può essere nemmeno qualcosa che perda identità. La difficoltà di accettare logicamente la perdita di un'identità di un ente è data dal fatto che si è prima accettato aproristicamente , come scontato, che ci sia un'identità. E' come un uomo che vada in giro dicendo:"ho perduto il mio essere asino " ma non-sono mai stato un asino! Dal mio punto di vista dunque è sbagliato assumere come dato di fatto che esistano enti immutabili ( in questo caso soprattutto enti-idee ) e quindi sforzarsi di dire che non possono essere/diventare nulla. Fino al punto di cistallizzare il fluire di un universo intero in attimi eterni, fissi, immutabili per non perdere la logica di qualcosa che si accettato senza poterne dimostrare la logica. E' solo perché si accetta senza poterlo dimostrare che A=A che si arriva al Severino. Ma se anche A=A è vero parzialmente può essere vero anche "A è anche non-A, pertanto è A"( che non esclude A=A), ossia la formula logica che tenta di dare una misera definizione linguistica del mutare, del fluire incessante.
Citazione di: Sariputra il 17 Gennaio 2017, 09:21:06 AM
Acquario, a parer mio, il pensare in termini di esistenza e inesistenza ( essere e non-essere- ente e niente ) è una contrapposizione concettuale che ha un forte ascendente sull'uomo, su tutti noi, Sari compreso... E questo si manifesta in maniera così potente perché questo modo di pensare è continuamente alimentato da molte forti "radici" che affondano profondamente nella nostra mente. La più forte è quella di credere praticamente e teoricamente nell'esistenza di un Io-separato o sé autonomo.
P.S. Pensi di venire al banchetto? ;D
Non so a cosa ti riferisci perché in quello che mi viene da scrivere qui,cerco (in maniera ormai spontanea) di esprimere proprio il contrario e mi sembra che alla fine fai come i prestigiatori che mischiano le carteAl banchetto ci vengo volentieri....quale sarebbe il menu di villa sariputra?Io sono per le pietanze casareccie ... e mi sembra di capire che hai pure il camino col fuoco acceso e con tanto di cantina annessa, quindi le premesse sono ottime.. nonostante le forti divergenze ...e chissa se in circostanze del genere si finirebbe di andare più d'accordo di quello che all'apparenza potrebbe sembrare :)
Come ho già detto più volte il fatto che (hic et nunc!) non abbraccio uno dei percorsi del trittico buddismo-advaita (e simili) - taoismo è il seguente: se rimuovi a mio giudizio l' "atman" ossia l'identità ossia l'essenza e vedi tutto in qualche senso come vuoto è appunto perchè così facendo vai "oltre" l'etica, cosa che a mio giudizio non è veramente possibile. Il linguaggio dell'etica mostra che per l'etica è fondamentale l'esistenza del bene e del male, del libero arbitrio, della responsabilità, dell'io. Motivo per cui postulo, per fede, che siamo entità separate, pur sapendo che il mio postulato è appunto un atto di fede e non è provabile (anzi "empiricamente" tutto ci va contro!). Se fosse semplicemente in palio l'abbandono di altro ok si potrebbe fare ma sinceramente l'abbandono dell'etica mi pare troppo.
Chiaramente uno può dire che in effetti anche la questione dell'io è una illusione linguistica e non a caso la coscienza il buon Siddharta la descrive come un "qualcosa che è come un gioco di magia" e l'advaita dice che il vederci come entità separate è dovuto a Maya che ha lo stesso significato di "gioco magico". Dunque visto che rinunciare all'etica mi sembra "anti-etico" ritengo che alcune distinzioni siano irrinunciabili e che sia sbagliato lasciarle andare. Sono convinto inoltre per ragioni che magari spiegherò in un'altra sede che l'etica per la sua naturale assolutezza abbia origine "sovrumana" (motivo: l'etica si basa su giudizi assoluti e oggettivi di valore).
Detto questo acquario69 la tua filosofia mi sembra neo-platonismo. Tuttavia a che pro Dio creerebbe degli enti per poi "rimangiarseli"? Detto questo ritengo che dobbiamo "riavvicinarci" a Dio pù che unirci - restando tuttavia enti separati.
P.S. Gli abusi linguistici pullulano in filosofia e non a caso ritengo che molta filosofia sia nata come un fraintendimento linguistico, come quello di considerare l'Essere come un Ente.
Quello che Sariputra vuole dire è che per il buddismo ogni contrapposizione è illusoria perchè esiste solo nella nostra testa. Nella realtà non c'è nulla che si contrapponga, perchè non ci sono enti e quindi non ci sono identità.
In sostanza per capire il buddismo non bisognerebbe usare il linguaggio perchè bisogna eliminare il problema dalla radice: si elimina da ogni frase ogni soggetto! In sostanza ogni tradizione che tenta di eliminare le contrapposizioni (quindi anche taoismo e advaita...) ritengono che "l'uomo che sa non parla" (Tao Te Ching) e che "l'uomo Perfetto è privo di Sé" (Zuanghzi). Non c'è veramente per queste tradizioni nessun ente. Ma non sono nemmeno nichilismo perchè il nicilismo è la negazione di qualcosa (per quanto dicono loro...)! In sostanza ragiona così: non puoi trovare nulla che abbia identità separata, quindi nessuna cosa ha una vera identità. Se sparisce l'identità spariscono i dualismi e spariscono i concetti.
Citazione di: Apeiron il 17 Gennaio 2017, 11:36:00 AM
Detto questo acquario69 la tua filosofia mi sembra neo-platonismo. Tuttavia a che pro Dio creerebbe degli enti per poi "rimangiarseli"? Detto questo ritengo che dobbiamo "riavvicinarci" a Dio pù che unirci - restando tuttavia enti separati.
Forse a questa domanda ci passiamo prima o poi tutti. (e a prescindere da Platone o simili)ed e' la stessa che mi sono posto anch'io (qui sotto) qualche tempo fa...e le risposte a seguire (a distanza di tempo) per me sono state illuminanti http://www.riflessioni.it/forum/spiritualita/14342-perche-nascere-vivere-e-morire-per-tornare-a-dio-non-potevamo-stare-presso-di-lui.html
Citazione di: Sariputra il 17 Gennaio 2017, 10:21:42 AM
@ Paul
ma se non c'è identità fissa non ci può essere nemmeno qualcosa che perda identità. La difficoltà di accettare logicamente la perdita di un'identità di un ente è data dal fatto che si è prima accettato aproristicamente , come scontato, che ci sia un'identità. E' come un uomo che vada in giro dicendo:"ho perduto il mio essere asino " ma non-sono mai stato un asino! Dal mio punto di vista dunque è sbagliato assumere come dato di fatto che esistano enti immutabili ( in questo caso soprattutto enti-idee ) e quindi sforzarsi di dire che non possono essere/diventare nulla. Fino al punto di cistallizzare il fluire di un universo intero in attimi eterni, fissi, immutabili per non perdere la logica di qualcosa che si accettato senza poterne dimostrare la logica. E' solo perché si accetta senza poterlo dimostrare che A=A che si arriva al Severino. Ma se anche A=A è vero parzialmente può essere vero anche "A è anche non-A, pertanto è A"( che non esclude A=A), ossia la formula logica che tenta di dare una misera definizione linguistica del mutare, del fluire incessante.
L'identità fissa c'è ed equivale alla sua essenza, questo è quello che penso anche nel paradosso della nave di Teseo.
Per i credenti può essere lo spirto/anima/atman o la propria autocoscienza, o il proprio Io, ecc.
Ma lo stesso procedimento è in qualunque ente,soprattutto e necessariamente se si ritene che tutto è eterno e non nel divenire.
Il samsara della reincarnazione che cosa lo identificherebbe se non un atman
Il processo di identificazione non è il possesso, si è a prescindere da ciò che si ha.
Gesù è Gesù, Buddha è Buddha, ecc. Noi indichiamo un'identità .
C' è un automobile con una targa e la identifica. Il proprietario che la registra come suo bene, può anche alienarlo, compiere una transazione, venderla. ma quell'automobile è rimasta quello che è a prescindere dai suoi proprietari.
Sfugge un concetto fondamentale: la logica non ha il potere fisico di mutare la natura del divenire, ma ha la funzione strumentale di razionalizzare il meccanismo che governa il divenire.
La forza della nostra mente è quella di andare oltre le apparenze che si manifestano, di capire o almeno tentare di capire il meccanismo, che è intellegibile analogicamente al nostro cervello
La natura si mostra, la mente carpisce e capisce gli ordini che la governano mettendo in discussione dialetticamente(confrontandoli) sia gli enti naturali che quelli "mentali".
Noi vediamo esteriormente le lancette di un orologio analogico oppure i numeri che si susseguono in quello digitale, ma il meccanismo è interno e nascosto alla percezione ed è quello che permette il funzionamento
Sì vorrei precisare che quello che critico io è l'abuso della logica "aristotelica", non la "logica". Ma appunto secondo me "io" sono proprio quel "senso di continuità" di cui parlate che però non coincide con la memoria. Buddha criticava soprattutto l'idea che il corpo era un "vascello" di una cosa immutabile che passava da un corpo all'altro e tale cosa immutabile era l'atman da liberare. Ma a mio giudizio Buddha è andato un po' troppo "oltre" con l'anatman. Secondo me "io" sono una cosa che pur cambiando rimango identico, ossia un ente processuale. Ossia un ente (x) per cui dato due tempi t1 e t2:
"x al tempo t1 è uguale x al tempo t2" e "x al tempo t1 è diverso da x al tempo t2" sono entrambe proposizioni vere. In sostanza è una logica "paraconsistente". E ripeto che ci sono studiosi che si stanno specializzando proprio su queste nuove logiche.
P.S. acquario grazie del link, molto interessante :)
Citazione di: paul11 il 17 Gennaio 2017, 12:56:17 PM
Citazione di: Sariputra il 17 Gennaio 2017, 10:21:42 AM@ Paul ma se non c'è identità fissa non ci può essere nemmeno qualcosa che perda identità. La difficoltà di accettare logicamente la perdita di un'identità di un ente è data dal fatto che si è prima accettato aproristicamente , come scontato, che ci sia un'identità. E' come un uomo che vada in giro dicendo:"ho perduto il mio essere asino " ma non-sono mai stato un asino! Dal mio punto di vista dunque è sbagliato assumere come dato di fatto che esistano enti immutabili ( in questo caso soprattutto enti-idee ) e quindi sforzarsi di dire che non possono essere/diventare nulla. Fino al punto di cistallizzare il fluire di un universo intero in attimi eterni, fissi, immutabili per non perdere la logica di qualcosa che si accettato senza poterne dimostrare la logica. E' solo perché si accetta senza poterlo dimostrare che A=A che si arriva al Severino. Ma se anche A=A è vero parzialmente può essere vero anche "A è anche non-A, pertanto è A"( che non esclude A=A), ossia la formula logica che tenta di dare una misera definizione linguistica del mutare, del fluire incessante.
L'identità fissa c'è ed equivale alla sua essenza, questo è quello che penso anche nel paradosso della nave di Teseo. Per i credenti può essere lo spirto/anima/atman o la propria autocoscienza, o il proprio Io, ecc. Ma lo stesso procedimento è in qualunque ente,soprattutto e necessariamente se si ritene che tutto è eterno e non nel divenire. Il samsara della reincarnazione che cosa lo identificherebbe se non un atman Il processo di identificazione non è il possesso, si è a prescindere da ciò che si ha. Gesù è Gesù, Buddha è Buddha, ecc. Noi indichiamo un'identità . C' è un automobile con una targa e la identifica. Il proprietario che la registra come suo bene, può anche alienarlo, compiere una transazione, venderla. ma quell'automobile è rimasta quello che è a prescindere dai suoi proprietari. Sfugge un concetto fondamentale: la logica non ha il potere fisico di mutare la natura del divenire, ma ha la funzione strumentale di razionalizzare il meccanismo che governa il divenire. La forza della nostra mente è quella di andare oltre le apparenze che si manifestano, di capire o almeno tentare di capire il meccanismo, che è intellegibile analogicamente al nostro cervello La natura si mostra, la mente carpisce e capisce gli ordini che la governano mettendo in discussione dialetticamente(confrontandoli) sia gli enti naturali che quelli "mentali". Noi vediamo esteriormente le lancette di un orologio analogico oppure i numeri che si susseguono in quello digitale, ma il meccanismo è interno e nascosto alla percezione ed è quello che permette il funzionamento
Mi rendo perfettamente conto che, quando si va a toccare la convinzione di un'identità permanente, si va a toccare la base stessa delle
fedi umane e quindi immediatamente si alzano le barricate, forse perché l'Io si sente minacciato...ma la teoria dell'insostanzialità dell'Io/identità non è l'esperienza dell'insostanzialità. Sul discorso di fede sull'esistenza di un'identità permanente non mi permetto di entrare. E' libertà di ognuno avere le proprie convinzioni. Al massimo potrei dire: prova l'esperienza e vedrai che ogni senso di minaccia scompare...infatti vedo più minacce per l'autentico vivere etico ( e qui mi ricollego alle valutazioni di Apeiron) proprio nella credenza della sostanzialità dell'io ,piuttosto che il contrario. Perchè questa visione comporta il pensare il Bene come esterno a se stessi ( diventando così il "mio" bene), mentre abitare nella quiete del non attaccamento a questa idea è vivere in una Dimora di Bene ( in cui è il Bene che si manifesta e non "Io" che manifesto il bene...). Nella visione identitaria il bene è qualcosa di esterno a cui devo/posso conformarmi o rfiutarmi; nella realizzazione della vacuità di identità "divento bene" se mi si passa questa forzatura linguistica. Quindi l'abbandono dell'attaccamento all'idea di ente sostanziale non impoverisce nulla anzi, apre uno spazio infinito veramente soddisfacente ( appunto una dimora di pace)in quanto non più costretto , a causa di questo attaccamento, a legarmi in continuazione al vorticoso agitarsi delle cose che mi spingono lontano dal Bene. Per questo mi sento di rifiutare la teoria di Apeiron che non è possibile alcuna vera etica nel buddhismo, anzi è proprio l'agire etico l'unico modo per raggiungere quella dimora di pace, che mi appare come la realizzazione di un'autentica etica. Un'etica cioè non basata sulla Paura ma nell'esser "noi stessi" etica...( e scusatemi se 'linguisticamente' diventa ardua non contraddirsi usando termini basati sul dualismo soggetto-oggetto...basta esser consapevoli di questi limiti e non prendere i limiti per qualcosa di "vero"). :) :)
Sariputra non fraintendermi, non volevo minacciare né far sentire in colpa nessuno, volevo solo esporre il mio pensiero... Non volevo che dire che l'etica ha origine "sovrumana" implicasse che debba essere fondata sulla Paura. Quello che volevo dire io è che tale etica ha sia base interna che esterna, se fosse solo un'imposizione esterna sarebbe una dittatura. Quindi è anche interna. Semplicemente a causa della nostra limitatezza a mio giudizio dobbiamo "accontentarci" di ragionare in termini di bene e di male. E affinché ciò abbia senso dobbiamo ragionare in termini di "io" e di "responsabilità" e di "libero arbitrio". Il libero arbitrio ha senso solo se la nostra identità è indipendente e allo stesso modo la responsabilità ha senso solo se abbiamo un'identità indipendente. Per dirla in termini "buddistici" a mio giudizio è umano ragionare in termini di "karma", ragionare oltre alla morale mi sembra un po' come dimenticarsi di essere limitati e mortali. Anzi sospetto che nel buddismo prima del Nirvana uno si debba "sottomettere" al karma e non a caso ci sono hiri e ottapa. Se fosse possibile veramente la Liberazione allora ti darei ragione ma secondo me non lo è perchè noi siamo troppo limitati per ottenerla (e non lo era nemmeno per i greci "Pensa come un mortale" secondo l'oracolo di Delfi). Pensiero mio, ovviamente.
In ogni caso a meno che uno non faccia la vita della rinuncia il buddismo dice espressamente che bisogna seguire l'etica e in questo contesto uno non può liberarsi di hiri e ottapa.
Sariputra,
non è mia intenzione mettere in ambascie te o chicchessia, la mia volontà è porre elementi di riflessione filosofica.
Semplicemente perchè le religioni, le spiritualità, la filosofia nella sua essenza e razionalità, vanno oltre il percepito della fisicità naturale della mondanità.
Se il corpo chiede di bere e mangiare la mente, o spirito o atman, ci pone da sempre delle domande le cui soluzioni vanno oltre le apparenze del divenire.
Poi è altrettanto ovvio che ognuno sceglie e pensa e crede ciò che ritene opportuno.
Personalmente ritengo l'uomo occidentale nella modernità si è illuso di pensare che il sapere sia dato dalla quantità di enti che si conosce invece di capire il meccanismo che muove gli enti.Spostando l'asse epistemologico, l'uomo è diventato materiale, attaccato alle cose (o enti), più avere che essere, più quantità che qualità, sostenendo (contraddizione della contraddizione) che in fondo lo stesso mecccanismo sia funzionale all'ente finale.
Il risultato è mutare continuamente le leggi e le teorie pur di mantenere il focus epistemologico sul finalismo dell'ente.
Vuol dire farsi un Dio personale per giustificare i propri modi di essere; vuol dire relativizzare tutto pur di rincorrere a scoperte e invenzioni del finalismo della tecnica; vuol dire alienarsi umanamente per diventare essi stessi meccanismo funzionale di unte finale pur sapendo che la verità sarà sempre dopo, oltre...e intanto Buddha morì guardando il tramonto a Occidente..
Citazione di: paul11 il 17 Gennaio 2017, 15:20:59 PMSariputra, non è mia intenzione mettere in ambascie te o chicchessia, la mia volontà è porre elementi di riflessione filosofica. Semplicemente perchè le religioni, le spiritualità, la filosofia nella sua essenza e razionalità, vanno oltre il percepito della fisicità naturale della mondanità. Se il corpo chiede di bere e mangiare la mente, o spirito o atman, ci pone da sempre delle domande le cui soluzioni vanno oltre le apparenze del divenire. Poi è altrettanto ovvio che ognuno sceglie e pensa e crede ciò che ritene opportuno. Personalmente ritengo l'uomo occidentale nella modernità si è illuso di pensare che il sapere sia dato dalla quantità di enti che si conosce invece di capire il meccanismo che muove gli enti.Spostando l'asse epistemologico, l'uomo è diventato materiale, attaccato alle cose (o enti), più avere che essere, più quantità che qualità, sostenendo (contraddizione della contraddizione) che in fondo lo stesso mecccanismo sia funzionale all'ente finale. Il risultato è mutare continuamente le leggi e le teorie pur di mantenere il focus epistemologico sul finalismo dell'ente. Vuol dire farsi un Dio personale per giustificare i propri modi di essere; vuol dire relativizzare tutto pur di rincorrere a scoperte e invenzioni del finalismo della tecnica; vuol dire alienarsi umanamente per diventare essi stessi meccanismo funzionale di unte finale pur sapendo che la verità sarà sempre dopo, oltre...e intanto Buddha morì guardando il tramonto a Occidente..
E infatti anche la ricerca dell'elemento nirvana si pone come una meta da raggiungere, una meta stabile che permetta di affrancarsi dall'agitarsi continuo del divenire La differenza è che questa meta viene cercata all'interno del divenire stesso, se così si può dire, e non postulata come trascendente ( trascendente nel senso occidentale del termine) il divenire. Quindi è senz'altro una ricerca di risposta. Ricerca che mette l'enfasi più sulla pratica che sulla teoria.
Sono d'accordo con te sulla seconda parte del tuo commento. Prima mi sono dimenticato di scrivere che l'identificazione con "io-autonomo" ha valenza positiva, se si percorre una strada fondata su un'etica di non creare sofferenza ulteriore , e negativa ,come base del nichilismo che, identificando la sensazione di "io-autonomo" con il proprio ego, rifiuta qualsiasi etica restrittiva dell'incessante bisogno di godere ( godere che può essere indifferente alla sofferenza cagionata ad altre creature...). Se anche possedesse l'intero pianeta l'ego umano sognerebbe un centro turistico sulla Luna!!
Questa precisazione per mettere in evidenza, se ce ne fosse bisogno, che il processo di identificazione non è solamente base per concezioni etiche dell'agire , ma più spesso purtroppo causa anche di concezioni antietiche. Può essere un'arma a doppio taglio insomma... :(
@ Apeiron, libero arbitrio è anche il cercare una risposta ( come direbbe paul) e una soluzione al proprio soffrire. Si può scegliere se cercare oppure non cercare e godere/soffrire il più possibile... ;D
Se anche l'io viene dichiarato insostanziale, non è che per magia la sofferenza umana sparisce...( e nemmeno il valore di
ogni essere vivente che soffre).
@Sariputra,
infatti non ho mai detto che il buddismo "viola la dignità" dell'uomo, anzi il percorso buddista - come ho già detto più volte - secondo me è una delle meraviglie di questo mondo. A mio giudizio però affinchè l'etica abbia senso dobbiamo ragionare in enti (d'altronde la responsabilità necessita un portatore della stessa...) e distinzioni (non tutto è proibito ma non perchè lo dico io ma perchè è così...). La Liberazione sarebbe una sorta di svincolamento dalla necessità di porre distinzioni, ossia si va oltre l'etica. D'altronde se uno è così diciamo "pervaso" dall'amore non necessita più dell'etica perchè d'altronde la sua volontà è purificata e quindi non può "peccare". Tuttavia questi eventuali esseri perfetti e puri a mio giudizio sono sovrumani. Noi come uomini dobbiamo "accontentarci" di fare il più possibile per essere puri, motivo per cui lo stesso buddismo lo riconosce e dice che ogni persona non risvegliata deve coltivare hiri (disgusto per le azioni malvagie) e ottapa (paura delle conseguenze delle azioni malvagie) e dunque essere sottomesso all'etica oggettiva data dal karma e le rinascite. Fatto tutto questo percorso allora si può "accedere" alla liberazione. Perciò il buddismo vede l'etica come appunto una fase preparatoria che molto spesso noi occidentali ci dimentichiamo di associare al Dharma. Invece è molto più importante di quanto pensiamo.
Detto questo io ho la mia opinione e secondo me l'etica - visto che siamo umani - è irrinunciabile. Opinione che d'altronde posso capire che non sia universalmente accettata. In ogni caso il relativismo e il nichilismo possono essere molto pericolosi come già tu hai osservato.
Concordo poi sulla definizione di libero arbitrio. Ma se l'io è illusorio chi sceglie :D ?
Citazione di: Apeiron il 17 Gennaio 2017, 20:38:32 PM@Sariputra, infatti non ho mai detto che il buddismo "viola la dignità" dell'uomo, anzi il percorso buddista - come ho già detto più volte - secondo me è una delle meraviglie di questo mondo. A mio giudizio però affinchè l'etica abbia senso dobbiamo ragionare in enti (d'altronde la responsabilità necessita un portatore della stessa...) e distinzioni (non tutto è proibito ma non perchè lo dico io ma perchè è così...). La Liberazione sarebbe una sorta di svincolamento dalla necessità di porre distinzioni, ossia si va oltre l'etica. D'altronde se uno è così diciamo "pervaso" dall'amore non necessita più dell'etica perchè d'altronde la sua volontà è purificata e quindi non può "peccare". Tuttavia questi eventuali esseri perfetti e puri a mio giudizio sono sovrumani. Noi come uomini dobbiamo "accontentarci" di fare il più possibile per essere puri, motivo per cui lo stesso buddismo lo riconosce e dice che ogni persona non risvegliata deve coltivare hiri (disgusto per le azioni malvagie) e ottapa (paura delle conseguenze delle azioni malvagie) e dunque essere sottomesso all'etica oggettiva data dal karma e le rinascite. Fatto tutto questo percorso allora si può "accedere" alla liberazione. Perciò il buddismo vede l'etica come appunto una fase preparatoria che molto spesso noi occidentali ci dimentichiamo di associare al Dharma. Invece è molto più importante di quanto pensiamo. Detto questo io ho la mia opinione e secondo me l'etica - visto che siamo umani - è irrinunciabile. Opinione che d'altronde posso capire che non sia universalmente accettata. In ogni caso il relativismo e il nichilismo possono essere molto pericolosi come già tu hai osservato. Concordo poi sulla definizione di libero arbitrio. Ma se l'io è illusorio chi sceglie :D ?
Ness-uno sceglie Apeiron...nessuno. Se c'è comprensione-saggezza nella nostra mente e presenza mentale ( satipanna ) la mente cerca il bene. In assenza di comprensione l'ego sceglie l'opposto, Non c'è un proprietario della comprensione, non c'è chi si libera e chi s'incatena. Prajna ( panna in Pali) è una facoltà intuitiva della mente e non del senso dell'Io. Non c'è chi fa il bene, ma è il bene che si manifesta nella mente non aggrappata all'ego. Mi sembra un rovesciamento di prospettiva: smettere di pensare di essere gli agenti e comprendere che forse siamo i vettori. E, per il buddhismo, cos'è il "bene" che si manifesta? E' l'assenza dell'egoismo, dell'odio e dell'ignoranza...le tre robuste radici su cui cresce il tronco della sofferenza. :)
P.S. Come mai siamo finiti a fare una lunga dissertazione sul buddhismo? ??? ???
Phil scrive:
"Forse la fine della ontologia e della metafisica trascendentalista non è la fine della filosofia, ma un suo sviluppo ("evoluzione" sarebbe termine
adeguato?) che consente alla filosofia di dialogare meglio con le altre discipline... il "senso peculiare" della filosofia, dopo il '900, non credo possa più essere "la ricerca dei principi primi" o "la fondazione del vero" o "l'indagine dell'essere"; se è una disciplina viva, deve adattarsi (darwinianamente ) al cambiamento del suo habitat (lo scibile umano), altrimenti resterà "antiquata" (e "antiquaria" come diceva un baffuto filosofo tedesco...)."
Non condivido questa visione "progressista" (non in senso politico) del sapere. Non condivido l'idea che l'aggiornatezza debba essere un criterio epistemico e metodologico di scientificità. O meglio, è un criterio che ha un senso fondamentale se si parla di discipline che si occupano di realtà temporali e mutevoli, in questo caso, è ovviamente indispensabile aggiornare lo stato delle ricerche e delle conoscenze acquisite parallalemente alla variabilità della natura degli oggetti a cui tali discipline si rivolgono. Non è questo il caso della filosofia e della metafisica, il cui obiettivo, a mio avviso, resta quello di elaborare, con una propria metodologia specifica, di tipo prevalentemente deduttivo e non induttivo, una visione ordinata delle essenze, dei principi, delle leggi della realtà sovratemporali, immutabili, necessari, eterni, ed anche nel caso di una negazione dell'esistenza di tali entità sovratemporali, tale negazione dovrà comunque essere il portato di una visione a sua volta mirante a illuminare il livello sovratemporale del reale, una visione eidetica, in quanto per negare qualcosa chi nega deve pur sempre riferire il suo discorso allo stesso punto di vista entro il quale ciò che viene negato avrebbe dovuto presentarsi secondo chi lo affermava. La filosofia non deve rincorrere il susseguirsi delle mode intellettuali, ma deve solo sforzarsi di mantenere una metodologia di ricerca adeguata ai suoi oggetti. La rinuncia ad un suo proprio spazio peculiare di indagine non sarebbe uno "sviluppo" ma la sua morte, in quanto una certa forma di sapere merita di essere coltivata fintanto che offre una conoscenza di un piano della realtà che tutti gli altri saperi non potrebbero offrirmi. Altrimenti è solo tempo perso dato che quello che essa potrebbe dirmi sulla realtà lo potrei conoscere dalle altre discipline, in quanto non ci sarebbe alcuna eccedenza o trascendenza rispetto ad esse
Per quanto riguarda il "dialogo" con le altre discipline... devo dire che a me tutta la retorica sull'interdisciplinarietà, (non dico che Phil o qualcun altro del forum facciano retorica, è una annotazione generale!) che oggi va molto di moda, e viene ribadita in ogni occasione a me ha sempre lasciato perplesso. Più che di dialogo penso si abbia bisogno di rispetto, rispetto reciproco dell'autonomia degli ambiti di ricerca delle varie scienze, da fondarsi a partire dalla distinzione dei molteplici campi della realtà a cui è correlata la varietà delle metodologie di ricerche. Utilizzare diversi e spesso conflittuali metodologie per cercare di rispondere alle stesse questioni, rivolgendosi agli stessi ambiti provoca solo confusione e sovrapposizioni di concetti, punti di vista, impostazioni. Gli oggetti a cui si rivolge il sapere filosofico non sono gli stessi a cui si rivolgono le altre scienze, e pretendere che la filosofia abbandoni il suo terreno per farsi imporre dalle scienze naturali i loro ambiti (mentre non mi risulta che nessuno chieda al fisico o al chimico di occuparsi di anima, Dio, soggetto trascendentale, e giustamente) non è dialogo ma sottomissione, la filosofia dovrebbe snaturarsi per adeguarsi alle scienze naturali, come nel medioevo si cercava di sottometterla alla teologia ed alla dottrina della chiesa. Ma questa pretesa, che assolutizza l'ambito delle scienze naturali che assorbirebbero la filosofia ponendola al loro servizio, non è una pretesa scientifica, ma SCIENTISTA, materialista. E lo scientismo, assolutizzazione non scientifica delle scienze "positive", naturali, come tutte le assolutizzazioni è una metafisica, una filosofia, che maschera sè stessa. A riprova che qualunque tentativo di superamento della metafisica non può che svolgersi se non alla luce di un'altra metafisica, cosicché di fatto lo spirito metafisico non può mai morire
Citazione di: Sariputra il 17 Gennaio 2017, 22:25:25 PM
Ness-uno sceglie ...nessuno.
P.S. Come mai siamo finiti a fare una lunga dissertazione sul buddhismo? ??? ???
secondo me perche e' sempre la tua entita,(o meglio id-entità) che mi pare ti ostini a negare, ma a dispetto tuo più la neghi e più questa viene fuori e continuera a seguirti esattamente come farebbe la tua ombra finche esisti, cioe fin tanto che sei -siamo- nella forma.
Citazione di: acquario69 il 18 Gennaio 2017, 05:19:28 AM
Citazione di: Sariputra il 17 Gennaio 2017, 22:25:25 PMNess-uno sceglie ...nessuno. P.S. Come mai siamo finiti a fare una lunga dissertazione sul buddhismo? ??? ???
secondo me perche e' sempre la tua entita,(o meglio id-entità) che mi pare ti ostini a negare, ma a dispetto tuo più la neghi e più questa viene fuori e continuera a seguirti esattamente come farebbe la tua ombra finche esisti, cioe fin tanto che sei -siamo- nella forma.
Acquario, il povero Sari non ha mai negato di possedere un'identità "empirica", ma solo e sempre negato che questa identità sia fissa , costante, immutabile e, in ultima analisi dotata di vera esistenza. Ossia il Sari ritiene che c'è continuità empirica tra il Sari bambino, adolescente, adulto, ecc. ma che quella continuità è una semplice sensazione prodotta dalla mente ( e dall'attaccamento per ciò che ritiene essere Sari) , quindi è sorta e svanirà. Il senso dell'io è una parte, a parer mio, dell'attività di quella cosa che viene chiamata "coscienza", ossia il "senso interno" della mente , ma non la esaurisce. La coscienza non è solo il senso dell'identità personale, è una dimensione senza confini. Questa mente, quando deve relazionarsi con Acquario,con Paul, ecc. usa un linguaggio che non può trascendere l'uso dei termini: io-tu-noi, ecc. Quindi non può sfuggire alle contraddizioni del linguaggio. Anche il linguaggio stesso però non è un assoluto in quanto mutevole, ecc.
Quindi sicuramente questa identità ballerina mi seguirà come un ombra ogni volta che aprirò bocca per dire che è proprio una gran impicciona...Dovrei stare in silenzio? E' una bella domanda...che mi faccio spesso anch'"
io" ( ma anche la domanda va e viene nella mia zucca vuota...) ::) ::)
@Sariputra,
il motivo per cui finiamo sempre per fare dissertazioni buddistiche che purtroppo non ci portano al Risveglio è che il buddismo è unico. La sua unicità (anche se secondo me il taoismo è molto simile) sta nel fatto che prevede l'"abolizione" degi enti, dell'identità ecc. Vista la sua peculiarità è di forte interesse chiarire come "spiega" cose che sembrano necessitare l'introduzione di identità separate come ad esempio l'etica. E siccome noi in occidente abbiamo la "fissa" di cristalizzare il mondo ponendo etichette, identità separate e substantie anche dove evidentemente è una "stupidata" (prendete questo termine bonariamente, per favore ;D ) metterle ci fa un po' strano ragionare in termini buddistici. Inoltre mi fa strano anche che "tu" (assumendo che sei un io empirico) voglia sapere la differenza tra ente e niente visto che il Maligno Tentatore Re della Morte Mara vuole proprio tentarti ragionando secondo "enti". In sostanza il Nirvana è come ho letto da qualche parte quel suicidio epistemologico per il quale il Bene agisce senza essere ostacolato dall'illusorio io.
Ritorno subito in topic dicendo ripetendo la definizione di ente: l'ente è ciò che possiede un'identità indipendente. Ma da questa definizione devi anche notare che non segue che gli enti siano indipendenti nell'esistenza (ossia che siano necessari o assoluti) o che siano eterni. CI possono essere anche enti mortali in sostanza, nulla lo vieta. In sostanza una filosofia con enti in relazione tra di loro vede la rete di Indra con nodi reali e distinti tra di loro, mentre il buddismo abolendo gli enti vede solo la rete. In sostanza abolisce gli interagenti mantenendo l'interazione, ma possono esserci interazioni senza interagenti?
Citazione di: Apeiron il 18 Gennaio 2017, 09:17:48 AM@Sariputra, il motivo per cui finiamo sempre per fare dissertazioni buddistiche che purtroppo non ci portano al Risveglio è che il buddismo è unico. La sua unicità (anche se secondo me il taoismo è molto simile) sta nel fatto che prevede l'"abolizione" degi enti, dell'identità ecc. Vista la sua peculiarità è di forte interesse chiarire come "spiega" cose che sembrano necessitare l'introduzione di identità separate come ad esempio l'etica. E siccome noi in occidente abbiamo la "fissa" di cristalizzare il mondo ponendo etichette, identità separate e substantie anche dove evidentemente è una "stupidata" (prendete questo termine bonariamente, per favore ;D ) metterle ci fa un po' strano ragionare in termini buddistici. Inoltre mi fa strano anche che "tu" (assumendo che sei un io empirico) voglia sapere la differenza tra ente e niente visto che il Maligno Tentatore Re della Morte Mara vuole proprio tentarti ragionando secondo "enti". In sostanza il Nirvana è come ho letto da qualche parte quel suicidio epistemologico per il quale il Bene agisce senza essere ostacolato dall'illusorio io. Ritorno subito in topic dicendo ripetendo la definizione di ente: l'ente è ciò che possiede un'identità indipendente. Ma da questa definizione devi anche notare che non segue che gli enti siano indipendenti nell'esistenza (ossia che siano necessari o assoluti) o che siano eterni. CI possono essere anche enti mortali in sostanza, nulla lo vieta. In sostanza una filosofia con enti in relazione tra di loro vede la rete di Indra con nodi reali e distinti tra di loro, mentre il buddismo abolendo gli enti vede solo la rete. In sostanza abolisce gli interagenti mantenendo l'interazione, ma possono esserci interazioni senza interagenti?
Mi piace molto quel
"il Bene agisce senza essere ostacolato dall'illusorio io", mi pare proprio coerentemente "buddhista" come frase ed era proprio quel che intendevo. Sul fatto che sia un suicidio...non so...forse più un omicidio ( la consapevolezza che ammazza l'illusorio io?) ;D
La domanda del mio io "empirico" era sul significato occidentale della parola "ente" e , mentre la scrivevo, ti assicuro che non ho visto Mara e le sue tre figlie all'orizzonte...a volte cerco di capire meglio per poi esprimermi con più precisione sui termini. Adesso che ho assunto una qualifica "storica" devo prestare più attenzione alle baggianate che scrivo... ;)
Sono d'accordo con te sul fatto che ci siano enti mortali ( e come potrei non esserlo, visto che sto scrivendo dappertutto che esistono
solo enti mortali?...). Quindi la famosa rete esiste , ma i nodi non sono fissi, eterni,immutabili, ecc. sono anch'essi in divenire non essendo possibili "separarli" dalla rete stessa. Quindi , mi sembra di capire dall'immagine che proponi, l'agente non è l'azione ma ci può essere un agente se non come risultato di un'azione? Credo che sia per questo che si parla di co-originazione interdipendente...
Sul fatto che il Dharma di Siddharta sia unico sono ovviamente d'accordo, come molte sono le analogie col daoismo. Infatti fu proprio il contatto con la spiritualità daoista che produsse quella meraviglia che è il Chan, poi Zen. Nacque subito una naturale armonia e integrazione tra questi due sistemi. Il buddhismo perse quel carattere peculiarmente indiano ( tendente eccessivamente alla schematizzazione) e il daoismo invece servì per dare anche un'afflato poetico-esistenziale a questa religione. A parer mio, Buddha e i primi pensatori/fondatori del daoismo partirono da una medesima intuizione e consapevolezza che poi espressero secondo i caratteri culturali e linguistici della società ove sorsero. Moltissime affinità, direi.
P.S. Credo che anche nel Cristianesimo stia nascendo, al momento come fatto ancora minoritario, una maggiore consapevolezza nel vedersi più come partecipanti ad un'"unità di Bene", ad una visione più comunitaria, meno incentrata sull'ossessione dell' "Io mi salvo" ma bensì del "Salviamoci insieme", in cui la centralità non è più la persona ( l'ente ) ma il dinamismo stesso del Bene, che agisce attraverso l'azione della persona, non più ossessionata dalla Paura di perder-si, ma più aperta all'altro ( al non-io...).
"Suicidio epistemologico" perchè in sostanza è la fine delle congetture, delle teorie e della razionalizzazione della natura. La razionalità ha bisogno di etichettare, il Nirvana è proprio l'antitesi e quindi in questo senso "suicidio epistemologico".
Personalmente ritengo che noi siamo entità indipendenti e quindi più che il Bene che lavora da solo, siamo noi che dobbiamo essere il tramite per fare del bene e qui concordo con la visione cristiana. Mi pare che Santa Teresa d'Avila dicesse che lei in sostanza era in certe occasioni, nei momenti in cui non peccava, una sorta di "perfetto tramite" della volontà di Dio: è come se l'Amore Divino ossia il Bene agisce in questo caso tramite l'io che non è illusorio. In sostanza la visione cristiana non rinuncia all'io perchè secondo essa dobbiamo essere "messaggeri" dell'amore e per portare il "messaggio" serve il messaggero. Nel caso buddista invece il messaggero "sparisce" per far andare il messaggio liberamente senza ostacoli (ma qui come ci può essere messaggio senza messaggero ? ;D ). Comunque concordo con te che la tendenza della Chiesa odierna post-Concilio e in generale di persone come San Francesco è proprio quella del "salviamoci insieme".
In sostanza in ogni caso la differenza è proprio che credo nell'indipendenza degli enti:)
Citazione di: Apeiron il 18 Gennaio 2017, 15:20:51 PM"Suicidio epistemologico" perchè in sostanza è la fine delle congetture, delle teorie e della razionalizzazione della natura. La razionalità ha bisogno di etichettare, il Nirvana è proprio l'antitesi e quindi in questo senso "suicidio epistemologico". Personalmente ritengo che noi siamo entità indipendenti e quindi più che il Bene che lavora da solo, siamo noi che dobbiamo essere il tramite per fare del bene e qui concordo con la visione cristiana. Mi pare che Santa Teresa d'Avila dicesse che lei in sostanza era in certe occasioni, nei momenti in cui non peccava, una sorta di "perfetto tramite" della volontà di Dio: è come se l'Amore Divino ossia il Bene agisce in questo caso tramite l'io che non è illusorio. In sostanza la visione cristiana non rinuncia all'io perchè secondo essa dobbiamo essere "messaggeri" dell'amore e per portare il "messaggio" serve il messaggero. Nel caso buddista invece il messaggero "sparisce" per far andare il messaggio liberamente senza ostacoli (ma qui come ci può essere messaggio senza messaggero ? ;D ). Comunque concordo con te che la tendenza della Chiesa odierna post-Concilio e in generale di persone come San Francesco è proprio quella del "salviamoci insieme". In sostanza in ogni caso la differenza è proprio che credo nell'indipendenza degli enti:)
Quindi, riassumendo, sei attratto dal Dhamma di Gotama e lo conosci piuttosto bene, ma...c'è un ma...non sei disposto ad abbandonare la tua idea di Io ( per adesso... ;D ma forse verrà il tempo... ;) ).
Se tutti vivessimo nel non-attaccamento non ci sarebbe alcun messaggio da portare da qualche parte, non trovi?... Se tutti fossimo dei "risvegliati" non ci sarebbe alcun risveglio e nessun buddha apparirebbe sulla Terra...già...sembra semplice in teoria, ma chiaramente non lo è...perché non-siamo ( risvegliati) e quindi il messaggio corre su fili penzolanti ( i nostri poveri ego instabili...). Però basta intravvedere uno squarcio di pace , una frazione di cielo azzurro dopo essersi smarriti in una foresta impenetrabile e...
Realizzare completamente qualcosa che viene definita come "illuminazione" ( manco fossimo dei lampioni che si devono accendere... ;D ) è sicuramente cosa che appare sovrumana, ma anche una piccola torcia illumina un poco. La luce in definitiva è luce. Poi, può essere anche
bello essere umilmente una piccola torcia accesa nel bel mezzo delle tenebre. "Io" ( adesso mi toccherà metterlo sempre tra parentesi se no mi si rinfaccia subito:"ma tu hai detto che l'Io non esiste..." ;D ;D ) ho accettato da lungo tempo che non potrò, in questa vita, essere più che , al massimo, un fiammifero...( senza intenzioni incendiarie).
Nella prossima ti saprò dire... 8)
Citazione di: davintro il 18 Gennaio 2017, 00:49:20 AM
metafisica, il cui obiettivo, a mio avviso, resta quello di elaborare, con una propria metodologia specifica, di tipo prevalentemente deduttivo e non induttivo, una visione ordinata delle essenze, dei principi, delle leggi della realtà sovratemporali, immutabili, necessari, eterni, ed anche nel caso di una negazione dell'esistenza di tali entità sovratemporali, tale negazione dovrà comunque essere il portato di una visione a sua volta mirante a illuminare il livello sovratemporale del reale, una visione eidetica, in quanto per negare qualcosa chi nega deve pur sempre riferire il suo discorso allo stesso punto di vista entro il quale ciò che viene negato avrebbe dovuto presentarsi secondo chi lo affermava.
La deduzione trascendentale, le essenze, le leggi eterne, il sovratemporale sono pilastri del pensiero classico che non sono stati sostituiti (da un'altra metafisica), ma sono stati decostruiti, smontati e messi in mostra nei musei della storia del sapere (non credo sia solo una mia opinione...). Oggi le deduzioni metafisiche e le essenze non sono più fruibili né "credibili" (chi specula ancora pensando davvero per essenze?), il sovratemporale non è più oggetto di elucubrazione (o sbaglio?); l'epistemologia ha relegato la metafisica sugli scaffali delle biblioteche da almeno un secolo (solo i pensatori ormai affermati possono permettersi, per
status acquisito in altri tempi, di giocare a fare ancora i metafisici; le nuove generazioni di ricercatori, quelle che saranno il futuro della filosofia, e magari la storia mi smentirà, non si spremono più le meningi sul "perché l'essere piuttosto che il nulla?").
Citazione di: davintro il 18 Gennaio 2017, 00:49:20 AMGli oggetti a cui si rivolge il sapere filosofico non sono gli stessi a cui si rivolgono le altre scienze, e pretendere che la filosofia abbandoni il suo terreno per farsi imporre dalle scienze naturali i loro ambiti (mentre non mi risulta che nessuno chieda al fisico o al chimico di occuparsi di anima, Dio, soggetto trascendentale, e giustamente) non è dialogo ma sottomissione, la filosofia dovrebbe snaturarsi per adeguarsi alle scienze naturali, come nel medioevo si cercava di sottometterla alla teologia ed alla dottrina della chiesa.
Il dialogo è stato sempre importante
in filosofia e, oggi più che mai, lo è anche
per la filosofia, per la sua stessa sussistenza. In questo millennio, una filosofia che parla da sola può essere solo, correggimi se sbaglio, storia-della-filosofia (la filosofia che si guarda allo specchio e si fa bella) o letteratura colta (la filosofia come racconto di una prospettiva ermeneutica in una narrazione estetizzata).
In fondo, su quali argomenti la filosofia può ancora esprimersi da sola senza peccare di presunzione? Se vuole parlare dell'uomo, deve prestare di certo ascolto alle scienze cognitive, alla biologia, alla psicologia, etc. Se vuole parlare del mondo, non può che ascoltare quanto hanno da dire la fisica e le altre "scienze della natura". Se vuole parlare di etica, deve sedersi allo stesso tavolo di antropologia, sociologia, religioni, etc. Se vuole parlare di ontologia, deve prima ascoltare quanto hanno da dire le suddette scienze fisiche (altrimenti si resta a Parmenide e si ripetono le stesse congetture). Se vuole parlare di metafisica, l'unica che ancora gli presta orecchio è forse solo la teologia, perchè la psicologia, mentre l'ascolta, le chiede anche di sdraiarsi sul lettino... ;D
Bene inteso, questa capacità di interfacciarsi con altre discipline è, per me, il vero "siero dell'immortalità" della filosofia, che la distingue da altri rami del sapere auto-referenti. Ciò che caratterizza la filosofia, sempre secondo me, è più una certa attitudine alla "riflessione collaterale" piuttosto che l'oggetto a cui tale riflessione viene rivolta.
@Sariputra @Apeiron
Se si sostiene (spero di non aver frainteso) che il Bene agisce tramite il viandante del sentiero del Dharma (lunga parafrasi per non dire "l'ex-io illuminato") e che in fondo l'identità personale è un'illusione, cosa rende tale il Bene (e il Male)? In una prospettiva di causazione, interdipendenza ed assenza di Io, che senso hanno "bene" e "male"? Non c'è semplicemente un meccanicismo causa/effetto senza una connotazione etica (che presupporrebbe invece un io fortemente individualizzato)?
Che c'è di male nell'indugiare nel samsara (il dolore? "soffro ergo sum" come diceva il masochista, quindi se soffro so per certo che esisto come io individuale...) e cosa c'è di bene nel raggiungere il nirvana (in cui dissolvo l'auto-identificazione del mio-io, ma dovrò pur sempre lavarmi i denti per non farli cariare... o no?)?
Citazione di: Phil il 18 Gennaio 2017, 17:41:40 PM@Sariputra @Apeiron Se si sostiene (spero di non aver frainteso) che il Bene agisce tramite il viandante del sentiero del Dharma (lunga parafrasi per non dire "l'ex-io illuminato") e che in fondo l'identità personale è un'illusione, cosa rende tale il Bene (e il Male)? In una prospettiva di causazione, interdipendenza ed assenza di Io, che senso hanno "bene" e "male"? Non c'è semplicemente un meccanicismo causa/effetto senza una connotazione etica (che presupporrebbe invece un io fortemente individualizzato)? Che c'è di male nell'indugiare nel samsara (il dolore? "soffro ergo sum" come diceva il masochista, quindi se soffro so per certo che esisto come io individuale...) e cosa c'è di bene nel raggiungere il nirvana (in cui dissolvo l'auto-identificazione del mio-io, ma dovrò pur sempre lavarmi i denti per non farli cariare... o no?)?
Secondo il buddismo l'io è insostanziale quindi porre l'io è un ostacolo al messaggio che si diffonderebbe meglio senza messaggeri. Rifiutare l'ente significa rifiutare il messaggero. Nel cristianesimo invece si vuole il ruolo attivo del messaggero che sceglie di essere il tramite della diffusione. Quindi nel cristianesimo l'io è reale e si vuole la perfezione dell'io. Il buddismo invece vuole che si rinunci ad essere un io e quindi in questo modo il messaggio passa spontaneamente.
Concordo con te che l'io e la distinzione Bene/Male non si possono abbandonare.
Citazione di: Sariputra il 18 Gennaio 2017, 15:45:11 PMCitazione di: Apeiron il 18 Gennaio 2017, 15:20:51 PM"Suicidio epistemologico" perchè in sostanza è la fine delle congetture, delle teorie e della razionalizzazione della natura. La razionalità ha bisogno di etichettare, il Nirvana è proprio l'antitesi e quindi in questo senso "suicidio epistemologico". Personalmente ritengo che noi siamo entità indipendenti e quindi più che il Bene che lavora da solo, siamo noi che dobbiamo essere il tramite per fare del bene e qui concordo con la visione cristiana. Mi pare che Santa Teresa d'Avila dicesse che lei in sostanza era in certe occasioni, nei momenti in cui non peccava, una sorta di "perfetto tramite" della volontà di Dio: è come se l'Amore Divino ossia il Bene agisce in questo caso tramite l'io che non è illusorio. In sostanza la visione cristiana non rinuncia all'io perchè secondo essa dobbiamo essere "messaggeri" dell'amore e per portare il "messaggio" serve il messaggero. Nel caso buddista invece il messaggero "sparisce" per far andare il messaggio liberamente senza ostacoli (ma qui come ci può essere messaggio senza messaggero ? ;D ). Comunque concordo con te che la tendenza della Chiesa odierna post-Concilio e in generale di persone come San Francesco è proprio quella del "salviamoci insieme". In sostanza in ogni caso la differenza è proprio che credo nell'indipendenza degli enti:)
Quindi, riassumendo, sei attratto dal Dhamma di Gotama e lo conosci piuttosto bene, ma...c'è un ma...non sei disposto ad abbandonare la tua idea di Io ( per adesso... ;D ma forse verrà il tempo... ;) ). Se tutti vivessimo nel non-attaccamento non ci sarebbe alcun messaggio da portare da qualche parte, non trovi?... Se tutti fossimo dei "risvegliati" non ci sarebbe alcun risveglio e nessun buddha apparirebbe sulla Terra...già...sembra semplice in teoria, ma chiaramente non lo è...perché non-siamo ( risvegliati) e quindi il messaggio corre su fili penzolanti ( i nostri poveri ego instabili...). Però basta intravvedere uno squarcio di pace , una frazione di cielo azzurro dopo essersi smarriti in una foresta impenetrabile e... Realizzare completamente qualcosa che viene definita come "illuminazione" ( manco fossimo dei lampioni che si devono accendere... ;D ) è sicuramente cosa che appare sovrumana, ma anche una piccola torcia illumina un poco. La luce in definitiva è luce. Poi, può essere anche bello essere umilmente una piccola torcia accesa nel bel mezzo delle tenebre. "Io" ( adesso mi toccherà metterlo sempre tra parentesi se no mi si rinfaccia subito:"ma tu hai detto che l'Io non esiste..." ;D ;D ) ho accettato da lungo tempo che non potrò, in questa vita, essere più che , al massimo, un fiammifero...( senza intenzioni incendiarie). Nella prossima ti saprò dire... 8)
bellissimo post. Non me la sento di rovinarlo commentando adesso.
Citazione di: Apeiron il 18 Gennaio 2017, 19:31:49 PM
Concordo con te che l'io e la distinzione Bene/Male non si possono abbandonare.
Secondo me la distinzione Bene/Male (soprattutto con le maiuscole) si può abbandonare (proprio abbracciando il causalismo e l'interdipendenza), l'io invece è forse più difficile da scalzare, ma non lo inquadrerei come illusorio (come fa il buddhismo), quanto piuttosto come "costruito": non è originario, ma è arrivato all'esistenza tramite l'accumulo di "strutture" apprese dal contesto culturale; se viene decostruito allora può raggiungere uno stato neutro (karmicamente). In quest'ottica ci sono dunque due piani, nessuno dei quali è ingannevole, ma sono entrambi "reali", solo che uno è "artificiale", l'altro è "distillato".
Citazione di: Sariputra il 18 Gennaio 2017, 15:45:11 PM
ma...c'è un ma...non sei disposto ad abbandonare la tua idea di Io ( per adesso... ;D ma forse verrà il tempo... ;) ).
Sariputra se permetti a questo punto vorrei fare una considerazione inerente a questo IO che tu dici a più riprese di abbandonare ecc,ecc...Perche io credo che la questione e' delicata poiché i fraintendimenti su quest'argomento possono risultare molto nocivi e pericolosi e il rischio a mio avviso e' quello di "annullarsi" pero nel senso nichilistico del termine..di cui credo non ne abbiamo affatto bisogno,semmai il contrario.A me sembra che se da una parte dici che L'IO e' illusorio poi dall'altra mi sembra che "pratichi" (scrivendolo ripetutamente qui) esattamente il contrario...e non e' un affermazione continua dell'IO quella di trascorrere un sacco di tempo a scrivere su un forum, considerando pure la virtualità ad essa inerente? (E per questo naturalmente non sei l'unico, oramai sta coinvolgendo praticamente tutti)Ci manca poco che finiremo connessi 24h con annessa chiavetta USB dietro il cranio di ognuno...e non e' questo lo stesso IO diventato cosi ipertrofico che ha addirittura cancellato dalla propria esistenza la Realta,sostituendola di fatto con una virtuale?...sarebbe forse questa la via per estinguere questo IO o non e' invece l'ultima frontiera di nichilismo assoluto e a trionfare sia solo e proprio quell'IO che si sarebbe dovuto estinguere? (E' una domanda che mi sto ponendo per conto mio)secondo me se sta succedendo questo dipende pure dal fatto che oltre ad un IO abbiamo anche un SE' (anzi senza il SE' non può esserci nemmeno un IO) che ci può salvare da questa apocalisse..ma oramai siamo talmente concentrati su noi stessi e talmente isolati (complice la tecnologia e il virtuale) che pare sparito completamente dal nostro orizzonte speculativo.Questa per me e' davvero l'estinzione,ma non dell'IO,(e che al contrario si e' ipertrofizzato al massimo grado),ma dell'umanità intera, nel senso più concreto del termine.
Da Phil:
-l'io "arriva" all'esistenza tramite l'accumulo di "strutture" apprese dal contesto culturale > chi è il soggetto che apprende?
-se viene decostruito... > chi potrebbe decostruire l'io, la persona (?) altri o specifiche circostanze?
-raggiungere uno stato neutro karmicamente > è una tua ipotesi o proviene da qualche spiegazione/tradizione ecc.? Che significa?
-In quest'ottica ci sono dunque due piani, nessuno dei quali è ingannevole, ma sono entrambi "reali", solo che uno è "artificiale", l'altro è "distillato". > Quale ottica, piani... reali, artificiali e distillati..?
Al solo scopo d'intendere il tuo pensiero abbisognerei di passaggi intermedi tra le tue proposizioni. Ti ringrazio.
Un saluto
Citazione di: Sariputra il 17 Gennaio 2017, 10:21:42 AM
ma se non c'è identità fissa non ci può essere nemmeno qualcosa che perda identità. La difficoltà di accettare logicamente la perdita di un'identità di un ente è data dal fatto che si è prima accettato aproristicamente , come scontato, che ci sia un'identità. E' come un uomo che vada in giro dicendo:"ho perduto il mio essere asino " ma non-sono mai stato un asino! Dal mio punto di vista dunque è sbagliato assumere come dato di fatto che esistano enti immutabili ( in questo caso soprattutto enti-idee ) e quindi sforzarsi di dire che non possono essere/diventare nulla. Fino al punto di cistallizzare il fluire di un universo intero in attimi eterni, fissi, immutabili per non perdere la logica di qualcosa che si accettato senza poterne dimostrare la logica. E' solo perché si accetta senza poterlo dimostrare che A=A che si arriva al Severino. Ma se anche A=A è vero parzialmente può essere vero anche "A è anche non-A, pertanto è A"( che non esclude A=A), ossia la formula logica che tenta di dare una misera definizione linguistica del mutare, del fluire incessante.
Sari, è vero che non è dimostrabile logicamente che A è identico ad A, ma è altrettanto vero che se così non fosse non capisco che senso avrebbero queste tue parole, né che senso avrebbe il Buddismo o qualsiasi altro pensare o dire. Se mi si dice che A non è A, questo dire che senso ha? evidentemente non che A non è A, visto che questo dire non è questo dire. Se mi dici "prendi quella sedia" che cosa devo andare a prendere, dato che quella sedia non è quella sedia e "io" non sono "io" e nemmeno "prendere" è "prendere" e "non" non è "non"?
Per questo da ciò che si è nulla e nessuno può sfuggire, nemmeno il nulla, nemmeno il vuoto, nemmeno l'impermanenza, nemmeno il divenire stesso. E questo evidentemente non significa "
volersi permanenti", in questo senso il pensiero di Severino si accorda perfettamente con quello del buddismo, non ha senso volersi eterni, dato che
si è eterni ed eternamente se stessi in perenne relazione a ogni altro se stesso, non ha senso alcun volere, dato che si può volere essere (e quindi voler avere per essere un io che vuole) solo ciò che già da sempre e per sempre si è. "L'essere quello che si è" nega il
voler essere, quindi nega nel modo più radicale il dolore e nega la morte, perché Severino lo dice esplicitamente, la morte è la Gloria stessa e la Gioia della Gloria. La morte coincide con la fine dell'ente isolato nella sua astrazione (la Terra isolata ove l'esistenza è illusione e dolore), ma anche l'ente isolato (proprio come il dolore, proprio come l'illusione e la stessa separazione che lo causa) sono enti eterni che. compresi nel Destino sono la Gloria del Destino. Nell'ottica severiniana non può esserci un "Nirvana" di quiete perfetta, contrapposto all'agitazione di tutti gli altri enti, non può esserci un Brahman da cui ogni ente ha origine e termine, poiché tutti gli enti sono già da sempre Nirvana e Brahman, essendo quello che sono, sulla base della loro eterna identità specifica che appare per come via via viene apparendo.
Nietzsche diceva "diventa ciò che sei", come si fa a diventare ciò che siamo, dato che siamo sempre ciò che siamo, oltre il bene e il male? C'è solo una via che si percorre nel bene e nel male e questa via dice: guardati e riconosciti per ciò che sei (questo intendeva Nietzsche) e ciò che sei è oltre ogni Dio che si possa pensare o immaginare desiderando di poter come Lui diventare. Ogni ente è Brahman, proprio in quanto essente nel gioco immenso e infinito in cui viene ad apparire, un gioco che non è illusione e quindi dolore e morte, ma l'eterno che concretamente si rivela per quello che è a ogni altro eterno, diverso, ma mai da esso separato, nemmeno quando più non ci appare.
@ Maral
Infatti la formula completa è "A è anche non-A, pertanto A". Come vedi questa formula non esclude che A=A ma inserisce il fattore "anche non-A"( che è diverso da A è non-A). Vorrebbe dire che A esiste ma il suo essere anche non-A gli permette di cambiare, di trasformarsi, di vivere. Per dare un'immagine , se ci riesco: un albero è un albero ( A=A) ma tutto cio che non è albero ( la luce, la pioggia, la terra, ecc.) ossia non-A, permette all'albero ( A) di esistere (pertanto A ). La concezione buddhista sostiene che A ( l'albero) non si può intendere come ente permanente, fisso, durevole perché la sua esistenza è dipendente da tutto ciò che è non-A (non-albero, ossia la pioggia, la luce , la terra). Come vedi niente viene perduto: l'albero è sempre l'albero, la pioggia è sempre la pioggia, la terra è sempre la terra e l'Io che scrive è sempre l'Io che scrive. Si passa solo da una prospettiva in cui si vede l'albero come identità fissa e indipendente, ad un'altra in cui l'albero ( e anche l'io, Acquario...) cambia in continuazione perché dipendente da ciò che non è albero. E questo appare evidente all'osservazione. Se manca l'acqua l'albero rinsecchisce e cambia; resta un albero (A) ma non è più lo stesso albero rigoglioso di prima. Il fattore non-A ( la pioggia assente) gli ha permesso di cambiare. Se non ci fosse il fattore non-A non ci sarebbe alcun cambiamento; tutto sarebbe fisso , eterno, immutabile, sterile come una landa desolata.
Vedi come la formula logica A=A non va perduta ma bensì arricchita? Il fattore non-A non toglie l'esistenza di una cosa ma , al contrario, permette la vita e il tempo di quella cosa.
La mente intuisce naturalmente questo processo, ma la ragione si ostina a fissarlo , a fermarlo in frammenti, ossia si ferma alla formula A=A . Si potrebbe dire che si ostina a vedere il particolare e ignora il generale. La filosofia occidentale, per quel che ne conosco attraverso di voi ( anche per questo passo tanto tempo sul forum, Acquario...), mi sembra ossessionata dal particolare e gli viene a mancare un "respiro" più ampio ( ovviamente senza generalizzare o banalizzare). Pertanto quando il Sari dice ( e mi ricollego anche alle critiche di Acquario...) che non c'è Io, intende solamente che non c'è un Io indipendente e permanente, ma bensì c'è un Io dipendente da tanti fattori che non -sono Io ( contatto, sensazioni, volizioni, ecc.)e pertanto impermanente. Ma se non ci fossero questi fattori di non-Io non ci sarebbe alcun Io, ma solo fissità immobile.
A me sembra che questa posizione sia più logica e sorretta dall'esperienza concreta della nostra vita, che non la concezione di enti permanenti, fissi, eterni, immutabili, ecc. ( oltre che essere mooolto più artistica e Bella , chè percepisco una bellezza senza fine in questo eterno fluire di tutte le cose che si sorreggono a vicenda, c'è molto Amore...).
P.S. Acquario, è vero, hai ragione, scrivo troppo...pensa però che a me piace veramente anche solo l'atto dello scrivere ( lo facevo molto anche prima che esistesse qualcosa come internet...). Ossia scrivo per il piacere di scrivere. :)
P.S. II Volevo aggiungere anche che non è una concezione di "ente mutevole" ( di cui mi sembra abbia scritto Apeiron), in quanto il mutare non è dato da una proprietà dell'ente ( cioè dalla possibilità di cambiare indipendentemente dagli altri "enti"), ma dalla presenza del fattore ( fattori) non-A .
Citazione di: Sariputra il 18 Gennaio 2017, 23:29:55 PM
P.S. Acquario, è vero, hai ragione, scrivo troppo...pensa però che a me piace veramente anche solo l'atto dello scrivere ( lo facevo molto anche prima che esistesse qualcosa come internet...). Ossia scrivo per il piacere di scrivere. :)
Io non sto mettendo in discussione l'io impermanente (l'esempio dell'albero lo conferma anche per me)...ma il fatto di ignorare il Se (principio "fisso" ed immutabile da cui tutto il resto - mutabile - dipende e che presumo non condividerai Se passa solo l'idea di avere un io impermanente privo pero del suo principio fondativo (Se) quello e' secondo me il nichilismo.PS: Il piacere di scrivere e' anche il mio
Citazione di: acquario69 il 18 Gennaio 2017, 23:45:52 PMCitazione di: Sariputra il 18 Gennaio 2017, 23:29:55 PMP.S. Acquario, è vero, hai ragione, scrivo troppo...pensa però che a me piace veramente anche solo l'atto dello scrivere ( lo facevo molto anche prima che esistesse qualcosa come internet...). Ossia scrivo per il piacere di scrivere. :)
Io non sto mettendo in discussione l'io impermanente (l'esempio dell'albero lo conferma anche per me)...ma il fatto di ignorare il Se (principio "fisso" ed immutabile da cui tutto il resto - mutabile - dipende e che presumo non condividerai Se passa solo l'idea di avere un io impermanente privo pero del suo principio fondativo (Se) quello e' secondo me il nichilismo. PS: Il piacere di scrivere e' anche il mio
Il Sè vero, eterno, ecc. non essendo sperimentabile diventa per me motivo di fede. Non era il motivo di questa discussione , diciamo. Concordo con te su una cosa: la teoria dell'anatman ( o dell'Io impermanente , chiamiamola così , sono solo definizioni...) può essere facilmente fraintesa e infatti non viene insegnata neanche nei paesi di fede buddhista. E ' molto complessa e in certo senso va contro il pensare comune con cui cresciamo. In questi paesi ci si limita all'insegnamento della teoria del Karma, dell'accumulazione di meriti in vista di una rinascita migliore. E' la concezione delle due verità: una più semplice e alla portata di tutti ( la teoria del karma) e poi l'autentico cuore del buddhismo ( la teoria dell'anatman), riservato a chi è già avanti nella pratica. E questo proprio per il rischio di cui parli di essere concepito come nichilismo e quindi anche dell'irrealtà di ogni valore etico. Pensa che persino il papa Giovanni Paolo II, nel suo libro "Varcare la soglia della speranza", ha relegato il buddhismo nelle visione nichilistiche, provocando molta amarezza negli ambienti di questa religione. E infatti, come ho già scritto, definire nichilista una filosofia di vita che, prima nella storia, faceva costruire ospedali per i viandanti e persino alloggi per curare gli animali, come "nichilistica" può far capire che grado di ignoranza reciproca esista nel mondo.
Citazione di: Sariputra il 19 Gennaio 2017, 00:06:13 AM
Citazione di: acquario69 il 18 Gennaio 2017, 23:45:52 PMIo non sto mettendo in discussione l'io impermanente (l'esempio dell'albero lo conferma anche per me)...ma il fatto di ignorare il Se (principio "fisso" ed immutabile da cui tutto il resto - mutabile - dipende e che presumo non condividerai Se passa solo l'idea di avere un io impermanente privo pero del suo principio fondativo (Se) quello e' secondo me il nichilismo. PS: Il piacere di scrivere e' anche il mio
Il Sè vero, eterno, ecc. non essendo sperimentabile diventa per me motivo di fede.
...... E questo proprio per il rischio di cui parli di essere concepito come nichilismo e quindi anche dell'irrealtà di ogni valore etico. Pensa che persino il papa Giovanni Paolo II, nel suo libro "Varcare la soglia della speranza", ha relegato il buddhismo nelle visione nichilistiche, provocando molta amarezza negli ambienti di questa religione. E infatti, come ho già scritto, definire nichilista una filosofia di vita che, prima nella storia, faceva costruire ospedali per i viandanti e persino alloggi per curare gli animali, come "nichilistica" può far capire che grado di ignoranza reciproca esista nel mondo.
a mio avviso s
e viene a mancare il SE (che non può essere sperimentato dalla ragione o dai sensi,ma dall'intelletto che li trascende) inevitabilmente si finisce per imboccare la strada del nichilismo,sia pure nelle buone intenzioni.
Il buddismo - come filosofia - ha lo stesso problema di Schopenhauer. Nel caso di Schopenhauer l'ascesi serviva per passare dalla voluntas alla noluntas. Il punto è che se "tutto è Volontà" allora estinguere la volontà diventa "nichilismo":
In tal guisa adunque, considerando la vita e la condotta dei santi, che raramente ci è concesso invero d'incontrar nella nostra personale esperienza, ma che dalle loro biografie e, col suggello dell'interna verità, dall'arte ci son posti sotto gli occhi, dobbiamo discacciare la sinistra impressione di quel nulla, che ondeggia come ultimo termine in fondo a ogni virtù e santità e di cui noi abbiamo paura, come della tenebra i bambini. Discacciarla, quell'impressione, invece d'ammantare il nulla, come fanno gl'Indiani, in miti e in parole prive di senso, come sarebbero l'assorbimento in Brahma o il Nirvana dei Buddhisti. Noi vogliamo piuttosto liberamente dichiarare: quel che rimane dopo la soppressione completa della volontà è invero, per tutti coloro che della volontà ancora son pieni, il nulla. Ma viceversa per gli altri, in cui la volontà si è rivolta da se stessa e rinnegata, questo nostro universo tanto reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, è – il nulla. (Arthur Schopenhauer, Mondo come Volontà e Rappresentazione)
Secondo Schopenhauer tutto nasce proprio dalla Volontà che si "oggettiva" nelle cose. Tolta la Volontà cosa rimane?
Così in modo simile il buddismo con l'assenza di enti distinti può essere inteso come "nichilismo compassionevole" (a la Schopenhauer) nel quale si fa tutto per sfuggire ad un'esistenza del dolore togliendo il problema alla radice. Di certo i buddisti stessi non dicono che l'Estinzione/Nirvana sia il Nulla ma una Realtà incomprensibile a noi.
** scritto da Apeiron:
CitazioneCosì in modo simile il buddismo con l'assenza di enti distinti può essere inteso come "nichilismo compassionevole" (a la Schopenhauer) nel quale si fa tutto per sfuggire ad un'esistenza del dolore togliendo il problema alla radice.
Esatto, si fa di tutto, ma chi ci è riuscito davvero a sfuggirlo, quando quantunque vi si dovesse riuscire il solo fatto che un amico o una persona a noi cara non ce l'abbia fatta, ci farebbe di nuovo sprofondare nel dolore.
Purtroppo il dolore, quello dell'animo, nasce con l'amore, quindi, secondo me, estirpare il problema alla radice significa non amare o amare poco (che poi in fin dei conti danno lo stesso risultato); tralasciando che poi la stessa natura umana, fattasi per amare, così facendo genererebbe un dolore maggiore, apparentemente non rilevato, ma col tempo ben manifestato: basta guardarsi intorno.
P.S. = riscontro che la "divinità" che davvero unisce noi amanuensi (donandole la nostra fiducia) del sito è: Il Piacere dello Scrivere!
;D 8) ;D
Citazione di: Sariputra il 19 Gennaio 2017, 00:06:13 AMIl Sè vero, eterno, ecc. non essendo sperimentabile diventa per me motivo di fede. Non era il motivo di questa discussione , diciamo. Concordo con te su una cosa: la teoria dell'anatman ( o dell'Io impermanente , chiamiamola così , sono solo definizioni...) può essere facilmente fraintesa e infatti non viene insegnata neanche nei paesi di fede buddhista. E ' molto complessa e in certo senso va contro il pensare comune con cui cresciamo.
Il Sé non può essere motivo di fede ma è necessario logicamente e anche ontologicamente, quindi sperimentabile da un punto di vista logico (non essendo materiale l'unica esperienza che se ne può fare è ovviamente mentale, o se vuoi spirituale). Se non ci fosse non ci sarebbe nemmeno l'impermanenza di tutto ciò che è impermanente. Per potersi dare il divenire è necessario l'essere, altrimenti cos'è che diviene: il nulla? Si potrà rispondere, come Eraclito, che tutto diviene, ma allora questo "tutto" deve necessariamente essere (come in effetti è) perchè il divenire non identifica un'essenza ma un movimento, un cambiamento. E fra l'altro uno che a mio avviso la sapeva molto lunga come Ananda Kentish Coomaraswamy scriveva "Il buddhismo, se lo si studia superficialmente, sembra differire dal brahmanesimo da cui deriva; ma se se ne approfondisce lo studio diventa difficile distinguerli e stabilire per quali aspetti il buddhismo non sia ortodosso". Nel buddhismo viene dato rilievo ad alcuni aspetti dell'insegnamento invece che ad altri, ma nella sostaza, o forse meglio nell'essenza, le dottrine non differiscono, così come essenzialmente non differiscono i darshana induisti anche se pongono ognuno l'accento su parti diverse della dottrina. Gautama fu un riformatore nel senso etimologico che cambiò la forma, ma la sostanza della dottrina rimane la medesima.
Citazione di: Apeiron il 19 Gennaio 2017, 09:25:29 AMIl buddismo - come filosofia - ha lo stesso problema di Schopenhauer. Nel caso di Schopenhauer l'ascesi serviva per passare dalla voluntas alla noluntas. Il punto è che se "tutto è Volontà" allora estinguere la volontà diventa "nichilismo": In tal guisa adunque, considerando la vita e la condotta dei santi, che raramente ci è concesso invero d'incontrar nella nostra personale esperienza, ma che dalle loro biografie e, col suggello dell'interna verità, dall'arte ci son posti sotto gli occhi, dobbiamo discacciare la sinistra impressione di quel nulla, che ondeggia come ultimo termine in fondo a ogni virtù e santità e di cui noi abbiamo paura, come della tenebra i bambini. Discacciarla, quell'impressione, invece d'ammantare il nulla, come fanno gl'Indiani, in miti e in parole prive di senso, come sarebbero l'assorbimento in Brahma o il Nirvana dei Buddhisti. Noi vogliamo piuttosto liberamente dichiarare: quel che rimane dopo la soppressione completa della volontà è invero, per tutti coloro che della volontà ancora son pieni, il nulla. Ma viceversa per gli altri, in cui la volontà si è rivolta da se stessa e rinnegata, questo nostro universo tanto reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, è – il nulla. (Arthur Schopenhauer, Mondo come Volontà e Rappresentazione) Secondo Schopenhauer tutto nasce proprio dalla Volontà che si "oggettiva" nelle cose. Tolta la Volontà cosa rimane? Così in modo simile il buddismo con l'assenza di enti distinti può essere inteso come "nichilismo compassionevole" (a la Schopenhauer) nel quale si fa tutto per sfuggire ad un'esistenza del dolore togliendo il problema alla radice. Di certo i buddisti stessi non dicono che l'Estinzione/Nirvana sia il Nulla ma una Realtà incomprensibile a noi.
Schopenhauer ha elaborato la gran parte della sua filosofia dalle concezioni orientali, e da quella buddhista in particolare, ma ha fatto qualche errore di interpretazione e la sua elaborazione ne ha risentito parecchio. Quindi il nichilismo non è un problema del buddhismo, ma semmai solo di Schopenhauer. In fondo al suo libretto intitolato "Il mio Oriente" uno studioso del buddhismo commenta: «Il fatto che personaggi del calibro di Nietzsche, von Hartmann, Scheler, Schweitzer, Jaspers, Keyselring, Mann, Hesse, Fromm debbano a Schopenhauer il proprio vivido interesse per l'India e il Buddhismo - e che ancora oggi il suo nome resti universalmente legato alla diffusione della cultura orientale in Occidente - dimostra che egli, a suo modo, fu senz'altro il miglior apostolo del Buddha in Europa. Ma al tempo stesso fu forse, anche, il suo peggior allievo. Malgré lui».
Citazione di: Sariputra il 18 Gennaio 2017, 23:29:55 PM
@ Maral
Infatti la formula completa è "A è anche non-A, pertanto A". Come vedi questa formula non esclude che A=A ma inserisce il fattore "anche non-A"( che è diverso da A è non-A). Vorrebbe dire che A esiste ma il suo essere anche non-A gli permette di cambiare, di trasformarsi, di vivere. Per dare un'immagine , se ci riesco: un albero è un albero ( A=A) ma tutto cio che non è albero ( la luce, la pioggia, la terra, ecc.) ossia non-A, permette all'albero ( A) di esistere (pertanto A ). La concezione buddhista sostiene che A ( l'albero) non si può intendere come ente permanente, fisso, durevole perché la sua esistenza è dipendente da tutto ciò che è non-A (non-albero, ossia la pioggia, la luce , la terra). Come vedi niente viene perduto: l'albero è sempre l'albero, la pioggia è sempre la pioggia, la terra è sempre la terra e l'Io che scrive è sempre l'Io che scrive. Si passa solo da una prospettiva in cui si vede l'albero come identità fissa e indipendente, ad un'altra in cui l'albero ( e anche l'io, Acquario...) cambia in continuazione perché dipendente da ciò che non è albero. E questo appare evidente all'osservazione. Se manca l'acqua l'albero rinsecchisce e cambia; resta un albero (A) ma non è più lo stesso albero rigoglioso di prima. Il fattore non-A ( la pioggia assente) gli ha permesso di cambiare. Se non ci fosse il fattore non-A non ci sarebbe alcun cambiamento; tutto sarebbe fisso , eterno, immutabile, sterile come una landa desolata.
Vedi come la formula logica A=A non va perduta ma bensì arricchita? Il fattore non-A non toglie l'esistenza di una cosa ma , al contrario, permette la vita e il tempo di quella cosa.
La mente intuisce naturalmente questo processo, ma la ragione si ostina a fissarlo , a fermarlo in frammenti, ossia si ferma alla formula A=A . Si potrebbe dire che si ostina a vedere il particolare e ignora il generale. La filosofia occidentale, per quel che ne conosco attraverso di voi ( anche per questo passo tanto tempo sul forum, Acquario...), mi sembra ossessionata dal particolare e gli viene a mancare un "respiro" più ampio ( ovviamente senza generalizzare o banalizzare). Pertanto quando il Sari dice ( e mi ricollego anche alle critiche di Acquario...) che non c'è Io, intende solamente che non c'è un Io indipendente e permanente, ma bensì c'è un Io dipendente da tanti fattori che non -sono Io ( contatto, sensazioni, volizioni, ecc.)e pertanto impermanente. Ma se non ci fossero questi fattori di non-Io non ci sarebbe alcun Io, ma solo fissità immobile.
A me sembra che questa posizione sia più logica e sorretta dall'esperienza concreta della nostra vita, che non la concezione di enti permanenti, fissi, eterni, immutabili, ecc. ( oltre che essere mooolto più artistica e Bella , chè percepisco una bellezza senza fine in questo eterno fluire di tutte le cose che si sorreggono a vicenda, c'è molto Amore...).
Sari, quello che sostieni qui (ossia che l'identità di A a se stesso è fondata da ogni NON A) è esattamente quello che sostiene la dialettica hegeliana che è proprio quella che segue Severino: l'Essere A di A comprende il NON A, tant'è che solo l'infinito apparire di tutti NON A possono manifestare A. L'isolamento di A in se stesso è invece, al contrario, proprio quello che Severino chiama la Terra Isolata, ossia l'ente astratto preso in astratto (che se vogliamo corrisponde a una figura della logica formale classica).
La differenza tra Hegel e Severino consiste nel fatto che mentre per il secondo A diventa la totalità (espressa dal totale delle sue negazioni) in un progressivo divenire, per Severino lo è già da sempre e per sempre, anche se questa totalità viene in eterno continuamente ad apparire, senza mai potersi esaurire o concludere (metaforicamente, come nonostante questo testo è un ente unico e immediato nella sua totalità, esso si può leggere solo una parola dopo l'altra, c'è quindi la necessità di una successione nel suo apparire, l'apparire è il tempo stesso in cui la successione ha luogo, ma l'apparire non è divenire se per divenire si intende passare da non essere a essere e quindi di nuovo a essere da parte dell'essente). E l'apparire dell'apparire è la stessa Gloria, ben diversa dalla totalità Hegeliana posta alla fine dei tempi e raggiungibile dal pensiero dialettico che muove dall'oscurità ove tutte le vacche sono nere, alla luce ove tutte le vacche saranno viste nel loro vero colore, in una sintesi che tutto abbraccia. Per Severino la totalità di ogni ente (e la totalità di tutti gli enti) c'è sempre e immutabile, ma via via appare nelle sue negazioni che sono gli altri enti.
Anch'io sono perfettamente d'accordo sulla necessità di intendere l'identità su base dialettica e non formale, ma a questo il pensiero occidentale c'è comunque arrivato, per di più in quel punto culminante per la metafisica che è rappresentato da Hegel.
Credo che l'incomprensione del vero cuore di una filosofia come quella del Buddha , nasca perché noi la giudichiamo secondo le categorie di pensiero occidentale ( sostanzialmente sulla base della filosofia greca da quello che capisco...). Secondo queste categorie l'Essere e il Divenire sono incompatibili, si negano a vicenda, sono opposti. Secondo il pensiero buddhista ( ma forse orientale in genere, e qui sono solo parzialmente d'accordo con Coomaraswamy) l'essere è ( esiste quindi ) nel divenire e non può che manifestarsi nel divenire. Essere e divenire vanno a braccetto, se così si può dire e si sostengono a vicenda, dato che non è possibile l'uno senza l'altro. Il Buddha non si è mai occupato della questione del Vero Sè, giudicandola non rilevante all'interno del suo Insegnamento, in quanto inteso non come "Annientameto dell'essere" (Schopenauer, accidenti a lui e al tutto il male che ha fatto per la sua superficiale conoscenza di queste filosofie...) ma come annientamento del dolore insito nel divenire continuo.
Questo annientamento del dolore non si può intendere in maniera nichilistica, altrimenti non verrebbe data nessuna enfasi alla dimensione non-dolorosa che esiste ( il non-nato, non-divenuto, non-composto, ecc.). Se però si intende questo stato non-composto come una divinità o come un Essere in sé ( induismo) il buddhismo diverge totalmente perché pone questa dimensione spirituale all'interno del divenire stesso ( i confini del Nirvana sono i confini del samsara). Per il buddhismo tutto è natura e nulla trascende la natura ( nemmeno il Nirvana). Nella mia personale concezione del Dharma ( perché , come ogni cristiano ha la sua personale riflessione e visione di Dio, anch'io ho maturato la mia su questo tema... ;D) questo non "abbassa" l'esistenza rendendola un cieco vortice di semplici cause e condizioni , ma invece la "innalza" perché non ponendo distinzioni tra il divenire e lo stato che non-diviene rende il divenire manifestazione di quello stato inesprimibile, pertanto il buddhismo "santifica" ( usando un termine giudaico-cristiano) in un certo modo il divenire stesso che la filosofia Parmenidea e poi la teologia giudaico cristiana aveva relegato nella categoria del male ( L'Essere è il bene - il Divenire è il male e dentro questo dualismo si è sempre mossa e compiaciuta). Infatti Nagarjuna afferma " All'interno del samsara sono contenuti infiniti mondi di Buddha"( Buddha qui è sinonimo di "Mondi di libertà dal dolore" e non come divinità...).
@ JeanScusa, a volte per essere sintetico risulto criptico (che è un difetto, non un pregio!).
Citazione di: Jean il 18 Gennaio 2017, 22:23:51 PM-l'io "arriva" all'esistenza tramite l'accumulo di "strutture" apprese dal contesto culturale> chi è il soggetto che apprende?
Il soggetto
si forma (azione riflessiva) ap
prendendo dall'ambiente (che comprende anche gli altri soggetti), sin dall'infanzia, e continua anche in seguito (finché c'è interazione con l'ambiente circostante).
Citazione di: Jean il 18 Gennaio 2017, 22:23:51 PM-se viene decostruito... > chi potrebbe decostruire l'io, la persona (?) altri o specifiche circostanze?
Può essere una auto-manutenzione, un lavorio su se stessi (come quando si cerca di "migliorare" nei propri difetti), oppure, certamente, può essere un evento esterno, magari accidentale (magari un incontro), a provocare un cambiamento significativo che "decostruisce" un po' di quello che era stato accumulato...
Citazione di: Jean il 18 Gennaio 2017, 22:23:51 PM-raggiungere uno stato neutro karmicamente > è una tua ipotesi o proviene da qualche spiegazione/tradizione ecc.? Che significa?
Con "neutralità karmica" alludevo al non accumulo di karma negativo (parafrasando il buddhismo) o, meglio ancora, accumulo di karma positivo per ribilanciare il negativo precedente (quindi raggiungere il punto zero, se prima si era "in passivo"... e il punto zero, senza più meriti né demeriti, forse può essere inteso anche come "illuminazione").
Citazione di: Jean il 18 Gennaio 2017, 22:23:51 PM-In quest'ottica ci sono dunque due piani, nessuno dei quali è ingannevole, ma sono entrambi "reali", solo che uno è "artificiale", l'altro è "distillato" > Quale ottica, piani... reali, artificiali e distillati..?
Secondo l'ottica (mia?) in cui l'io esiste, non è illusione ma (auto)costruzione, eppure è anche possibile decostruirlo fino a renderlo "insostanziale" (stando a quanto prospetta il buddhismo), ci sono due "piani", due livelli di esistenza, entrambi reali (ovvero non "falsi"): quello della artificiale accumulazione di karma su un io strutturato (ma non illusorio) e quello dell'identità "distillata", destrutturata, che non si riconosce più come identità distinta e separata del resto ("illuminata" per dirla in gergo buddhico).
Citazione di: Duc in altum! il 19 Gennaio 2017, 10:33:09 AM** scritto da Apeiron:
CitazioneCosì in modo simile il buddismo con l'assenza di enti distinti può essere inteso come "nichilismo compassionevole" (a la Schopenhauer) nel quale si fa tutto per sfuggire ad un'esistenza del dolore togliendo il problema alla radice.
Esatto, si fa di tutto, ma chi ci è riuscito davvero a sfuggirlo, quando quantunque vi si dovesse riuscire il solo fatto che un amico o una persona a noi cara non ce l'abbia fatta, ci farebbe di nuovo sprofondare nel dolore. Purtroppo il dolore, quello dell'animo, nasce con l'amore, quindi, secondo me, estirpare il problema alla radice significa non amare o amare poco (che poi in fin dei conti danno lo stesso risultato); tralasciando che poi la stessa natura umana, fattasi per amare, così facendo genererebbe un dolore maggiore, apparentemente non rilevato, ma col tempo ben manifestato: basta guardarsi intorno. P.S. = riscontro che la "divinità" che davvero unisce noi amanuensi (donandole la nostra fiducia) del sito è: Il Piacere dello Scrivere! ;D 8) ;D
Sono d'accordo con te, Duc. Infatti il pregio del concetto cristiano dell'amore come
servizio e
disponibilità a condividere il dolore con l'altro mi paiono più realistici dell'"assenza di dolore". Voglio dire: che "valore" ha un atto di carità se in esso non c'è della
fatica, della rinuncia da parte nostra? Ma è anche vero che il buddismo non è lo schopenhauerismo (che però diciamo è il buddismo per come noi possiamo comprenderlo, secondo me) in quanto nel buddismo la
rinuncia e
misericordia ("metta")è uno dei valori più riconosciuti. In entrambi i casi l'obbiettivo non è far soffrire sé e l'altro (dolorismo) ma aiutare sé e l'altro. Comunque una delle grandi differenze tra il buddismo theravada e mahayana è che il buddismo mahayana (di cui la scuola madhyamaka - che è quella che mi pare che segua il Sari - fa parte) ritiene migliori i
bodhisattva, ossia coloro che rinunciano alla Liberazione e rimangono nel samsara,rispetto agli
arhant, coloro che hanno ottenuto la Liberazione individuale
. Anzi alcune tradizioni del buddismo mahayana ritengono la Liberazione individuale una contraddizione in termini (appunto perchè non ci sono "sé" separati ma solo esistenza condizionata) e cercano la Liberazione di tutti gli esseri senzienti e quindi il bodhisattva si sacrifica (e a volte arriva a qualcosa di simile al martirio...) per cercare di salvare gli altri esseri. Personalmente non capisco come si possa "voler salvare l'altro" senza pensare che abbia un'identità separata, però come spero di aver fatto capire questo è anche dovuto al fatto che penso in modo troppo "occidentale".
Citazione di: Sariputra il 19 Gennaio 2017, 11:59:49 AMCredo che l'incomprensione del vero cuore di una filosofia come quella del Buddha , nasca perché noi la giudichiamo secondo le categorie di pensiero occidentale ( sostanzialmente sulla base della filosofia greca da quello che capisco...). Secondo queste categorie l'Essere e il Divenire sono incompatibili, si negano a vicenda, sono opposti. Secondo il pensiero buddhista ( ma forse orientale in genere, e qui sono solo parzialmente d'accordo con Coomaraswamy) l'essere è ( esiste quindi ) nel divenire e non può che manifestarsi nel divenire. Essere e divenire vanno a braccetto, se così si può dire e si sostengono a vicenda, dato che non è possibile l'uno senza l'altro. Il Buddha non si è mai occupato della questione del Vero Sè, giudicandola non rilevante all'interno del suo Insegnamento, in quanto inteso non come "Annientameto dell'essere" (Schopenauer, accidenti a lui e al tutto il male che ha fatto per la sua superficiale conoscenza di queste filosofie...) ma come annientamento del dolore insito nel divenire continuo. Questo annientamento del dolore non si può intendere in maniera nichilistica, altrimenti non verrebbe data nessuna enfasi alla dimensione non-dolorosa che esiste ( il non-nato, non-divenuto, non-composto, ecc.). Se però si intende questo stato non-composto come una divinità o come un Essere in sé ( induismo) il buddhismo diverge totalmente perché pone questa dimensione spirituale all'interno del divenire stesso ( i confini del Nirvana sono i confini del samsara). Per il buddhismo tutto è natura e nulla trascende la natura ( nemmeno il Nirvana). Nella mia personale concezione del Dharma ( perché , come ogni cristiano ha la sua personale riflessione e visione di Dio, anch'io ho maturato la mia su questo tema... ;D) questo non "abbassa" l'esistenza rendendola un cieco vortice di semplici cause e condizioni , ma invece la "innalza" perché non ponendo distinzioni tra il divenire e lo stato che non-diviene rende il divenire manifestazione di quello stato inesprimibile, pertanto il buddhismo "santifica" ( usando un termine giudaico-cristiano) in un certo modo il divenire stesso che la filosofia Parmenidea e poi la teologia giudaico cristiana aveva relegato nella categoria del male ( L'Essere è il bene - il Divenire è il male e dentro questo dualismo si è sempre mossa e compiaciuta). Infatti Nagarjuna afferma " All'interno del samsara sono contenuti infiniti mondi di Buddha"( Buddha qui è sinonimo di "Mondi di libertà dal dolore" e non come divinità...).
Pel la scuola theravada dire "il samsara e il nirvana sono la stessa cosa" è affermare una sorta di "eresia":
http://www.accesstoinsight.org/lib/authors/bodhi/bps-essay_27.html
Traducendo un pass: "Le scuole Mahayana, a dispetto delle loro grandi differenze, concorrono nell'appoggiare una tesi che dal punto di vista Theravada confina con l'essere oltraggio. Questa è l'affermazione c'è nessuna differenza ultima tra nirvana e samsara, purezza e profanazione, ignoranza e illuminazione...". Per questo motivo la scuola Theravada riconosce l'Anatta ma è
dualistica. La cosa interessante è che il Nirvana della scuola Theravada è anch'esso "senza sé", tuttavia è "permanente, non originato...". Con questo voglio dire che gli stessi buddisti a quanto pare hanno grosse difficoltà a capire la loro dottrina... quindi non è un problema occidentale.
Comunque il cristianesimo non mi pare che dica che il divenire
in sé è un male, ma il divenire che non "segue la volontà di Dio lo è".
@maral, a mio giudizio la dialettica di Hegel è errata perchè il movimento dialettico è visto come una necessità. Ritengo invece come Kierkegaard che la dialettica sia condizionata dalla possibilità e quindi dal libero arbitrio: le nostre scelte condizionano il nostro essere. Tramite le nostre scelte
diventiamo e il nostro essere coincide con ciò.
Da qui l'importanza dell'
etica e con ciò della
fede. Vista la nostra imperfezione (e dal "pentimento" che essa comporta...) secondo me è impossibile fare una vita completamente senza "peccati" o azioni "che producono karma negativo". La
fede in sostanza è riconoscere di avere bisogno d'aiuto. Duc forse potrà chiarirci meglio sul fatto che a mio giudizio nel cristianesimo il bene lo si fa perchè si
sceglie di "lasciarsi andare" e "far agire l'amore divino in sé". Personalmente però ho difficoltà a
accettare la dottrina cristiana per come essa è. P.S. Voglio anche spezzare una lancia a favore di Schopenhauer. Schopenhauer ritiene che in sostanza la causalità e l'io sono espressioni del mondo fenomenico - ossia oggettivazione della Volontà - e la Liberazione consiste nel "rinunciare" alla Volontà di modo da "nullificare il fenomeno". Con questo Schopenhauer in sostanza voleva dire che l'io, la causaltà e gli enti sono prodotti dalla nostra intima tendenza all'attaccamento. Rinunciando all'attaccamento e riconoscendo che il proprio io è illusorio
sembra non rimanere che il Nulla. Ma per lui rimane la Liberazione. Tuttavia ritiene che le dottrine dell'Advaita e del Buddismo siano "mitologie" della sua che è più "razionalistica". Mitologie perchè vogliono dire ciò che è ineffabile, ossia l'Estinzione della Volontà. In questo Schopenhauer mi sembra
molto simile al buddismo.
rispondo a Phil:
Un conto è descrivere, constatare la situazione attuale del clima culturale individuando gli orientamenti dominanti, ed in questo senso, purtroppo a mio avviso, tali orientamenti consistono soprattutto nello scetticismo e nel materialismo che tenta di riportare in auge l'assolutizzazione dell'ambito delle scienze naturali tipica del positivismo ottocentesco, che era stato superato proprio dagli sviluppi dell'epistemologia novecentesca (penso ad esempio a un Popper), un altro dedurre dal riconoscimento di tali orientamenti come dominanti l'idea che essi possiedano un valore teoretico superiore rispetto ad orientamenti che furono dominanti nel passato ma oggi marginali. Tale deduzione è scorretta ed arbitraria. Il filosofo deve avere il coraggio intellettuale di difendere le sue opinioni fintanto che le ritiene razionali e vere non curandosi di quali posizioni sono egemoni nella sua epoca. Se così non fosse la filosofia si ridurrebbe dogmaticamente a senso comune. Io non me la sento di rinunciare a portare avanti le mie modestissime idee, in buona parte ispirate alla metafisica classica, Platone, Agostino, Tommaso, Cartesio ecc., poi personalmente rielaborate, o almeno ci provo, perché nell'epoca in cui mi è capitato vivere questi orientamenti hanno da tempo ormai perso l'egemonia culturale e sembrano dover finire nel dimenticatoio o al museo. Eventualmente andrò nel museo anch'io! E chissà che fra qualche tempo ciò che ora si trova al museo non esca fuori a riconquistare l'egemonia e ciò che ora è egemone non entri al museo... Del resto la decostruzione della metafisica classica è tutto da dimostrare sia stata davvero un valido e razionale superamento. Tra l'altro non direi che la contemporaneità (per intenderci, il novecento), sia così caratterizzata dalla scomparsa dalla scena del modello della metafisica classica o della filosofia di impronta essenzialista o trascendentalista. Pensiamo a tutta la corrente dello spiritualismo neoagostiniano in Italia e in Francia (a proposito, sono reduce dalla visione su Youtube di una bella lezione del compianto Reale sull'attualità del pensiero di Agostino), alla neoscolastica che riprende e riattualizza Tommaso in autori come Maritain, Fabro, Bontadini, quest'ultimo grande maestro del così tanto citato in questo forum Severino. Pensiamo alla ripresa del tema dell'ontologia classica e delle prove dell'esistenza di Dio nella filosofia analitica anglosassone, superficialmente considerata una roccaforte del positivismo. Soprattutto pensiamo alla centralità che ha rivestito la fenomenologia husserliana, tutta protesa alla polemica contro i positivisti, "gli uomini di fatto", in favore della considerazione della filosofia come "scienza di essenze", dell'idea di riduzione trascendentale, di un certo ritorno a Cartesio, dell'Io puro, della messa tra parentesi delle scienze naturali e che poi trova tra le sue ramificazioni proprio il ripristino dell'ontologica classica su base fenomenologica in autori come Scheler, la Stein, la Conrad Martius... esiste oggi un'intera area di ricerca universitaria dedicata all'analisi di un possibile recupero della metafisica e di un'antropologia classica che si giova di spunti fenomenologici. E Siamo nel novecento, non nel paleolitico!
L'epistemologia non può mandare in soffitta la metafisica perché la prima di fatto è una ramificazione, una conseguenza della seconda. Un'epistemologia, una riflessione filosofica sulla scienza è possibile nella misura in cui l'epistemologo, che è sempre un filosofo, sa qualcosa che la scienza che diviene oggetto della riflessione non può possedere nella sua immanenza, è in possesso di un punto di vista ulteriore, trascendente. Riflettere sulla scienza, mettere in discussione le sue pretese conoscitive, stabilirne i limiti e le possibilità rientra nell'acquisizione di un complesso di significati che la scienza non possiede in sé, ma riceve da qualcosa di esterno ad essa, il punto di vista del sapere riflettente. Come potrebbe la scienza da sola criticare sé stessa senza mediarsi in una prospettiva ad essa esterna? Sarebbe assurdo e lo sarebbe alla luce del principio per cui la condizione di soggetto riflettente determina sempre un'irriducibilità, un margine di autonomia nei confronti di ciò che si pone nella condizione di oggetto, che subisce passivamente l'atto riflessivo. In altre parole, ogni riflessione presuppone sempre uno scindersi tra soggetto ed oggetto. Non potrebbe dunque la stessa scienza oggetto della riflessione epistemologica lo stesso punto di vista che opera tale riflessione, altrimenti ogni epistemologia cadrebbe nel circolo vizioso argomentativo: il sapere riflettente per mettere in discussione la scienza e coincidendo esso stesso con la scienza da mettere in discussione dovrebbe mettere in discussione se stessa all'infinito senza mai trovare criteri di giudizio intrinsecamente validi che blocchino la necessità del ricorso all'infinito, il classico cane che si morde la coda. Tali criteri intrinsecamente validi l'epistemologia non può trovarli nelle scienze che mette in discussione ma deve per forza attingerli ad una dimensione trascendente, filosofica: l'epistemologo non ha bisogno di essere scienziato, ma filosofo, e la riflessione sulla fisica dovrà porsi in atto a partire da un punto di vista che per essere valido non può coincidere con la fisica ma la deve trascendere, cioè un punto di vista metafisico. La metafisica resta così la necessaria base fondativa della possibilità dell'epistemologia, della filosofia della scienza
La fisica non può essere la base dell'ontologia, perché la fisica, occupandosi di realtà materiali, di cui possiamo avere solo un'esperienza sensibile, corporea, non potrebbe avere mai gli strumenti per analizzare concetti aventi un significato intelligibile e dunque spirituale. Come è possibile che pensare di sezionare in laboratorio concetti come "Essere", "ente", "essenza"? Qua saremmo in una chiara ed evidente inadeguatezza del metodo, l'esperienza sensibile valida per l'apprensione di una parte limitata dell'Essere, la parte degli oggetti fisici, nei confronti degli oggetti al cui studio ci si rivolge, ciò che è universale, la totalità del pensabile, non riducibile a ciò che cade sotto i 5 sensi, e che possiamo considerare solo attraverso uno sforzo di astrazione dal sensibile, per il quale la sensibilità più che essere un supporto è un'impiccio, in quanto ostacolo l'elaborazione di una visione eidetica e intelligibile adeguata all'intelligibilità dei concetti ontologici. Dunque l'ontologia resta pieno appannaggio della filosofia. Mi parrebbe eccessivo sostenere che senza il vincolo della fisica l'ontologia sarebbe rimasta a Parmenide. A parte il fatto che andrebbe ancora dimostrato che Parmenide abbia avuto tutti i torti, dopo di lui l'ontologia ne ha fatta di strada, c'è stato Platone, Aristotele, la scolastica medievale, Cartesio, Spinoza, l'idealismo hegeliano, Rosmini, la fenomenologia husserliana, Heidegger, tutti orientamenti che nelle loro differenze hanno provato a impostare il discorso sull'Essere senza che siano identificabili con la fisica, quantomeno come la si intende comunemente in senso stretto
Domanda per il Sari: il Dhamma affinchè il buddismo abbia senso deve essere immutabile, eterno e assoluto. Altrimenti non sarebbe possibile liberarsi "ascoltando e mettendo in pratica l'insegnamento di Gotama". Mi chiedo: non è che il Dhamma fa il ruolo di un Dio non-personale, ossia una Legge Eterna, nel buddismo? E Gotama in questo senso sarebbe una sorta di " "messaggero" (tra virgolette perchè è insostanziale ;D ) di questa Legge". In sostanza per te il Dhamma è al di fuori dei condizionamenti?
Citazione di: Apeiron il 19 Gennaio 2017, 17:25:46 PMDomanda per il Sari: il Dhamma affinchè il buddismo abbia senso deve essere immutabile, eterno e assoluto. Altrimenti non sarebbe possibile liberarsi "ascoltando e mettendo in pratica l'insegnamento di Gotama". Mi chiedo: non è che il Dhamma fa il ruolo di un Dio non-personale, ossia una Legge Eterna, nel buddismo? E Gotama in questo senso sarebbe una sorta di " "messaggero" (tra virgolette perchè è insostanziale ;D ) di questa Legge". In sostanza per te il Dhamma è al di fuori dei condizionamenti?
Dhamma come
dukkha sono termini che hanno una tale ricchezza di significati e implicazioni che nessuna traduzione in una lingua occidentale può renderne giustizia. Cito , nel caso di Dhamma, solo alcuni:
Verità, Natura, Legge, Verità naturale, Dovere, Ordinamento, il modo di essere delle cose, dovere in armonia con la Legge di natura e i Frutti che derivano dall'aderire a questo dovere.
Personalmente preferisco "il modo di essere delle cose" ( ossia impermanente, doloroso, privo di sè-autonomo), quindi le cose mutano ma sempre condizionate dal loro modo d'essere. Buddha quindi non è il messaggero di nessuno , ma lo scopritore ( per i fedeli buddhisti ovviamente...) del modo di essere delle cose . Questa scoperta è alla portata di ogni mente, anzi è la Natura della mente non offuscata dall'attaccamento ...gratti via avijja ( errata comprensione) ed ecco... risplende la mente di Buddha... ;D ossia risplende
panna , la saggezza, la conoscenza, la visione corretta e diretta esperienza di ciò che occorre conoscere per l'estinzione del dukkha, cioè: le quattro nobili verità, i tre segni dell'essere, l'originazione interdipendente e il vuoto. Il termine 'conoscere' nel buddhismo non deve lasciar intendere una comprensione intellettuale ( filosofica) , benchè anche questa abbia la sua parte. L'accento è sull'esperienza diretta, intuitiva, non concettuale della vita, qui e ora. Memoria, linguaggio e pensiero non sono necessari ( Saichi , per es. era un pastore semianalfabeta...). E'
panna ( prajna), più che la fede o la volontà, il tratto distintivo del Buddhismo.
Volevo chiarire a quale scuola appartengo. La scuola che seguo è il Sariyana, molto diffusa nella Contea e di cui Villa Sariputra ne è il tempio. Il Sari, modestamente, ricopre la carica di abate di questa scuola... ;D ;D
A parte gli scherzi, penso che sia ormai giunto il tempo di superare lo schematismo dei "veicoli" con il loro dogmatismo poco buddhista e aderire a quello che ajahn Buddhadasa chiamava "Buddhayana", veicolo del Buddha. Buddhadasa come penso conosci fu una delle più importanti personalità del buddhismo nel XX secolo e considerato il fondatore del riformismo theravada. E se vuoi un esempio della sua visione riformista ti lascio questo passo:
"Questo spiega perché oggi il Buddhismo non offre il rifugio che si propone di offrire, anche se è opinione corrente che il Buddhismo sia molto più diffuso ora che in passato e che sia conosciuto di più e meglio. E' vero: si studia molto l'insegnamento e si è raggiunta una conoscenza notevole ma, se non capiamo di essere malati spirituali, che uso faremo degli insegnamenti? Se non sappiamo di essere malati, non andiamo dal dottore e non ci curiamo. E' ovvio. I più non vedono la propria malattia e fanno collezione di medicine. Ascoltiamo il Dhamma, ne studiamo le virtù curative, senza capire che siamo noi i malati. Lo accettiamo solo per aggiungere una cosa in più a tutte le altre cose. Oppure per usarlo come argomento di discussione ( ahem... :-[ :-[ :-[ ), quando non di disputa o di lite. Ecco perché il Dhamma non è lo strumento efficace di cura che potrebbe essere...Fatene un farmaco che guarisce, non una semplice parodia." ( Ajahn Buddhadasa-Il cuore della malattia).
Sariputra= figlio(o cugino) della cascata.
Me lo hanno detto gli e.t che mi hanno accompagnato a villa Sariputra, grande discepolo del Buddha.
In quei libri antichi , nei mandala cantati come inni del rigveda, c'è la creazione di un Uno e poi gli dei.
Si racconta di cicli temporali che ritornano.
L'interpretazione umana di questi cicli è molto simile a tutte le culture, vale a dire la condanna umana nell' esistenza mondana
Il Dharma è la legge naturale, vale adire i cicli temporali.
Ha ragione Donquixote ,fra quella prima scrittura vedica che è un "corpus" non da poco, e poi le interpretazioni spirituali e religiose,
c'è "la saggezza". Quei darshana ( che è la "prima, originaria conoscenza) stanno fra le regole fondamentali e le interpretazioni spirituali
Il Buddha cerca un sistema per rompere il ccilo temporale della legge naturale applicata all'esistenza umana.
Quindi il dharma è la legge naturale, in cui l'uomo come esistenza è inserito come samsara e ciò produce dukkha, sofferenza.
Adatto che la regola del samsara è la trasmigrazione come reincarnazione, in quanto non è contemplato un oltre, un al di là fuori dai cicli temporali, e segue un ciclo evolutivo di reincarnarsi dal vegetale al saggio seguendo una regola comportamentale (etica), il nirvana è quindi la soluzione.
Le vere e proprie regole, così come in tutte le culture e tradizioni, sono nelle cosmogonie,cosmogenesi.
Le spiritualità e religioni sono il sistema di relazione che permette di fuoriuscire dalla legge di natura che produce sofferenza.
Per inciso , nell'Occidente contemporaneo questa "posizione" è tentata di essere presa dalle scienze(il potere salvifico di vincere le leggi di natura)
Ora se il dharma è la legge di natura, l'interpretazione della natura generatrice di sofferenza viene vista come negazione.
La via che vince la sofferenza è comunque un trascendere maya, l'immagine illusa della natura.
Il trascendere per l'orientale è legato alla terra comunque, alla schiavitù condizionante di un divenire che incrementa il tempo, ma che si curva per chiudere il ciclo.
La linearità (quindi un tempo che non è ciclico) del cristianesimo presuppone il salto trascendentale, come elevazione verso un oltre, un al di là. Quì è netto il contrasto fra natura e sacro, fra bene e male perchè è netta la separazione fra cielo e terra.
Nella cultura orientale è invece meno trascendentale, per cui anche i termini ,ad esempio come "deva" è sì una divinità(non sempre) spesso è benevola, a volte incarna il male.
Per l' Occidentale e cristiano, la morte nel tempo lineare del divenire è fine fisica e trascendere spirituale.
Per l'Orientale è comunque ritornare nel dharma, perchè se si può spezzare il samsara ,non si può spezzare il dharma: l'eterno ritorno.
Sempre per inciso, fra i libri vedici e la cultura persiana degli Avesta, che porterà al zoroastrismo , c'è una continuità anche quì.
@Paul11
Figlio della cascata non è niente male, vero?.. ;D
La questione del significato che ogni essere umano si pone osservando il dramma della vita e che porta a chiedersi: "Che razza di gioco è questo? Qual'è il suo significato e scopo, e che cos'è tutto questo?" è alla base delle risposte che le religioni umane tentano di dare. Religioni diverse danno risposte diverse. Mi sembra ci siano due approcci prinicipali: la visione giudaico-cristiana che tanto ha influenzato e permeato l'intero "senso della vita" occidentale e quella buddhista ( che differisce da quella hindu in diversi punti). Il dramma viene dipinto, più o meno, in questo modo: Visione storica ( giudaico-cristiana) e non-storica ( come viene definita da molti teologi quella buddhista).
La visione storica:
1. La storia ha un inizio e una fine.
2.E' teleologica. L'universo è progettato e la storia dell'umanità va diretta verso una fine, per uno scopo ben definito.
3.La storia è pregna di significato ( anche se questo significato può risultare incomprensibile all'uomo). La storia, ossia il dramma umano, non è accidentale; ha un significato nell'adempimento di una volontà o di un piano Divino. Questo significato è noto solo a Dio, il Creatore.
4.La storia umana, proprio come un dramma, è a intensità crescente. Ha un inizio, un momento culminante e una fine.
5. Questo unico dramma viene recitato sul palcoscenico chiamato Terra, inteso quindi come centro dell'universo per quanto riguarda questa rappresentazione.
La visione non-storica ( ma i buddhisti la definiscono trans-storica):
1.La storia ha un inizio e una fine , ma solo in senso relativo, non assoluto.
2.La storia è piena di significato poichè è un processo necessario per la realizzazione della Perfezione per tutti gli esseri viventi.
3.La storia umana non è l'unica con un significato:;ci sono numerose storie di altri esseri senzienti in altri luoghi o universi.
4.La Terra non è affatto il solo palcoscenico su cui un unico dramma , voluto da Dio, viene recitato.
5.la storia umana non è progettata e organizzata da Dio; viene in essere dall'azione collettiva ( Karma collettivo) di esseri senzienti.
6.Non c'è un modello o una struttura ben definita dentro
cui tutte le storie devono "rientrare". La struttura della storia viene dettata dalla natura del'azione collettiva ( karma collettivo) degli esseri viventi "in quella particolare" storia.
La visione ciclica, come giustamente scrivi, orientale ( e in particolare quella buddhista) secondo molti pensatori occidentali toglie qualsivoglia significato alla storia. A noi occidentali il samsara, il divenire inteso secondo la concezione indiana, sembra soltanto una monotona seccatura che si ripete senza significato (quanto siamo presi da questo termine occidentale, da questo "significato"?).
E' vero che ammettiamo che questa concezione orientale, questa visione astronomica della storia, porta a una radicale modifica del pregiudizio innato in ogni creatura verso l'egocentrismo, ma ci sembra al prezzo di togliere significato alla storia e infine all'intero universo.
Invece per l'orientale , questa ciclicità, questo samsara ciclico e permanente può essere del tutto piena di significato. Infatti , i critici occidentali, sembrano dimenticare che il significato non dipende interamente da circostanze esterne. Dipende dall'atteggiamento di ognuno di noi verso quelle circostanze. La vita ricorrente allora non è necessariamente uno stato ripetitivo di noia, ma può garantire un'ampia opportunità di progresso spirituale. Il significato e la scopo della vita allora vengono visti come una sfida e un'opportunità perché ogni uomo possa attingere un bene più "alto" ( nel caso del buddhismo, lo stato di Buddhità...).
** scritto da Apeiron:
CitazioneMa è anche vero che il buddismo non è lo schopenhauerismo (che però diciamo è il buddismo per come noi possiamo comprenderlo, secondo me) in quanto nel buddismo la rinuncia e misericordia ("metta")è uno dei valori più riconosciuti.
Scusa ma come ci si "ama", nel senso di donarsi totalmente per il prossimo, nel buddismo?
CitazionePersonalmente non capisco come si possa "voler salvare l'altro" senza pensare che abbia un'identità separata, però come spero di aver fatto capire questo è anche dovuto al fatto che penso in modo troppo "occidentale
E io, anche se ignorante in materia, confrontando questa tua riflessione con ciò che io credo mi chiedo: ma chi ci dice che siamo salvi al punto di poter pretendere di salvare l'altro, oppure, ma se io sono ancora sulla via della salvezza come mi permetto di voler salvar l'altro se non ci sono ancora riuscito con me?
Citazione di: Sariputra il 19 Gennaio 2017, 11:59:49 AM
Credo che l'incomprensione del vero cuore di una filosofia come quella del Buddha , nasca perché noi la giudichiamo secondo le categorie di pensiero occidentale ( sostanzialmente sulla base della filosofia greca da quello che capisco...). Secondo queste categorie l'Essere e il Divenire sono incompatibili, si negano a vicenda, sono opposti. Secondo il pensiero buddhista ( ma forse orientale in genere, e qui sono solo parzialmente d'accordo con Coomaraswamy) l'essere è ( esiste quindi ) nel divenire e non può che manifestarsi nel divenire. Essere e divenire vanno a braccetto, se così si può dire e si sostengono a vicenda, dato che non è possibile l'uno senza l'altro. Il Buddha non si è mai occupato della questione del Vero Sè, giudicandola non rilevante all'interno del suo Insegnamento, in quanto inteso non come "Annientameto dell'essere" (Schopenauer, accidenti a lui e al tutto il male che ha fatto per la sua superficiale conoscenza di queste filosofie...) ma come annientamento del dolore insito nel divenire continuo.
Questo annientamento del dolore non si può intendere in maniera nichilistica, altrimenti non verrebbe data nessuna enfasi alla dimensione non-dolorosa che esiste ( il non-nato, non-divenuto, non-composto, ecc.). Se però si intende questo stato non-composto come una divinità o come un Essere in sé ( induismo) il buddhismo diverge totalmente perché pone questa dimensione spirituale all'interno del divenire stesso ( i confini del Nirvana sono i confini del samsara). Per il buddhismo tutto è natura e nulla trascende la natura ( nemmeno il Nirvana). Nella mia personale concezione del Dharma ( perché , come ogni cristiano ha la sua personale riflessione e visione di Dio, anch'io ho maturato la mia su questo tema... ;D) questo non "abbassa" l'esistenza rendendola un cieco vortice di semplici cause e condizioni , ma invece la "innalza" perché non ponendo distinzioni tra il divenire e lo stato che non-diviene rende il divenire manifestazione di quello stato inesprimibile, pertanto il buddhismo "santifica" ( usando un termine giudaico-cristiano) in un certo modo il divenire stesso che la filosofia Parmenidea e poi la teologia giudaico cristiana aveva relegato nella categoria del male ( L'Essere è il bene - il Divenire è il male e dentro questo dualismo si è sempre mossa e compiaciuta). Infatti Nagarjuna afferma " All'interno del samsara sono contenuti infiniti mondi di Buddha"( Buddha qui è sinonimo di "Mondi di libertà dal dolore" e non come divinità...).
Sono d'accordo sul fatto che noi pensiamo l'Oriente nei termini del pensiero occidentale, anche "Essere", "Non essere" e "Divenire" sono termini del pensiero occidentale, forse c'è qualcosa di più originario e primordiale che riposa nei miti, forse il divorare e l'essere divorati (che Danielou considera alla base della visione vedica, indoeuropea, simbolizzata nell'immagine primigenia del fuoco che divampa e divora ogni cosa, ma che divorando purifica, riscalda, illumina, rigenera e consente la vita in forma umana attraverso i riti e la tecnica del fuoco).
L'Occidente, tu dici, vede il male nel Divenire, ma non credo che le cose stiano così, l'Occidente intende il Divenire non solo come percorso di morte, ma, soprattutto a partire dal cristianesimo, come percorso salvifico, come redenzione verso l'Essere. Il Divenire è ineliminabile dal pensiero occidentale, perché solo l'Occidente è giunto a pensare in termini di storia e di utopia (e lo stesso frammento di Anassimandro, ben prima del pensiero cristiano, è già molto indicativo in merito: gli enti escono dall'Apeiron, ma scontano questa colpa secondo giustizia così da tornare all'Apeiron originario, Nulla o Dio che sia). L'esserci del "Non Essere che non è" fu forse il primo pensiero incontrovertibile che illuminò il greco, da questo pensare sorge la necessità del Divenire, ossia di un dover farsi essente del niente che è in quanto tale, già essere in potenza, e per contro del dover farsi niente di ogni essente, poiché ogni essente, in quanto tale, è in potenza il niente da cui è generato e dunque deve tornare niente, perché le cose stiano come sono, secondo verità di giustizia.
In fondo sia l'Oriente che l'Occidente hanno pensato di liberare l'uomo dalla catena infinita di questo dolore di un Niente che genera ogni essente e di ogni essente che non può che tornare al Niente per essere ancora rigenerato in qualcosa che ancora ripeterà il ciclo, ma mentre l'Occidente ha riposto la liberazione dal ciclo nella concezione di un ente eterno sempre in atto al di sopra del ciclo stesso, l'Oriente lo ha riposto nella pura prassi (che è prassi rituale perfetta compiuta nella dimensione immanente del corpo). Liberarsi dal dolore e dalla morte significa allora liberarsi da ogni desiderio che intende guidare la prassi da fuori di essa, liberarsi dal senso che questo desiderio vuole imprimerle costringendo alla ripetizione il medesimo ciclo doloroso che è il ciclo del fuoco e della combustione. in questa visione liberarsi dal ciclo del fuoco significa aderire totalmente al fuoco stesso (il punto fermo, l'occhio dell'uragano), liberarsi dal ciclo del divenire non è come per l'Occidente spezzarlo in nome di Enti eterni collocati fuori da esso, ma aderire al divenire nell'istante perfetto in cui accade, l'istante supremo del Nirvana.
Non so, tutto questo è solo un abbozzo che sto tracciando in modo estremamente impreciso e sommario, sulla base di pochi spunti. Posso però dire che la posizione di Severino mi sembra ben diversa (pur avendo tratti in comune con entrambe), poiché in essa si dice che non c'è nulla da cui liberarci, difenderci o salvarci, poiché ogni ente è proprio sempre quello che è, nell'eterno diverso apparire che solo lo può manifestare. Severino nega sia Parmenide che Anassimandro rispettivamente perché non c'è Essere senza essenti e perché esistere non consiste in un entrare e in un uscire da qualsiasi Apeiron o da qualsiasi Nulla per tornarci affinché il gioco continui. Afferma piuttosto la corrispondenza necessaria tra l'eterno Essere in quiete assoluta e il parimenti eterno immenso gioco sempre variante dell'Apparire, l'uno il rovescio della medaglia dell'altro, ma entrambi (pensandola certamente in modo molto Occidentale) si realizzano non nella totalità degli enti, né nell'originario e finale Apeiron o Nulla che tutto ingoia e vomita, non presso un ente privilegiato eternamente in atto che garantisce per tutti, non in un'idea o in un'utopia che sovrasta tutti gli enti, ma in ogni singolo ente in continua concreta relazione di significato con ogni altro. Per Severino non c'è alcun "essere in potenza" o poter essere, dunque ogni ente resta quello che è nel suo continuo apparir sorgere e tramontare. Il problema del dolore e della morte sono quindi tolti di mezzo alla radice, sono illusioni di un modo di apparire parziale delle cose che pretende, isolandosi in sé, nella propria necessaria parzialità, di essere tutto per sempre, mentre si sente morire.
Citazione di: davintro il 19 Gennaio 2017, 17:22:19 PM
Un conto è descrivere, constatare la situazione attuale del clima culturale individuando gli orientamenti dominanti, ed in questo senso, purtroppo a mio avviso, tali orientamenti consistono soprattutto nello scetticismo e nel materialismo [...] un altro dedurre dal riconoscimento di tali orientamenti come dominanti l'idea che essi possiedano un valore teoretico superiore rispetto ad orientamenti che furono dominanti nel passato ma oggi marginali. Tale deduzione è scorretta ed arbitraria.
Spero di non averti dato l'idea di essermi sbilanciato in giudizi di valore: riportavo solo un certo eclissarsi storicizzato della metafisica, ma che questo comporti un aumento di valore nella teoresi non è affatto una "deduzione" di cui sono sostenitore. Prendere atto di un cambiamento non significa necessariamente esserne entusiasti (per questo chiedevo se "evoluzione" fosse il temine giusto...).
Citazione di: davintro il 19 Gennaio 2017, 17:22:19 PMIl filosofo deve avere il coraggio intellettuale di difendere le sue opinioni fintanto che le ritiene razionali e vere non curandosi di quali posizioni sono egemoni nella sua epoca.
Questo lo condivido pienamente.
Citazione di: davintro il 19 Gennaio 2017, 17:22:19 PMTra l'altro non direi che la contemporaneità (per intenderci, il novecento), sia così caratterizzata dalla scomparsa dalla scena del modello della metafisica classica o della filosofia di impronta essenzialista o trascendentalista. Pensiamo a tutta la corrente dello spiritualismo neoagostiniano in Italia e in Francia (a proposito, sono reduce dalla visione su Youtube di una bella lezione del compianto Reale sull'attualità del pensiero di Agostino), alla neoscolastica che riprende e riattualizza Tommaso in autori come Maritain, Fabro, Bontadini, quest'ultimo grande maestro del così tanto citato in questo forum Severino. Pensiamo alla ripresa del tema dell'ontologia classica e delle prove dell'esistenza di Dio nella filosofia analitica anglosassone, superficialmente considerata una roccaforte del positivismo. Soprattutto pensiamo alla centralità che ha rivestito la fenomenologia husserliana, tutta protesa alla polemica contro i positivisti, "gli uomini di fatto", in favore della considerazione della filosofia come "scienza di essenze", dell'idea di riduzione trascendentale, di un certo ritorno a Cartesio, dell'Io puro, della messa tra parentesi delle scienze naturali e che poi trova tra le sue ramificazioni proprio il ripristino dell'ontologica classica su base fenomenologica in autori come Scheler, la Stein, la Conrad Martius... esiste oggi un'intera area di ricerca universitaria dedicata all'analisi di un possibile recupero della metafisica e di un'antropologia classica che si giova di spunti fenomenologici. E Siamo nel novecento, non nel paleolitico!
La contemporaneità non ostracizza totalmente la metafisica, ma mentre nei secoli precedenti era quasi impossibile fare filosofia senza un'impalcatura metafisica, dal secolo scorso tale impalcatura è diventata un
optional, un "manierismo" teoretico spesso ammiccante al passato; è un po', radicalizzando, come studiare una "lingua morta": è ancora e sempre possibile farlo, ma è bene distinguerla dalla lingue vive, dinamiche, parlate. Fare metafisica pura dopo il '900, senza dialogare con altre discipline (compresi i casi in cui si dialoga con la teologia per via esistenziale), significa rischiare di rasentare l'inattualità (e non certo per ambizioni "futuriste"), ma è indubbiamente ancora possibile farlo (esiste ancora la teologia, figuriamoci se possa essere svanita totalmente la metafisica ;D)
Citazione di: davintro il 19 Gennaio 2017, 17:22:19 PML'epistemologia non può mandare in soffitta la metafisica perché la prima di fatto è una ramificazione, una conseguenza della seconda. Un'epistemologia, una riflessione filosofica sulla scienza è possibile nella misura in cui l'epistemologo, che è sempre un filosofo, sa qualcosa che la scienza che diviene oggetto della riflessione non può possedere nella sua immanenza, è in possesso di un punto di vista ulteriore, trascendente. [...] Tali criteri intrinsecamente validi l'epistemologia non può trovarli nelle scienze che mette in discussione ma deve per forza attingerli ad una dimensione trascendente
Che la prospettiva ulteriore o il criterio guida, l'epistemologia li debba trovare necessariamente nel trascendente, non mi convince troppo: l'epistemologia è tale proprio in quanto prospettiva ulteriore e criterio guida delle scienze, l'epistemologia è gia meta-scienza. Scrivi infatti:
Citazione di: davintro il 19 Gennaio 2017, 17:22:19 PMl'epistemologo non ha bisogno di essere scienziato, ma filosofo, e la riflessione sulla fisica dovrà porsi in atto a partire da un punto di vista che per essere valido non può coincidere con la fisica ma la deve trascendere, cioè un punto di vista metafisico.
Non direi "metafisico", piuttosto epistemologico (altrimenti l'epistemologia cos'è? Appunto: "la riflessione sulla fisica dovrà porsi in atto a partire da un punto di vista che per essere valido non può coincidere con la fisica"(cit.) ma con quello dell'epistemologia ;) ).
Citazione di: davintro il 19 Gennaio 2017, 17:22:19 PMLa metafisica resta così la necessaria base fondativa della possibilità dell'epistemologia, della filosofia della scienza
Se impostiamo il discorso in modo deduttivo, partendo dall'alto, se invece proviamo a partire dal basso, la filosofia della scienza si basa sulla scienza, filosofeggia
dalla scienza, non
sulla scienza.
Citazione di: davintro il 19 Gennaio 2017, 17:22:19 PMLa fisica non può essere la base dell'ontologia
Parlavo infatti di ascolto reciproco, non di una che fonda l'altra ;)
Citazione di: davintro il 19 Gennaio 2017, 17:22:19 PMl'ontologia resta pieno appannaggio della filosofia. Mi parrebbe eccessivo sostenere che senza il vincolo della fisica l'ontologia sarebbe rimasta a Parmenide. A parte il fatto che andrebbe ancora dimostrato che Parmenide abbia avuto tutti i torti, dopo di lui l'ontologia ne ha fatta di strada, c'è stato Platone, Aristotele, la scolastica medievale, Cartesio, Spinoza, l'idealismo hegeliano, Rosmini, la fenomenologia husserliana, Heidegger, tutti orientamenti che nelle loro differenze hanno provato a impostare il discorso sull'Essere senza che siano identificabili con la fisica, quantomeno come la si intende comunemente in senso stretto
Quell'
excursus non evidenzia proprio la crescente tendenza ad "aprire" il discorso dell'Essere verso altri domini della conoscenza non metafisici (Cartesio, Hegel, Husserl)?
Si ritorna al bivio a cui accennavo: o si fa storia della filosofia (le vicissitudini dell'Essere
nel passato) magari flirtando con l'estetica più o meno laica (v. Severino), oppure bisogna guardare all'epistemologia per scrutare nuovi orizzonti (con il rischio di rimpiangere quelli vecchi...).
Citazione di: Duc in altum! il 20 Gennaio 2017, 11:22:59 AM** scritto da Apeiron: CitazioneMa è anche vero che il buddismo non è lo schopenhauerismo (che però diciamo è il buddismo per come noi possiamo comprenderlo, secondo me) in quanto nel buddismo la rinuncia e misericordia ("metta")è uno dei valori più riconosciuti.
Scusa ma come ci si "ama", nel senso di donarsi totalmente per il prossimo, nel buddismo? CitazionePersonalmente non capisco come si possa "voler salvare l'altro" senza pensare che abbia un'identità separata, però come spero di aver fatto capire questo è anche dovuto al fatto che penso in modo troppo "occidentale
E io, anche se ignorante in materia, confrontando questa tua riflessione con ciò che io credo mi chiedo: ma chi ci dice che siamo salvi al punto di poter pretendere di salvare l'altro, oppure, ma se io sono ancora sulla via della salvezza come mi permetto di voler salvar l'altro se non ci sono ancora riuscito con me?
Allora l'amore nel caso buddista credo che nasca proprio dalla consapevolezza che l'"altro" non è "separato" da "te". Su come nella pratica questo si attui e su come l'amore buddista sia diverso nell'esperienza da quello cristiano non so di certo dirti, credo che uno scelga la via che si sente più incline a scegliere. Fai conto che sia nel pensiero cristiano che in quello greco (non a caso il cristianesimo si diffuse proprio nella cultura greca) assume identità separate negli esseri umani e ritiene il mondo una sorta di "caduta" (vedi Anassimandro, da cui il mio nick) e in ambo i casi si guarda alla speranza di un "mondo migliore". In ogni caso il Theravadin ritiene che Buddha ti può salvarese se segui i suoi insegnamenti perchè lui ha ottenuto la prajna e la conoscenza assoluta del karma. A questo ci puoi credere o no, tua scelta. Nel caso Mahayana invece i bodhisattva in modo simile ai cristiani dei primi secoli rimangono nel samsara a trasmettere gli insegnamenti del Buddha a loro rischio e pericolo. Mi sembra una pratica molto simile a quella cristiana. Chiaramente la dottrina buddista sembra voler dire che bisogna riconoscere di non essere separati dal "resto del mondo" e da qui abbandonare tutti i desideri egoistici. Nel caso cristiano invece si afferma l'identità di ognuno e si vuole trasmettere l'amore tra individui. Come spero tu intuirai non c'è
così tanta differenza tra i due messaggi. In ogni caso molto probabilmente non capiremo mai buddismo e simili perchè siamo troppo occidentali
Ritornando in topic a mio giudizio secondo me è più "bella" l'idea (utopica) di avere individui separati che interagiscono tra di loro in modo di "reciproco volersi bene" piuttosto dell'indifferenziazione. E
contro Hegel ritengo che la dialettica positivo-negativo sia - visto che gli enti sono separati e quindi "singoli" - una dialettica della possibilità e non di necessità. Ossia ogni essere indipendente
può cambiare (e nel cambiamento rimanere uguale a se stesso - paradosso) e il cambiamento forma l'identità dell'essere del singolo. Hegel come diceva Kierkegaard a fatto un sistema che era come un castello perfetto e lui è andato a vivere fuori di esso (ossia si è dimenticato del singolo).
L'errore a mio giudizio di Anassimandro (e di Platone...) è che lui pensava che il fatto di possedere un'identità finita era una "caduta" di per sé. A mio giudizio
può essere una caduta.
Chiaramente libero arbitrio e "identità separata" sono ovviamente legati tra di loro...
** scritto da Apeiron:
CitazioneAllora l'amore nel caso buddista credo che nasca proprio dalla consapevolezza che l'"altro" non è "separato" da "te". Su come nella pratica questo si attui e su come l'amore buddista sia diverso nell'esperienza da quello cristiano non so di certo dirti, credo che uno scelga la via che si sente più incline a scegliere.
Beh, accolgo questo tuo disconoscere senza contrarietà, anzi, visti i tuoi dubbi nelle tue riflessioni, forse è più che giustificato, ma lasciami sottolineare che non penso che la via sia quella personale, giacché per il cristiano la scelta te la indica il Messia: io sono la via, la verità e la vita ...dell'amore! :)
CitazioneFai conto che sia nel pensiero cristiano che in quello greco (non a caso il cristianesimo si diffuse proprio nella cultura greca) assume identità separate negli esseri umani e ritiene il mondo una sorta di "caduta" (vedi Anassimandro, da cui il mio nick) e in ambo i casi si guarda alla speranza di un "mondo migliore".
Mi dispiace nel pensiero, anzi, nella realtà cristiana autentica (non m'interessa nella pratica quella greca, Gesù si è rivelato come il Cristo non come "il greco"), c'è una sola forma:
"...vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri..." (Gv 13,34-35)
E la speranza, in qualità cristiana, non è un mondo migliore, se per mondo intendiamo il pianeta Terra, la società civile, e le riunioni condominiali! ;D :-[ ;D
CitazioneIn ogni caso il Theravadin ritiene che Buddha ti può salvarese se segui i suoi insegnamenti perchè lui ha ottenuto la prajna e la conoscenza assoluta del karma.
E no, da quel poco che so, nel buddismo non c'è l'intervento esterno, è lo stoicismo che salva.
CitazioneCome spero tu intuirai non c'è così tanta differenza tra i due messaggi. In ogni caso molto probabilmente non capiremo mai buddismo e simili perchè siamo troppo occidentali
E quello che sto cercando di capire, ma se non ci fossero differenze, la sofferenza per il buddista non potrebbe mai risolverla da solo, ecco perché credo ci siano differenze e anche molto rilevanti per giungere alla salvezza.
Inoltre per il cristiano non esiste un messaggio d'amore occidentale od orientale, esiste un solo messaggio valido e sempre contemporaneo per tutti: portare la salvezza fino all'estremità della Terra. ;)
CitazioneA questo ci puoi credere o no, tua scelta.
Che fai mi togli il lavoro? ...ti paga la concorrenza??!!! ;D ;D ;D
Duc dopo anni di dubbi e riflessioni in cui ho scoperto di non sapere nulla capirai che sto cercando ancora la mia strada. Credo che tale strada debba anche essere percorsa con la filosofia. Come puoi immaginare anche io vorrei che "ci amassimo gli uni con gli altri" e con questo concordo con quanto dice Gesù e come ho già detto in altre sedi trovo il messaggio splendido. Questo è sufficiente a definirmi cristiano? Purtroppo no! So solo che mi viene molto più naturale pensare ad un etica simil-cristiana dove ci sono identità indipendenti. Ma questa è solo la mia opinione e spero un giorno di trovare la mia strada. Chiaramente il cristianesimo però è una religione rivelata quindi si tratta di accettare o non accettare. In ogni caso quello che non mi convince è che il cristianesimo mi pare che veda un po' troppo il mondo in "bianco e in nero", basta guardare tradizionalmente dove "finiscono" le persone dopo la morte. O salvezza eterna (magari dopo un tempo più o meno lungo di sofferenza) o dannazione eterna. Oppure "chi non è con me è contro di me...". In sostanza mi pare "incompleto" visto che sinceramente io non ho mai visto persone "completamente" cattive e "completamente" buone ma una sorta di scala di grigi (motivo per cui ho difficoltà a dire che ci si può salvare da soli). Detto questo l'amore buddista è diverso perchè riconosci di non "essere separato" e quindi in sostanza aiutare l'altro è un bene anche per te e viceversa. Inoltre c'è un elemento di fede anche nel buddismo. Soltanto i buddha si salvano da soli. Tutti gli altri ahrants, bodhisvatta, monaci delle varie scuole e laici si salvano perchè si affidano completamente al messaggio trasmesso dal Buddha.
Con la questione dei greci volevo semplicemente dire che il messaggio cristiano ha attecchito facilmente anche tra i filosofi greco-romani perchè anche loro avevano indipendentemente scoperto (è la parola giusta?) concetti simili come: la contrapposizione tra "questo mondo" (qui Duc ti dimentichi chi è il principe di questo mondo per il cristianesimo) e l'"altro mondo perfetto", l'esistenza dell'anima, la condizione umana come una "caduta" da uno stato ideale.... E Angelo Cannata in sostanza aveva già sottolineato che il tardo Antico Testamento ha avuto possibili influenze dal mondo greco.
Così però stiamo andando fuori tema (eh sì come sempre quell'insopportabile di Apeiron centra sempre con le divagazioni ;D ), consiglio di magari aprire un topic nella stanza della Spiritualità sulla questione.
P.S. Nel messaggio di prima ho scritto "cristiani dei primi secoli". Perdonatemi l'errore, volevo scrivere "missionari cristiani", probabilmente comincio già ad avere problemi neurologici ;D
Duc guarda la concorrenza mi paga milioni... Tornando seri credo che i dibattiti ci aiutino a vedere se un percorso o l'altro sia più "ragionevole" però d'altronde su queste cose una componente di fede c'è...
** scritto da Apeiron:
CitazioneChiaramente il cristianesimo però è una religione rivelata quindi si tratta di accettare o non accettare. In ogni caso quello che non mi convince è che il cristianesimo mi pare che veda un po' troppo il mondo in "bianco e in nero", basta guardare tradizionalmente dove "finiscono" le persone dopo la morte. O salvezza eterna (magari dopo un tempo più o meno lungo di sofferenza) o dannazione eterna. Oppure "chi non è con me è contro di me...". In sostanza mi pare "incompleto" visto che sinceramente io non ho mai visto persone "completamente" cattive e "completamente" buone ma una sorta di scala di grigi (motivo per cui ho difficoltà a dire che ci si può salvare da soli).
Ma la scala di grigi è ben definita nell'Apocalisse:
il vomito tiepido, dunque non è incompleto, quindi contro Dio, quindi condanna eterna. A questo ci puoi credere o no, tua scelta.
Come mi è sempre ostico capire quando mi si dice 'Essere' o 'Ente'...se mi si dicesse 'essere un cane' o 'l'ente cane' forse capirei, ma così...cos'è 'Essere' se non un semplice verbo? E a scuola la maestra mi ha insegnato che i verbi stanno tra il soggetto e l'oggetto del discorso e stan lì per predicare...Poi arriva qualcuno e ti dice che l'essere 'è'. Ma chi è che è?...E' troppo comodo dire solo che 'è' e dimenticarsi il soggetto che è...da piccolino ho visto il film su Mosè e questi, chiedendo al roveto ardente che bruciava senza consumarsi:"Chi sei?" la pianta gli rispondeva "Io sono colui che è"...al che ho incominciato a riflettere...ma...se lui è quello che è, vuol dire che tutti gli altri non sono forse? Infatti provai a mettere la manina sul fuoco per vedere se bruciavo senza consumarmi ma...beh, potete immaginare il seguito...Allora compresi che non sono come quello che è. Da quel giorno, quando qualcuno mi chiedeva. "Chi sei?" gli rispondevo :" Io sono colui che non-è"...fu in quel periodo che mia mamma cominciò a preoccuparsi seriamente nei miei riguardi...povera donna...immaginate poi quando le dicevo:"Anche tu non sei 'é'". Certo che la grammatica ti ingarbuglia tutto...si finisce sempre per non capirsi . A volte ti scrivono che l'uomo ha l'anima, altre volte che ha lo spirito, alcuni tutti e due ma non ne vedono neanche uno, allora pensano che sia l'Io..ma no! Dicono altri...si tratta del sé...me è il sè normale o il vero sè? e che differenza c''è tra quello finto e quello vero? Insomma...un guazzabuglio grammaticale. Poi arrivano i filosofi, nome pomposo per definire quelli che pensano invece che lavorare, e miscelano sapientemente tutti i termini grammaticali, così ti chiedi:" Ma l'Io di Platone è lo stesso Io del tedesco baffuto?". Poi ci si mettono pure i traduttori che magari ti traducono anatman con non-Io, altri con non-sè, altri con non-anima e il Nirvana come essenza della mente...alla fine, noi poveracci, non ci capiamo più niente. A dire il vero non solo noi poveracci perché anche quel poeta inglese, quello Schakespeare...beh, ci finì pure lui nella confusione e si mise a chiedere :"Essere o non Essere?" ( E' meglio l'ente o è meglio niente?)...forse tutto si semplificherebbe se invece 'essere' lo sostituissimo con 'esistere'. Sentite come suona tutto più logico: "Io sono colui che esiste"..."Esistere o non Esistere, questo è il dilemma". Lo stesso potremmo fare con quell'altro termine, con 'ente'...si potrebbe volgarmente chiamare 'cosa'...ma, c'è un ma...non capite che se lo chiamiamo esistere o cosa perde quell'aura profonda, filosofica, che tiene lontano noi buzzurri...perde quel..quell''essenza che lo fa essente? Perché se diciamo esistere o cosa subito, anche al più tardo di noi, gli vien in mente qualcosa di concreto, con delle caratteristiche ben precise, chi una dea, chi un asino, chi una zappa...ma ente? Che ti vien in mente? Proprio ni-ente!...E' proprio perché non vedi niente nella zucca che ti dicono che è filosofico...non si finisce mai di imparare...è l'essenza ti dicono...Quindi il poveraccio si chiede."Ah! E' semplice, potevano dirlo subito. Se strizzo l'ente esce l'essenza, come quando strizzo la tetta esce il latte"...Allora ti sforzi di immaginare di strizzare il verbo essere e vedere se ne esce l'essenza...ma...ma...balbetti...non si vede ni-ente!". "Scemo" ti dicono "non la vedi, ma devi crederci che ci sia l'essenza". "Se lo dicono loro che son dei gran pensatori vuol dire che ci sarà sta cosa, sta essenza" ti rincuori "Ma...se nessuno l'ha mai vista, come fanno a dire che c'è?". "Asino! E' la logica e il pensiero che te lo dice. Studiati il verbo essere e stai zitto, che non sei ni-ente e non sai ni-ente!".
E così, frastornato, inizi:
Io sono
tu sei
egli è
Noi siamo
Voi siete
Essi sono
Lo stolto che riconosce la sua follia è, in verità, saggio. ma lo stolto che si crede saggio è veramente folle. (Dhammapada, 63)
Hai ragione Sari, dire che l'ente è l'essente non dice cosa è l'ente, è solo una tautologia che proprio in quanto tale è sempre vera, dato che ogni ente a suo modo è, ma il modo che lo fa essere un albero, un pezzo di legno che brucia nel camino, un ippogrifo, un sogno, la legge di conservazione di massa ed energia e così via all'infinito resta un mistero che appartiene alla generalissima tautologia, ma non ce ne dà la specifica ragione. Però non mi pare che l'Oriente sia più chiaro dell'Occidente in materia, alla domanda cos'è un albero, cos'è un uomo, cos'è una pietra e via dicendo cosa può rispondere l'Oriente? Il vuoto?
Un saggio forse potrebbe limitarsi, lasciando stare enti e vuoto, a indicare quell'albero, quell'uomo, quella pietra, e magari comprendendo con un gesto più ampio tutto il resto (altro) che lo fa apparire così com'è. Ma a quel saggio qualcuno potrebbe ancora domandare; cos'è quel gesto? cosa indica un gesto e da cosa è indicato affinché lo si possa intendere?
Purtroppo è difficile dire cosa sono le cose, quando si pensa di averle afferrate per poterle dire, quelle cose sono già passate, non sono più le cose che si pensava di dire.
Citazione di: maral il 21 Gennaio 2017, 08:43:49 AMHai ragione Sari, dire che l'ente è l'essente non dice cosa è l'ente, è solo una tautologia che proprio in quanto tale è sempre vera, dato che ogni ente a suo modo è, ma il modo che lo fa essere un albero, un pezzo di legno che brucia nel camino, un ippogrifo, un sogno, la legge di conservazione di massa ed energia e così via all'infinito resta un mistero che appartiene alla generalissima tautologia, ma non ce ne dà la specifica ragione. Però non mi pare che l'Oriente sia più chiaro dell'Occidente in materia, alla domanda cos'è un albero, cos'è un uomo, cos'è una pietra e via dicendo cosa può rispondere l'Oriente? Il vuoto? Un saggio forse potrebbe limitarsi, lasciando stare enti e vuoto, a indicare quell'albero, quell'uomo, quella pietra, e magari comprendendo con un gesto più ampio tutto il resto (altro) che lo fa apparire così com'è. Ma a quel saggio qualcuno potrebbe ancora domandare; cos'è quel gesto? cosa indica un gesto e da cosa è indicato affinché lo si possa intendere? Purtroppo è difficile dire cosa sono le cose, quando si pensa di averle afferrate per poterle dire, quelle cose sono già passate, non sono più le cose che si pensava di dire.
L'è tuto un gran pasàr, che pena te disi na roba ...xa non ghe a ghe xe pì....a se quea che i budhini ciama a lege dell'impermanensa, del pasàr insoma...
LA FORZA DELL'IMPERMANENZA E' MOLTO GRANDEIgnoranti e saggi, poveri e ricchi,che abbiano trovato il cammino o no,nessuno può sfuggirle.Nè abili parole, nè gioielli meravigliosi,né menzogne, né violente protestepermettono di sfuggirle.Come un fuoco che consuma ogni cosa,così è la legge dell'impermanenza.(discorso e stanze di Mahakshyapa)
@Duc, per piacere non iniziare a tirar fuori il versetto x:y, perchè so benissimo che Gesù richiede a quanto dice la
totale sottomissione e non cito il versetto z
:w perchè sinceramente sappiamo entrambi che il messaggio è fatto così, senza molti compromessi
. Io vedo la cosa più come un'esortazione, tu lo prendi alla lettera. Non vedo come sia possibile continuare a discutere inutilmente
specialmente in un topic dove non c'entra nulla.
E poi Duc vorrei anche capire dal tuo punto di vista cosa ne pensi dell'argomento del topic.
Citazione di: Sariputra il 21 Gennaio 2017, 00:34:41 AMCome mi è sempre ostico capire quando mi si dice 'Essere' o 'Ente'...se mi si dicesse 'essere un cane' o 'l'ente cane' forse capirei, ma così...cos'è 'Essere' se non un semplice verbo? E a scuola la maestra mi ha insegnato che i verbi stanno tra il soggetto e l'oggetto del discorso e stan lì per predicare...Poi arriva qualcuno e ti dice che l'essere 'è'. Ma chi è che è?...E' troppo comodo dire solo che 'è' e dimenticarsi il soggetto che è...da piccolino ho visto il film su Mosè e questi, chiedendo al roveto ardente che bruciava senza consumarsi:"Chi sei?" la pianta gli rispondeva "Io sono colui che è"...al che ho incominciato a riflettere...ma...se lui è quello che è, vuol dire che tutti gli altri non sono forse? Infatti provai a mettere la manina sul fuoco per vedere se bruciavo senza consumarmi ma...beh, potete immaginare il seguito...Allora compresi che non sono come quello che è. Da quel giorno, quando qualcuno mi chiedeva. "Chi sei?" gli rispondevo :" Io sono colui che non-è"...fu in quel periodo che mia mamma cominciò a preoccuparsi seriamente nei miei riguardi...povera donna...immaginate poi quando le dicevo:"Anche tu non sei 'é'". Certo che la grammatica ti ingarbuglia tutto...si finisce sempre per non capirsi . A volte ti scrivono che l'uomo ha l'anima, altre volte che ha lo spirito, alcuni tutti e due ma non ne vedono neanche uno, allora pensano che sia l'Io..ma no! Dicono altri...si tratta del sé...me è il sè normale o il vero sè? e che differenza c''è tra quello finto e quello vero? Insomma...un guazzabuglio grammaticale. Poi arrivano i filosofi, nome pomposo per definire quelli che pensano invece che lavorare, e miscelano sapientemente tutti i termini grammaticali, così ti chiedi:" Ma l'Io di Platone è lo stesso Io del tedesco baffuto?". Poi ci si mettono pure i traduttori che magari ti traducono anatman con non-Io, altri con non-sè, altri con non-anima e il Nirvana come essenza della mente...alla fine, noi poveracci, non ci capiamo più niente. A dire il vero non solo noi poveracci perché anche quel poeta inglese, quello Schakespeare...beh, ci finì pure lui nella confusione e si mise a chiedere :"Essere o non Essere?" ( E' meglio l'ente o è meglio niente?)...forse tutto si semplificherebbe se invece 'essere' lo sostituissimo con 'esistere'. Sentite come suona tutto più logico: "Io sono colui che esiste"..."Esistere o non Esistere, questo è il dilemma". Lo stesso potremmo fare con quell'altro termine, con 'ente'...si potrebbe volgarmente chiamare 'cosa'...ma, c'è un ma...non capite che se lo chiamiamo esistere o cosa perde quell'aura profonda, filosofica, che tiene lontano noi buzzurri...perde quel..quell''essenza che lo fa essente? Perché se diciamo esistere o cosa subito, anche al più tardo di noi, gli vien in mente qualcosa di concreto, con delle caratteristiche ben precise, chi una dea, chi un asino, chi una zappa...ma ente? Che ti vien in mente? Proprio ni-ente!...E' proprio perché non vedi niente nella zucca che ti dicono che è filosofico...non si finisce mai di imparare...è l'essenza ti dicono...Quindi il poveraccio si chiede."Ah! E' semplice, potevano dirlo subito. Se strizzo l'ente esce l'essenza, come quando strizzo la tetta esce il latte"...Allora ti sforzi di immaginare di strizzare il verbo essere e vedere se ne esce l'essenza...ma...ma...balbetti...non si vede ni-ente!". "Scemo" ti dicono "non la vedi, ma devi crederci che ci sia l'essenza". "Se lo dicono loro che son dei gran pensatori vuol dire che ci sarà sta cosa, sta essenza" ti rincuori "Ma...se nessuno l'ha mai vista, come fanno a dire che c'è?". "Asino! E' la logica e il pensiero che te lo dice. Studiati il verbo essere e stai zitto, che non sei ni-ente e non sai ni-ente!". E così, frastornato, inizi: Io sono tu sei egli è Noi siamo Voi siete Essi sono Lo stolto che riconosce la sua follia è, in verità, saggio. ma lo stolto che si crede saggio è veramente folle. (Dhammapada, 63)
Ho già definito l'errore "Essere=Ente" come il "peccato originale" della filosofia occidentale. Come ho già avuto modo di affermare c'è l'ente Apeiron, l'ente Sari, l'ente cane, l'ente gatto ecc. Di certo non voglio convincerti che c'è l'essenza anche perchè non saprei darti la prova. Tuttavia concordo con te che tantissimi problemi filosofici sono errori linguistici. Il linguaggio si è preso una vacanza. In altri contesti invece è proprio l'uso del linguaggio che illumina la comprensione.
Per quanto riguarda il roveto ardente un parroco teologo mi ha detto che il tetralemma non vuol dire esattamente "io sono l'essere" ma aveva a quel tempo un altro singificato che ora non ricordo.
** scritto da Apeiron:
CitazioneE poi Duc vorrei anche capire dal tuo punto di vista cosa ne pensi dell'argomento del topic.
Il niente è l'assenza della verità, quindi l'ente è tutto ciò che è vero per davvero.
Con questo breve intervento vorrei interloquire con Phil e Davintro, poiché essendo purtroppo del tutto digiuno di filosofia orientale non sono in grado di confrontarmi con gli altri; fra l' altro lamento che il frequente uso da parte loro di termini in lingua originale (hindi?), dandone per scontato la conoscenza dei significati da parte dei lettori, non mi agevola (ma mi rendo conto che probabilmente in discussioni come queste del forum, pur con tutta la buona volontà di farsi capire, non sarebbe comunque possibile stare lì a spiegare per filo e per segno i significati dei concetti usati).
Secondo me per la "metafisica" può essere intesa sostanzialmente in due modi.
In senso letterale come "ciò che sta oltre la fisica", cioè oltre "il mondo materiale naturale" (e ciò che se ne può dire o pensare).
In questo senso chi é monista materialista (una corrente di pensiero che mi pare oggi -ma é sempre difficile dare valutazioni in proposito e potrei benissimo sbagliarmi- prevalente fra gli "intellettuali", in particolare filosofi e scienziati; mentre fra i "non addetti ai lavori teorici" mi sembra prevalgano credenze religiose e anche superstiziose per lo meno dualiste, se non addirittura spiritualiste) nega che possa esistere qualcosa che stia oltre la materia (che non sia materia o in qualche modo non sia riducibile alla, o non emerga dalla materia), e dunque che si possa sensatamente coltivare una qualsiasi metafisica (se non, al massimo, come oggetto di erudizione, o anche di autentica cultura viva, ma comunque in quanto mero modo di pensare non più attuale e insensato se considerato "in sé e per sé" e non unicamente per le considerazioni, magari anche interessanti e attuali, che se ne possono fare, per le conseguenze che ha avuto e magari ancora ha sulla cultura e sulla storia umana; un po' alla maniera del latino o di altre lingue, sia pure importanti ma morte, come ha osservato Phil).
Personalmente, come in tante altre questioni, anche su questa vado, con una certa soddisfazione che non celo, decisamente controcorrente: infatti sono dualista, per lo meno relativamente ai fenomeni (la realtà che ci si dà o "cui abbiamo accesso" nell' esperienza sensibile), ritenendo che il pensiero (e più in generale la coscienza) non sia in alcun modo identificabile con la, non sia in alcun senso riducibile alla, non emerga in alcun senso dalla materia (cerebrale); la quale anziché "contenere coscienza e pensiero", come creduto da molti, é contenuta, unitamente e del tutto parimenti al pensiero, nella coscienza: "esse est percipi" (Berkeley).
Ritengo inoltre che, anche se ciò é indimostrabile e men che meno mostrabile (per definizione), esista una realtà in sé o noumeno, che essendo "oltre" i fenomeni a noi accessibili, e dunque alla coscienza in toto, cioè sia al pensiero che alla materia, ha natura letteralmente "metafisica" (oltre che "metapsichica"); e questo perché é l' unico modo che ho trovato convincente per cercare di comprendere e per ammettere sensatamente l' intersoggettività dei fenomeni materiali, e dunque anche la verità della conoscenza scientifica che ha in tale intersoggettività una (indimostrabile) conditio sine qua non.
Oppure la "metafisica" può essere intesa come sinonimo di "ontologia", cioé come la considerazione teorica, il discorso (più o meno) razionale circa la realtà (ciò che é/accade realmente) intesa nel senso più generale e astratto possibile, cioè non limitatamente ai suoi molteplici caratteri solo relativamente universali e costanti, solo limitatamente generali e astratti, quali quelli che studiano e conoscono le scienze (in quanto forme di conoscenza -in senso stretto limitate alla sola realtà materiale o "naturale"- comunque più generali delle semplici conoscenze "aneddottiche" o "episodiche", cioè riguardanti determinati enti ed eventi considerati nella loro mera singolarità).
In questo secondo senso la metafisica si occupa di questioni che un po' tutte le correnti filosofiche attuali (magari, nel caso di qualcuna di esse, dopo qualche decennio di disinteresse più o meno completo) ritengono attuali, come quella se la realtà (in generale; e in articolare la realtà da noi uomini conoscibile) sia o meno indipendente dal pensiero e dalla conoscenza (di essa), se sia monistica (materialistica, spiritualistica o "altro") o dualistica, o ancor più pluralistica, se sia necessaria o contingente o in parte necessaria in parte contingente, se sia deterministica o indeterministica (e dunque se esista o meno il libero arbitrio) o in parte deterministica in parte contingente, se implichi oggettivi valori morali e/o criteri estetici o se questi siano solo preferenze arbitrarie e soggettive, più o meno "ingiustificate, indimostrabili a preferirsi ad eventuali altre," ecc.
Dopo essermi scusato con Sgiombo e con tutte quelle persone che non conoscono i vari termini in Sanscrito o in Pali che ho, obiettivamente, usato in eccesso ( e questa a volte può sembrare una forma di maleducazione, ma non era nelle mie intenzioni , in quanto tirato per la giacca da domande specifiche su termini che necessitavano di risposte specifiche...); volevo riprendere il discorso e proporre una riflessione che ho tentato, in questo fine settimana, di rendere coerente nella mia zucca vuota. Son partito dalla necessità di dare una dimensione al concetto di Vuoto ( Vacuità) che mi premeva illustrare e come questo , alla fine, possa risolvere la dicotomia linguistica 'Essere-Non Essere' che tanto affligge il pensiero.Questo Vuoto è sinonimo di Spazio mentale e pone l'accento sulla dimensione locativa e non solo su quella storica, tipicamente occidentale ( quindi anche dimensione astronomica). Sono partito, aiutato da un testo di Pino Blasone sul confronto tra la logica occidentale e quella orientale. che mi son letto e che ho trovato interessante, e sui differenti sillogismi. Sappiamo che il sillogismo logico classico aristotelico è:
Sari è un uomo. Un uomo è mortale. Sari è mortale.
Abbiamo poi quello stoico (modus ponens) che recita così:
Se Sari è un uomo, allora Sari è mortale. In effetti, Sari è un uomo. Quindi, Sari è mortale.
I due sillogismi appaiono molto simili. Uno mette l'accento sul soggetto, l'altro sulle proposizioni.
Poi abbiamo un tipico sillogismo della logica indiana classica:
Sari è mortale. Sari è un uomo. Sari è uomo e mortale, così come Sgiombo è uomo e mortale, e al contrario di un dio, che non è uomo né mortale. Sari è un uomo. Sari è mortale.
La differenza , con i sillogismi greci, è che qui non c'è solo il ragionamento deduttivo, ma anche quello induttivo. La premessa generale, che viene data per scontata in Aristotele e nello stoicismo, è induttivamente il problema della mortalità umana. in quello indiano lo si risolve presentando all'interno del sillogismo una similitudine e un opposto ( come Sgiombo, al contrario di un dio...). Ossia si da importanza non solo che una cosa si verifichi in presenza di una data condizione, ma anche che la stessa cosa non si verifichi in presenza di una condizione contraria ( si introduce perciò il famoso 'non-è').
Il Blasone scrive:
Per via apofatica, è proprio qui che affiora l'inespresso ed emerge il non-detto,
quanto tuttavia latente sia nel sillogismo aristotelico sia nel modus ponens degli stoici.
Sempre nel nostro caso, si tratta di concetti quali divinità e immortalità, in quanto opposti a
quelli di umanità e mortalità. Con ogni parvenza di logica consequenzialità, dall'essere
scaturisce non tanto e solo il non-essere quanto piuttosto un essere-non, che presenti i
caratteri di una reversibilità inversa.
Essere-non mi sembra definizione interessante, in quanto non negante l'essere ma definendolo legato a ciò che è non-essere ( essere uomo significa essere non-dio, per es.)
Adesso poniamo lo stesso nello spazio con un famoso sillogismo di Aksapada:
C'è fuoco su quella montagna. C'è fumo su quella montagna. Dove c'è fumo là c'è fuoco, come in una cucina e al contrario che su un lago. C'è fumo su quella montagna. C'è fuoco su quella montagna.
E' presente una figurazione di luogo letterale, oltre che mentale.
Aristotele direbbe:
C'è fumo su quella montagna. Dove c'è fumo c'è fuoco. C'è fuoco su quella montagna.
Per quanto esatta e rigorosa, è priva dell'aspetto induttivo.
I logici buddhisti, nel caso citato, mettono in evidenza: un luogo principale, un luogo affine e uno antitetico ma complementare per dimostrare la tesi. La coerenza logica è pertinente al luogo in cui si svolge l'evento da dimostrare. Questo 'luogo' è principalmente un luogo mentale. C'è uno 'spazio', un 'vuoto' che permette sia l'essere che l'essere-non di tutte le cose ( come in una cucina, al contrario che su un lago...). Questo spazio ( vuoto) permette quella che Kitaro Nishida chiama 'identità contradditoria', 'affermazione eppure negazione', 'essere locativo'.
"Con il termine mondo", afferma Nishida, ampliando l'orizzonte, "vorrei
indicare l'assoluto essere locativo, per cui il mondo potrebbe essere chiamato l'assoluto
(quando ho discusso di matematica, l'ho chiamato un campo di identità contraddittoria).
[...] Il vero assoluto include un'assoluta autonegazione, è essere assoluto in quanto
negazione-eppure-affermazione e per questo è veramente assoluto". Il mondo in quanto
"essere locativo", insiste Nishida, è una "identità assolutamente contraddittoria".
Ho cercato di fare un riassunto. Spero sia comprensibile il senso... ;D
Citazione di: Sariputra il 20 Gennaio 2017, 11:21:49 AM
@Paul11
Figlio della cascata non è niente male, vero?.. ;D
La questione del significato che ogni essere umano si pone osservando il dramma della vita e che porta a chiedersi: "Che razza di gioco è questo? Qual'è il suo significato e scopo, e che cos'è tutto questo?" è alla base delle risposte che le religioni umane tentano di dare. Religioni diverse danno risposte diverse. Mi sembra ci siano due approcci prinicipali: la visione giudaico-cristiana che tanto ha influenzato e permeato l'intero "senso della vita" occidentale e quella buddhista ( che differisce da quella hindu in diversi punti). Il dramma viene dipinto, più o meno, in questo modo: Visione storica ( giudaico-cristiana) e non-storica ( come viene definita da molti teologi quella buddhista).
La visione storica:
1. La storia ha un inizio e una fine.
2.E' teleologica. L'universo è progettato e la storia dell'umanità va diretta verso una fine, per uno scopo ben definito.
3.La storia è pregna di significato ( anche se questo significato può risultare incomprensibile all'uomo). La storia, ossia il dramma umano, non è accidentale; ha un significato nell'adempimento di una volontà o di un piano Divino. Questo significato è noto solo a Dio, il Creatore.
4.La storia umana, proprio come un dramma, è a intensità crescente. Ha un inizio, un momento culminante e una fine.
5. Questo unico dramma viene recitato sul palcoscenico chiamato Terra, inteso quindi come centro dell'universo per quanto riguarda questa rappresentazione.
La visione non-storica ( ma i buddhisti la definiscono trans-storica):
1.La storia ha un inizio e una fine , ma solo in senso relativo, non assoluto.
2.La storia è piena di significato poichè è un processo necessario per la realizzazione della Perfezione per tutti gli esseri viventi.
3.La storia umana non è l'unica con un significato:;ci sono numerose storie di altri esseri senzienti in altri luoghi o universi.
4.La Terra non è affatto il solo palcoscenico su cui un unico dramma , voluto da Dio, viene recitato.
5.la storia umana non è progettata e organizzata da Dio; viene in essere dall'azione collettiva ( Karma collettivo) di esseri senzienti.
6.Non c'è un modello o una struttura ben definita dentro
cui tutte le storie devono "rientrare". La struttura della storia viene dettata dalla natura del'azione collettiva ( karma collettivo) degli esseri viventi "in quella particolare" storia.
La visione ciclica, come giustamente scrivi, orientale ( e in particolare quella buddhista) secondo molti pensatori occidentali toglie qualsivoglia significato alla storia. A noi occidentali il samsara, il divenire inteso secondo la concezione indiana, sembra soltanto una monotona seccatura che si ripete senza significato (quanto siamo presi da questo termine occidentale, da questo "significato"?).
E' vero che ammettiamo che questa concezione orientale, questa visione astronomica della storia, porta a una radicale modifica del pregiudizio innato in ogni creatura verso l'egocentrismo, ma ci sembra al prezzo di togliere significato alla storia e infine all'intero universo.
Invece per l'orientale , questa ciclicità, questo samsara ciclico e permanente può essere del tutto piena di significato. Infatti , i critici occidentali, sembrano dimenticare che il significato non dipende interamente da circostanze esterne. Dipende dall'atteggiamento di ognuno di noi verso quelle circostanze. La vita ricorrente allora non è necessariamente uno stato ripetitivo di noia, ma può garantire un'ampia opportunità di progresso spirituale. Il significato e la scopo della vita allora vengono visti come una sfida e un'opportunità perché ogni uomo possa attingere un bene più "alto" ( nel caso del buddhismo, lo stato di Buddhità...).
"O figlio della cascata" (Sariputra), ma in generale a tutti.
I libri Veda sono migliaia e migliaia di pagine, ho letto poco rispetto alla grande mole, alcuni studiosi hanno capito qualcosa nell'ultimo secolo, molti non hanno capito nulla perchè lo interpretano simbolicamente come mito.
E' un testo ritenuto sacro e rivelato, uguale alla Torah ebrea, verità inalienabile e inviolabile.
Il fondamento non è l'interpretazione spirituale e religiosa ( non vuol dire che non sia importante, ma ne deriva) che è la modalità
del genere umano di uscire dal tempo.Il tempo essendo il metronomo che scandisce il divenire ,ma solo in un senso quello di incrementazione, ma non di sottrazione (nasciamo bebè e moriamo vecchi e non viceversa) a cui è condizionata tutta la vita e i fenomeni, appare altrettanto ina alienabile non sottraibile alla materialità e al corpo fisico.
I libri veda indicano una creazione e il "meccanismo" temporale.
Pochi studiosi hanno capito che il meccanismo è il sistema planetario solare ( e forse oltre...) e del pianeta Terra.
Sono i tempi di rivoluzione e rotazione.
Gli umani che raccolsero la scienza antica la tramandarono oralmente "alla loro maniera", vale adire nel linguaggio che la mente umana poteva comprendere in quel tempo antico.
L'orologio scandisce le ore 24, ma poi torna all'1, tuto passa e va, ma anche tutto torna.
La linearità è dentro il ciclo, questa è la verità.
Il meccanismo vedico essendo sacralità rivelata ed è qualcosa di più potente della spiritualità come la intende il genere umano, in quanto si confà.Tutta la cultura dal Tao al bramanesimo e buddismo, compreso le arti mediche e il concetto quindi di energia che sono impliciti per la medicina orientale, derivano dalle prime rivelazioni.
Queste rivelazioni non sono alla portata della comprensione umana e arriveranno ,cone altre civiltà, tradizioni e culture,ai greci come linguaggio ormai del mito. La teosofia della Blavatsky, tanto per capirci, è l'ennesima speculazione, dell'immensa portata conosciitva che era stata trasmessa al genere umano .
Perchè gli dei dell'Olimpo e poi tradotti nella civiltà latina-romana, sono collocati nei pianeti?
Ma il primo dio è Crono, il tempo ,padre di Zeus(Giove)
Perchè tutte le piramidi, sumeriche, egiziane, precolombiane sono orientate in precise costellazioni?
Attendo che studiosi e scienziati contemporanei che spediscono sonde per ogni dove dicano spiegazioni,.Intanto hanno capito che c'è acqua un pò ovunque sui pianeti.
C'è un inno nel rigveda, se non ricordo male, dove ogni dio è collocato in precisi punti orientati.
Il mito greco ,rappresentato da esiodo nella "Teogonia" è la banalizzazione del mito di una scienza antica.
L'aperion di Anassimandro è il banale errore che non c'era già millenni prima nei Veda.
Agni è il potente dio del fuoco vedico.
Succede che la cultura greca, da una parte perde la scienza antica, estinguendola nel mito e dall'altra riformula la conoscenza dal punto di vista del genere umano. Mentre il mito, come retaggio di una scienza antica, muore e con lui la forma conoscitiva premoderna, dall'altra i filosofi greci riformulano il sistema conoscitivo umano.
Quello che ci appaiono agli occhi dell'occidentale contemporaneo sono diversità, in cui l'uomo sentendosi più progredito ed evoluto rivede la scienza antica, come banalità, elementarietà, di una umanità primitiva.
La teoria,evolutiva, il concetto intrinseco di progresso ed evoluzione dell'uomo moderno, ma anche la battaglia ideologica secolare ormai per sconfiggere religioni e spiritualità come retaggio di quella cultura "elementare", banale, portano alla risultante della relativizzazione di tutto nella post-modernità..
Ma ritorniamo al punto, il samsara è l''adattamento umano al "meccanismo" del tempo che dviene ,ma ritorna, ma all'interno di un sovrameccanismo che è eterno.Tant'è che Buddha non va oltre il meccanismo, quella cultura non si pone un al di là.
Detto così è semplice, ma mentalmente è molto diverso vivere in quella cultura, piuttosto che che nella tradizione occidentale.
perchè è inutle per l'orientale ,aggredire il tempo, perchè l'ordine del meccanismo ha insita la giustizia. E' l'uomo che deve adeguarsi e lo può fare solo dentro di sè, (ecco lo spirito, atman), non contro l'ordine naturale che deriva dal meccanismo temporale.
Tutto il sistema di relazione cambia, il concetto di libero arbitrio, di volontà, di rapporto uomo-realtà-tempo.
i concetti positivi e negativi convivono, perchè non è come l'occidentale, che supera i concetti rendendoli obsoleti, e quindi avanzando ridà all'oscurità dell'oblio la propria memoria, Noi occidentali avanziamo con una torcia elettrica , vediamo davanti a noi oltre i nostri passi, ma perdiamo tutto ciò che è stato , aggrediamo il futuro ferocemente, perchè pensiamo che la vita è tutta quì e il tempo brucia le opportunità.Quindi è ovvi che filosoficamente la contraddizione è di enti che arrivano e spariscono, di linguaggi che riformulano di parole di "lingue morte"(il cretinismo occidentale...) e di nuovi vocaboli social-tecnologici.
Il sutra del cuore è un esempio di un linguaggio in cui l'uomo è immerso nel meccanismo contraddittorio di un tutto passa e va, ma ritorna.
Il filosofo se da una parte non può vivere isolandosi nella torre d'avorio e deve relazionarsi al suo tempo, non significa assoggettarsi alle forme conoscitive della scienza, in tutt'altro modo orientata finalisticamente e quindi come metodo.
Ribadisco quindi: noi viviamo esistenzialmente in una realtà materiale che è contraddittoria alla razionalità.
ma questo lo avevano già capito prima dei greci,prima della filosofia moderna.
A Sariputra
Premetto che non sono un esperto né di logica né di filosofia e perciò non sono in grado di approfondire le mie osservazioni. Mi baso sulle limitate conoscenze di logica, di Aristotile, di Russel.
Ho appreso da Russel, e concordo, che la logica occidentale moderna non è fondata sul sillogismo aristotelico.
Il sillogismo aristotelico Barbara non è nella forma che hai esposto, che è invece la proprietà transitiva dell'implicazione e dell'uguaglianza, ma in questa:
Tutti gli uomini sono mortali. Sari è un uomo. Sari è mortale.
Il principio di induzione è alla base del sillogismo, laddove si afferma che tutti gli uomini siano mortali.
La logica orientale, se è quella che hai esposto, non ha affatto basi diverse da quella occidentale: c'è un lungo circuito per ritornare alle condizioni di partenza, oltretutto mettendo in campi enti ideali e metafisici quali Dio e immortalità. Evidentemente ha tempo per meditare e riflettere.
Comunque la logica, antica e moderna, orientale o occidentale, non può garantire, assicurare, rendere necessario il passaggio, il salto dal singolare al generale (induzione), di cui comunque non si occupa, lo postula, e dal generale al singolare (deduzione) nella realtà.
Sul tema, definire l'ente apre numerosi problemi irrisolti, enigmi, tra cui quello dell'autoreferenzialità: per definire l'ente devi far ricorso all'ente. L'ente è differente dal niente, entrambi sono indefinibili, inafferrabili.